Amekumabito e lo iyomante degli ainu
Amekumabito è una figura estremamente minore nella mitologia giapponese. La possiamo anche definire minuscola, in effetti, pressoché irrilevante. Compare in un solo mito, che è già piuttosto piccolo di suo, e in quel mito ha un ruolo ancora più piccolo: è giusto uno sguattero inviato da una divinità maggiore a svolgere un piccolo lavoro da esploratore, che diventerà poi quasi un lavoro da facchino. Nonostante questo, e forse in parte anche per questo, Amekumabito riesce a essere una figura piuttosto interessante, a modo suo. È interessante il mito in cui compare, è interessante il ruolo che vi svolge e il suo stesso nome è interessante. È ancora più interessante se prendiamo in considerazione certe suggestioni che, forse, potrebbero collegarlo alla seconda etnia presente sulle isole giapponesi. L’etnia più disprezzata: gli ainu, i barbari pelosi del nord, nati dagli orsi.
Secondo una loro storia riferita da Basil Chamberlain1, quantomeno.
Ho già parlato a lungo dell’unico mito in cui compare Amekumabito discutendo dell’origine dell’agricoltura nella mitologia giapponese, per cui lo possiamo qui riassumere in poche parole. All’inizio dei tempi, quando si era conclusa da poco la creazione delle isole giapponesi, subito dopo l’uscita di scena dei due demiurghi che le avevano generate, erano ascesi a governare il cielo la dea Amaterasu, il sole, e suo fratello Tsukiyomi2, la luna. Un giorno Amaterasu inviò il fratello sulle isole del Giappone in cerca di Ukemochi, divinità del cibo3. Tsukiyomi la trovò, ma non gradì la sua accoglienza, perché la dea del cibo vomitò in un piatto e glielo offrì come pietanza succulenta: in un momento di rabbia il dio la uccise. Tornato in cielo, raccontò tutto alla sorella e litigarono, perché secondo Amaterasu il fratello era stato troppo violento. Da allora il sole e la luna non si guardano più in faccia e si alternano in cielo, girandosi bene alla larga.
Amaterasu inviò poi un suo messaggero a verificare se Ukemochi fosse proprio morta. Ed ecco che entra in scena il nostro Amekumabito, perché fu proprio questa divinità a essere scelta dalla dea del sole per la missione. Così il nostro eroe scende sulla terra, trova la casa di Ukemochi e verifica che sì, la dea è decisamente morta. C’è però qualcosa di strano che sta succedendo: dal cadavere della dea sono spuntate varie piante e anche alcuni animali. Nel dubbio, Amekumabito raccoglie tutto e lo porta in cielo dalla sua signora. Amaterasu è molto contenta del “regalo” che il suo messaggero le ha fatto: dopo aver esaminato un poco i prodotti, proclama che d’ora in poi saranno gli alimenti principali delle persone visibili4. Da allora gli umani coltivano le piante nate da Ukemochi e usano quegli animali come aiuto nel lavoro e a volte anche come cibo.
Questo è dunque il ruolo di Amekumabito nella mitologia giapponese. Compare in una sola storia come messaggero di Amaterasu, scende sulla terra per conto suo, raccoglie vari prodotti che poi diventeranno il cibo degli umani e se ne torna in cielo, consegnando il tutto alla sua padrona. Non proprio un ruolo di primo piano, si potrebbe dire, e infatti non lo è. È però interessante, sia per ciò che fa, sia per certi paralleli che suggerisce. Tutto comincia dal suo nome.
Amekumabito è composto da tre parti, che non presentano grandi problemi, prese singolarmente: ame significa “cielo”, kuma significa “orso” e hito, che può diventare bito quando è all’interno di una parola composta, significa “persona”5. Possiamo dunque tradurre il suo nome come “uomo orso celeste” ed è così che lo troviamo tradotto da William George Aston, lo storico traduttore inglese del Nihonshoki6, il quale però aggiunge anche la seguente nota: “Written ‘heaven-bear-man’. The real meaning is supposed to be Heaven-cloud (kumo)-man, the clouds being regarded as messengers of the Gods”7. E così abbiamo già trovato un primo problema: il nome stesso di Amekumabito.
Kuma o kumo, dunque? Il testo non ci aiuta molto. Il Nihonshoki, unica opera antica in cui compare il nostro Amekumabito, è scritto in cinese, non in giapponese. Per i nomi propri giapponesi, in un testo in cinese ci sono due possibilità: renderli in cinese in base al significato o traslitterarli in base alla pronuncia. L’autore del Nihonshoki ha scelto la seconda soluzione: sappiamo dunque quale fosse la pronuncia dei nomi, ma non sappiamo come arrangiarci in caso di parole omofone. Questo non è un problema per le divinità maggiori, che compaiono spesso anche in testi giapponesi: se abbiamo dubbi, basta controllare altrove ed ecco trovata la nostra risposta. Amekumabito non è una divinità maggiore e compare solo in questo testo in lingua cinese. Ovviamente. Data la somiglianza tra kuma orso e kumo nuvola, una certa ambiguità è possibile ed è lecito il dubbio su quale delle due parole sia corretta.
