Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 115

La notizia della morte di Muzafar Chang aveva raggiunto quasi subito il palazzo della fondazione Chen-Cohimbra. Spalmata sulle colline attorno a Guan Yu, capitale amministrativa di Svarga, aveva saputo rappresentare per qualche giorno una pregevole gigantografia di un formicaio di vetro, dopo che un bambino si era divertito a farvi cose strane, giusto per vedere cosa sarebbe successo. Ed era successo che il lavoro si era pressoché fermato, mentre tutti contemplavano il futuro.

Non tanto per la morte di Chan in quanto tale, perché il tizio era famoso di nome, sì, d’accordo, era un pezzo pregiato dell’istituto, ma di persona non è che lo conoscessero poi in molti, in parecchi lo avevano visto solo da lontano o in una delle tante rappresentazioni che infestavano le stanze comuni della struttura, e parecchi si erano pure augurati (ma soltanto nel segreto del proprio cranio) che gli accadesse qualcosa, perché sì, va bene, grande scoperta, genio, d’accordo, ma adesso si cominciava a esagerare davvero, che cosa avrà mai combinato di così importante, dopotutto? Se proprio si va a guardare il dettaglio, dico. Non è che abbia inventato chissà che, ha solo avuto fortuna, e adesso ne fanno un eroe, e continuano a menarcela con lui. E noi chi siamo, eh? Le sue damigelle?

Pure, qualcosa era accaduto. Qualcosa di grave. E come sempre in questi casi, si guardava al futuro.

Non tanto per la morte di Chang, si diceva, e non tutti per la morte di Chang. Chi lo conosceva ne aveva pianto la scomparsa, in pubblico. Chi voleva farsi conoscere aveva accettato interviste in cui scuoteva la testa tutto triste, lamentando la perdita di una delle menti più brillanti del secolo, con un doveroso corredo di aneddoti su quanto fosse stato bravo, santo e meraviglioso quello stronzetto. Il grosso dei dipendenti e ricercatori, però, aveva accettato l’evento così come era solito accettare ogni altra cosa che capitava, nel bene o nel male: un momento di riflessione, una scrollata di spalle e poi la vita continuava. Ciò che davvero aveva preoccupato la fondazione era il mancato rientro del suo grande capo: che fine aveva fatto il professor Chen? Che fine avrebbe fatto la sua fondazione?

Per una decina di giorni non se n’era saputo nulla e le voci più sgangherate e assurde avevano corso in lungo e in largo nei corridoi degli edifici. È vivo, è morto, entrambe le cose, nessuna delle due. Il professor Chen è malato, lo tengono segreto, lo hanno portato via, non è ancora sceso sul pianeta e non lo faranno scendere perché è contagioso, lo hanno avvelenato, è un complotto della Terra che si vuole vendicare, è stato quel loro Leonardi, li hanno contaminati tutti quanti mentre erano su Madre e non li vedremo mai più. C’era quasi da divertirsi, se non si era personalmente coinvolti. Siccome la maggior parte degli scienziati e ricercatori originari di altri mondi coloniali svarghiani non se ne sentivano poi molto coinvolti personalmente, si divertivano a propagare le voci, arricchendole qui e là con invenzioni ancora più assurde, soprattutto quando parlavano con quei colleghi che sì, certo, colleghi, ma quello stronzo ha ricevuto più fondi di me e solo perché lui è di Svarga e guarda, non è che ce l’ho proprio con lui, per carità, siamo tra adulti e si sa come va il mondo, ma... Ma.

Il comunicato ufficiale aveva calmato un poco la situazione. Il professor Chen era stato trattenuto in via del tutto cautelare, ma stava bene, non aveva manifestato alcun sintomo di contagio e sarebbe tornato alla fondazione quanto prima. Anche il resto dell’equipaggio era stato trattenuto, sempre per le stesse ragioni. Al momento non erano stati riscontrati segni della malattia che aveva causato la scomparsa (scomparsa: come se si fosse dissolto nel nulla. Ma dite morte, no?) del professor Chang, ma le norme di sicurezza richiedevano una quarantena in caso di malattie contratte su altri pianeti e blablabla, prima o poi ve lo rispediremo a casa. Ma sta bene, eh? Ve lo diciamo noi. Fidatevi.

Alla fondazione Chen-Cohimbra si erano fidati, o quantomeno avevano accettato la notizia. Per un poco c’era stata ancora confusione, poi la normalità era tornata a occupare il proprio posto, che era il ripostiglio accanto ai bagni del secondo piano, quello che nessuno apriva mai. La vita continuava.

