Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 114

Il generale Sanjeev Giridhar cominciò a preoccuparsi davvero quando la nave di ritorno da Madre si trovava ancora a due giorni di viaggio dalla stazione orbitale di Svarga. Fu allora che ricevette il più recente aggiornamento sulla situazione a bordo, con la malattia di Muzafar Chang e i sospetti che il medico aveva sulle sue possibili cause. Fu allora che considerò sotto una nuova luce i suggerimenti di Hass, ministro della Difesa terrestre. Fu allora che si domandò se fosse stato davvero così saggio obbedire agli ordini della presidente. Saggio in una prospettiva più ampia, beninteso: che fosse stato saggio in una prospettiva individuale, invece, non lo avrebbe mai messo in discussione.

Era cominciato con l’intercettazione di certi messaggi scambiati tra l’ambasciata terrestre di Guan Yu e il pianeta madre. Non se n’era occupato il generale Giridhar, perché non era il suo reparto, ma le voci viaggiano, circolano e in un modo o nell’altro finiscono sempre per arrivare anche a te, che tu lo voglia esplicitamente o solo implicitamente. È una legge di natura, dopotutto, ma il punto non era come le voci fossero arrivate a lui: era il contenuto delle voci. Meglio ancora, ciò che lasciavano ipotizzare, quasi intuire. Che la Terra avesse accettato di aprire le porte di Madre per la conferenza di Muzafar Chang, concedergli un accesso al pianeta prima negato, soltanto per uno dei soliti giochi sporchi che piacevano tanto a Leonardi. Una punizione per come Svarga ostacolava il processo e lo ritardava in tutti o modi. Una vendetta. Un dispetto. Quel che vi pare.

Giridhar non le aveva prese sul serio. Non troppo. Che Leonardi potesse fare qualcosa del genere sì, era credibile, ma i messaggi intercettati sembravano fatti apposta per essere intercettati. Era solo un trucco per distrarci, avevano sostenuto alcuni. Vogliono farci credere che il problema è lì, mentre si preparano per colpire da un’altra parte. Anche questo era plausibile, sempre secondo Giridhar. Che poi fosse un altro reparto a doversene occupare e prendere eventuali decisioni, aveva solo rafforzato la sua già presente tendenza a un sano e rassicurante disinteresse per la questione. Qualunque cosa fosse, era un problema altrui. A lui magari sarebbe toccato agire, in seguito, ma altri avrebbero detto cosa fare, altri avrebbero deciso. Ottimo.

Avevano intercettato altri messaggi, in seguito, e ancora ritornava il suggerimento generale che con la nave inviata su Madre sarebbero arrivate spiacevoli sorprese, al termine della missione. Di nuovo il generale Giridhar le aveva ignorate, perché non era il suo reparto a doversene occupare e lui era al massimo uno spettatore interessato ma non coinvolto. Qualcuno al ministero della Difesa, però, era convinto che ci fosse qualcosa di vero in quei messaggi e avevano ordinato una sorveglianza molto più stretta di tutti gli accessi a Svarga, in particolare provenienti da Madre. Quello era un problema di cui il suo reparto si doveva occupare e così Giridhar aveva scosso la testa, sospirato, brontolato di tanto in tanto con gli assistenti più stretti e si era adeguato agli ordini.

Non che ci fosse molto lavoro da fare. Il traffico in entrata da Madre era praticamente nullo: a parte la missione di Muzafar Chang, a cui si era voluto aggregare anche il professor Chen, per il resto non si arrivava a cinque navi nel corso di un anno e pure quelle cinque non è che trasportassero granché: studiosi e ricercatori che tornavano a casa, qualche diplomatico o funzionario in missione e altri tipi di detriti umani di poco interesse. Sorvegliare il traffico da e verso Madre era la parte più semplice del suo incarico, soprattutto a confronto con altre frontiere calde, come la Terra stessa o Shakti, per non parlare di quando Varuna si metteva in testa di introdurre nuove regole o limitazioni.

Tutto era cambiato col messaggio personale di Hass. A Giridhar non era piaciuto, né perché era un messaggio personale, né per il contenuto. Erano stati amici, ai tempi dell’addestramento, e lo erano rimasti anche negli anni seguenti, almeno finché Hass era ancora militare. Avevano speso assieme qualche vacanza, c’erano state visite a casa, scambi di regali e più o meno tutto ciò che si può avere tra persone che fanno lo stesso lavoro su fronti diversi, si conoscono da anni, ricordano ancora una gioventù comune, a volte si sono trovati a collaborare volenti o nolenti, si rispettano e non trovano troppo fastidiosa la personalità dell’altra parte. I loro rapporti erano diventati molto più distanti e distaccati dopo la morte della moglie di Hass, ma da un certo punto di vista era comprensibile e Giridhar non ne aveva fatto un problema. In fondo, adesso non erano più giovani di belle speranze e pochi neuroni, occupavano posti in prima fila in società ed essere troppo amici con un rappresentate dello scomodo vicino di casa poteva non essere visto bene dal governo.

