Adriano - racconti e altro

Cielo di latta

«L'uomo è rimasto solo, ormai. Tutte le parole sono state dette, tutte le accuse lanciate, tutte le colpe perdonate. Ha superato il momento dei bilanci; ha superato anche il momento delle domande e delle risposte. Ha superato le lacrime e i rimpianti. La stanza si è svuotata, il silenzio allunga le mani sul presente, e sul futuro. Sbircia dalla finestra e vede soltanto un uomo. E una pistola, in pugno.

La pistola è quella che chiunque vorrebbe usare, per un'occasione simile. Un'arma infallibile, che trasmette sicurezza a prima vista: stringerla fra le mani fa pensare che nulla sia impossibile. Che gli errori non esistano, che non ci sia possibilità di fallimento. Ed è proprio così. La potenza di fuoco è sufficiente a colpire e bloccare un bersaglio attraverso una parete di cemento armato, oppure una spessa corazza di kevlar. Non c'è protezione abbastanza sicura da fermare un suo proiettile. È per questo che la Beretta 99FF è già diventata pistola d'ordinanza presso le forze armate e le squadre di polizia in due continenti, consigliata da tutti gli esperti anche per la difesa personale.

Adesso, però, non è per difesa personale che quell'uomo la stringe. È per qualcosa di più, per una ragione che anche noi abbiamo potuto scoprire, parola per parola. Un dramma intimo, silenzioso, il marchio di una condanna che la società stessa ha impresso su di lui. Un dramma, come ne accadono a migliaia, ogni giorno. Consumati nell'indifferenza, nell'ignoranza.

Un dramma, che lo porta adesso a sollevare la pistola, la Beretta 99FF, e puntarla contro la tempia.

E mentre il dito esita per l'ultima volta sul grilletto, lasciamo che sia il silenzio a inghiottire anche il suo epilogo. Lasciamo che siano le immagini a parlare, ora».

Una pausa. Uno sparo, qualcosa che si spiaccica. Un corpo inquadrato al suolo, testa distrutta e pistola nella mano inerte. La scena sfuma.

«Questo suicidio vi è stato offerto da Beretta, la pistola perfetta. Appuntamento a domani sera, per un nuovo...».

L'uomo calvo spense il televisore.

«Ma papà, è ancora presto, dai! Perché ogni giorno mi...».

«Perché sì», rispose con tono piatto. « È così che siamo d'accordo. A letto dopo il programma. Punto. È inutile che fai la stessa storia tutte le sere».

«Però non è giusto, uffa! E poi non ho mica sonno a quest'ora...».

«Non sei obbligato a dormire», disse l'uomo calvo, fissando ancora lo schermo spento. «Leggi, gioca, fai quello che vuoi. Ma per oggi, basta televisione».

«Ma uffa...». Il bambino sbuffò, alzandosi dal divano. Lentamente, strisciando i piedi, si avviò verso la camera, a testa bassa. Aspettava sempre che il padre cambiasse idea, gli dicesse di restare. Non lo faceva mai. Con un'ultima protesta borbottata, si chiuse la porta alle spalle.

«Qualche volta potremmo lasciargli guardare la televisione anche dopo», disse una voce femminile, piatta e distante, dalla penombra della poltrona.

«Quando sarà più grande», rispose l'uomo, senza guardare la moglie. «Lo sai anche tu che ci sono cose che non vanno bene, per lui. Per adesso è meglio che giochi».

« Era solo per evitare le discussioni, tutte le volte. Sono noiose». Nel salotto tornò il silenzio.

Aspettarono qualche minuto, poi il televisore si riaccese. Stesso canale, stesso volume. A cambiare era il programma: un annunciatore con il volto da manichino abbronzato snocciolava le notizie del giorno, sorridendo imperterrito di fronte a ogni avvenimento. Pareva la stessa voce fuoricampo che ogni sera accompagnava un suicida diverso, ma non lo era. Seguiva solo lo stile del periodo.

«Ma passiamo alle notizie di politica interna. È proprio di queste ore l'annuncio dato dal portavoce del Partito di Guardie e Ladri, secondo cui i leader dei principali gruppi dell'opposizione avrebbero preparato una mozione di sfiducia per l'attuale governo. Il Presidente del Consiglio, sostenuto dalla coalizione costruita attorno al Partito del Girotondo e al Partito delle Altalene, si sarebbe dimostrato troppo demodé nel corso dell'ultima crisi internazionale, atteggiamento certo indegno di un Paese dalla grande tradizione, come il nostro. Elezioni anticipate nell'aria? Lo chiediamo al segretario del Partito della Moscacieca, che con più forza ha invocato la sfiducia al Governo. Sarà proprio la sua viva voce a farci toccare la tensione che si respira in Parlamento, in questi giorni. Ascoltiamolo».

Sullo schermo apparve un altro volto da manichino abbronzato, un po' più vecchio del precedente e forse un po' più stanco, sotto il cerone. Dietro di lui, il simbolo del partito, un bambino bendato con le braccia protese. L'uomo calvo lo guardò con un vago fastidio: l'aveva sempre trovata inquietante, quella immagine, aveva qualcosa di macabro e grottesco. Ma non sapeva decidere cosa.

Continuò a lasciarsi scorrere addosso il telegiornale, una doccia che lo lasciava sempre asciutto. Fatti su fatti, sempre vuoti. La moglie, una poltrona più in là, aveva la presenza di un attaccapanni o di un giaccone dimenticato per casa. Tacevano, fino a quando non era la benedizione del letto a concludere la serata, rimboccando buio e silenzio attorno a loro.

Quella notte l'uomo calvo non dormì bene. Nei suoi sogni c'erano trottole e cavalli a dondolo, tra le stazioni della metropolitana. C'erano anche altre cose, nuove e vecchie, distribuite tra l'infanzia e la maturità, ma miscelate come in una macedonia indigesta. Sognava di fili che scendevano dal cielo, luccicanti, e di persone che scendevano dal cielo, spiaccicandosi come gavettoni sul marciapiede. Sognò anche la madre, che aveva la faccia della suocera e che voleva fargli mangiare un arrosto di babirussa, ricoperto di gelato fritto. Con quella immagine si svegliò, ed era l'alba.