Non era stato un periodo molto piacevole per i tre terrestri rimasti alla fondazione dopo il famoso e famigerato anatema di Leonardi. Li avevano guardati come se fossero untori, all’inizio, poi avevano smesso di guardarli. Erano una parte della struttura, ma una parte con cui in pochi volevano avere a che fare, se lo potevano evitare. Non fu un problema per il settantenne David Loukides, che faceva vita da paguro e tendeva a spendere o sprecare le giornate annidato nel proprio studio, largo come un loculo e animato come un obitorio. Aveva trovato un angolo tranquillo e lo occupava, e che tutto il resto della galassia facesse quel che voleva. Fazel Chegeni, molto più giovane, aveva preso meno bene il cambiamento di aria: aveva accettato di sfidare l’anatema di Leonardi solo perché gli altri gli avevano assicurato il massimo appoggio, che sarebbe stato un ospite stimato, che le sue ricerche e il suo lavoro erano della massima importanza per la fondazione e papparapà. Non era andata proprio come promesso e adesso se ne lamentava con gli altri.

«Dovevo saperlo che c’era la fregatura. C’è sempre una fregatura. E adesso cosa faccio?»

Anna Lindtner, che in mensa era seduta allo stesso tavolo perché non era riuscita a fuggire in tempo, gli avrebbe suggerito volentieri diverse cose che avrebbe potuto fare, con o senza la partecipazione di oggetti esterni al proprio organismo, ma decise di astenersi. Scosse la testa, bofonchiò una replica da dialogo socratico e continuò a mangiare, accelerando un poco.

«E sai qual’è la fregatura vera, eh? Lo sai? È che all’inizio sì, all’inizio mi ascoltavano pure, finché c’era la notizia dell’anatema e voleva dimostrare che non tutti lo avevano ascoltato e che Leonardi si sbagliava. Mi ascoltavano. Mi dicevano che ero importante. Ma adesso all’anatema non ci pensa più nessuno, adesso neppure se lo ricordano, è notizia vecchia, non interessa più, e pensa un po’ che strano, eh? Non gli interesso più neppure io. Ma lo sai in che buco mi hanno infilato, eh? E neppure le guardano le mie ricerche! Voglio dire, è come se fossero stupidaggini! Come se fossero cose che non importano a nessuno. Cose che non contano. Ma ti pare?»

Anna mosse la testa in modo molto profondo, a segnalare che si, le pareva, e capiva le angustie del giovane e povero Fazel, la malvagità profonda della galassia, che fa ricadere tutte le colpe e tutte le infelicità sugli anelli più deboli, nonché la spietatezza della natura matrigna e pure un poco noverca. Cercò anche di suggerire che non gliene poteva fregare di meno e voleva solo mangiare in pace, ma siccome lo suggerì col silenzio, il suo quasi interlocutore non colse il messaggio e continuò.

«Ma poi, lo sai cosa vuol dire, eh? Lo sai cosa hanno fatto adesso? Mi avevano promesso più fondi per le mie ricerche, ricordi? Quando avevamo detto che saremmo rimasti qui. La festa che ci aveva fatto Chen! Cioè, mi aspettavo che poi sarebbero arrivati anche i fondi, era praticamente chiaro, ma non è arrivato niente. Niente! E adesso è tutto fermo e non posso fare niente. Che poi lo sai anche tu che la mia ricerca è importante. Voglio dire, va bene, non sarà molto famosa, non sarà una di quelle cose che poi ne parlano ai notiziari, come quella storia dei giganti gassosi, ma nel suo piccolo è una cosa importante, ma importante davvero!»

Anna contemplò l’infinità vanità del tutto e la trovò incasellata in una piccola sbavatura nel bordo di un tavolino. Non proprio una crepa, ma quasi una escrescenza, come se nello stampo ci fosse stato il più piccolo dei difetti, una cunetta non lisciata, qualcosa del genere. Affascinante! Le chiacchiere di Fazel Chegeni, non richiesto compagno di tavolo, le scorrevano sopra la testa, sciame di tafani che non si nutre da diversi giorni e ha finalmente trovato una preda incapace di opporsi. Le era difficile immaginare una situazione peggiore, ma poi David Loukides si avvicinò col suo vassoio e il fondo le si spalancò di fronte, pronto per essere scavato, scavato e scavato.

Sembrava di buon umore, il vecchietto. Buon per lui, perché lei non trovava proprio niente di cui ridere, se non forse in preda a una crisi isterica. Sembrava il pranzo più lungo che le fosse capitato in tutta la vita, ma ovviamente non lo era. Il tempo ha il dono di diventare gomitolo, quando ti trovi nelle giuste condizioni mentali. O in quelle sbagliate, a seconda dei punti di vista. Per Anna il tempo pareva non esistere più, fissato in un attimo senza durata, forse su richiesta del Faust più sadico che la letteratura avesse mai contemplato. Era melassa impastata delle lamentele di Fazel.

David Loukides sedette, riorganizzò con cura il contenuto del vassoio, sorrise, mescolò, condì, poi mescolò ancora un poco, nel silenzio del tavolo che lo fissava. O nel silenzio degli altri occupanti al tavolo, che lo fissavano. Pochi tavoli sanno fissare e ancora meno sono disposti ad ammetterlo. Già Fazel si preparava a riavviare il motore delle lamentele e Anna era pronta a disconnettere di nuovo il cervello, quando David parlò.