Amici o meno che fossero (stati), un messaggio che gli consigliava di disintegrare una nave civile in arrivo era sembrato decisamente eccessivo a Giridhar. Se poi la nave trasportava Muzafar Chang, il primo imputato in una causa in corso tra i loro pianeti, e il professor Chen, che era considerato una specie di amico della presidente, allora il messaggio non era solo eccessivo, ma diventava folle. Se ti fermavi a considerare il movente che Hass gli indicava, il messaggio assumeva sfumature di pura e malata paranoia, un tratto preoccupante in una persona normale, ma molto, molto più grave in un ministro della Difesa di un pianeta già fumantino di suo come la Terra.

Il generale Giridhar vi aveva meditato per un giorno, prima di decidersi a contattare la presidente su un canale riservato. La presidente non aveva meditato proprio: secondo lei era una follia, un trucco che la Terra si era inventato per danneggiare Svarga, con tutta probabilità suggerito da Leonardi, e il generale non avrebbe mai e poi mai dovuto attaccare la nave, se ci teneva non solo a conservare un posto da generale, ma anche a evitare un processo per strage. Era possibile che la Terra si volesse in un qualche modo vendicare e mirasse a danneggiarli, forse anche un attacco batteriologico, ma loro non avrebbero mai e poi mai abboccato. C’erano altri modi per risolvere un eventuale problema e il ricorso a una violenza insensata, come consigliava Hass, era il modo peggiore. Quindi Giridhar non lo avrebbe mai e poi mai dovuto seguire. Chiaro?

Chiarissimo. Il generale Giridhar non voleva comunque disintegrare una nave, non senza avere una ragione più che valida per farlo e non senza prove indubitabili. Soltanto un pazzo lo avrebbe voluto. Con tutti i problemi burocratici e non che ne sarebbero seguiti, poi, il pazzo non doveva essere solo pazzo, ma anche masochista. Giridhar non si riteneva né l’uno né l’altro, soprattutto non sul posto di lavoro, anche se in certi campi privati una spruzzata di masochismo ogni tanto poteva anche dare un sapore nuovo ad alcune attività. Ma non era quello il punto. Lui non avrebbe disintegrato la nave solo perché un (ex) amico glielo raccomandava e non aveva bisogno che glielo dicesse la presidente o chiunque altro. C’erano cose che non faceva e basta.

Poi era arrivata la notizia della malattia di Chang. Poi era arrivata la notizia del peggioramento di Chang. Poi nel suo reparto erano cominciate le voci che forse quei bastardi terrestri avevano usato sul serio armi batteriologiche. Forse i messaggi intercettati erano veri. Forse sarebbe stato meglio se avessero fatto qualcosa perché, anche se magari non era un vero attacco batteriologico, le infezioni contratte su un altro pianeta erano già pericolose a sufficienza e non si sapeva mai come si potevano evolvere a contatto con un nuovo ecosistema.

Giridhar era parzialmente d’accordo, ma al momento c’era un malato solo, era confinato nella nave, a milioni di chilometri di distanza da loro, e la situazione era sotto controllo. Avrebbero intercettato la nave all’arrivo, li avrebbero fatti approdare nell’area di quarantena, sterilizzati a dovere, visitati e sottoposti a tutti gli esami necessari, infine sarebbero scesi sul pianeta soltanto se il ministero della Salute lo avesse approvato. Un lungo periodo di quarantena in un centro specializzato li avrebbe poi attesi in ogni caso. Tutto sotto controllo, vedete?

Adesso che mancavano due giorni all’arrivo non era più così sicuro. Sapeva di avere fatto tutto ciò che poteva e doveva. Sapeva di avere eseguito gli ordini da manuale. Sapeva che era pronta l’area dove ricevere la nave e il personale del ministero della Salute era già salito sulla stazione. Non c’era da preoccuparsi, giusto? Pure, lui si preoccupava.

Non avevano idea di cosa ci fosse su Madre, né di cosa stessero preparando. «Dovrà pure esserci un motivo per tutta quella segretezza, no?» diceva Ranjit Kwan, il suo assistente personale. «Non so se stiano davvero preparando nuove armi, ma se consideriamo le dimensioni del contingente militare e la distribuzione delle basi sul pianeta, è inevitabile sospettare qualcosa di brutto.»