«Cos'è un babirussa?», si chiese, alzandosi svogliato. Si sentiva in bocca un gusto incerto di ricotta scaduta e panna acida, una pulsazione lenta dietro le tempie. Non aveva dormito bene, appunto.

Con quel nome ancora in testa (babirussa), infilò la porta del bagno. Aveva in sé il proposito fermo di cercare il significato della parola, scoprire a quale animale si riferisse (sempre che fosse proprio un animale, cosa che ipotizzava ma di cui non era sicuro), ma questa e mille altre buone intenzioni se le portò via l'acqua della doccia.

Era pronto alla nuova giornata.

*****

E la nuova giornata la cominciò nel solito ufficio, come mille e mille altre che l'avevano preceduta, da almeno dieci anni o forse più. Pochi dettagli a dirgli che, dopotutto, non era proprio la stessa di ieri o la stessa di domani. Varianti, che di tanto in tanto si riproponevano per scandirgli lo scorrere del tempo. Quella volta fu il cadavere all'ingresso.

«Quando avete intenzione di toglierlo, questo?», chiese al portinaio, scavalcando il corpo.

«Ah, signore, non è mica il lavoro mio! Io l'ho trovato all'inizio del turno e ho chiamato la nettezza urbana. Poi, quando arriveranno a portarlo via, io mica lo so, eh?», rispose il vecchietto, sollevando il cappello come sempre. Aveva l'aria di essersi consumato a poco a poco dentro la divisa, come un gelato fuori del frigorifero. Per l'uomo calvo, ormai, faceva parte dello sfondo.

«Sarà meglio che vengano in fretta», gli disse, guardando il muro dietro di lui. «Lo sa anche lei che rovina l'estetica del palazzo. Con quella giacca verde, poi...».

«Eh, signore, lo so bene anch'io! Gliel'ho pur detto a quelli di sopra, di lasciarmi una coperta o roba del genere. Sa, per quando ci capitano di queste cose. Almeno ce la metto sopra e non si vede tanto. Ci sta proprio male, con la facciata! Ma farglielo capire...», concluse, scuotendo il capo.

«Già. Speriamo che ce lo levino dai piedi in fretta», ribadì lui.

«Speriamo...», disse il portinaio, sistemandosi meglio i filtri nasali. Uno dei vantaggi dell'atmosfera irrespirabile: non si sentiva la puzza. L'uomo calvo vi pensò distrattamente, nell'ascensore, poi si dimenticò di cadaveri e spazzini e tutto il resto. Era in ufficio.

E lì arrivò il primo, vero imprevisto della giornata.

Controllava pigro la posta sul computer, cancellando in automatico la pubblicità inutile che trovava sempre. Nello stanzino solitario, climatizzato, gli giungeva appena il rumore del resto del piano, cigolii, passi e qualche colpo di tosse. Per questo avvertì con più forza lo scricchiolio improvviso, quasi un lamento meccanico, che faceva vibrare l'aria e le pareti. Cric, cric, cric.

Staccò gli occhi dallo schermo, sorpreso. Lavorava da più di dieci anni in quel palazzo, eppure non gli era mai capitato di sentire un suono del genere. Cosa poteva essere? Un problema strutturale? O qualche macchinario vecchio, che non funzionava più a dovere? Si raddrizzò, tendendo le orecchie.

Eccolo di nuovo. Irregolare, a tratti più acuto, a tratti più tenue. Uno scricchiolio.

Si morse un labbro, riflettendo. No, non era proprio uno scricchiolio, a voler essere precisi. Subito gli aveva dato quell'impressione, ma era sbagliata, almeno in parte. Era piuttosto un cigolio, come il cardine arrugginito di una porta. Niente a che vedere coi suoni di assestamento della mobilia, che si sentono nel cuore della notte. No, era proprio qualcosa di metallico, meccanico.

E forse neppure cigolio era la parola adatta, per descriverlo. Le dita sospese sulla tastiera, ancora si attardava a riflettere, in ascolto. Lo ricordava. Non avrebbe saputo dire in quale circostanza gli fosse capitato di sentirlo, ma era sicuro di conoscerlo già. Eppure in quel palazzo non c'erano mai rumori simili. Dunque, doveva per forza averlo sentito fuori, non al lavoro. Assomigliava a...

Il beep prolungato del computer lo riportò alla realtà. Aveva ricevuto un nuovo messaggio, urgente, dal capoufficio. Altro fatto insolito. Non che lo contattassero così: era la norma. A essere insolito era il contenuto. Gli chiedeva di uscire e andare a ricevere un cliente. Ma non era il suo compito. Dei rapporti col pubblico si occupava l'ufficio di sotto. Perché quella novità? Quella brutta novità?

All'uomo calvo non piaceva. Non gli piaceva per niente. Uscire, parlare con perfetti sconosciuti, di argomenti di cui lui non sapeva nulla e nulla gli interessava. Sospirò. Ma era un ordine del capo ed era tenuto a eseguirlo, senza discutere. Ricontrollò luogo e orario, per sicurezza, poi spense tutto e si alzò dall'amica scrivania. Era tempo di andare, purtroppo.

Il cigolio lo accompagnò, mentre infilava la giacca ed entrava nell'ascensore. Si azzittì quando fu di nuovo all'ingresso, davanti al cadavere che nessuno aveva ancora provveduto a rimuovere. Dovette scavalcarlo di malavoglia, come un paio d'ore prima.

«Ancora niente?», chiese al portinaio, guardando di sfuggita verso il suo gabbiotto.

«Niente, signore. Li ho chiamati un'altra volta, ma quelli se ne fregano, sa? Mica ce l'hanno loro il morto davanti, che tutti lo devono saltare. Ai miei tempi non si faceva mica così, però! Eh, sì...».

«Ai suoi tempi, già», gli rispose distratto, prima di allontanarsi. E ai suoi tempi, magari, i dinosauri dominavano ancora il pianeta, non aggiunse, sfilandosi di tasca una compressa, gesto automatico e abituale. Brutta cosa, l'acidità di stomaco. Brutta cosa, gli imprevisti.

Nella metropolitana, seduto tra la gente anonima, tornò a sentire il rumore. Era appena accennato, la più vaga delle ombre nel brusio vago della folla, eppure lo sentiva. Cric, cric, cric. Forse ci doveva essere un nome, per indicare quel suono. Scricchiolio non era esatto, e lo aveva già appurato, ma in fondo non si trattava nemmeno di un cigolio vero e proprio. Procedeva a piccoli scatti ed era certo di conoscerlo. Aveva già fatto parte della sua vita. Ma quando? E perché?