Come abbiamo visto, Aston lo traduce con “orso”, seguendo la versione letterale, ma pensa che in realtà sia un errore e dovrebbe essere tradotto con “nuvola”. Il che ha un suo senso, in effetti. Se noi dobbiamo pensare a un messaggero inviato dal cielo a cercare qualcosa sulla terra, una nuvola ci suonerà molto più naturale e plausibile di un orso. In condizioni normali, quantomeno. C’è però un altro elemento che sarebbe opportuno prendere in considerazione, ossia la cultura ainu, dove invece un orso che dal cielo scende sulla terra è la cosa più naturale del mondo, praticamente un evento quotidiano. Almeno nella loro tradizione, se non forse al giorno d’oggi.
Gli ainu sono la seconda etnia presente in Giappone. Oggi sono ridotti a una esigua minoranza, che vive alla meglio nell’isola di Hokkaidō e in generale è sempre stata trattata dai giapponesi più o meno nello stesso modo in cui i nativi americani sono stati trattati dagli invasori europei, soprattutto negli attuali USA: barbari incivili che infestano una terra che noi civilizzati sapremmo usare molto meglio e dunque è giusto liberarci di loro, uccidendoli tutti. Cosa che i giapponesi hanno cercato di fare con impegno, nel corso dei secoli, soprattutto dalla seconda metà dell’Ottocento, quando è cominciata l’occupazione massiccia di Hokkaidō e gi ainu erano un ostacolo sulla via del progresso, da cancellare o assimilare: l’importante era annullare il loro essere diversi dai giapponesi veri.
Troviamo riferimenti agli ainu anche nella storia più antica del Giappone, dove compaiono sotto il nome generico di emishi, che include tutto ciò che è barbaro e va “pacificato” per la prosperità di Yamato. Sia nel Kojiki che nel Nihonshoki, infatti, gli emishi hanno il ruolo dei cattivi, contro cui combatte il buon esercito dell’impero Yamato, portatore di civiltà e prescelto dagli dèi. Se oggi li troviamo solo in Hokkaidō, l’isola più settentrionale, un tempo occupavano anche una buona fetta dello Honshū, l’isola principale del Giappone, arrivando fino a sfiorare le pianure del Kantō e del Kansai, nei cui dintorni si svolsero battaglie contro i guerrieri di Yamato, secondo le cronache più o meno storiche dell’epoca. Poi furono sterminati.
Se i contatti ci sono stati, e fin dai tempi più remoti, possono esserci stati anche scambi culturali, volontari o meno? Questo è il punto, perché gli ainu avevano una concezione piuttosto particolare degli animali, in special modo degli orsi. Non una concezione così strana, provenendo da un popolo che viveva principalmente di caccia, ma di certo molto diversa da quella dei giapponesi, almeno in epoca storica. Considerata la sua peculiarità, è meglio spendere un poco di tempo in una breve introduzione a quale fosse la tradizionale concezione del mondo degli ainu.
Secondo quella che possiamo considerare la tradizionale visione del mondo ainu, tutti gli esseri non umani, viventi o meno, sono kamui8. Questa parola è palesemente connessa al giapponese kami (la cui forma più atcaica era kamu, peraltro), forse un prestito o forse i due termini hanno una origine comune, e in effetti i kamui degli ainu condividono alcune caratteristiche con quelli che i giapponesi chiamano kami. Possiamo tradurre entrambe le parole con “divinità” ed è quanto si fa di solito, specialmente col giapponese: l’importante, però, è ricordare che solo raramente si tratta di figure antropomorfe e “personali”, come gli dèi della mitologia classica. Nella maggior parte dei casi, kami e kamui sono una forza soprannaturale, una manifestazione di qualcosa che va al di là della normale vita umana. Un qualche tipo di ierofania, se vogliamo metterla così. Nello specifico, un kamui è una entità che vive in un mondo diverso dal nostro, ma non separato. In quel mondo, il kamui appare come un normale essere umano e conduce una vita simile a quella dei normali esseri umani, o almeno simile a quella che gli ainu conducevano ai tempi. Ha una casa uguale a quella degli ainu, ha una famiglia e amici, va a caccia, intaglia, cuce e così via. Ama anche fare baldoria e bere alcolici alle feste, quando ne ha la possibilità.
