Adriano - racconti e altro

La lavandaia notturna in Europa occidentale

La lavandaia notturna è una figura piuttosto curiosa, che riemerge nel folklore di diverse parti dell’Europa Occidentale. Può essere un personaggio del tutto soprannaturale, proveniente da un altro mondo, oppure può essere un morto inquieto, spettro o cadavere che si può incontrare di notte in campagna, impegnato a scontare la propria pena e spesso, ma non sempre, desideroso di dividere con altri le proprie sofferenze. Alcune sono esseri fatati, disponibili ad aiutare col bucato le persone che chiedono gentilmente aiuto, ma qui non ce ne occuperemo: la categoria è troppo ampia e si deve porre un limite ben preciso al tipo di lavandaia di cui si vuole parlare. Qui tratterò soltanto di quelle che, in una forma o nell’altra, sono collegate alla morte. Ne avremo più che a sufficienza.

La lavandaia notturna, come morto inquieto o come messaggera della morte, compare tanto nelle isole Ebridi quanto in Sardegna, in Bretagna come sulle Alpi. Potremmo andare molto più lontano, allentando un poco la sua definizione, ma non accadrà in questa sede, dove ci accontenteremo al massimo di brevi incursioni, a titolo di confronto, ma anche per mostrare come in certe zone i confini siano piuttosto labili. Sia come sia, la donna morta che fa il bucato di notte sarà più che sufficiente per tenerci occupati a lungo, come vedremo.

La sua descrizione può cambiare molto, a seconda del luogo, ma sul suo sesso non ci sono mai dubbi. È una donna, sempre e comunque. Fin qui niente di strano, ovvio. Fare il bucato è sempre stato un lavoro riservato alle donne, almeno da quando si lavano i panni, proprio come la tessitura è attività prettamente femminile, almeno in Eurasia: tra gli Hopi del Nordamerica, invece, sono gli uomini a tessere, mentre le donne costruiscono le case in cui vivono, ma questo è un altro discorso e non ci interessa al momento.

Tessitura e filatura, in Europa e dintorni, erano lavori prettamente femminili e lo sono rimasti fino a poco tempo fa. Nel folklore e nella mitologia, queste attività quotidiane hanno dato vita a immagini e personaggi indimenticabili, figure divine che, per analogia con le attività umane, tessevano e filavano la sorte degli uomini e del mondo intero. Abbiamo avuto le Norne, le Parche, le Moire e così via: spesso ma non necessariamente in tre, usavano gli esseri umani come i fili del loro lavoro quotidiano, intrecciandoli, separandoli e tagliandoli in base a regole e leggi note soltanto a loro. A un livello più basso, il folklore europeo è ricolmo di storie di tessitrici e filatrici, impegnate in gare e lavori di ogni tipo, dove spesso le donne umane si contrapponevano a donne soprannaturali, oppure dove “fate” di vario tipo venivano in soccorso alle colleghe umane, aiutandole a superare una qualche prova. Sempre a un prezzo, però, che poteva anche essere molto alto.

Il bucato, pur essendo attività femminile come tessitura e filatura, non ha prodotto storie e personaggi di livello altrettanto elevato. Non proprio, quantomeno. Non esattamente. Nel mondo delle lavandaie, le figure soprannaturali non mancano e alcune sono piuttosto terribili, pur avendo oggi un rango piuttosto basso. Ma lo hanno sempre avuto? Questo è molto più difficile da decidere. Perché le lavandaie che compaiono nel folklore europeo svolgono sicuramente il lavoro da cui prendono il nome, ossia lavare i panni, ma hanno anche ruoli ulteriori più indefinibili, che possono variare sensibilmente da un paese all’altro, anche tra villaggi confinanti. La lavandaia notturna, in particolare, è un personaggio complesso, in limine, con un piede in un mondo e un piede nell’altro. Un personaggio che spesso sconfina ben oltre i limiti della semplice lavandaia, suggerendo quasi di essere al confine tra la vita e la morte. Forse controlla quel confine, in un certo senso.