Questo, l'uomo calvo non lo sapeva.

Cric, cric, cric. Era pure fastidioso, quel suono. Come un insetto che ti ronza intorno alla testa e che non riesci a scacciare, per quanto ti agiti e bestemmi. Per un attimo fu tentato di chiedere al vicino, rivolgergli un semplice «Scusi» e poi accennare a quel cigolio (ma non è un cigolio, no). Magari gli avrebbe saputo indicare l'origine, o almeno il nome. Perché non era normale sentirlo anche lì sotto, come lo sentiva in ufficio. Accennò a ruotare la testa verso sinistra, verso uno sconosciuto che gli sedeva accanto, sotto un cappello antiquato. Una domanda, semplicissimo.

Non lo fece. Ne guardò incerto le mani, giunte e posate sulle cosce. Ne notò la foggia un po' retro degli abiti, intonati al cappello. Socchiuse appena le labbra, per parlare, poi le sigillò di nuovo. Non era poi così importante. Tornò a fissare il pavimento davanti a sé.

Rumore e riflessioni tramontarono, quando la metropolitana si fermò alla stazione giusta. Le scale, i pochi passi che lo separavano dal luogo indicato e poi l'appuntamento col cliente, tutto secondo gli ordini del capoufficio. Ma non era il suo compito, quello. Toccava al piano di sotto.

Eppure era lì, ligio al dovere, come si suol dire.

Si riconobbero subito, per la tenuta che indossavano, e si salutarono brevemente, per dedicarsi poi a ciò che contava davvero, i motivi dell'appuntamento. Ed era pure un cliente di quelli importanti, di quelli che non permettevano errori: l'uomo calvo lo notò con angoscia in gola. La spilla sul petto, un bambino sull'altalena, ne sottolineava il ruolo di iscritto al Partito delle Altalene, attualmente al governo (ma lo era ancora? Al telegiornale avevano detto qualcosa, la sera prima...). Ma perché dovevano mandare proprio lui da un politico? Maledisse il capo, ma solo col pensiero. E sottovoce.

Parlarono e parlarono, senza guardarsi mai in faccia, e parlavano di affari e questioni di cui l'uomo calvo sapeva ben poco, solo per sentito dire. Eppure se la stava cavando, in un modo o nell'altro. Il capoufficio aveva previsto pure quello, nel suo infinito sadismo? Oppure l'incontro era del tutto inutile, formalità pura e semplice, che nessun altro si voleva sobbarcare? Ci pensava con un angolo del cervello, nel profluvio di frasi e vocaboli che gli scorrevano attorno.

Proprio allora lo sentì di nuovo. Cric, cric, cric, quel cigolio che non era proprio un cigolio ma che, apparentemente, quel giorno si era fissato su di lui e lo perseguitava dovunque. L'uomo osservava i gesti calmi e compatti dell'interlocutore, il cliente, e sentiva scricchiolare, o cigolare, o quel che era. Cigolava lui, cigolavano le sue parole e cigolava l'aria che lo avvolgeva. E cigolava ogni cosa, nel locale in cui si erano incontrati. Cric, cric, cric.

L'uomo calvo si concentrò sulla spilla a forma di altalena, sul bambino che vi sedeva tranquillo, e cercò di scaricare via tutto il resto. Perché stava lavorando, anche se non era in ufficio, tranquillo e isolato, e sul lavoro non poteva farsi disturbare dal resto, fosse pure un rumore. Cric, cric, cric.

Sudava, quando alla fine si salutarono e il cliente se ne andò, così come era arrivato. Aveva l'aria soddisfatta, per cui forse se l'era cavata bene, nonostante tutto. Nonostante non riuscisse a ricordare nulla della conversazione, nulla di ciò che si erano detti o di ciò che avevano eventualmente deciso.

E quando si avviò verso l'uscita, a rispettosa distanza dal politico, anche il suono era sparito.

*****

«Ha visto, eh? L'hanno tirato via, alla fine! Ma ce n'è voluta, guardi...».

«Già. Meglio così».

L'uomo calvo attraversò l'ingresso del palazzo, liberato ora dal cadavere antiestetico, e si rifugiò nel comodo stanzino, in cui regnava da dieci anni almeno. Commissione sbrigata, poteva tornare finalmente alla routine. E del morto, finalmente sgomberato, neppure si sarebbe accorto, senza il saluto del solerte e annoiato portinaio. Perché pensava ancora a un'altalena e al rumore che faceva, quando era piccolo e ci spendeva i pomeriggi.

Scricchiolava? Cigolava? No, non era proprio così. Era forse un cric, cric, cric, come quello che di tanto in tanto sentiva? Ma no, ci assomigliava e basta. E allora? E allora niente, pazienza. L'altalena era solo una suggestione, che gli era venuta dopo averla vista sulla spilla del cliente. Eppure...

«Ma non importa», si disse, abbandonandosi alla normalità della scrivania. Le buone cose di tutti i giorni, senza rumori strani o imprevisti. Finalmente.

E la normalità lo premiò, generosa, con qualche ora di silenzio e calma. Fino alla fine dell'orario di ufficio. Poi, in metropolitana, ricominciò a sentirlo.

Cric, cric, cric.

Cercò di ignorarlo, ignorare il modo in cui echeggiava sotto le scarpe, dietro la testa, in ogni angolo del treno e della folla. Non ce la faceva. Non ce la faceva e la cosa peggiore, a volerne indicare una sola, era che gli altri apparentemente non lo sentissero.

Era l'unico a udire il cigolio, che però non era proprio un cigolio?

Brutto segno. Significava che c'era qualcosa che non andava nelle sue orecchie, o forse nel cervello. Meglio la prima che la seconda, ma in ogni caso niente di allegro. Doveva andare dal medico e lui aveva sempre odiato i medici, erano uno strappo eccessivo alla normalità.

Ma anche il cigolio lo era.

Il treno stesso, per una volta, gli concesse la grazia di bloccare tanto il suono, quanto i pensieri. E lo fece nel più inaspettato dei modi: bloccandosi nel mezzo della corsa. Uno scossone, un altro, e il ritmo confortevole del viaggio si era interrotto, più o meno a metà tra una stazione e l'altra.