Giridhar concordava. Gli accordi interplanetari vietavano il ricorso alle contaminazioni ambientali come arma nelle contese tra i mondi, ma gli accordi interplanetari valevano tanto quanto le persone che li avevano siglati e potevano essere stracciati in qualsiasi momento, se un pianeta era convinto di poterla fare franca o se pensava di poterne ricavare un vantaggio superiore ai danni. Lo mostrava anche la storia dell’umanità che ogni tipo di accordo tra città, stati, federazioni o continenti durava solo fino a che era conveniente farlo durare. Se la Terra aveva preparato un’arma davvero efficace e se erano convinti che quell’arma nono potesse mai essere rivolta contro di loro, non sarebbe stato il pezzo di carta su cui avevano firmato a bloccarli. Non secondo Giridhar, almeno. Secondo il sempre cinico Ranjit Kwan, poi, era praticamente una certezza che loro sarebbero stati i primi su cui testare la nuova arma terrestre, se una nuova arma c’era.

«È la storia del processo, ovvio. Storia sporca, lo ammetto anch’io, ma se vogliono davvero farci quello che suggerivano i loro messaggi, allora sono ancora più sporchi di noi. Che poi, era soltanto un litigio tra istituti di ricerca, no? Una scemenza!»

Giridhar concordava. Peccato che alcune scemenze avessero il brutto vizio di farsi prendere anche troppo sul serio dalle persone giuste. O dalle persone sbagliate, a seconda dei punti di vista. Così la lenta manovra di avvicinamento della nave alla stazione orbitale divenne una forma anomala e quasi indolore di tortura, simile a quella che accompagna l’attesa di un esame importante, su cui forse non si gioca proprio la tua vita, ma una bella fetta delle tue speranze sì. Sai di essere pronto, sai di avere studiato, ma sai anche che non si sa mai: per questo ti contorci.

A un giorno dall’arrivo la nave inviò un nuovo messaggio. A nome del professor Chen richiedeva, o per essere più precisi esigeva, la presenza di medici specialisti alla stazione. «Muzafar sta male, e se dico male intendo molto male. Non so cosa gli sia accaduto su quello schifo di pianeta, ma è grave. Sarà meglio per voi che non gli accada niente di spiacevole.» Eccetera eccetera.

Il generale Giridhar accolse il messaggio con una gioia da colite fulminante. Si concesse un fugace pensiero di quanto sarebbe stato bello disintegrare quello stronzetto arrogante, come Hass gli aveva chiesto di fare, ma il pensiero svaporò e la realtà riprese il proprio posto. Disintegrare la nave intera per colpa di uno stronzetto non era un lavoro da soldato, almeno non per come lo concepiva lui. Se però gli si fosse presentata in futuro una occasione per far capitare qualcosa di spiacevole a Chen, allora se ne poteva riparlare. Ma a questo avrebbe pensato poi.

«Ripetimi come siamo organizzati,» disse al suo assistente. Ranjit Kwan glielo ripeté, non senza un accenno di fastidio davanti al tono con cui Chen li aveva contattati. Giridhar ascoltò in silenzio, poi annuì. Tutto da manuale, ma era meglio avvisare il pianeta. Giusto per sicurezza. Se mai un qualche tipo di epidemia si fosse diffuso, il generale voleva la certezza che nessuno avesse anche la minima scusa per incolpare lui. Sempre per sicurezza. La propria.

La risposta della presidente arrivò quasi subito. Sarebbe arrivata un’altra unità medica di supporto e il grosso del traffico civile doveva essere dirottato verso la seconda stazione. Neppure a terra c’era qualcuno che voleva assumere rischi inutili. Giridhar approvò. Sarebbe andato tutto a finire bene.

La nave attraccò. Il piano di sterilizzazione e quarantena scattò subito, senza incidenti. L’equipaggio partecipò senza entusiasmo ma rassegnato. Erano tutti sani, a bordo, o così sembrava. L’eccezione era Muzafar Chang, inconscio, che non comunicava più da alcuni giorni. Il personale medico salì, lo visitò, rimase a bordo assieme agli altri occupanti. Giridhar lasciò fare. Garantire la sicurezza della stazione era il suo lavoro; garantire la salute dell’equipaggio e di altri era lavoro dei medici. Che ci pensassero loro. Lui si mantenne in contatto continuo col pianeta scambiando informazioni, tramite umano e senziente che collegava il sotto al sopra. E che si preoccupava.

«Il malato è uno solo. Non è così grave.»

«Vero,» rispose Ranjit Kwan.

«Cioè, il malato è grave, ma è la situazione che non è così grave. È solo uno.»

«Vero.»

«Non possiamo proprio parlare di una epidemia.»

«Vero.»

«Voglio dire, guarda! Questi sono i risultati dei primi test. Tutti sani, gli altri. Sta male Chang, ma è uno solo e chissà cosa si è preso o dove lo ha preso. Potrebbe essere intossicazione alimentare. Non è un granché il cibo di Madre, dicono.»