La lavandaia notturna frequenta quei luoghi in cui le donne sono solite andare a lavare i panni, o almeno i luoghi in cui le donne erano solite andare a lavare i panni, prima dell’avvento delle lavatrici. Se il giorno è il periodo riservato alle lavandaie normali, vive, la notte è un tempo che appartiene soltanto alla lavandaia notturna, come il nome stesso ci suggerisce. Il tempo dei morti, insomma. Perché la lavandaia notturna è una morta, spesso. Anche quando non lo è, il suo legame col regno dei morti è fin troppo evidente per poterlo mettere in dubbio. Se sei vivo e sconfini nel suo monto, le conseguenze potrebbero non essere piacevoli per te.

La lavandaia notturna lava i panni. A volte sono i suoi panni, a volte sono quelli di altre persone. Quando lava i propri panni, di solito è per cancellare una qualche colpa, un peccato, un errore. Quando lava i panni di altri, è per prepararli alla sepoltura. Perché il tipo di panno che lava più spesso è proprio un sudario, o almeno qualcosa di simile a sufficienza da poterne fare le veci. A volte, quel sudario avvolge un morto. Un bambino morto. Questo è probabilmente il tipo più nero tra tutte le versioni della lavandaia notturna: la lavandaia che deve scontare la pena soprannaturale per un infanticidio che ha commesso in vita. Uno o più infanticidi.

A volte la lavandaia notturna è una profetessa e può aiutare il passante che si rivolge a lei, se quel passante possiede le conoscenze giuste e sa come vincerla. A volte quel passante potrebbe anche ricavarne qualcosa di buono: le probabilità non sono alte e spesso finisce per pentirsi di avere avuto la risposta che cercava, ma non si sa mai. Più spesso, scoprirà che rivolgersi alla lavandaia notturna è stata una pessima idea. Ci sono poi lavandaie notturne che prendono di mira i passanti, per sfogare su di loro la pena del peccato che hanno commesso. Ti chiedono di aiutarle, ma il benintenzionato che si ferma e afferra il lenzuolo che la lavandaia gli tende, pregandolo di strizzarlo, rischia spesso di finire strizzato al posto del lenzuolo. A volte è quasi impossibile distinguere la lavandaia notturna da un demone o da un altro personaggio soprannaturale, come una strega o un esponente del popolo fatato. A volte. Perché sulla lavandaia notturna ci sono molti più dubbi che certezze.

Per capirci qualcosa, cominciamo a guardare in dettaglio alcune di queste lavandaie notturne, per farci una idea più precisa di come e cosa siano. Molto materiale è stato raccolto sul loro conto in diverse parti di Europa, nel corso dell’Ottocento e dintorni, quando questa credenza era ancora viva a sufficienza da colorare l’immaginario popolate. Lo recupereremo qui, almeno in parte, e il nostro viaggio comincerà dalla Scozia e dalle vicine isole Ebridi, dove questi personaggi hanno anche un nome molto specifico. Partiamo dunque dalla Bean Nighe scozzese.

Per presentare la Bean Nighe, credo che il modo migliore sia cedere la parola a John Gregorson Campbell, che fu sacerdote a Tiree e pubblicò alcuni libri sulle tradizioni delle Ebridi e delle Highlands scozzesi, raccogliendo direttamente le testimonianze della gente del posto. Siamo tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. Ecco cosa scrive Campbell nel suo libro Superstitions of the Highlands & Islands of Scotland, pubblicato nel 1900 a Glasgow. La traduzione è mia, ovviamente, come per tutti gli altri testi non italiani che vedremo in seguito. Il corsivo, invece, è quello usato nel libro originale.

La Bean Nighe, o lavandaia.