Accanto al mondo dei kamui, esiste il mondo umano. Questi due piani non sono separati, ma sono sempre in contatto e gli scambi dall’uno all’altro sono possibili, almeno in una direzione. I kamui, infatti, scendono spesso a visitare gli umani, a volte solo per turismo e a volte per fare affari con gli ainu. Per un dato valore di “affari”, che vedremo in seguito. Siccome i kamui son invisibili ai nostri occhi, quando scendono nel nostro mondo hanno bisogno di indossare abiti speciali, che li rendono visibili e tangibili. Non potrebbero interagire con noi, se fossero solo spettri. Uno dei travestimenti più usati dai kamui che ci interessano qui è quello da animale.
Questo è un punto fondamentale: per gli ainu, certi animali sono “divinità” travestite. Questi animali sono il modo in cui i kamui scelgono di mostrarsi a noi esseri umani, quando decidono di scendere sul nostro piano di esistenza. Gli animali sono abiti indossati dai kamui. Letteralmente. Ogni kamui nella propria casa conserva più abiti da animale, che può prendere e indossare ogni volta che vuole. Non una idea così strana, in realtà: la ritroviamo spesso nelle storie delle popolazioni cosiddette “primitive”, la cui sussistenza dipende in larga misura dalla caccia. Uomini e animali non sono separati in modo netto, ma vivono assieme, parlano tra loro e la sola, vera differenza tra le due categorie è che gli animali indossano un abito: spogliati del loro travestimento, gli animali sono uomini (o donne). Allo stesso modo, indossando il vestito di un animale, un uomo diventa animale9.
Se osserviamo altri popoli che avevano uno stile di vita simile a quello degli ainu, come svariate tribù dell’America del Nord, troviamo che anche per loro la distinzione tra uomo e animale è molto labile, o almeno lo è stata nei tempi antichi. Basta sfogliare una qualunque raccolta di storie di Sioux, Seneca, Cherokee o la tribù che preferite e troverete racconti che cominciano con un avvertimento del tipo: “Questo avvenne quando uomini e animali vivevano ancora assieme,” oppure “In quei tempi anche gli animali parlavano come noi”, o anche “A quei tempi non c’era differenza tra gli uomini e gli animali”. Presso i popoli in cui la caccia rappresenta una importante fonte di sostentamento, gli animali tendono ad appartenere alla sfera del sacro e la caccia stessa è prima di tutto un rituale, con regole molto precise, da rispettare sia prima che dopo, che spesso risalgono a un qualche tipo di accordo o compromesso tra i due gruppi, gli umani e gli animali, che da allora sono distinti.
Molte culture di cacciatori hanno sviluppato una Signora degli animali, oppure un Signore degli animali. Questa figura divina poteva avere forma umana, oppure presentarsi come un esemplare particolare della specie che ricadeva sotto il suo dominio: era lei a concedere agli uomini la cacciagione, oppure a negarla se gli umani non rispettavano le sue regole. Ai cacciatori era concesso di catturare lo stretto indispensabile e alcuni tipi di animali non potevano essere toccati: a volte singoli esemplari che portavano un marchio particolare, a volte categorie più generali, come le femmine di una età specifica o in un periodo specifico dell’anno, e così via. Anche dopo aver ucciso una preda, erano spesso necessari riti appositi per pulirsi dal suo sangue: a volte bisognava deviare la responsabilità dell’assassinio verso altri, oppure discolparsi proclamando che era stato un incidente, la freccia era andata dalla parte sbagliata, eccetera. Ogni popolo aveva i propri rituali, ma lo scopo era identico per tutti: pacificare l’anima dell’animale ucciso e rimanere in buoni rapporti con la Signora. Uccidere era necessario per la sopravvivenza, ma non era qualcosa da fare alla leggera: era un atto sacro, perché sacri erano gli animali stessi.
Nel caso degli ainu, troviamo esempi di una Signora degli animali in alcuni kamui yukar, canti tradizionali ainu10. Nello specifico, troviamo menzionati uno Yukkor kamui e un Cepkor kamui: il primo controlla i cervi, mentre il secondo controlla i salmoni. Sono entrambi custodi, che possono concedere o negare gli animali su cui hanno il controllo, a seconda di come si comportano gli umani nei loro confronti11. Questi due kamui non risiedono nel mondo umano, ma solo in quello divino, dove possono essere contattati grazie a intermediari particolari, ma soprattutto sono loro a ricevere lo spirito degli animali morti12, che riferirà loro come siano stati trattati dai cacciatori. Se il giudizio non è favorevole, guai agli ainu, perché i signori degli animali non concederanno più la cacciagione, fino a che non saranno stati debitamente ripagati per il torto subito dai loro protetti.
Un esempio concreto di tutto ciò lo troviamo nel cosiddetto “Canto del gufo divino”, uno yukar contenuto nella raccolta Ainu Shin’yōshu, prima e unica raccolta di yukar che Chiri Yukie (1903-1922), ragazza ainu educata alla giapponese, abbia avuto il tempo di compilare e tradurre. Qui troviamo infatti l’istituzione dei rituali di caccia a opera di kamuicikap kamui, il gufo divino da cui viene il titolo assegnato da Yukie a questo canto. Il gufo, noto altrove come kotan-kor kamui, ossia il “dio che governa il territorio13”, appare in sogno agli ainu, insegnando loro il giusto modo di comportarsi con la cacciagione, per non scontentare più gli altri kamui. In questo modo, è raccontata l’origine mitica dei rituali che gli ainu seguono quando vanno a caccia o a pesca, una versione molto ridotta e semplificata dei riti maggiori, riservati ai kamui di “grande peso”.