«Vero.»

Giridhar sospirò. «Tu pensi che sia qualcosa di grave, vero?»

Kwan scrollò le spalle. «Potrebbe. Intossicazione alimentare non lo è, non dopo tutta la confusione che hanno fatto i terrestri. Potrebbe essere per distrarci, non ne sarei sorpreso, ma...» Alzò di nuovo le spalle e scosse la testa.

«Ma secondo te non lo è.»

«No. Non ne sono sicuro. Non dopo l’ultimo messaggio di Hass, anche se non capisco cosa sia.»

Non lo capiva neppure Giridhar e la cosa non gli piaceva. Poteva significare che c’era dissenso nel governo terrestre, che non tutti erano d’accordo con quello che era successo, qualunque cosa fosse. Poteva anche significare incroci di complottismi contorti a sufficienza da essere inaccessibili a una mente umana normale e sana. Poteva suggerire più o meno tutto, nonché il contrario. Fu quasi una fortuna che il professor Chen scelse quel momento per farsi sentire.

Era bloccato sulla nave e non era contento. Lo considerava un insulto. Un oltraggio. Uno stimato e prezioso luminare come lui, un amico personale della presidente, doveva restare rinchiuso in quella fetida nave assieme al resto dell’equipaggio, come un volgare cameriere. Dovevano lasciarlo uscire subito, altrimenti ci sarebbero state conseguenze per tutti. Chiaro?

«Ci saranno conseguenze per tutti se la lasciamo uscire,» rispose Giridhar con tutta la calma che gli riuscì di trovare. Considerate le circostanze, fu parecchia. «Nel caso non ve ne siate accorti, avete a bordo un malato. Un malato grave, possibilmente infetto. Un malato che potrebbe contaminare tutto il pianeta, nella peggiore delle ipotesi. Fino a che non ne sapremo di più, tutto l’equipaggio resterà a bordo. Lei è parte dell’equipaggio, quindi resterà a bordo. Che le piaccia o meno.»

Sullo schermo la faccia liscia e bianchiccia di Chen si gonfiò come un rospo. «E lei vuole lasciami qui a farmi infettare? Come chiunque altro? Come un nessuno qualsiasi?»

Il generale Giridhar si concesse un lieve sorriso. «Secondo i miei ordini, lei è un nessuno qualsiasi.»

«Quando lo saprà la presidente...»

Il sorriso di Giridhar si allargò. «Ma i miei ordini provengono proprio dalla presidente. Lo sa. E non sembra essere molto preoccupata per lei. Dopotutto esistono priorità, come lei dovrebbe sapere. Se si tratta di impedire un contagio, il bene del pianeta ha la priorità su quello di un individuo.»

La pelle perfettamente glabra di Chen aveva sviluppato un rossore interessante. «E quanto ci dovrò restare in questa trappola di nave, eh? Per sempre? Volete seppellirmi qui?»

«Ci resterà fino a che sarà ritenuto necessario. E, prima di rispondere, la invito a considerare questo fatto: se dovrò scegliere tra la sicurezza del pianeta e la sua sicurezza individuale, io non avrò alcun problema a sopprimerla personalmente. Ne ho anche tutta l’autorità e il potere. Rimanga a cuccia e aspetti il suo turno, se ci tiene. Grazie.»

Giridhar chiuse il contatto in faccia a Chen, che sembrava pronto a replicare con una scemenza. Una nuova scemenza. Sospirò. Per quanto fosse piacevole vedere quel vecchio trombone che lagnava a vuoto tutta la propria impotenza, il generale desiderava solo che tutto si risolvesse al più presto. Che portassero tutto l’equipaggio in un centro per le malattie infettive sul pianeta, invece di lasciarli lì a rompere le scatole a tutto il personale della stazione. Si sarebbe sentito molto più sicuro a saperli il più lontano possibile da lì. Non era stato possibile chiudere l’intera stazione e c’erano tante cose che potevano andare storte, quando sei in orbita geostazionaria attorno a un pianeta. C’erano ancora più cose che potevano andare storte quando eri sulla superficie del pianeta, d’accordo, ma c’erano pure molte più risorse per riparare gli errori. La stazione era un’isola nel nulla, collegata alla vita solo dal cordone ombelicale dell’ascensore. Troppo, troppo fragile.

Cinque giorni dopo, l’equipaggio si trovava ancora sulla nave, ma qualcosa cambiò: Muzafar Chang morì. Avvenne all’improvviso, ma non fu davvero un imprevisto. I medici che lo seguivano si erano accorti del suo continuo indebolimento, anche se non ne avevano ancora determinato la causa. Una malattia anomala, strana, che sembrava consumarlo dall’interno. Dall’esterno poteva apparire come una banale influenza, forse un poco più grave della media, ma niente di particolare. Soprattutto, non un indizio su come funzionasse, men che meno su come si potesse fermare.