A volte la donna fatata (Bean shìth) si può vedere in luoghi solitari, accanto a uno specchio d’acqua o a un torrente, che lava la biancheria di chi è prossimo alla morte, e la piega e la batte con le mani su una pietra in mezzo all’acqua. Questa figura è conosciuta come la Bean-nighe, o lavandaia, e vederla è un segno sicuro che la morte è vicina.

A Mull e Tiree si dice che abbia seni innaturalmente lunghi, che la intralciano quando si china per lavare. Per questo se li butta dietro le spalle e le penzolano lungo la schiena. Chiunque la veda non deve allontanarsi, ma procedere di soppiatto dietro di lei e cercare di avvicinarla senza che lei se ne accorga. Quando si è vicini a sufficienza, bisogna afferrare uno dei suoi seni e, portandolo alla bocca, chiamarla a testimone che lei è la vostra nutrice o la vostra madrina (muime cìche). Lei vi risponderà che ne avete davvero bisogno, visto quanto avete fatto, e vi trasmetterà qualunque informazione desideriate ricevere da lei. Se vi dice che la camicia che sta lavando appartiene a un nemico, lascerete che continui a lavare, e la morte di quella persona arriverà; se invece appartiene a voi o un vostro amico, potete interrompere il suo lavoro.

A Skye si dice che la Bean-nighe abbia una corporatura tozza (tiughiosal), oppure non diversa da un “bambino piccolo e patetico” (paisde beag brònach). Se una persona la cattura, lei gli dirà tutto ciò che lo attenderà nell’aldilà. Risponderà a ogni domanda, ma poi quella persona dovrà rispondere alle sue domande. Agli uomini non piace raccontare quello che hanno appreso da lei. Le donne che muoiono di parto erano considerate come morte prematuramente e si credeva che, se tutti i vestiti che si erano lasciate indietro non erano stati lavati, li avrebbero dovuti lavare loro stesse fino a quando avrebbe dovuto avere luogo la loro morte naturale. Queste lavandaie erano donne che “espiavano il proprio fato”. Se la persona che le sentiva lavorare battendo il bucato (slacartaich) le vedeva per prima, non poteva poi essere sentita dalla lavandaie; se invece erano loro a vederla per prima, quella persona avrebbe perso ogni forza nei propri arti (lùgh).

Nelle Highlands di Perthshire la lavandaia è descritta come piccola e tondeggiante, vestita in un bel verde. Alla luce della luna, stende le lenzuola e la biancheria di chi morirà a breve e la si può catturare mettendosi tra lei e il corso d’acqua.

Può anche essere catturata e sottomessa e costretta a trasmettere le sue informazioni minacciandola con la spada. Oscar, figlio del poeta Ossian, la incontrò lungo la strada per andare alla festa di Cairbre, dove si accese la lite che avrebbe poi condotto alla sua morte. Fu incontrata anche da Hugh dalla Testa Piccola la sera prima della sua ultima battaglia, e gli lasciò come dono d’addio (fàgail) la profezia che sarebbe diventato l’apparizione spaventosa che divenne dopo la morte, la più famosa nelle Highlands occidentali.”1

La storia di Hugh dalla Testa Piccola ci è riferita in un altro libro di John Campbell: qui mi limiterò a riportare soltanto l’episodio che ci interessa, ossia il suo incontro con la lavandaia.