L'uomo calvo guardò il pavimento attorno a sé, nel silenzio che aveva spazzato ogni altro rumore. Tutti sedevano tranquilli, i piedi si allineavano immobili, nessuno accennava a scalpitare o battere il suolo per impazienza. L'evento in sé era un'anomalia, ma gli altri passeggeri la affrontavano come un fatto pianificato.

Perché lui no?

Non lo sapeva. Bloccandosi, il treno aveva sì messo un bavaglio ai cigolii e alle riflessioni oziose, ma gli aveva anche mollato uno schiaffo in piena faccia. Solo a lui. Cercò di ricordare altri arresti improvvisi della metropolitana. La prendeva da una vita, ormai, eppure non gliene venivano in mente. Era la prima volta? O era la prima volta che se ne accorgeva?

No, quei pensieri non gli piacevano. Non gli piacevano per niente. Meglio ripartire e arrivare a casa, per dimenticarsi di quella giornata fastidiosa e piena di imprevisti. E ancora non aveva scoperto cosa fosse un babirussa, la roba che la madre/suocera voleva fargli mangiare in sogno. Così pensò a quello, per evitare il resto.

Il vagone era silenzio ovunque, come se tutti quanti si fossero spenti assieme al treno e aspettassero, con pazienza, che vita e viaggio si riavviassero. Quando avvenne, dopo qualche minuto, nessuno ne parlò, nessuno accennò all'imprevisto. Dimenticato, metabolizzato. Le frasi erano quelle di sempre, battute sulla politica, la crisi di governo, il Partito di Guardie e Ladri che voleva elezioni anticipate e il Partito del Girotondo che cercava di restare al potere. L'uomo calvo li ignorò senza problemi.

Anche la casa era quella di sempre. La moglie a preparare la cena, il figlio davanti al televisore, il ronzio del climatizzatore, zero parole nell'aria. La normalità a cui era abituato e, per certi versi, affezionato. Ne aveva bisogno, dopo le seccature che gli erano piovute addosso nella giornata. Era...

«Rigenerante», mormorò, togliendosi la giacca. Diede un'occhiata attorno, per vedere se qualcuno lo stesse ascoltando, ma nessuno lo ascoltava. Tanto meglio: aveva parlato per se stesso. E aveva solo dato suono a un pensiero. Sedette, illudendosi che le anomalie fossero finite. Illudendosi.

Il cigolio tornò mentre mangiavano.

Tra il primo e il secondo, davanti a un piatto di arrosto (arrosto di babirussa, pensò, ma il pensiero non trovò la strada della bocca), lo sentì arrivare, col passo del giaguaro. Cric, cric, cric, come una fila di termiti, nelle fantasie di un bambino. Ma non era neppure quello, il suono.

Il cibo gli si cambiò in polvere, boccone dopo boccone. C'era silenzio, nell'aria, e a romperlo erano solo i rintocchi delle posate sui piatti, il masticare sordo di tre persone e il borbottio costante della televisione, in un angolo al centro della stanza. E il rumore, quel maledettissimo rumore che pareva perseguitarlo in ogni luogo. Ma era davvero l'unico a sentirlo?

Apparentemente sì, fu costretto ad ammettere. Né la moglie né il figlio si comportavano in modo diverso rispetto al solito. Mangiavano, tacevano, lanciavano sguardi obliqui allo schermo, con poco interesse. Lui non ci riusciva. Cric, cric, cric. Nelle bottiglie, nei bicchieri, nelle forchette, nei fili di grasso che sezionava con cura. Quel suono d'inferno era ovunque.

E ancora non era riuscito a dargli un nome.

Inghiottiva a forza, senza badare al gusto del cibo, e intanto allungava la mano sinistra verso le sue fidate compresse. Ne avrebbe avuto bisogno, per digerire tutto quanto: lo stomaco cominciava già a fare capriole e salti. Soffocò più di un rutto, fissando la tovaglia.

Quando alla fine si accomodarono davanti al televisore, ognuno al solito posto, il cigolio che non era un cigolio aveva invaso il mondo, coprendo ogni altro suono. Assordante.

La sigla iniziale, la presentazione del nuovo aspirante suicida, lo sponsor, la pubblicità, gli stacchi musicali, le prime avvisaglie del talk show, per discutere delle disgrazie di un disperato e piangergli un po' addosso, prima di liquidarlo. L'uomo calvo non ce la faceva. Cric, cric, cric.

Eppure erano anni che lo guardava, erano anni che le serate in famiglia scorrevano così! Perché non funzionava più? Perché non riusciva a restare seduto e seguire un semplice programma? Di sfuggita vide il profilo della moglie, indifferente e attenta, ad ascoltare le rituali domande degli ospiti. Aveva l'espressività vivace dei manichini nelle vetrine. Poco più in là, suo figlio si mangiava le unghie.

Cric, cric, cric.

Qualcosa cedette, o forse fu soltanto immaginazione. Sullo schermo passavano ora i volti di genitori lacrimevoli e sfatti, che imploravano il figlio di ripensarci, di tornare indietro. Come sempre, come sempre. Cambiavano i nomi, gli accenti, parole qui e là, ma il resto era sempre uguale per tutti. Lo stesso copione, recitato per milioni di spettatori appassionatamente apatici.

È un carillon. È la carica di un carillon: cric, cric, cric. L'accostamento gli esplose in testa, quando meno ci pensava. Ma era giusto, o almeno assomigliava alla verità quanto bastava. Quindi, poteva considerarlo esatto. Il suono di un carillon, quando si gira la chiavetta. Ecco cosa continuava a sentire, dalla mattina: una chiavetta, che fa scattare mille meccanismi e aziona il giocattolo.

Cric, cric, cric, il rumore lo accompagnava tranquillo, come a voler confermare la sua intuizione. O a dirgli che era fuori strada? L'uomo calvo balzò in piedi, quasi avesse una molla sotto la poltrona. Nessuno si voltò a guardarlo.

«Devo uscire», disse. «Ho bisogno di una boccata d'aria».

Esci pure, ci vediamo dopo, gli rispose il silenzio.