Non erano nuovi alle malattie strane, su Svarga. Primo pianeta a essere colonizzato, era stato anche il primo a doversi misurare con tutti i problemi che l’organismo umano può trovare in un ambiente ignoto e alieno, che si è evoluto seguendo linee diverse da quelle terrestri. Il prezzo era stato più che enorme: nessuno sapeva di preciso quanti fossero morti durante la prima fase della colonizzazione, ma si parlava di centinaia di migliaia, forse milioni. Alla fine Svarga era stato domato, i sacrifici lo avevano placato e l’uomo aveva compiuto con successo il primo passo. La medicina non era certo il campo che aveva reso famoso il pianeta nella galassia abitata, ma era stata forzata a crescere molto in fretta e ancora restava all’avanguardia, forse non ai livelli di Agni ma molto, molto efficace.

Niente di tutto ciò era servito a salvare Muzafar Chang. Avevano anche contattato Madre, con una descrizione completa dei sintomi, i risultati di tutti gli esami, la cartella clinica del malato. Forse sul pianeta di origine la conoscevano già, forse avrebbero saputo proporre una terapia. Ma non era una malattia nota, dichiaravano, e nessuno sapeva come curarla. Avevano suggerito, consigliato, fornito pareri, indicato terapie che si erano dimostrate efficaci per altre patologie. I medici svarghiani non le avevano ricevute con entusiasmo, ma le avevano provate ugualmente. Invano. Chang continuava a peggiorare, era finito in coma e il giorno dopo lo avevano trovato morto, all’alba.

La notizia non aveva migliorato l’umore dell’equipaggio, ancora bloccato sulla nave e ancora fermo in attesa di un qualche tipo di liberazione. Il professor Chen era stato il più acceso, per usare termini accettabili in pubblico; per usare termini meno accettabili, gli ascoltatori avevano dovuto cercare tre o quattro parole sui vocabolari, per capire di preciso cosa avesse suggerito loro di fare con strumenti che non sembravano progettati per le attività che Chen richiedeva. Gli altri membri della spedizione su Madre erano rimasti più tranquilli, almeno in superficie, ma si vedeva che anche loro erano vicini al limite e a breve sarebbe stato necessario contattare gli artificieri per disinnescare un ambiente già pronto a esplodere. A parte questo, tutti sembravano sani. Fisicamente.

E la chiave era proprio il verbo. Sembravano. Il generale Giridhar non si fidava delle apparenze e i medici concordavano. Lasciarli andare era troppo pericoloso, specie dopo che uno di loro era morto di una malattia ancora ignota; trasferirli in una qualche clinica, invece, sembrava il modo migliore per gestirli. Fu dunque un grande sollievo quando dalla presidenza arrivò il nullaosta al trasloco dei possibili infetti: la struttura che li avrebbe accolti era pronta, i mezzi per il trasferimento anche, solo l’ascensore doveva ancora essere sgombrato per il tempo necessario a calarli.

Avrebbero utilizzato una cabina apposita per contenere i rischi di contaminazioni ambientali. Era da più di un secolo che non si presentava la necessità di usarla, dai tempi del fungo che aveva causato danni enormi su Indra, ma era stata mantenuta aggiornata e in perfette condizioni, perché non si sa mai e perché rischiare di farsi trovare impreparati sarebbe stato stupido, oltre che forse letale. Così i membri dell’equipaggio furono trasferiti dalla nave alla cabina attraverso tubi isolati e sterilizzati, calati sul pianeta, trasferiti con altri tubi su veicoli di superficie altrettanto isolati e sterilizzati, sotto i due soli di Svarga, infine trasportati alla struttura che li avrebbe accolti e studiati.

Il professor Chen allietò l’operazione lamentandosi ininterrottamente contro tutto e tutti, invocando amici potenti e prepotenti, appellandosi a questo e quello, strepitando oltraggiato, protestando per le terribili condizioni in cui era costretto a vivere proprio lui, scienziato di fama interplanetaria, e tutti i ritardi che il suo lavoro doveva subire per colpa di certi incompetenti, e la perdita di un dipendente così prezioso, insostituibile, e di nuovo l’incompetenza dei medici, e qui e là, e su e giù. Dopo solo un giorno, i suoi sventurati compagni di viaggio lo avrebbero strangolato e fatto a pezzi volentieri, e il resto del trasferimento non ne migliorò l’umore. Fisicamente sani (almeno in apparenza) erano in pessime condizioni psicologiche all’arrivo in ospedale. Il personale medico che li aveva scortati non se la passava meglio. Fu probabilmente anche per questo che Chen si meritò una cella di isolamento mascherata da stanza privata ed esclusiva. Nessuno si lamentò del privilegio.