«Cosa dite che succederà alla causa? La continueranno o cadrà, adesso che il tizio è morto?»

Fazel e Anna si guardarono. Nessuno dei due sembrava averci ancora pensato, o almeno nessuno di loro ne aveva parlato, ma in effetti era vero. Cosa sarebbe successo al processo? Più in generale, che succedeva ai processi, quando l’imputato moriva? Le loro competenze in fatto di diritto erano quasi nulle; se poi si parlava di diritto interplanetario, il quasi si prendeva una lunga vacanza in un centro benessere su Agni e spediva cartoline di tanto in tanto, per vantarsi del panorama.

«La lasceranno cadere, no?» disse Fazel. «Voglio dire, il tizio è morto. Chi processano adesso? Non ha senso continuare, non c’è più nessuno con cui prendersela.»

David sorrise. «Muzafar Chang era solo un caso specifico. Il processo vero è contro la fondazione e l’Ufficio non lo mollerà. Leonardi non lo mollerà. Il ladro sarà anche morto, ma gli effetti del furto continuano ancora. La scoperta è attribuita a lui.»

«Sì, d’accordo, ma allora cosa faranno? Voglio dire, senza Chang...»

David allargò un poco le braccia, schizzando gocce di brodo dal cucchiaio. «Giovanotto, ma non ti è chiaro? A quanto pare non hai passato abbastanza tempo all’Ufficio e non sai come funziona. Per non parlare di Leonardi, poi. Quello non lo conosci proprio, è evidente.»

Fazel sbuffò. «E tu che lo conosci così bene, eh, cosa ci dici allora? Sentiamo, dai!»

«Ti dico che sono stato giusto stamattina all’ambasciata, giù in città. A fare una chiacchierata con quel funzionario, cosa si chiama adesso...»

«Einarsson,» disse Anna. «Hideki Einarsson. Se è quello con cui avevamo parlato le altre volte.»

David annuì. «È quello, è quello, grazie cara. Sono andato a chiacchierare con lui, dicevo, e sapete cosa mi ha detto, eh? Lo sapete?»

«Certo che non lo sappiamo, se non ce lo dici!» Fazel fece per battere il pugno sul tavolo, o almeno una bella manata, poi vide che c’era poco spazio e il braccio gli si accartocciò al fianco.

Sorridendo ancora più irritante di prima, David Loukides glielo disse. Aveva dovuto aspettare un bel po’, prima di essere ricevuto, ed Einarsson non sembrava di buon umore, anzi. «Ma non è che fosse mai tanto sorridente, se mi ricordo bene. Deve essere proprio fatto così.» Ma quel mattino sembrava peggio, come se fosse accaduto qualcosa di sgradevole. E forse era capitato davvero, ma David non lo scoprì. Scoprì invece che no, Leonardi non aveva ritirato il suo anatema e non sembrava volerlo ritirare in futuro. La causa era ancora aperta, il processo sarebbe continuato e se Chang era morto, beh, peggio per lui. Nessuno all’Ufficio ne avrebbe pianto. Per i tre ricercatori terrestri che avevano deciso di rimanere alla fondazione non sarebbe cambiato nulla. Non da quel versante, perlomeno.

«Cosa significa non da quel versante?» chiese Anna Lindtner.

«Significa che l’ambasciata ha altre indicazioni da darci, ma non hanno a che fare con la causa.»

Le indicazioni erano di considerare l’eventualità di trasferirsi su un altro pianeta. Non la Terra, non necessariamente, ma poteva essere un buon momento per vedere nuovi posti, allargare gli orizzonti, considerare nuove opportunità e filarsela da Svarga finché potevano. Perché mai avrebbero dovuto fuggire da Svarga non lo aveva specificato, ma Einarsson aveva lasciato intendere, attraverso vaghe e molto indirette allusioni, che il suggerimento poteva venire dall’esercito. O da quelle parti.

Fazel Chegeni reagì per primo e lo fece con una espressione da perfetto ebete. «Che cosa significa, scusa? Che ci sarà una guerra? Vogliono attaccare Svarga? Perché? Che senso ha?»

Ma David Loukides continuava a sorridere. «Io riferisco e basta, per carità. Comunque no, figurati, non si tratta di una guerra, non come la immagini tu, giovanotto. Non capisci? Chang che muore e il resto dell’equipaggio in quarantena chissà dove, nessuno li ha visti, nessuno li ha sentiti, pare che la nave stessa sia sparita e non si sa cosa ne abbiano fatto. Prova a pensarci meglio.»