Ma aveva bisogno davvero di una boccata d'aria, perché lì dentro si sentiva soffocare. Il cigolio, i piagnistei da prefiche alla televisione, il modo in cui tutto si sarebbe concluso, nel giro di due o tre pause pubblicitarie. Una pistola, una corda, un sonnifero? Non ricordava più lo sponsor del giorno. Una grande casa farmaceutica, forse? Ma non cambiava nulla.

«Devo uscire», ribadì, come se si aspettasse sul serio che gli dicessero qualcosa.

Cric, cric, cric, e infilava le scarpe, sbagliando per due volte ad allacciarle. Cric, cric, cric, e anche la giacca era indossata, il cappello calcato in testa, a ripararlo dall'umidità serale.

Cric, cric, cric, e la porta gli si chiudeva alle spalle, muro blindato che lo separava dal focolare domestico. Fuori.

Le uniche parole gliele aveva rivolte il televisore.

*****

Chissà come si chiamava il cadavere di stamattina, si sorprese a pensare. Chissà come aveva fatto a finire lì. Chissà dove lo avranno gettato, quelli della nettezza urbana.

Domande strane, dubbi insoliti per lui. Non lo avevano mai sfiorato, in precedenza. Per dieci anni aveva condotto la sua esistenza normale, casa-ufficio-casa; ogni tanto un cadavere finiva davanti all'ingresso, come piovuto dal cielo. Lo scavalcava, ascoltava con mezzo orecchio le lamentele del portinaio, poi se ne dimenticava. Lo portavano via e usciva dalla sua vita. E così via.

Ogni sera lo stesso programma, che aveva indici di ascolto sempre più elevati e che si ripeteva nel suo format ormai fossilizzato. Prima da solo, poi con la moglie, infine con il figlio, man mano che la famiglia si espandeva e i pezzi si incastravano meglio al proprio posto, trovando lo spazio più adatto. Scricchiolavano, si assestavano e poi... poi restavano lì. E ogni giorno ricominciava da capo.

Fino a oggi.

Camminava lento nell'umidità della sera, che si scuriva nei pertugi tra i lampioni e i palazzi, negli anfratti che le erano rimasti. Camminava e sbirciava cauto il marciapiede attorno a sé, con la coda dell'occhio, quasi per vergogna. Ma non c'era nessuno, lì fuori. Solo lui. Assieme a quel silenzio così irreale, che ricopre una città quando finge di dormire. Nessun veicolo, nessuna voce. Come se gli altri fossero svaniti, assunti in cielo coi corpi e tutto il resto.

Non sentiva il cigolio.

Il tormentone della giornata, che lo aveva ossessionato per ore e ore, aveva forse deciso di andare a cercare una persona più interessante di lui? Ma poi era davvero la carica di un carillon, la chiavetta che gira e accumula energia nelle molle? Ci assomigliava, sì, ma non era proprio quel suono.

Non proprio. Non esattamente.

Cric, cric, cric, ma era solo la polvere a scricchiolargli sotto le scarpe, adesso. La polvere, che lui fissava ma da cui non era fissato. Perché anche la polvere è indifferente, o forse non ha gli occhi per guardarci. L'uomo calvo ascoltava il ronzio dell'aria, che sibilava piano nelle sue orecchie, come in ogni momento di silenzio. Perché il silenzio assoluto non esiste, qualcosa lo senti sempre.

E lui, per tutto il giorno, aveva sentito il cigolio, senza capire cosa fosse. Ora non lo sentiva più, ma ancora non era certo di cosa fosse. Non era certo di nulla, neppure del perché fosse uscito d'improvviso, quella sera, o del perché stesse camminando come uno stupido, senza meta e senza un pensiero da inseguire. Ma lo faceva lo stesso.

Sfiorò un lampione con la spalla, lo sfiorò con lo sguardo. Solo la base, solo la parte più vicina alla terra, più gonfia, più solida. La parte cui tutto il resto si aggrappa. Era la parte che guardava sempre, di ogni cosa. Il basso, i piedi, il pavimento, il terreno. Oppure lo sfondo, la parete dietro la gente, il muro che la faceva bassorilievo vivente, o a cui stava appoggiata. Mai le persone o gli oggetti, direttamente. Era un vizio, ma non ci aveva mai badato.

Oggi sì. Oggi ci stava badando.

Era il rumore? Il cigolio? Lo aveva costretto a uscire di casa, certo, ma il resto... non ne era sicuro.

Cric, cric, cric.

L'uomo calvo si fermò, davanti a una casa come tante. Era tornato. Di colpo, senza motivo. Perché? Cosa voleva da lui? Perché anche gli altri non lo sentivano? Oppure lo sentivano? Respirando forte l'umidità serale, si tolse il cappello e prese a rigirarlo tra le mani, pian piano, così come si rigirava il pensiero nella testa. Lo sentivano, gli altri? Sì o no?

Si morse un labbro. Chi aveva detto che gli altri non lo sentissero? Lo aveva detto lui, da solo, a se stesso. Lo aveva deciso lui. Perché tutti si comportavano normalmente, perché nessuno sembrava si curasse di un suono, di una differenza, di una novità.

Perché non lo aveva chiesto a nessuno.

«Scusi, lo sente anche lei questo rumore?», domandò alla notte. «È come la chiavetta di un carillon, ha presente? Gli scatti che fa la molla, quando si carica...».

La notte non gli rispose, troppo impegnata a farsi strada, tra mille luci di lampioni e di palazzi. Così impegnata che non arrivava mai fino a terra, ma si bloccava lassù, nel terreno abbandonato sopra i tetti. Là, era ancora lei a regnare. Ma nessuno ci guardava mai, lassù. Era uno spazio incolto.

Camminò un altro poco, costeggiando la via principale della città. Vuota, a quell'ora, come vuoto si mostrava tutto il resto. La gente era tappata in casa e lo sarebbe rimasta fino al suicidio finale. Poi, i più giovani si sarebbero rovesciati in altri edifici, gli adulti avrebbero seguito il telegiornale, mentre i più anziani si addormentavano da qualche parte. Fine della giornata.

E cosa c'è di sbagliato?, si chiedeva l'uomo calvo. Cosa c'era che non andasse?

Cric, cric, cric. C'era che qualcuno girava la chiavetta del mondo e gli dava la carica, mentre tutti se ne fregavano, o non lo sentivano neppure. Cric, cric, cric, faceva, Cric, cric, cric, e lui ne avrebbe voluto piangere, perché non gli usciva di testa e lo faceva impazzire, lo ossessionava.