Sulla stazione orbitale, intanto, il generale Giridhar aveva seguito di persona la sterilizzazione della nave. Non gli era richiesto, formalmente, ma lo aveva fatto lo stesso. Continuava a pensare a Hass e alla sua richiesta di disintegrare tutto quanto mentre si trovava ancora nello spazio. Ranjit Kwan gli diceva che non c’era più bisogno di preoccuparsene, ormai, e la nave andava sì sterilizzata a fondo, ma non presentava più problemi. Era materiale inerte, dopotutto. Se infezione c’era, era partita con l’equipaggio. Potevano rimanere batteri o altro negli ambienti abitabili, ma la sterilizzazione serviva proprio a eliminarli. Nessun problema, vede? Tutto risolto.

Ma Ranjit non lo aveva guardato negli occhi mentre lo diceva e il generale continuava a non sentirsi tranquillo. C’era qualcosa di sbagliato. Non aveva idea di cosa, ma c’era. Forse non era sulla nave e forse quella parte del problema era davvero risolta, ma forse no. Cosa avrebbe dovuto fare lui? Fece che ordinò non una, non due, ma tre sterilizzazioni, utilizzando metodi diversi ogni volta. Avrebbe spedito volentieri la nave il più lontano possibile, usandola subito per una nuova spedizione, ma non era una buona idea: se davvero era rimasto qualcosa, qualcosa che lui non aveva calcolato, avrebbe contaminato altri luoghi, altre persone. Non una buona idea. Così ordinò di trattenerla per controlli e revisioni, che non erano strettamente necessarie ma male non avrebbero fatto. Voleva sopratutto che sparisse dalla sua vista e che non sfiorasse il traffico regolare, che nel frattempo era ripreso. Magari più avanti si poteva simulare un falso incidente, un malfunzionamento...

Tutto era bene, tutto era bene e tutto avrebbe continuato a essere bene. Dell’equipaggio si sarebbero occupati i medici, nessuna epidemia si sarebbe diffusa e i messaggi minacciosi che erano passati tra l’ambasciata terrestre e il pianeta madre non sarebbero mai approdati a nulla. Poteva dimenticarsi di tutto, ormai. Era risolto. E Hass era stato solo un allarmista, un allarmista esagerato e anche un poco sanguinario, a volerla dire tutta. Giridhar inspirò a fondo, espirò. Tutto bene.

Tutto andava così bene, che due giorni dopo l’arrivo nella struttura di accoglienza non c’erano stati ancora segni di malattia tra gli altri membri dell’equipaggio. I risultati degli esami erano confrontati quotidianamente con quelli eseguiti su Chang prima della morte e il responso non cambiava: tutti sani, tutti privi di agenti patogeni di origine extraplanetaria. Era presente la solita fauna di batteri locali, ma quelli non contavano. Era giusto che ci fossero. Il problema erano eventuali intrusioni da fuori, ma quelle mancavano. Che non fosse dunque una vera malattia, o almeno non una malattia contagiosa? Su questo punto insisteva il professor Chen, esigendo di essere liberato e restituito ai suoi tanti impegni. E subito, ve lo ordino,

«È ancora troppo presto per esserne sicuri. Per quanto ne sappiamo, l’incubazione potrebbe anche richiedere un lungo periodo, durante il quale non ci sono segni della presenza di germi. Fino a che noi non saremo sicuri di qualcosa, di qualsiasi cosa, voi resterete qui sotto osservazione. E no, non è prevista alcuna eccezione. Non ci importa chi conosce lei. Grazie.»

Era la risposta standard del personale e Chen l’apprezzava come una scolopendra nelle mutande, ma erano isolati dal resto del mondo, bloccati, e non poteva farci niente, a parte bollire nel privato della sua testa. E pensare a cosa potesse significare tutto ciò. A cosa potesse essersi inventato Leonardi.

Era tutta colpa sua e il professor Chen non aveva dubbi. Per forza. O li avevano contaminati con un qualche tipo di virus durante le vaccinazioni, oppure avevano contaminato il loro cibo, o chissà che altro trucco si era inventato il vecchiaccio maledetto. La conferenza su Madre era stata soltanto una trappola: Leonardi li aveva attirati per avvelenarli in un qualche modo. Ovvio.

Ma nelle lunghe ore di solitudine, tra un esame e l’altro, a volte non sembrava più così ovvio, ma un rigurgito di paranoia mista a un vago e represso senso di colpa. Non che avesse davvero qualcosa di cui sentirsi in colpa, non secondo lui, ma a volte la mente è una carogna e si attacca anche alle cose più assurde, quando non trova di meglio o semplicemente quando si annoia. Meglio non pensarci.