Accanto agli animali che sono controllati da un Signore specifico, infatti, esistono anche animali che sono kamui essi stessi: sono le specie più importanti, sia sul piano alimentare che su quello simbolico. È il caso dell’orso, per esempio, ma anche dell’orca14 per gli ainu che vivevano lungo la costa. Questi animali non erano concessi o negati da un Signore, ma decidevano loro stessi di scendere tra gli umani, come e quando volevano. In questo caso, lo scambio si svolgeva direttamente tra gli ainu e il kamui, senza bisogno di intermediari.
Perché questi personaggi decidevano di visitare il mondo umano? Perché, nella visione del mondo ainu, gli uomini e i kamui vivono in uno stato di dipendenza reciproca. Se gli uomini hanno bisogno dei kamui per sopravvivere, è altrettanto vero che anche i kamui hanno bisogno degli umani per sopravvivere, in un certo senso. Ogni battuta di caccia diventa quindi uno scambio, un baratto alla pari tra le due entità coinvolte, gli umani e gli animali: quando la caccia si svolge nel modo corretto, seguendo i rituali prestabiliti, ognuna delle due parti ne ricaverà un vantaggio e tornerà a casa soddisfatta.
Per gli ainu, tutte le forme di vita sono dipendenti le une dalle altre. Non esistono esseri autosufficienti. Noi umani abbiamo bisogno della natura per sopravvivere e la natura ha bisogno di noi esseri umani: il nostro rapporto col resto del mondo si deve dunque basare su uno scambio reciproco, continuo, in cui ognuno cede qualcosa di sé agli altri. I kamui proteggono gli umani dagli spiriti malvagi15 e offrono loro i propri costumi da animale, quando scendono nel mondo, oppure gli animali sotto il loro controllo; in cambio, gli umani offrono ai kamui doni di vino e inau16, che li arricchiscono e ne accrescono il prestigio nel mondo da cui provengono.
Al momento, i kamui che interessano a noi sono soltanto gli orsi e possiamo accantonare gli altri. Secondo la tradizione ainu, gli orsi vivevano in montagna, da dove scendevano per interagire con gli umani quando desideravano ricevere doni da loro, o anche solo quando volevano passare il tempo. In questi casi, il kim-un kamui (divinità della montagna), ossia l’orso, indossa un particolare abito per rendersi visibile agli umani: questi abiti speciali si chiamano hayokpe, una parola che significa sia armatura che travestimento, ed è in effetti entrambe le cose. Lo hayokpe è soprattutto qualcosa di materiale, che rende così i kamui visibili anche agli esseri umani. Quando il kamui vuole commerciare con gli ainu, indosserà il suo hayokpe migliore, quello di lusso, apparendo così come un esemplare della sua specie molto più appetibile per il cacciatore; quando invece il kamui non è interessato al commercio ma vuole solo fare due passi, indosserà uno hayokpe vecchio, di nessun valore, per indicare ai cacciatori di non essere venuto a trattare con loro.
Ogni kamui possiede hayokpe specifici, che dipendono dal suo rango. Il vestito da orso è quello a cui ricorrono i kim-un kamui, le divinità delle montagne; le divinità del mare, i rep-un kamui, indosseranno invece un abito da orca; il kotan-kor kamui, lo spirito guardiano del territorio, sceglie un abito da gufo; e così via, a seconda della propria funzione e del proprio ruolo nella società da cui provengono. Questo ci dice anche quali siano i kamui principali per ogni ambiente: se l’orso è il re degli animali delle montagne, l’orca è il re degli animali marini, mentre il gufo è un animale protettore e custode. Oltre a essere un travestimento, però, lo hayokpe è anche e soprattutto la merce di scambio che il kamui porta agli uomini. Merce di scambio o regalo, a seconda dei punti di vista.
Per gli ainu, non è il cacciatore a scegliere e uccidere la preda, ma è l’animale a scegliere il cacciatore a cui vuole fare dono del proprio hayokpe. Per questo motivo, il cacciatore dovrà poi mostrare la propria gratitudine regalando inau e, se possibile, anche vino (ovviamente sake giapponese) al kamui che è stato così generoso da farsi uccidere da lui. Così la caccia smette di essere un gesto crudele, per diventare invece uno scambio di doni tra uomini e kamui, in cui entrambi ricevono qualcosa di prezioso: il kamui riceve inau e vino, che ne accresceranno la ricchezza e il prestigio nel mondo da cui proviene, mentre l’uomo riceverà la carne e la pelle dell’animale abbattuto, con cui si potrà nutrire e che potrà barattare con altri umani. E la crudeltà della caccia è sublimata in una forma di gioco, secondo uno schema comune ai popoli che vivono di caccia e raccolta e devono quindi sviluppare schemi mentali particolari per adattarsi alla necessità di uccidere per sopravvivere.