Alla fine rinunciò. Non aveva senso camminare ancora, lo sentiva sia dentro che fuori. Si stancava e basta. Molto meglio riposare, in poltrona. Domani era giorno di lavoro, di bilanci, e doveva arrivare in ufficio in forma, per evitare stupidi errori. Aveva pur sempre delle responsabilità, rumore o non rumore. Cigolio o non cigolio. Chiavetta o non chiavetta.

Il giocattolo non si poteva rompere.

A testa bassa, con le luci artificiali che si specchiavano sul cranio, raggiunse il portone d'ingresso, l'ascensore, il pianerottolo. Accarezzò la maniglia, in parte svogliato, in parte rassegnato. Cric, cric, cric, come se tutto quanto fosse una molla, una gigantesca molla che non la finiva mai di caricarsi.

Entrò sospirando e fu come se non ne fosse mai uscito, come se la casa fosse una fotografia di ogni sera, di ogni istante. Il televisore acceso, la moglie sulla poltrona, il figlio chissà dove. In camera, di sicuro. E lui, lui con la giacca e le scarpe, cappello in mano, fermo all'ingresso a spiare il pavimento lucido e la fila di mattonelle, che si perdevano sotto il muro opposto.

Era a casa e non c'erano le parole. Cric, cric, cric. Come sempre, Cric, cric, cric.

*****

Dormì male e si svegliò peggio. Non sognò babirussa, arrosti strani, madri dalla faccia di suocera o altre scene assurde e consolanti, in un certo modo. Sognò una mano gigantesca, che faceva girare la chiavetta di un giocattolo a molla. Cric, cric, cric, mentre dava la carica. Ma non vedeva bene come fosse fatto il giocattolo. Un pupazzetto, forse, un soldatino o un orsetto, qualcosa del genere.

Cric, cric, cric, nel sogno come nella realtà. Poi la mano gigante appoggiava a terra il giocattolo ed era allora che lo vedeva bene. Un uomo calvo, che procedeva a scatti, fino a esaurire la spinta. Così si bloccava, di colpo, e la mano l'afferrava di nuovo. Un altro giro di chiavetta, Cric, cric, cric.

Quella mattina, per la prima volta dai tempi della scuola media, uscì senza fare colazione. Aveva lo stomaco a forza otto e non erano bastate tre compresse a calmarlo. Ma anche mille sarebbero state poche, perché nelle orecchie, nella testa aveva sempre quel suono, un suono di molla che si carica. Cric, cric, cric, nuova colonna sonora della sua vita.

Voleva piangere, in metropolitana. Anni e anni a fare il suo dovere, a tirare dritto e comportarsi nel modo migliore, ed ecco cosa ne aveva ricavato. Problemi ai nervi, all'udito, pazzia pura e semplice? Gli sarebbe andata bene qualsiasi cosa, pur di farlo tacere, di far tacere quel rumore. Ma non taceva. Cric, cric, cric, tra la folla come da solo, in casa come in ufficio. Cric, cric, cric.

Seduto nello stanzino di sempre, davanti allo schermo del computer, lavorava per non dover pensare ad altro. Nessun imprevisto, per quel giorno, nessun messaggio a interrompere la normalità e il ciclo eterno delle sue ore. Soltanto il messaggio del capo.

«Ha fatto un buon lavoro, ieri», recitava il testo scarno. «Complimenti».

«Non ho fatto nulla di particolare, mi creda, è stato solo», aveva cominciato a rispondere, battendo i tasti per nascondere il cigolio, ma la comunicazione si era interrotta. Il capo aveva altro da fare, fine della storia. L'uomo calvo tornò al suo lavoro, ai bilanci da concludere entro la serata.

Non furono quelli i soli bilanci che concluse. Non solo quelli.

Quando uscì, per raggiungere la metropolitana e ritornare a casa, la luce dei lampioni cominciava già a sostituire la luce del giorno. Da una tonalità all'altra, cambiavano solo le forme delle ombre, la loro lunghezza: diventavano più regolari, stabili, si fissavano in una sola direzione, fino al mattino. L'uomo calvo registrava ogni cosa senza interesse, leggendola sul marciapiede.

Cric, cric, cric, il suono che non lo abbandonava mai. Cric, cric, cric, e l'acidità che gli divorava lo stomaco e l'appetito, che lo consumava. Aveva lo stesso ritmo della chiavetta, della molla invisibile che da qualche parte si stava caricando. Cric, cric, cric, faceva di continuo.

Si bloccò, appena prima di imboccare il tunnel della metropolitana. Attorno a lui, nei limiti del suo campo visivo, file e file di piedi scivolavano nella cavità nera del sottosuolo, ne uscivano, come una colonna infinita di formiche, in un formicaio di metallo e cemento. Un groviglio di vita meccanica e senza identità, senza voce, senza dubbi: i suoi concittadini.

Non ce la faceva. Non ci sarebbe mai riuscito.

Guardò in avanti, guardò indietro, guardò ai lati. Piedi e gambe che scorrevano come sempre, che si affollavano dentro e fuori, seguendo rotaie che nessuno vedeva. C'erano anche le sue, poco oltre, le rotaie che lo avrebbero condotto a casa, a tavola, in poltrona e a letto. E di nuovo così, per dieci o mille anni ancora. Cric, cric, cric, la chiavetta che dava la carica a tutti, a tutto.

Non entrò. Premendosi una mano sullo stomaco, si allontanò a piccoli passi, piegato su se stesso, e abbandonò il groviglio di gente senza nome e senza volto, che dalla cintura in su neppure esisteva, almeno per lui. Una gigantesca scolopendra. A molla. Cric, cric, cric, e anche lui ne faceva parte.

Una decina di metri più in là, ma già in un altro mondo, si appoggiò a un cartellone pubblicitario, per riprendere fiato e calmarsi. Gli pulsavano le tempie e quel suono, quell'orribile suono che ormai lo strangolava, batteva ora allo stesso ritmo del suo cuore. O era il suo cuore a seguire quel ritmo? Il suo cuore, a ticchettare come la molla di un vecchio giocattolo?

Nella luce dei lampioni la sua ombra era finta. Come l'intera città, per quel che ne poteva vedere.