Muzafar Chang era morto. Non che fosse una grande perdita sul piano accademico o personale: era un tizio come tanti, non troppo brillante, non molto capace, ma fortunato a sufficienza da trovarsi al posto giusto al momento giusto. Chen non ne avrebbe sentito la mancanza, né sarebbe mancato alla fondazione. Come simbolo, invece, di importanza ne aveva parecchia: per questo lo aveva portato a spasso per la galassia abitata, esibendolo ovunque come se fosse davvero prezioso, un gioiello raro, di enorme valore, questo e quello, eccetera eccetera. Adesso non lo avrebbe più potuto fare, perché era morto. Oh, d’accordo, avrebbe potuto esibire il cadavere, che in fondo possedeva più o meno lo stesso grado di intelligenza della persona viva, ma un gesto simile avrebbe disgustato persino lui e comunque il cadavere ormai sarà già stato seppellito da qualche parte, o smaltito in altro modo.

Chen sospirò, fissando la parete bianca della stanza in cui lo tenevano sigillato. Brutta, brutta storia, ma forse ne potevano ricavare qualcosa di buono. Se ci fosse stato un modo per provare, dimostrare che si era trattato di una vendetta di Leonardi, allora la morte di Chang sarebbe diventata molto ma molto utile. Ancora più preziosa di quanto fosse stata la sua vita, in effetti. Ma c’era quel modo? Il professor Chen non lo sapeva, né lo avrebbe mai potuto scoprire finché lo tenevano rinchiuso lì.

Quando vennero a portargli la cena, Chen si lamentò di nuovo e di nuovo senza risultato. Portarono però anche notizie dal mondo esterno e di quelle non si lamentò (ma neppure ringraziò). La morte di Muzafar Chang era stata annunciata e presto avrebbe raggiunto anche gli altri mondi coloniali. Non c’erano ancora state reazioni ufficiali, a parte l’inevitabile e prevedibile cordoglio degli svarghiani e palle varie. A Chen non interessava. Voleva sentire cosa aveva da dire la Terra, magari Leonardi in persona, se si degnava di rilasciare un commento. Voleva scoprire quanto sarebbe stato ipocrita quel vecchiaccio, quante lacrime di coccodrillo avrebbe pianto. Probabilmente nessuna, perché dubitava che un cranio rinsecchito come il suo contenesse ancora lacrime o anche solo ghiandole lacrimali, ma era in un senso metaforico e un pianto metaforico non lo si negava neppure a una mummia. Non avevano negato neppure pianti fasulli alle state presunte sacre, nella preistoria.

Altre notizie dal mondo esterno raccontavano di nuovi incidenti a Varuna, un pianeta dove proprio non si voleva imparare l’arte della pacifica convivenza, o almeno della pacifica indifferenza, mentre su Rudra c’era stato un nuovo attentato, che aveva rallentato la produzione di terre rare. Proprio una storia terribile, davvero! Chen soffocò uno sbadiglio. Come se gli fregasse qualcosa delle terre rare. Le notizie interne erano interessanti a modo loro, per chi trovava interessante la vita e le opere degli insetti locali. Pareva che fossero piuttosto agitati attorno a un paese che non ricordava di avere mai sentito nominare, probabilmente un buco in un qualche angolo sperduto del pianeta, mentre ai piedi di un ascensore era stata registrata una persistente irrequietezza in alcune specie.

Chen sospirò. Non aveva mai capito quella fissa del suo mondo. Ogni notiziario includeva bollettini sull’umore presunto e le attività di svariate specie di insetti, come su altri mondi accadeva per attori, cantanti e altro ciarpame umano. Erano trattati da celebrità, gli insetti. Peggio, erano trattati come se davvero contassero qualcosa. Sono solo insetti, avrebbe voluto urlare lui. Sono solo così che volano, ronzano, strisciano, pungono. Ma molte persone li prendevano sul serio e così i notiziari parevano sentirsi in dovere di raccontare ogni giorno cosa avessero combinato di nuovo. Assurdità!

Assurdo o meno, accadeva e lui non poteva farci niente. Dopotutto, secondo il suo modesto parere, gli insetti erano comunque più intelligenti di tutte le presunte celebrità umane sommate assieme, se si consideravano sportivi e gente del mondo dello spettacolo. Bah! Meglio ignorare tutto quanto e tornare a pensare a cose migliori. Lo fece, ricominciando a masticarsi il fegato nella solitudine e nel silenzio della sua stanza. Con tutto quello che avrebbe potuto fare se solo fosse stato libero...