“La mattina della battaglia, molto presto, ma altri dicono la sera precedente, Hugh era fuori a passeggiare, quando sul torrente che segnava il confine (allt crìche) vide una donna elfica sciacquare i panni e cantare “Song of the M’Leans.” I suoi seni lunghi, che sono tipici della sua gente (secondo le credenze di Mull riguardo a queste donne), penzolavano giù e la intralciavano nel lavaggio, per cui di tanto in tanto se li gettava dietro le spalle perché stessero fuori dai piedi. Hugh si avvicinò silenziosamente dietro di lei, afferrò uno dei suoi seni, come si raccomanda di fare in questi casi, portò il capezzolo alla bocca e disse: «Tu ed io siamo testimoni che tu sei la mia prima madre nutrice». La donna gli rispose: «La mano di tuo padre e di tuo nonno sia su di te!2 Tu hai bisogno che sia così». Le chiese cosa stesse facendo e la donna rispose: «Sto lavando le camicie dei tuoi uomini feriti a morte (Nigheadh leintean nam fir ghointe agad-sa)» o, come dicono altri, «Gli abiti di quelli che domani monteranno a cavallo e non torneranno indietro (aodach nam fear theid air na h-eich a màireach ’s nach till)». Hugh le chiese: «Vincerò la battaglia?» Gli rispose che, se lui e i suoi uomini avessero ricevuto a colazione “burro senza chiederlo” (Im gun iarraidh), allora avrebbe vinto; in caso contrario, avrebbe perso. Le chiese allora se sarebbe tornato vivo dalla battaglia (an d’thig mise as beò?), e ricevette o una risposta ambigua, oppure nessuna risposta; quando se ne stava andando, la donna gli lasciò come regalo d’addio (fāgail) la conoscenza che in futuro lui avrebbe annunciato la morte imminente a tutti quelli della sua razza.”3

Questa è la parte che ci interessa. Per la cronaca, Hugh non riceverà il burro a colazione, morirà nella battaglia e in seguito ritornerà come cavaliere senza testa, che infesterà le Highlands occidentali per annunciare la morte dei membri del suo clan. Ma è un’altra storia e non ci riguarda.

Ecco dunque come si presenta la Bean Nighe, la lavandaia notturna che appartiene al folklore scozzese. È una donna del popolo fatato, che di notte lava i panni di chi morirà a breve: più o meno una versione proletaria della celebre Banshee, che urlava per annunciare la morte dei membri di un clan specifico. La sua descrizione cambia a seconda della zona: se nelle isole Ebridi è caratterizzata soprattutto da un seno innaturalmente lungo, che deve gettarsi dietro le spalle per non esserne intralciata, nelle Highlands è vestita di verde, in linea con gli altri esponenti del popolo fatato secondo il folklore delle isole britanniche. Non che il suo aspetto fisico sia davvero importante, al momento, ma il dettaglio dei seni lunghi e cadenti, da gettarsi dietro le spalle, è piuttosto curioso, perché l’accomuna a una serie di altri personaggi soprannaturali che compaiono in diversi anfratti di Europa, come le Aganis friulane o le Martes nella Francia centrale. Non sono però necessariamente lavandaie, per cui non ce ne occuperemo qui.

La Bean Nighe agisce in luoghi desolati a orari desolati. Appartata dalla società umana, è impegnata a svolgere una sola attività, da cui prende i nome: fare il bucato. Negli specchi d’acqua abbandonati dalle altre donne, che potremmo definire come lavandaie diurne, la lavandaia notturna lava i panni di chi dovrà morire. Non che il suo legame con la morte si esaurisca qui. Nel primo brano di Campbell, infatti, possiamo leggere anche che la Bean Nighe è una donna morta anzitempo, spesso di parto, che dopo la morte ha assunto quell’aspetto per portare a termine quanto le era rimasto di incompiuto, e dovrà continuare per tutti gli anni che non ha potuto vivere.

Notevole questo aspetto di incompiutezza, che la colloca ai margini, proprio come ai margini la colloca la sua attività. Lavora ai margini del giorno: prima dell’alba e dopo il tramonto. Lavora in luoghi deserti, ma non lontani dalle strade dove i viandanti la possono sentire e vedere. I panni che lava appartengono a persone che sono tra la vita e la morte, ancora vive ma con un piede già nella fossa. Secondo altre versioni, lava i propri panni, quelli che sono rimasti indietro al momento della sua morte, e li dovrà lavare per tutto il tempo che le è avanzato, il tempo “non speso” quando una morte anticipata l’ha sorpresa. Sorpresa in un altro momento-limite, ossia il parto, l’inizio di una nuova vita. Questa caratteristica di “donna dei limiti” la troveremo anche in altri paesi e sembra essere un tratto ricorrente delle lavandaie notturne, almeno quando immaginate come parzialmente umane. Non sempre lo sono, come vediamo già nelle testimonianze raccolte da Campbell, dove in più zone sono considerate come esponenti del “popolo fatato”. Ammesso che il popolo fatato non coincida coi morti, beninteso, ma questo è un altro discorso.