La distruzione dello hayokpe libera il kamui e gli consente di ritornare al suo mondo. Messa in altri termini, uccidendo l’animale il cacciatore libera lo spirito divino, che potrà così tornare a casa. Non a mani vuote, beninteso: a ogni uccisione segue una cerimonia di congedo, in cui il cacciatore dona alla preda gli inau che aveva preparato e che rappresentano il “pagamento” con cui ricambia il kamui della generosità che gli ha dimostrato. Un caso specifico di questo scambio è la cerimonia dell’orso, lo iyomante, che ci farà tornare al nostro Amekumabito dopo il breve excursus sulla cultura ainu in generale.
Per una descrizione dettagliata della cerimonia, rimando all’articolo di Kimura Takeshi su questo argomento17, oppure ai libri di John Batchelor: qui mi limiterò allo stretto indispensabile. Durante il primo giorno della cerimonia si raccolgono e si preparano i doni che saranno offerti all’orso: inau, alcolici e così via. Il secondo giorno si prepara lo spazio in cui uccidere un orso, che era stato allevato appositamente dal villaggio; lo si nutre per l’ultima volta e il rituale vero e proprio comincia, scagliando frecce all’orso e poi strangolandolo con due rami premuti contro il collo. La vittima è scuoiata e smembrata, in modo che la pelle rimanga però attaccata alla testa mozzata. La carne è bollita e mangiata da tutta la comunità, mentre la testa è portata all’interno della casa del celebrante, dove si svolge la festa con danze, recitazione di canti sacri e altro. Nell’ultimo giorno si prega e si separa il teschio dalla pelle, per poi decorarlo con inau e altri doni; alla fine, un apposito rituale congeda il kamui, indirizzandolo verso la montagna su cui tornerà.
Questo è lo iyomante, in forma molto sintetica: il sacrificio dell’orso compiuto dagli ainu. O, più precisamente, la cerimonia dell’orso. Rituali di questo tipo si possono trovare presso altre popolazioni dell’estremo nord, sia sul continente asiatico che su quello americano. Abbiamo cerimonie simili presso vari popoli della Siberia, come i Gilyak o gli Oltscha, ma le troviamo anche tra gli inuit della Groenlandia, giusto per fare qualche nome. Con un poco di fantasia, possiamo ipotizzare che cerimonie incentrate sulla morte di un orso si svolgessero anche nell’Europa paleolitica, come ci può suggerire un ritrovamento a Chauvet, nel sud della Francia, dove alla fine del secolo scorso fu scoperta in una grotta una lastra di pietra con sopra il teschio di un orso, il tutto risalente a circa trentamila anni fa. Umani e orsi hanno una lunga storia sacra in comune, insomma, ma a noi interessano solo gli ainu, in questa sede.
La parola iyomante è già una descrizione di quale sia l’idea alla base della cerimonia. Il verbo oman significa infatti “andare”. Se aggiungiamo il suffisso causativo te, abbiamo omante, che significa “far andare”, ma anche “mandare”, “inviare” e così via. Il prefisso i serve a intensificare e rafforzare l’azione, in questo caso: se ku significa “bere” in termini generali, iku significa “bere alcolici”, cioè una forma intensificata del normale bere. La y, infine, ha valore puramente eufonico e non modifica il significato: iyomante è dunque un modo particolare di “mandare via”, “congedare”, e il congedato è un orso, che liberandosi dal corpo tornerà al proprio mondo divino, abbandonando così quello umano e il villaggio in cui ha vissoto.
Protagonista più o meno volontario (a seconda dei punti di vista) dello iyomante è infatti un orso che gli ainu hanno accolto e allevato nel proprio villaggio come cucciolo per due o tre anni, spesso dopo averne ucciso la madre in una battuta di caccia. Quando il cucciolo è portato nel villaggio, tutti lo accolgono come ospite, lo nutrono, lo trattano nel miglior modo possibile e in generale si può dire che è addomesticato, nei limiti in cui si può addomesticare un orso selvatico. Perché l’orso è un kamui, ricordiamo, che è sceso nel mondo umano per portare doni alla popolazione: il suo dono è appunto il corpo di animale che indossa. Lo iyomante consiste nel compiere lo scambio di doni. Quella che appare come uccisione e smembramento è in realtà una forma di raccolta dei doni che il kamui ha portato al villaggio: facendo a pezzi il corpo, gli ainu lo aiutano a scaricare i doni, come una specie di Babbo Natale sui generis. Grati per i regali ricevuti, gli ainu contraccambiano coprendolo di inau e offerte simili, che sono accumulate sopra e attorno al teschio dell’orso. Con tutta probabilità, lo iyomante era anche un rituale che rinnovava periodicamente la comunione tra gli uomini e l’ambiente da cui dipendevano per la propria sussistenza: crudele, sì, ma non certo l’unica comunione dove un dio muore per offrirci la carne che ci unisce a lui.