E adesso? E adesso sarebbe dovuto tornare a casa, in un modo o nell'altro. Ma niente treno, almeno per quella sera. Non ce l'avrebbe fatta a sedere là dentro, in silenzio, in mezzo a sconosciuti senza fine. Non con il suono che gli torturava le orecchie. Cric, cric, cric, come se ogni cosa girasse con il ritmo della misteriosa chiavetta. Cric, cric, cric, suolo e aria, ombra e luce, pieno e vuoto.

Respirò a fondo, una volta, due, mille. Quando fu quasi calmo, quando si sentì quasi capace di stare in piedi da solo, abbandonò il sostegno di fortuna, cartellone pubblicitario di un prodotto che non aveva neppure notato. Lo notò adesso, allontanandosi di qualche passo. Una pomata, per i dolori reumatici o qualcosa del genere. Non ricordava di averla mai sentita nominare, ma in fin dei conti gli sembravano sempre tutte uguali, le pubblicità.

Gli occhi sigillati al marciapiede, si incamminò lungo la via, lungo un percorso che non aveva mai fatto, non di recente. Non negli ultimi... negli ultimi dieci anni, grossomodo. Era sempre ritornato a casa in metropolitana, sempre, quasi vi fosse costretto. Ma lo non era. Il percorso non era neppure lungo, un chilometro e mezzo al massimo. Un quarto d'ora di passo, col ritmo tranquillo di una persona normale. Però non lo aveva mai fatto. Mai. Cric, cric, cric.

Pochi veicoli gli sibilavano accanto, nella strada. Gente che abbandonava il posto di lavoro, ne era certo, gente che aveva scelto l'auto e non il treno. Nessuno che avesse scelto i piedi. Era il solo, il solo fin dove il suo sguardo si potesse spingere. E non stava seguendo le rotaie. Davvero?

Cric, cric, cric, sempre più forte, Cric, cric, cric.

Pareva venire da un punto preciso, ora. Di metro in metro, pareva concentrarsi e raccogliersi, quasi fosse più vicino alla sua origine. Prima era disperso, avvolgeva tutto il mondo e lo chiudeva in sé. Non aveva una sorgente. Adesso gli sembrava proprio di sì. Sembrava, appunto. Ma era vero? O si trattava dell'ennesima assurda follia degli ultimi due giorni? L'uomo calvo camminava adagio, e si guardava attorno, con paura e curiosità. Ma il suolo era vuoto, sgombro in ogni direzione. Nulla che potesse generare quel suono, nulla di nulla.

Cric, cric, cric, e i colpi erano secchi, duri, potenti. Una molla immensa, che si carica di un'energia sconfinata. Energia rubata, fasulla, perché la accumula e basta, non la produce. Cric, cric, cric, ed è la mano a fare tutto il lavoro, la mano a girare e produrre forza. La molla, poi, la sfrutterà.

Cric, cric, cric, e ripensava al cadavere davanti alla porta, corpo anonimo, nato chissà dove, vissuto chissà come, morto chissà perché. Morto proprio davanti al loro palazzo, ostacolo da scavalcare per entrare in ufficio. Pensava a tutti quelli che c'erano stati prima e a tutti quelli che ci sarebbero stati poi. Pensava alla gente che si muoveva a scatti, seguendo ogni giorno lo stesso percorso, gente che non parlava mai, che non comunicava mai. Gente che per lui erano solo piedi, ammassati assieme in un treno, in un locale, in un tunnel di collegamento. E non una faccia.

Cric, cric, cric, e i timpani gli vibravano, schiacciati dal rumore che ormai era il mondo. E ancora non vedeva nulla, nulla. Camminava, si avvicinava, lo sentiva sempre più forte sopra di sé, sempre più schiacciante e assoluto, eppure non lo vedeva, non vedeva la sua origine, non vedeva la mano che girava la chiavetta. Se si trattava davvero di una chiavetta.

Cric, cric, cric, ma non era in basso, non c'era niente in basso. Non era neppure ai lati, dove solo i lampioni e le pareti degli edifici ricambiavano le sue occhiate. Cric, cric, cric, e sembrava una risata indifferente, grottesca. Una risata in faccia a lui e alla sua realtà. Lo sovrastava, eppure non vedeva nulla, solo il vuoto del marciapiede. Cric, cric, cric, gli grandinava addosso.

E allora, per la prima volta, la testa si inclinò verso l'alto, tra gli schiocchi del collo, per il gesto cui non era abituato. Guardò in alto, da dove sentiva piovere il rumore, e vide il cielo.

E nel cielo, alto sopra la città, si allungava qualcosa, cilindrico, come il più grande degli alberi della cuccagna, o dei pali della luce. Affondava tra i palazzi e s'innalzava imponente, colossale ma etereo allo stesso tempo, grigio e azzurrino. Pareva l'intero universo.

Poi la mano, immensa, orribile. La mano, pallida, che girava adagio la chiavetta e dava la carica alla città, alla gente, al mondo. Cric, cric, cric. Aveva un braccio? Aveva un corpo a cui attaccarsi, una identità che non fossero dita colossali e morte? L'uomo non lo vedeva. Vedeva la mano, come se si allungasse dalle nuvole e dall'aria. La mano che girava la chiavetta della realtà.

Cric, cric, cric.

*****

Non trovò pace in strada e non ne trovò a casa, la sua solita casa, soffocante come l'ultimo bottone di un colletto. A ogni passo, a ogni respiro, a ogni sagoma che intravedeva, sempre gli rombava nel cranio quel rumore, lo schiocco della molla che si carica. Esisteva davvero? Esisteva davvero o era solo lui, che stava impazzendo? L'uomo calvo non lo sapeva e non osava chiedere fino in fondo. La risposta lo terrorizzava.

Cenò senza gusto, sedette a occhi aperti davanti al televisore, si lasciò scorrere addosso il tempo, in una trattenuta indifferenza. E continuava a pensare a ciò che aveva visto, allucinazione, incubo o la più folle delle realtà. La mano. La chiavetta. Il cielo.

E la città, in ogni altra direzione, che si muove a scatti e percorre sempre gli stessi binari, sempre gli stessi riti, gli stessi gesti. Cric, cric, cric, facce basse e tranquille, facce vuote e inespressive, come se l'alto fosse l'angolo morto di ognuno, punto cieco a cui lo sguardo non può mai arrivare. Ma non era solo quello. Non era solo la visione che aveva avuto al ritorno. Non solo e non del tutto.