Tra i vari metodi con cui è possibile sottomettere temporaneamente una Bean Nighe, sempre secondo le tradizioni raccolte da Campbell, di particolare interesse è il primo, che sfrutta le peculiarità fisiche attribuite alle lavandaie: afferrare uno dei seni che si devono lanciare dietro le spalle e portarlo alla bocca, dichiarandosi suoi figli adottivi. Se il particolare del seno lanciato dietro la schiena appartiene solo alla Bean Nighe, almeno nelle Ebridi, il gesto che deve compiere chi vuole sopraffarla sembra appartenere alla cultura celtica in generale e lo ritroviamo anche in storie di altro tipo, utilizzato su donne umane. Ancora più curioso, lo troviamo in forma pressoché identica anche nel Caucaso settentrionale, che non è proprio dietro l’angolo rispetto alle isole britanniche.

Non è però così strano come potrebbe apparire a prima vista, in realtà. Sia i celti (almeno in Irlanda, per quanto ci testimoniano i cicli epici sopravvissuti), sia molte popolazioni caucasiche avevano in comune l’abitudine di far allevare i propri figli in una famiglia diversa da quella natale, di solito sua alleata. In questo modo, ogni ragazzo cresceva con una famiglia di nascita e una adottiva, alle quali doveva rispetto e obbedienza più o meno alla pari, almeno in termini generali. A propria volta, entrambe le famiglie riconoscevano il ragazzo come membro a tutti gli effetti, con le conseguenze del caso.4

Sfruttando questo principio, in Caucaso era anche possibile una forma di “adozione lampo”, simile a quella utilizzata con la Bean Nighe delle isole Ebridi: portando alle proprie labbra il seno di una qualunque donna appartenente a un clan, ci si poteva dichiarare suoi figli adottivi, a prescindere dall’età della donna. È un “trucco” che vediamo applicato in diverse storie dei Narti5, spesso per estorcere informazioni, come accade nelle isole britanniche con la lavandaia notturna, e in Caucaso questa regola valeva anche nella vita reale, non solo nelle storie. O così sembra, quantomeno.

Un altro dettaglio interessante nel materiale raccolto da Campbell è il fatto che la Bean Nighe aveva il potere di farti perdere tutte le forze, se era lei a vederti per prima. Se da un lato questo fenomeno può ricordare una superstizione romana riportata da Elio Donato nel suo commento al verso 537 dell’Adelphoe di Terenzio, secondo cui un lupo che ti vede per primo ha il potere di farti perdere la voce6, da un altro lato ci ricorda quanto riferito a proposito della Rusalka russa: possiamo leggere infatti che “dopo aver lavato le lenzuola che hanno tessuto, le stendono ad asciugare lungo le rive. Se un uomo calpesta queste lenzuola, diventerà debole e zoppo.”7 Anche la Rusalka era considerata lo spirito di un morto inquieto: bambine morte senza essere state battezzate, oppure annegate o soffocate, ma anche ragazze morte in modo innaturale o maledette dai genitori. Non erano però lavandaie notturne nello specifico, anche se erano spiriti collegati all’acqua e a volte facevano pure il bucato e lo stendevano ad asciugare, come abbiamo appena letto.