Al termine della cerimonia, dopo il congedo ufficiale, il kamui tornerà alla montagna. Cosa succede dopo? Questo ce lo raccontano i kamui yukar che parlano della cerimonia. Il kamui, tornato nel suo mondo, scoprirà che tutti i doni ricevuti dagli ainu gli sono stati recapitati a casa in un qualche modo misterioso, passando dalla finestra. Continuerà a riceverne magicamente anche nei giorni successivi, soprattutto inau e vino. A quel punto, inviterà gli amici e i vicini e a propria volta organizzerà una grande festa, durante la quale condividerà con gli altri kamui i doni di cibo, inau e alcolici ricevuti dagli ainu. Vedendo le ricchezze che il loro compagno ha portato a casa dal mondo degli umani, anche gli altri kamui saranno invogliati a indossare uno hayokpe e scendere nel nostro mondo, sperando di essere trattati altrettanto bene. E così via, in un grande circolo fatto di scambi, che soddisfa umani e kamui.
Se lo iyomante è una cerimonia molto particolare che lega orso e umani, esistono poi riti simili ma praticati su scala ridotta per gli animali abbattuti durante la caccia, che siano orsi o altro: kamui maratto, per esempio, è il nome con cui si indica la cerimonia praticata per gli orsi uccisi a caccia sui monti. Anche in questo caso, il kamui deve essere mandato a casa nel modo opportuno, col dovuto rispetto e con tutti i doni che dimostreranno quanto il cacciatore abbia gradito la cortesia con cui il kamui gli è venuto a portare il suo hayokpe, ossia il corpo di animale che ha indossato per quella occasione. Che si svolga in casa o in un capanno di caccia in mezzo ai monti, lo schema rimane lo stesso: il corpo è fatto a pezzi nel modo corretto, per ricevere i doni che il kamui ha portato, e lo spirito avrà in cambio sia inau, sia offerte di vino e cibo, oltre a preghiere, canti e così via. Rispetto allo iyomante, nei riti di caccia cambia la scala della cerimonia, che è molto meno elaborata, ma non la struttura di base o il suo significato.
Possiamo anche aggiungere che, secondo un oina yukar, lo iyomante sarebbe stato eseguito per la prima volta dall’eroe culturale Ainurakkur, che lo avrebbe appreso direttamente da un kamui. Gli ainu che in seguito hanno compiuto questo rituale stavano ripetendo il gesto esemplare del loro eroe, che come ogni altro gesto esemplare fondativo è avvenuto in illo tempore, come amava ripetere Mircea Eliade. Ma sono dettagli secondari.
I kamui yukar ci spiegano anche che questi rituali, siano essi lo iyomante o le sue versioni minori come il kamui maratto, non sono davvero dolorose per il kamui. Lo spirito perde conoscenza, dopo aver ricevuto un certo colpo dal cacciatore, e si risveglia solo quando è ormai stato separato dal corpo. Assisterà al resto della cerimonia sedendo sulla propria testa, tra le orecchie, e potrà così verificare che gli umani si stiano comportando nel modo giusto, mostrandogli tutto il rispetto che merita18. Se così non fosse, potrà poi lamentarsi con chi di dovere e ci saranno conseguenze spiacevoli per gli umani, ma questa è un’altra storia.
Nella cultura ainu abbiamo così orsi che scendevano nel mondo umano, si facevano smembrare e poi tornavano carichi di doni al mondo divino. Nel Nihonshoki abbiamo Amekumabito che scende dal mondo celeste di Takamagahara19, raccoglie i pezzi di un cadavere e li riporta come doni nel mondo da cui proviene. Le differenze ci sono e sono grandi, non ne discuto, ma c’è anche una curiosa somiglianza tra le due scene, accentuata dal fatto che, in entrambi i casi, il personaggio principale è presentato come un orso. Un orso divino. È almeno possibile che esista un qualche tipo di collegamento tra i due episodi? Amekumabito potrebbe essere ispirato a quanto avviene nel corso dello iyomante, la cerimonia dell’orso?
Nulla ci vieta di ipotizzarlo, ovvio, ma provarlo sarebbe estremamente difficile, anche a voler essere molto ottimisti. L’aspetto curioso della faccenda è proprio la scelta dell’orso come animale per il messaggero di Amaterasu. Possiamo liquidare il tutto appellandoci a un errore di scrittura, come ha fatto Aston nella nota alla sua traduzione, e sostenere che in realtà la parola corretta era kumo, nuvola, e non kuma, orso. Una spiegazione accettabile, certo, nonché plausibile, a modo suo. Ma è anche la risposta migliore?