Mentre sullo schermo un disperato in sovrappeso si impiccava, dimostrando così l'estrema tenuta e resistenza di un prodotto dal nome strampalato, in grado di sopportare pesi e pressioni di qualunque livello, l'uomo calvo tentava di non riflettere, di non chiedersi cosa avesse visto quel giorno, cosa gli fosse davvero apparso. Perché sentiva che qualcosa si sarebbe rotto. Qualcosa che, forse, non sarebbe più stato capace di aggiustare.

Sempre che non fosse già tardi.

La memoria gli ripescò di nuovo il cadavere davanti all'ingresso, il giorno prima. Lo aveva dovuto scavalcare, per entrare in ufficio, e non era il primo. Di tanto in tanto, se ne trovavano. Così, senza motivo, senza spiegazione: arrivavi al lavoro e davanti al portone dell'edificio c'era un cadavere. Passavi oltre, coi soliti lamenti del portinaio nelle orecchie e tu che gli facevi una eco di silenzio.

Punto.

Probabilmente era lo stesso anche per gli altri palazzi della città, altre aziende e fabbriche che lui non aveva mai neppure visto. Probabilmente. Ma perché accadeva? Erano suicidi che si buttavano dal tetto? Non li aveva mai guardati con molta attenzione, ma non lo sembravano. E dunque?

Giocattoli che esauriscono la carica.

Pensiero privo di senso, che gli si accese in testa di punto in bianco. Suonava bene. Era assurdo, ma a modo suo era coerente: si adattava alla chiavetta nel cielo. Cric, cric, cric e tutta la giostra gira, sempre uguale, sempre uguale. Ogni tanto qualche pezzo si guasta. E dove lo butti il pezzo guasto, a quel punto? Dove è più semplice e rapido smaltirlo.

«Che stupidata», mormorò con un mezzo sorriso, alzandosi dalla poltrona. Suo figlio era già andato in camera, il telegiornale raccontava le peripezie del governo, gli scontri tra il Partito di Guardie e Ladri e il Partito del Girotondo, opposizione e maggioranza, parole e facce che sembravano sempre le stesse, anche se erano diverse. Sua moglie fissava lo schermo, forse interessata e forse no.

L'uomo calvo aprì la finestra, in cucina, e si affacciò nella notte. Per respirare, si diceva. Perché il climatizzatore era una bella cosa, sì, ma a volte non bastava. Perché voleva dare un'occhiata fuori, anche se in una decina d'anni non s'era mai interessato al panorama dell'appartamento.

Sotto, in ogni direzione dove il suo sguardo arrivasse, c'era la città, luci artificiali e aria sbiadita, consumata. Ma i suoi occhi andavano in alto, verso il nero stinto del cielo. Dovevano esserci anche le stelle, là in mezzo, ma vederle era impossibile. E c'era forse anche una mano, là in mezzo, che girava una gigantesca chiave? Si morse un labbro. Cric, cric, cric, sentiva ancora. La mano non si stancava mai, però non la vedeva. Nascosta dal buio e dai lampioni, come le stelle.

Cric, cric, cric. Ne sentiva gli scatti, sotto la pelle, nei muscoli, nei tendini, nelle articolazioni, come se tutto il corpo fosse un giocattolo a molla e si muovesse al ritmo delle dita lassù, che giravano, giravano, giravano. Cric, cric, cric, mentre lui viveva, o ci provava.

E pensava alla visione.

Che senso aveva? Che senso poteva mai avere una pazzia simile? Dalla sala gli veniva il monotono brusio del televisore, sottofondo di ogni serata in famiglia. Da un altro punto della casa, ronzava il climatizzatore, per mantenere sempre la stessa temperatura, lo stesso tasso di umidità, gli stessi altri valori percentuali che lui neppure ricordava. Ma lui voltava le spalle a tutto, in quel momento. Lo lasciava dietro di sé e guardava avanti, nell'oscurità sbiadita e pallida.

Cric, cric, cric, sentiva, e gli occhi inseguivano il profilo di qualcosa, la sagoma di una realtà, di un dato oggettivo a cui aggrapparsi, un indizio che gli dicesse finalmente che la mano esisteva davvero e con essa la chiave. La chiave che dava la carica al mondo.

Non trovava nulla, perché in fondo non era quello che l'uomo calvo cercava. Non era quella la vera conferma di cui avrebbe avuto bisogno, mentre respirava a fatica l'aria pesante della notte, aria che gli grattava la gola e gli irritava il naso, privo di filtri. C'era un altro dubbio, che gli prudeva sotto il cranio. Un dubbio, una suggestione, un'impressione.

Pensava alla scena del pomeriggio, alla camminata con cui era tornato dall'ufficio. Pensava al suo capo che si sollevava, attratto dal rumore, e pensava alla risposta che aveva trovato, lassù. Se poi si poteva parlare di una risposta. E nel momento stesso in cui scopriva la sorgente del suono, un nuovo abisso gli si spalancava sotto i piedi.

Era così che finivano gli altri? Quelli che di mattina, ogni tanto, erano cadaveri all'uscita di palazzi, da scavalcare? Persone che, come lui, avevano sentito un cigolio e alzato la testa? E poi? E poi forse avevano ceduto a ciò che avevano trovato, al possibile significato di quella cosa.

Era davvero così? Era davvero quella la spiegazione? L'uomo calvo si stringeva nelle braccia e tremava, respirando il buio cittadino. E pensava alle stelle, che non si vedevano più, e con gli occhi le cercava. Ma cercava ancora di più il loro sfondo, per avere una risposta. Per sapere.

Perché più della chiavetta, più della mano, più di tutto il resto, a colpirlo davvero era stato il cielo.

Da un alto all'altro, da un orizzonte all'alto, si estendeva sopra i tetti, sopra i lampioni, sopra ogni cosa, a racchiudere la realtà sotto di sé. Un coperchio, che era sempre stato lì e di cui non si era mai accorto. Il coperchio della sua città giocattolo, che lo fissava di rimando, indifferente a ogni suo sguardo. Cric, cric, cric, e la giostra gira. Il cielo, da cui scendeva la mano, proveniente da chissà dove. Il cielo del suo mondo.

Luccicava come latta, nella luce del tramonto.

di Adriano Marchetti