Se nei dintorni della Scozia abbiamo trovato le prime testimonianze della lavandaia notturna, è in Francia che troveremo il grosso del materiale: a cominciare dalla Bretagna, altra regione celtica. Mentre la Bean Nighe era un personaggio tutto sommato minore nel folklore scozzese, la lavandaia notturna bretone è tutta un’altra storia: ci troviamo qui davanti a una protagonista di spicco delle tradizioni e dell’immaginario locale, le cui imprese ci sono state conservate più o meno da tutti i folkloristi che si sono occupati della regione, in un modo o nell’altro. Il materiale non ci manca, insomma, ma ne esamineremo soltanto una piccola parte, per questioni di spazio.

Jacques Cambry, nel suo Voyage dans le Finistère, ou État de ce département en 1794 et 1795, ci fornisce una prima testimonianza sulla presenza delle lavandaie notturne nella zona di Morlaix. Elencando figure soprannaturali e altre superstizioni della gente del posto, Cambry parlava di “Les laveuses ar cannerez nos, (les chanteuses des nuits) qui vous invitent à tordre leurs linges, qui vous cassent le bras si vous les aidez de mauvaise grâce, qui vous noyent si vous les refusez, vous portent à la charité etc. etc.”8. Nella sua opera, Cambry non scende oltre nei dettagli su queste figure del folklore locale, forse perché troppo impegnato a fornirci una presentazione generale di tutte le strane figure che si possono incontrare nelle storie dei bretoni, ma possiamo già trovare alcune caratteristiche su cui si dilungheranno colleghi con più spazio a disposizione. Evidenziamo solo che sono chiamate “cantatrici notturne”, perché a volte potevano cantare nenie funebri durante il lavoro.

Ecco ad esempio cosa scriveva R. Le Men in un suo articolo pubblicato sulla rivista Revue celtique nel 1872. All’interno di una lunga discussione sul folklore bretone in generale, c’è spazio anche per una pagina dedicata alle nostre lavandaie notturne, che sono descritte in questi termini. Le note nella seguente citazione sono tutte a carico dell’autore originario, non le ho aggiunte io.

“Le lavandaie di notte (Couerezou, o Cowezerezou-Noz9)

Sono delle lavandaie che, durante la loro vita, hanno, per trascuratezza o per taccagneria, rovinato la biancheria o i vestiti della povera gente che possedeva a malapena qualcosa da indossare, sfregando questi indumenti con le pietre, per risparmiare sul sapone. In punizione per questa colpa, Dio le ha rispedite sulla terra dopo la loro morte, dove ha loro imposto come penitenza10 di lavare costantemente della biancheria nelle ore dispari della notte, nei fiumi e nei lavatoi dove avevano lavorato abitualmente durante la loro vita, e di trasportarvi nella loro cesta delle pietre, raccolte nei luoghi dove le raccoglievano un tempo. Per vendicarsi di questi lavori forzati, di sera chiamano i passanti, oppure vi vanno incontro loro stesse, e porgono loro l’estremità di un drappo bagnato, di cui tengono l’altra estremità, ordinando di aiutarle a strizzare quel lenzuolo. Se i passanti sono così stolti da afferrare davvero il lenzuolo per strizzarlo, le lavandaie finiranno per rompere loro le braccia11. Per sfuggire a questo supplizio, basta torcere il lenzuolo nello stesso senso in cui lo fa la lavandaia. Facendo così, dopo un certo tempo si stancherà e, vedendo che il lavoro non procede, lascerà andare la sua vittima. Questa leggenda è molto diffusa in Bretagna, dove il timore delle lavandaie notturne è molto vivo. Per questo di sera si evitano con cura i dintorni dei luoghi dove si fa abitualmente il bucato. È più che sufficiente sentire da lontano il rumore spaventoso dei loro bastoni.”12

L’idea che il purgatorio si trovi su questa terra era davvero diffuso tra i bretoni, in apparenza, come si può leggere anche nel libro La légende de la mort di Anatole Le Braz, per cui non mi dilungherò qui nel parlarne. Invito però a osservare la causa attribuita qui all’origine delle lavandaie notturne: aver danneggiato il bucato altrui. Vedremo a breve che autori diversi hanno raccolto testimonianze molto diverse, rivolgendo alle lavandaie notturne accuse parecchio più gravi, nonché più vicine a quelle viste per la Bean Nighe scozzese: si tornerà infatti a parlare di donne morte di parto, oppure di infanticidi. Ma procediamo intanto con un paio di storie complete, giusto per vedere le lavandaie in azione. Gli esempi non ci mancano.