Gli ainu, un popolo che ha condiviso a lungo una parte del territorio giapponese coi giapponesi veri e propri, considerava l’orso come il kamui superiore, ossia la divinità più grande tra gli animali, per valori molto particolari di divinità, come già dicevamo. Questo orso era al centro di una cerimonia che prevedeva sia lo smembramento di un cadavere, sia un rito per rimandare verso il mondo celeste lo spirito dell’orso, accompagnato da doni anche alimentari. Nel Nihonshoki giapponese ritroviamo un uomo-orso celeste che scende dal cielo come messaggero, si imbatte in un cadavere dalle cui varie parti sono spuntate nuove piante e sono usciti anche alcuni animali; il nostro uomo-orso raccoglie tutto e lo riporta in cielo, consegnandolo come dono alla sua signora, Amaterasu.
Potrebbe essere una pura coincidenza, ovvio. Che a fare da spola tra il mondo celeste e il paese degli umani sia proprio un orso, tra tutti gli animali disponibili, è curioso, ma non così improbabile da non poter essere catalogato come puro caso, almeno dal lato dei giapponesi. Per gli ainu la scelta di un orso non ha alcunché di casuale, perché la sacralità degli animali e degli orsi in particolare è una componente di base della loro cultura. Tra i giapponesi, invece, l’orso non è poi un animale così significativo, sul piano religioso. Non lo è oggi, quantomeno. Se parliamo di agricoltura e doni alimentari, un animale molto più significativo è semmai la volpe, sia come messaggero di Inari, sia come manifestazione di Inari stesso, il dio (o la dea)20 che scende dai monti ogni anno per portare il riso nei campi. La comparsa di questo Amekumabito, che troviamo in un solo mito e per svolgere un lavoro estremamente specifico, pare dunque curiosa.
È possibile che il ricorso all’orso, nella figura di Amekumabito, sia stato suggerito ai giapponesi dai loro vicini e spesso nemici, gli ainu? Lo possiamo ipotizzare, se vogliamo, e l’idea è suggestiva, almeno a mio parere. Anche nel Man’yōshū, raccolta poetica risalente alla metà dell’ottavo secolo, si possono trovare testimonianze dei rapporti esistenti tra ainu e giapponesi all’epoca. Che questa ipotesi corrisponda anche alla verità, però, è tutto un altro paio di maniche. È anche molto difficile da dimostrare, trattandosi di un personaggio dal ruolo così minuscolo nella mitologia giapponese. Meglio mantenerla come ipotesi e non spingerci oltre. Forse Amekumabito deriva dall’immagine dell’orso nella cultura ainu, forse deriva da altro e forse è solo una parola scritta male in cinese, un kuma al posto di kumo. Quale sia la risposta giusta è ormai perso nelle nebbie del tempo, con ogni probabilità.
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NOTE
1 - “The Man who Married the Bear-Goddess”, storia numero dieci in B. Chamberlain, Aino Folk-Tales, 1888, disponibili anche nella mia traduzione “Racconti del popolo ainu”.
2 - Detto anche Tsukuyomi o Tsukiyumi, dove tsuki (che può diventare tsuku per mutamenti fonetici) significa “luna”, yo/yoru significa “notte” e yumi significa “arco”. Tutte e tre le varianti del nome hanno un senso, insomma, e rientrano nel giusto campo semantico per quel genere di divinità, che sia la luna notturna o l’arco della luna.
3 - Amaterasu sembra avere un rapporto particolare con le divinità del cibo, tanto è vero che condivide il suo santuario principale di Ise con Toyoume, una successiva dea del cibo e dell’agricoltura: secondo la tradizione, sarebbe stata Amaterasu stessa ad apparire in sogno a un imperatore per ordinargli di organizzare così le cose. Per approfondimenti sul tema, rimando a Akima Toshio, “The Origin of the Grand Shine of Ise and the Cult of the Sun Goddess Amaterasu Ōmikami”, Japan Review, no. 4 (1993), pp. 141-198.
4 - Cioè gli esseri umani, che sono visibili. I kami, le divinità, sono invece normalmente invisibili agli occhi umani.
5 - Il sostantivo hito è neutro: può essere usato sia per indicare un uomo che una donna. Scegliere l’uno o l’altro è una questione di gusti, quando non è specificato dal contesto. Siccome qui non è specificato ed è irrilevante, scegliete pure il sesso che preferite e buon divertimento.
6 - Il Nihonshoki è una delle due grandi cronache creativamente storiche dell’antico Giappone: come molte altre opere di questo tipo, si apre all’insegna della mitologia, con la cosmogonia e le avventure delle divinità, per poi passare pian piano alla storia umana, senza mai perdere del tutto un certo taglio fantastico, neppure quando racconta eventi realmente accaduti (o presunti tali). Detta anche Nihongi, l’opera risale al 720 ed è scritta in lingua cinese.