Anna Lindtner alzò le sopracciglia. «Qualche tipo di arma batteriologica? Una epidemia che hanno importato da Madre? È una delle voci che girano, ma è una voce, figuriamoci se può essere vera. Ne raccontano di quelle che poi... No, non ha senso. Voglio dire,» e abbassò la voce, «posso capire che abbiano voluto infettare Muzafar Chang mentre era su Madre, sarebbe in linea con quello che si dice sulla carriera di Leonardi e certi suoi eventi, ed è un modo per vendicarsi. Non un gran modo e non un modo intelligente, d’accordo, ma lo sappiamo tutti come funzionano certe cose. Diffondere una epidemia su un altro pianeta, però...»

David scosse la testa, sempre sorridendo. «Critichi le voci, ma prendi sul serio le voci sulla carriera di Leonardi. Contraddittorio, non trovi? No, no, io non ci vedo nulla di strano. Non ci credo, ma non ci vedo nulla di strano. Anzi, a modo suo avrebbe senso. Comunque non penso che saremo davvero in pericolo, qui. Non accetterei di assicurare la vita dell’equipaggio di quella nave, ma tutto quanto si esaurirà lì, vedrete. Ci sarà da divertirsi, però. Pensate davvero che Svarga farà finta di niente e la storia si chiuderà così? No, no, per carità. Chang è morto e adesso ricambieranno il favore alla Terra in un qualche modo. Secondo voi come faranno, eh?»

Fazel guardò il proprio piatto, poi i resti del pranzo già consumato. «Spero che non uccideranno noi, che siamo terrestri. Noi non c’entriamo niente con questa storia!»

«Non penso proprio che faranno qualcosa a noi, non siamo abbastanza importanti,» disse Anna. «Se ci sarà una rappresaglia, sarà da un’altra parte. Non so, magari aziende terrestri che hanno una sede qui, oppure altri rappresentanti del governo o dell’economia terrestre, cose così. Ma non noi.»

Ma pensava a David Loukides, che aveva fatto la mossa più intelligente andando all’ambasciata a sentire Einarsson. Ci avrebbe dovuto pensare lei, che lo conosceva anche meglio, invece non le era neppure passato per la testa. È vero, aveva altre preoccupazioni e al momento con Fung non è che le cose andassero benissimo, tra le nuove polemiche contro i terrestri e altro, per cui l’ambasciata non si era trovata proprio al vertice dei suoi pensieri, ma... Ci avrebbe dovuto lo stesso pensare lei.

Forse ci avrebbe ancora potuto pensare lei. Forse lei sarebbe riuscita a cavarne qualcosa di più, altre informazioni che Einarsson non aveva dato a David. Possibile? Sì, forse. Utile? E perché no? Non è che al momento avesse molto altro da fare. Come quelle di Fazel, anche se Anna non lo avrebbe mai ammesso con lui, le sue ricerche languivano: pochi fondi, poco interesse e prospettive per il futuro non proprio entusiasmanti. Per adesso. Una volta tornata la calma alla fondazione, magari sarebbero migliorate le cose anche per lei, ma il futuro sembrava ancora piuttosto lontano e il presente aveva tanto tempo libero per lei. Perché non usarne una parte per una visita in città?

Scese due giorni dopo, quando il tempo finalmente cominciò a migliorare. L’aria profumava ancora delle piogge abbondanti che avevano inondato la regione e gli insetti sciamavano ovunque, come se si fossero moltiplicati all’improvviso. Il che magari era anche vero, per quel che ne sapeva Anna: le forme di vita autoctone di Svarga non la interessavano molto, al di fuori di una blanda curiosità da turista. Ma sembrava che ce ne fossero davvero parecchi, quel giorno, e pure agitati. Sentiranno il cambio del tempo, forse, o qualcosa del genere. Scrollò le spalle.

La vita umana in città sembrava molto più tranquilla, a confronto. C’era traffico e abbondanza di gente per strada, perché era una qualche festività locale o roba simile, ma mancava quell’apparente caos che animava invece gli insetti sulle colline. Tanto meglio così. Raggiunse l’ambasciata senza problemi, il fastidio principale fu fermarsi per lasciare passare un gruppetto di cosi che sembravano una via di mezzo tra tarantole e scolopendre, e chissà poi come erano catalogate dagli exologi locali e non; Anna non solo si fermò, ma fece anche qualche passo indietro, giusto per stare sul sicuro. Le facevano parecchio schifo, intelligenti o meno che fossero, e dopo l’incidente capitato a Bogdan le era rimasto un vago dubbio su quanto fossero davvero inoffensivi i loro conviventi a più zampe. Poi entrò nell’ambasciata, salì verso l’ufficio di Einarsson e degli insetti si dimenticò. Per un poco.

La ricevette dopo una mezz’ora abbondante, che Anna trascorse a fissare il panorama invariabile da una finestra della sala d’attesa. L’ufficio era come lo ricordava da quando c’era stata l’ultima volta, il giorno in cui aveva deciso di restare su Svarga assieme agli altri due relitti umani, Fazel e David. Una stanza non molto ampia e non molto allegra, che riusciva a sembrare ancora più deprimente coi suoi spazi lasciati vuoti e abbandonati, o perché l’occupante non aveva voglia di arredarli un poco, oppure perché non aveva alcun oggetto personale da esporre. In entrambi i casi deprimente, come si diceva. Anna non commentò: neppure gli alloggi alla fondazione erano un modello di allegria.