Paul Sébillot, in una sua raccolta di folklore dell’Alta Bretagna, ci presenta la seguente storia, che è un primo cambiamento rispetto alle fredde osservazioni dall’esterno, fornite da Cambry e Le Men.

La lavandaia di Noes Gourdais

C’era una volta una lavandaia notturna che lavava nel lavatoio di Noes Gourdais, accanto a Dinan. Molte persone sostengono di averla vista e fra di loro una donna di giornata, morta da qualche anno, che raccontava più o meno in questi termini il suo incontro con questa lavandaia dell’altro mondo:

«Un mattino mi ero alzata prima dell’alba per andare a lavare la mia biancheria, e arrivai con la mia roba poco sopra il prato di Noes Gourdais. Su una pietra del lavatoio una donna stava lavando.

“Beh,” mi dissi, “ecco qualcuna ancora più mattiniera di me”.

Continuai a scendere il pendio verso il prato, per andare a sistemarmi al mio posto. Quando ormai non ero più molto lontana da lei, la lavandaia si girò e tese verso di me il braccio con cui teneva il bastone, come per farmi segno di non avanzare ulteriormente, e vi assicuro che non ebbi la minima voglia di avvicinarmi, perché vidi, tanto vero come vedo voi, che la lavandaia aveva una testa di morto.»”

A questa storia segue un commento di Sébillot:

“La credenza nelle lavandaie notturne è estesa in tutta la Bretagna (cfr. Souvestre, Les Lavandières de nuit, e Dulaurens de la Barre, Le Diable boiteux), ma in genere non si tratta, come nel breve racconto qui sopra, di una lavandaia scheletro. Conosco in paesi bretoni molti lavatoi che sono ritenuti frequentati dalle lavandaie notturne: sono condannate a tornare a lavare un panno – in genere si tratta del sudario – in espiazione di un peccato commesso in vita. Alcune hanno lavato di domenica; altre sono madri che hanno ucciso i propri figli. Cercano tutte, ma invano, di cancellare le tracce del proprio crimine lavando la biancheria. La stessa credenza esiste nella Bassa Bretagna e, seguendo F. Luzel, si dice che la biancheria che offrono ai passanti perché le aiutino a strizzarla contenga un neonato che piange e il cui sangue ne cola.”13

Nel suo commento in coda al racconto che ha presentato, Sébillot cita un’altra storia raccolta da Souvestre. È piuttosto lunga, ma credo che valga la pena di riportarla di seguito, incluse le note che comparivano nella versione originale. Stando a quanto ci riferisce Souvestre, a recitare questa storia sarebbe stato un certo Guissinien: ulteriori informazioni si possono trovare nelle pagine che fungono da introduzione al racconto nella raccolta Le foyer breton, dove è stato pubblicato nel 1845, anno della prima edizione, a cui hanno fatto seguito varie correzioni ed espansioni. Qui ho utilizzato la versione del 1876, che è più o meno la “finale”, pubblicata postuma. È anche la più vicina cronologicamente al precedente testo di Sébillot, in cui vi si accennava. Il corsivo usato nel brano seguente è da addebitare a Souvestre: io l’ho solo conservato.

Le lavandaie notturne14

I bretoni sono figli del peccato, come gli altri, ma amano i propri morti; hanno pietà di quanti bruciano nel purgatorio e cercano di riscattarli dal fuoco di purificazione. Ogni domenica, dopo la messa, pregano per le loro anime sulla terra dove imputridiscono i loro poveri corpi.