7 - Nota 3 a pagina 32 della traduzione inglese Nihongi, a opera di W. G. Aston, pubblicata per la prima volta nel 1896.
8 - Potete trovarlo scritto anche kamuy, a seconda dei gusti e del periodo, ma è sempre la stessa cosa.
9 - Questo motivo, però, non lo troviamo nelle storie degli ainu, di solito, anche se compare piuttosto spesso in quelle di altri popoli cacciatori ed è sopravvissuto nelle fiabe di mezzo mondo, incluse le nostre.
10 - Possiamo identificare quattro tipi di canti tradizionali ainu, schematizzando un poco arbitrariamente. I kamui yukar sono di argomento mitologico, hanno una divinità come narratore e raccontano eventi dei tempi remoti, spesso le origini di varie cose. Gli oina yukar raccontano le imprese di grandi eroi culturali, uno solo in ogni canto, sempre in prima persona, e possono formare cicli dedicati a eroi particolari. Gli ainu yukar sono canti in cui si narrano le imprese di un umano, che può anche essere eroico ma non è uno dei grandi eroi. I wentarap yukar sono canti più o meno scherzosi, che raccontano episodi strani e decisamente anormali, simili alle nostre fiabe; la loro versione in prosa è lo uwepeker/uepeker.
11 - Va precisato che queste due figure non sembrano essere diffuse uniformemente in Hokkaidō, almeno in epoche recenti. Probabilmente lo erano prima della nipponizzazione forzata del popolo ainu, ma è un altro discorso.
12 - Quelli appartenenti alla specie sotto il loro controllo, beninteso: cervi e salmoni nello specifico.
13 - In lingua ainu, kotan indica il luogo in cui si trova un insediamento umano: possiamo tradurlo come villaggio, anche se non corrispondeva esattamente a quello che noi siamo soliti immaginare come villaggio e la sua accezione è un poco più ampia. O almeno lo era, quando gli ainu vivevano ancora seguendo il loro stile tradizionale. In casi molto particolari, kotan può indicare il mondo intero.
14 - Le orche non erano mangiate dagli ainu: nel loro caso, si credeva che il dono offerto agli umani fossero le balene che spingevano a riva. Quando trovavano una balena spiaggiata, gli ainu ringraziavano le orche per il regalo e celebravano appositi rituali per manifestare la propria gratitudine.
15 - Che sono ovviamente altri kamui, ma questi vogliono danneggiare gli umani, invece di collaborare con loro. Sono per esempio gli spiriti delle malattie, morti inquieti, animali poco amichevoli come alcuni tipi di volpi e così via.
16 - Gli inau (scritto anche inaw) sono bastoni di legno intagliati e decorati con cura, differenti tra loro a seconda delle divinità a cui sono destinati e del motivo per cui sono offerti. Per dettagli sull’argomento, rimando a Neil Gordon Munro, Ainu Creed and Cult, in particolare il capitolo III, pp. 28-43, dedicato agli inau. Secondo gli ainu, gli inau costituiscono per i kamui l’equivalente di quello che per noi sono gli oggetti preziosi e i soldi, semplificando molto le cose, ma sono anche l’oggetto a cui si ricorre in quasi tutti i rituali: offrire uno o più inau a una divinità è sempre un buon punto di partenza, che la si voglia ringraziare, pacificare o che si abbia bisogno di un qualche favore.
17 - Kimura Takeshi, “Bearing the ‘Bare Facts’ of Ritual. A Critique of Jonathan Z. Smith’s Study of the Bear Ceremony Based on a Study of the Ainu Iyomante”, Numen, Vol. 46, Fasc. 1 (1999), pp. 88-114.
18 - Oppure tutto il disprezzo che merita, se era un kamui malvagio (ossia un wen kamui), come ci raccontano alcuni yukar.
19 - L’alta piana del cielo, il luogo dove vivevano le divinità maggiori, conducendo una vita grossomodo uguale a quella dei giapponesi. Questo almeno secondo Kojiki e Nihonshoki, i due principali testi dell’ottavo secolo in cui troviamo una esposizione più o meno sistematica della mitologia giapponese, anche se non proprio imparziale e disinteressata, in quanto il loro obiettivo era anche quello di giustificare il predominio del clan Yamato.
20 - Inari può essere maschio o femmina, a seconda delle storie: nulla di strano in ciò, dato che l’androginia è un motivo che ricorre con una certa frequenza tra le divinità connesse alla fertilità. A volte Inari è una volpe, a volte usa le volpi come suoi messaggeri. In ogni caso, è una divinità connessa col riso e l’abbondanza, è il kami responsabile di riempire ogni anno le risaie, ed è a volte accorpato a Uka no Mitama, divinità del cibo figlia di Susanoo.