Ma libero non era. Era chiuso in una stanza senza finestre, senza luci naturali, e le uniche presenze umano erano infermieri o altro, che passavano a intervalli forse regolari e forse no. Portavano cibo e iniezioni, medicinali ed esami, prelevavano campioni, misuravano, e mai che spiegassero, ma che ti rispondessero, mai che ti dicessero cosa diavolo stava succedendo, a lui o altrove. Il tempo pareva non esistere, lì dentro, o forse tutto era tempo, ma accartocciato, raggomitolato, appallottolato e così via, di -ato in -ato, purché significasse che tutto era fermo, tutto immobile, tutto insensato.

E lui aspettava. A volte camminava avanti e indietro, ma sempre più spesso ormai restava coricato a fissare il soffitto, occhi glassati e mani dietro la nuca. Inerte e impotente. Il suo destino apparteneva ad altri, altri che lui neppure poteva vedere, e a Chen non piaceva. Non gli piaceva mai non essere in controllo, non essere sul ponte di comando, al timone, al volante, a quello che ti pare, purché sia un simbolo di potere e dominio. Un simbolo di determinazione, anche. Di autodeterminazione. Ma adesso altri determinavano lui e lui poteva solo subire. Anzi, no poteva. Doveva.

E in un pomeriggio che forse era mattina o forse sera, o forse un periodo del giorno a cui nessuno si era mai preoccupato di dare un nome, Chen si domandò coosa fosse successo al resto del gruppo. Li avevano portati via, separati all’arrivo, e da allora non c’erano state più notizie. Ma alcuni avevano una missione, missione importante, che era calata da livelli molti alti del governo. E la missione era stata svolta, forse bene o forse no, perché su Madre i militari erano ovunque, ma di informazioni ne avevano recuperate e i mandanti le avrebbero probabilmente volute ricevere. Le avevano ricevute? O anche loro erano in attesa, vincolati da quella sorta di quarantena senza nome?

Poteva essere importante. Anzi, era sicuramente importante. Dopo lo scherzo che i terrestri si erano inventati, ogni informazione su Madre poteva diventare non olo preziosa, ma forse vitale. Era tutto bloccato tra quelle pareti asettiche, in un angolo sperduto del pianeta? Oppure le informazioni erano sfuggite alla quarantena e avevano raggiunto chi di dovere?

Il professor Chen, paziente quantomai impaziente, avrebbe desiderato tanto saperlo. Ma sapere non sapeva e avrebbe continuato a giacere nell’ignoranza per un tempo indefinito. Tentò di nuovo con il personale, stavolta non ordinando ma chiedendo, una punta di cortesia che era quasi disperazione patinata. Potevano dirgli qualcosa sui suoi colleghi? Gli altri arrivati con lui. Stavano tutti bene? Si era ammalato qualcuno? Era successo... qualcosa?

Sono informazioni confidenziali e non abbiamo il permesso di divulgarle. Era la risposta standard, che Chen riceveva nei denti in continuazione. A volte era quasi cortese, altre volte fredda, ma quello che non cambiava era il nucleo: non te lo diciamo, quindi taci. Chen tacque. Si sentiva bene, almeno per quanto ci si possa sentire bene quando si spende tutto il giorno chiuso in una stanza da solo, col cervello come tua unica compagnia e un clima generale che ricordava l’autunno sugli alberi.

Ma stava bene. Fisicamente. Nel senso che non era malato, che nessun sintomi si era manifestato e, con un poco di fortuna, magari non si sarebbe manifestato mai. Perché magari non c’era niente che si potesse manifestare. Magari su Madre avevano voluto colpire soltanto Chang e a tutti gli altri non sarebbe successo niente di male. Forse. A voler essere ottimisti. E dopo un tempo incalcolabile che aveva passato da solo, nella sua cella d’isolamento, Chen voleva essere ottimista. Lo sperava. Tutto sarebbe apparso un poco più sopportabile, in quel caso.

Non c’era bisogno che durasse a lungo, quell’ottimismo. Doveva solo durare abbastanza. Giusto il necessario per farlo uscire di lì ancora sano di mente e poi ogni cosa sarebbe tornata normale, tutti i suoi peggiori sospetti su Madre e Leonardi avrebbero ripreso il posto d’onore al centro del cervello e la vita sarebbe tornata a sorridere. Allora avrebbe cominciato a lavorare alla santificazione del suo povero Chang, martire delle rivalità tra pianeti, vittima innocente brutalizzata da chi cerca soltanto di soffocare il libero sapere e la circolazione di idee, minaccia oscurantista che pappappero e così via, chissà quanta bella retorica vi avrebbe potuto ricamare attorno.

Una volta uscito. Una volta tornato alla fondazione.

E nell’attesa di quel giorno, il professor Chen fissava il soffitto della stanza e pensava.