Modello di allegria non sembrava neppure Hideki Einarsson. Rispetto all’incontro precedente, sul suo viso si notava qualche linea in più, lasciata dalla preoccupazione più che dall’età. O magari non era preoccupazione, ma vi assomigliava parecchio. Aveva anche un’aria stanca, come se da anni non riuscisse a farsi una bella notte di sonno. Il che non sarebbe stato così strano, su Svarga: erano molti ad avere problemi, nelle stagioni in cui le notti erano fin troppo chiare. Anna però si sentiva di poter scommettere che i ritmi circadiani non erano un problema. Sospettava anche che di recente il nostro caro Einarsson non avesse avuto molto tempo per studiare gli insetti del posto.

«Oh, la nostra cara Anna Lindtner. Non so perché, ma mi aspettavo una visita, dopo il passaggio di Loukides. Immagino che il suo resoconto sia stato piuttosto confuso.»

Anna sorrise storto. «Mettiamola pure così: confuso non è l’aggettivo che userei, ma può bastare. Si è inventato lui l’esortazione a prenderci una vacanza in un altro sistema solare, oppure c’è qualcosa di vero? E se sì, cosa c’è di vero? E cosa sta succedendo, già che ci siamo?»

Einarsson sospirò e chiuse gli occhi, massaggiandosi le palpebre con le dita della mano sinistra. La destra rimaneva sotto la scrivania, in apparenza immobile. «Più confuso di quanto supponessi, vedo. Ha già cominciato a seminare il panico ovunque, per caso?»

«Né panico né altro. Ne ha parlato solo con me e Fazel in mensa, per quanto ne so. Non sapevo che ci fosse un panico da seminare, però. C’è davvero?»

«Il panico è nel pubblico. Le parole lo portano solo in superficie.»

«Filosofia molto affascinante, davvero. Cosa sta succedendo? Ci sono realmente epidemie in arrivo da Madre? O sono già arrivate assieme alla nave di Chang? È una delle tante voci che girano.»

Einarsson si raddrizzò e riaprì gli occhi. «Posso immaginare che girino. Alcune arrivano proprio da noi. No, aspetta,» e alzò una mano a bloccare una possibile replica. «Probabilmente non è come stai pensando tu.»

«Ah, dunque non è una contaminazione accidentale, ma è deliberata?»

Einarsson sorrise. «Hah, fregato. Allora è come pensi tu: una contaminazione accidentale. O questa è la versione che ho ricevuto io. Come sia andata davvero lo dovresti chiedere a qualcuno che era su Madre in quel periodo. Io non c’ero, quindi mi posso basare soltanto sulle informazioni che ricevo.»

«E quelle informazioni dicono che...?»

«Che Muzafar Chang ha contratto una malattia ancora sconosciuta su Madre, che probabilmente gli è stata trasmessa dalla puntura di un insetto, che non è ancora curabile proprio perché non sappiamo come funzioni, e che non possiamo escludere sia capace di sopravvivere anche su un altro pianeta, sempre perché non ne sappiamo nulla. Il nostro ministero della Difesa ha cercato di avvisare Svarga e suggerire alcuni metodi per contenere le possibili contaminazioni, ma il governo svarghiano le ha ascoltate e seguite solo in parte. Per quanto ne sappiamo, almeno.»

«E quindi su Svarga c’è una qualche malattia madriana a piede libero.»

«Potrebbe esserci e potrebbe essere a piede libero, sì.»

«E perché allora noi dovremmo fuggire su un altro pianeta? Se davvero c’è e se noi siamo già stati contaminati, fuggire peggiorerebbe la situazione. Potremmo spargerla su altri mondi. O è questo che il governo vuole? Ci chiedete di fare davvero gli untori e spargere ovunque una qualche epidemia?»

«No, non è questo che il governo...»

Fu Anna Lindtner a interrompere alzando una mano, adesso. «Aspetta. È sempre per questo che hai insistito per farci rimanere qui, quando c’è stata la storia dell’anatema di Leonardi? Vi serviva una riserva di proiettili umani da sparare su altri pianeti, dopo aver infettato questo? Li contagiamo qui e poi li convinciamo ad andare in giro per la galassia? È... cosa? Cosa

Einarsson scuoteva la testa con forza e agitava le mani. «Ferma. Ferma. Ferma.» Sospirò. «Va bene la paranoia, ma non ti pare che questo abbia poco senso anche come delirio? Implica che noi siamo capaci di manovrarvi come marionette e che voi volete lasciarvi manovrare, senza obiezioni. Prima vi convinciamo a restare qui, poi vi convinciamo ad andare là, intanto convinciamo X ad andare su Madre e tornare indietro, convinciamo Y ad agire in un certo modo e non in un altro per rispondere a una possibile emergenza virale... Ci hai preso per onniscienti e onnipotenti? Hai visto almeno una parte della gente che abbiamo qui: ti pare che potrebbero davvero manovrare così tanto i governi di altri pianeti? Governi che, diciamolo pure, non amano molto noi terrestri, al momento.»

Anna fu costretta a pensarci e sì, in effetti non sembrava molto realistico. Non per intero. Una parte lo poteva essere. Anche così, però... «E va bene, e allora? Come dovrebbe funzionare?»

Einarsson sollevò una mano e cominciò a contare sulle dita. «Primo, io conosco solo una parte della storia e non so neppure quanto grande sia questa parte. Potrebbe essere minuscola, per quanto ne so. Secondo, sulla malattia non sappiamo nulla, o almeno io non ho ricevuto informazioni. Chang ne è stato infettato mentre era su Madre e l’ha portata su Svarga. Se sopravviverà a un ecosistema tanto diverso da quello originario è un altro paio di maniche, ma è sempre meglio eccedere in prudenza in certi casi, giusto? Terzo, gli insetti sono agitati e...»

Anna lo fissò. «Gli insetti sono agitati? Cosa significa, scusa?»

Einarsson si afflosciò sulla sedia. «Significa che gli insetti sono agitati. Mi piacerebbe sapere perché lo sono o cosa li fa agitare, ma non lo so. Non lo sanno neppure gli esperti con cui ho parlato e non sanno neppure se sia una cosa normale, qualcosa che magari capita per reazioni a cicli solari o altre scemenze simili, oppure se sia stata causata da altro. Potremmo averla causata noi. Potrebbe essere una reazione a, chessò, una nuova linea di profumi, un leggero cambiamento nel regime alimentare nostro o loro, pollini dispersi nella direzione sbagliata, o magari agenti patogeni arrivati da un altro pianeta. Non lo sappiamo. Non ne abbiamo idea. Ma sono agitati. Sembrano agitati,» si corresse. «E questo è quanto, questa è la certezza.»

«Tutto molto interessante, ma non capisco perché dovremmo andarcene su altri pianeti.»

«Non dovreste. Era un consiglio. Un suggerimento. Se volete, andate; se non volete, restate pure.»

«Ma secondo te è meglio andare?»

«Secondo me potrebbe essere più prudente, visto che non abbiamo idea di cosa potrebbe succedere. Forse niente, forse tutto. Un breve periodo altrove, per cautela, potrebbe essere meglio. Poi fate quel che vi pare: non c’è molto che vi so dire e ancora meno che vi posso dire.»

Anna Lindtner rientrò insoddisfatta alla sede della fondazione. Nei giorni seguenti meditò su quanto le aveva detto Einarsson e decise che non si fidava proprio. Decise anche che, per il momento, non avrebbe fatto alcunché: sarebbe rimasta su Svarga ad aspettare e vedere cosa c’era per lei nel futuro. Sperando che non fosse una epidemia di un qualche morbo alieno incurabile.

Di tanto in tanto si recava anche nei giardini che circondavano la fondazione. Non erano un granché e in quella stagione, sempre così ricca di piogge, apparivano ancora meno ospitali, con una umidità da farti nuotare a stile libero nell’aria, ma l’accenno che Einarsson aveva fatto agli insetti l’aveva in parte incuriosita e voleva verificare se fossero proprio così agitati. La risposta fu chiara e definitiva, nonché prevedibile: forse sì e forse no, boh.

Anna non era stata entomologa sulla Terra e non lo sarebbe certo diventata su Svarga. Einarsson si poteva anche essere scoperto appassionato dell’argomento, dopo l’arrivo sul pianeta, ma Einarsson era un caso particolare e forse anche un poco patologico. Per lei gli insetti erano insetti, punto. Se su Svarga li volevano considerare intelligenti e magari perfino capaci di una forma primordiale nonché primitiva di società e civiltà, che facessero pure. Lei non lo avrebbe mai notato. Pure, li osservava e cercava di immaginarsi che il loro comportamento avesse un qualche significato. Un modo come un altro per passare il tempo libero, dopotutto.

Potevano sembrare agitati, se così la volevi pensare. Se partivi dal presupposto non dimostrato che qualcosa li stesse innervosendo, allora il modo in cui sciamavano, ronzavano e in generale facevano le loro cose da insetti poteva manifestare un certo nervosismo. Potevi immaginare che corressero da un lato all’altro del giardino per fare scorte, preparare difese per i nidi (se si chiamavano così i posti in cui si rintanavano gli insetti: Anna non ne aveva idea), inviare messaggeri presso altre specie per concordare piani comuni, o magari solo per scambiarsi informazioni. Potevi immaginare di tutto, se così decidevi. Se invece osservavi ogni cosa come uno spettatore casuale e non interessato, allora ti apparivano soltanto insetti che vagavano qui e là tra alberi, fiori ed erba.

Il suo studio dei giardini non durò molto. Rientrando da un pomeriggio particolarmente noioso, che non aveva prodotto alcunché di interessante se non farle rischiare per tre volte di essere punta da un insetto che sì, sembrava nervoso, ma innervosito dalla sua presenza, Anna Lindtner si trovò davanti Fung, che sembrava altrettanto nervoso ma non pronto a pungerla. Da un certo punto di vista. Da un altro punto di vista cominciò a parlare di tensioni con la Terra, che insomma era una fase difficile e bisognava guardare alle cose con oggettività e insomma gli ultimi eventi erano stati un po’, come si poteva dire? Difficili, ecco, e forse era il caso di ripensare ad alcune situazioni in un’ottica un poco più, ecco, costruttiva, e non fossilizzarsi su posizioni acquisite perché, insomma, magari sarebbe il caso di, di, non so, riflettere da una certa distanza e poi, magari, a seconda di...

Anna gli suggerì un paio di attività che poteva andare a svolgere nella quieta solitudine del bagno più vicino, mentre rifletteva da una certa distanza. Fung decise che era un consiglio metaforico, ma dedusse comunque che magari non era il momento migliore per discutere. Si allontanò a testa bassa, l’aria piuttosto sgonfia ma al tempo stesso anche sollevata.

Il giorno seguente tutto quanto divenne per un poco irrilevante, perché il professor Chen era tornato a casa. O alla sede della fondazione, che per lui ne svolgeva più o meno tutte le funzioni. Sembrava un poco usato e consumato, non proprio in gran forma, ma in fondo aveva speso decine di giorni in quarantena da qualche parte, a farsi esaminare, sterilizzare e chissà cos’altro: nessuno si aspettava di vederlo entrare pimpante e roseo, specie perché pimpante e roseo non lo era mai stato, a memoria di uomo e di donna. Vederlo rientrare curvo, serio e solo, però, sorprese tutti quelli che lo accolsero. E non fu una bella sorpresa, anche se nessuno commentò davanti a lui.

«Ne parleremo dopo,» rispose Chen alle domande che gli piovevano addosso dai colleghi, mentre si faceva strada attraverso la sede della fondazione. «Ci riuniremo nell’aula magna subito dopo pranzo e spiegherò a tutti cosa sia successo. Potrete farmi tutte le domande che vorrete, allora. Adesso però desidererei solo raggiungere le mie stanze e riposare per un poco. Non è stata una esperienza molto piacevole, come dovreste poter immaginare anche voi.»

Quella mattina si lavorò poco. Tutti parlavano di Chen, commentavano il suo aspetto, elaboravano i più fantasiosi complotti e alcuni si chiedevano perfino che fine avessero fatto gli altri membri della spedizione su Madre. Perché ce n’erano altri, dipendenti della fondazione, ed erano stati trattenuti in quarantena assieme al professor Chen. Muzafar Chang era morto, va bene, ma gli altri?

«Lo chiederemo al professore più tardi, no?» disse il professor Gao Zhisheng. Considerato da tutti il più fidato assistente di Chen, era soprattutto quello che amministrava la fondazione quando il capo era assente o impegnato. La sua parola non era legge, ma vi si avvicinava a sufficienza da stroncare tutte le questioni espresse a voce alta. Le questioni non espresse, invece, restavano sane e forti e in molti casi prosperavano tra i gruppetti che commentavano con sussurri e borbottii. C’era qualcosa di strano e sospetto e nessuno ne era contento. Era impensabile che ci fossero cose strane e sospette per loro. Pure, qualcosa c’era, per adesso. Ma non sarebbe durato a lungo. Bastava solo attendere la conferenza di Chen, che avrebbe certo chiarito tutto.

I tre terrestri erano raggruppati assieme e guardati con un vago sospetto da tutti gli altri. Situazione non nuova, negli ultimi tempi, ma l’abitudine non l’aveva resa più piacevole. Al contrario, era una crosta che si staccava di continuo, facendo sanguinare di nuovo la ferita. O qualcosa del genere. In realtà non era poi così fastidiosa o dolorosa, ma seccante sì, e a loro parere ingiustificata.

«Io dico che ne è schiattato qualcun altro,» disse David Loukides, sorridente per motivi noti a lui, e forse neanche a lui. «Chen se ne uscirà con una qualche tirata sulla cattiveria di noi terrestri, che gli abbiamo infettato la nave per vendicarci, e concluderà con le solite tirate sulla necessità di rimanere tutti uniti e resistere a tutti gli attacchi, palle varie. È sempre così in questi casi. Ci sarà una grande dose di tutti, e parecchie manciate di noi e loro. Noi contro loro, soprattutto. Vedrete.»

Anna Lindtner lo guardò molto male, ma non commentò. Poteva immaginare una scena del genere, in effetti, e poteva anche credere che si sarebbe verificata. Questo non la rendeva migliore. Se poi vi attaccava le parole di Einarsson e le sue vaghe (ma non troppo) allusioni a possibili epidemie, allora il quadro diventava decisamente spiacevole. Non sembrava un buon momento per essere su Svarga. Sembrava un momento ancora meno buono per essere alla fondazione Chen-Cohimbra.

«A me piacerebbe che qualcuno riconoscesse il valore delle mie ricerche,» disse Fazel Chegeni. «Lo sapete a cosa ho dovuto rinunciare per rimanere qui? E mi avevano assicurato che avrebbero avuto la priorità, capite? Invece adesso chissà cosa dirà il professor Chen. Magari ce l’avrà con noi e ce ne dovremo andate. Hah! Sarebbe proprio una bella fregatura.» Si morse le labbra, guardandosi attorno con la calma di un ratto in preda al panico e rinchiuso da qualche parte.

Mangiarono a fatica, senza gustare quello che masticavano. Non erano i soli: bastava girarsi un po’ per trovare altre persone con la stessa faccia di cenere, occhi glassati e mascelle che procedevano in autonomia, seguendo le abitudini di anni. Nervosi, preoccupati, alcuni spaventati. Gli amici di chi era partito per Madre e non era ancora rientrato, soprattutto: sembravano aspettarsi l’elegia funebre di Chi Non è Più tra Noi, invece di una spiegazione sugli ultimi eventi. Difficile dare loro torto, per alcuni. Esagerati ipocondriaci, per altri. Per i terrestri, erano gente che li guardava di sfuggita.

David scuoteva la testa. «Togliamoci in fretta il pensiero e via. Volevo solo una vecchiaia tranquilla, invece guarda che razza di casino ne è uscito. Speriamo almeno che la conferenza non sarà troppo noiosa: non ho voglia di sbadigliare subito dopo aver mangiato.»

Ma l’aula magna non sembrava addobbata per qualcosa di noioso. Anna non aveva idea di quando lo avessero preparato, ma il luogo in cui aveva ascoltato decine di conferenze scientifiche adesso si era trasformato in una specie di teatro vecchio stile, con un palco da cui il professor Chen avrebbe parlato e una vasta platea in cui tutti i residenti della fondazione si sarebbero seduti ad ascoltare. O a godersi lo spettacolo, magari. Sembrava davvero una pagliacciata e ad Anna non piaceva.

«Questo è ridicolo, davvero. Che cosa è, scusate? Un concerto?»

David si girò verso di lei. «Concerto no, ma spettacolo sì. Potrebbe anche essere divertente.»

Fazel scuoteva la testa in silenzio. La sua pettinatura da pennello era un poco afflosciata, il che non ne migliorava l’aspetto globale, né lo faceva apparire più serio. Ma serio era, almeno di faccia: serio e tendente al costipato, con tocchi di nausea.

L’aula magna era piena. Tutti attendevano il professor Chen, che ancora non si era mostrato. Dove si trovava? E da dove sarebbe entrato? E cosa avrebbe detto? E cosa avrebbe fatto? C’era mormorio nella sala, ma piano, come per una sorta di rispetto, anche se non era chiaro chi stessero rispettando o cosa. Sembrava però una di quelle situazioni in cui serve una certa dose di rispetto in generale e il pubblico si adeguava. Perché stava per accadere qualcosa e sarebbe stato qualcosa di importante. Di storico, forse? E perché no? Sognare era lecito.

Il professor Chen entrò. A passo lento, testa alta e sguardo puntato sulla parete di fronte, attraversò il centro della sala, procedendo tra file di professori e ricercatori, teste che si giravano verso di lui e ne seguivano i progressi, come girasoli o periscopi. O come pubblico a uno spettacolo, appunto.

Sempre lento e solenne, Chen salì i gradini del palco, oscillò per un attimo sull’ultimo, come se uno scherzo del ginocchio gli avesse fatto perdere l’equilibrio, poi si raddrizzò e proseguì, come se nulla fosse accaduto. E forse nulla era accaduto. Forse era una esitazione programmata, pianificata, modo per ricordare le privazioni della quarantena, le difficoltà affrontate e superate, eccetera eccetera. Si fermò dietro al banchetto al centro del palco, si girò verso il pubblico, annuì, sedette. Nella sala calò un sudario di silenzio, ogni respiro era sospeso. Poi ripresero a respirare normalmente, perché se no sarebbero morti soffocati, ma l’idea era quella. Attendevano.

Il professor Chen si schiarì la gola. «Grazie per essere qui. È una occasione molto importante, che non possiamo sottovalutare. Circostanze molto difficili ci hanno portati qui e ancora pi difficile sarà il tempo che ci attende. Ciò che vi voglio mostrare oggi è...»

Si interruppe, singhiozzò, gli occhi gli si incrociarono e vomitò lento e solenne sul banchetto, con lo sguardo di tutti puntato su di lui, quindi collassò di faccia nel proprio vomito, alla maniera delle rock-stars. Il silenzio nella sala esplose in una babele di grida.