È nel mese nero15, soprattutto, che compiono atti da cristiani. Quando la messaggera dell’inverno16 arriva, ognuno pensa a quelli che sono andati verso la giustizia di Dio. Si fanno recitare orazioni all’altare dei morti, si accendono ceri per loro, li si vota ai santi migliori, si va coi bambini piccoli presso le loro lapidi e, dopo il vespro, il parroco esce dalla chiesa per benedire le loro fosse.

È anche in quella notte che il Cristo concede loro qualche sollievo, permettendo loro di tornare a visitare i focolari dove avevano vissuto. I morti sono allora così numerosi nelle case dei vivi come le foglie gialle nei camini vuoti. Ecco perché i veri cristiani lasciano apparecchiata la tavola e il fuoco acceso, perché i morti possano pranzare e riscaldare le proprie membra indolenzite dal freddo dei cimiteri.

Ma se ci sono dei veri adoratori della Vergine e di suo Figlio, ci sono anche dei figli dell’angelo nero17, che dimenticano quelli che erano stati i più vicini al loro cuore. Wilherm Postik era uno di loro. Suo padre aveva lasciato la vita senza avere ricevuto l’assoluzione e, come dice il proverbio, Kadiou è sempre il figlio di suo padre18. Non si era mai occupato d’altro che di piaceri proibiti, danzando durante le orazioni, quando poteva, e brindando durante la messa assieme ai pezzenti19 compratori di cavalli. Dio non aveva certo mancato di mandargli avvertimenti. Aveva visto colpite dall’aria malvagia20, nello stesso anno, la madre, le sorelle e la moglie, ma si era consolato della morte delle prime intascandone l’eredità e, quanto a Katel, aveva detto come tutti i vedovi dissoluti: «Se non ho più una moglie mia, quelle degli altri sono mio diritto21». E aveva agito di conseguenza.

Il vicario parrocchiale aveva avuto un bel dirgli nella predica che era una pietra di scandalo per tutta la parrocchia. Invece di correggere Wilherm, questo avvertimento pubblico non aveva avuto altro risultato che di fargli abbandonare la chiesa, come era facile da prevedere, perché non è facendo schioccare la frusta che si fa tornare indietro un cavallo fuggito22; cominciò a vivere ancora più a proprio agio di prima e con tanta fede o legge quanta ne può avere una volpe di bosco.

Ora, eravamo in quel tempo in cui la bella stagione termina e arriva la festa dei morti. Tutta la gente battezzata indossava i propri vestiti a lutto e si recava in chiesa a pregare per i trapassati, ma Wilherm, lui, indossò gli abiti da festa e prese la strada per il borgo vicino, dove si radunavano i marinai senza religione e le donne senza onore.

Tutto il tempo che gli altri impiegavano per dare sollievo alle anime in pena, lui lo trascorse in quell’ambiente a bere vino di fuoco, a giocare coi marinai e cantare con le donne rime composte dai mugnai23. Continuò così fin quasi a mezzanotte e non pensò a tornare a casa che quando gli altri erano ormai stanchi del peccato. Lui, però, aveva un corpo di ferro per i piaceri e fu l’ultimo a lasciare il locale, così fermo e arzillo come al momento in cui vi era entrato.

Solo, aveva il cuore infiammato dal bere. Cantava ad alta voce, per le strade, canzoni che persone più ardite cantavano di solito a bassa voce; passava davanti alle croci senza abbassare la voce e senza levarsi il cappello, e colpiva a destra e a manca col suo bastone i ciuffi di ginestra, senza aver paura di colpire le anime che in quel giorno riempivano le strade.

Arrivò così a un bivio dove si presentavano due vie che portavano al suo villaggio. La più lunga era sotto la protezione di Dio, mentre la più breve era frequentata dai morti. Molta gente, percorrendola di notte, aveva sentito rumori e visto cose di cui non si parlava che quando si era in molti e con l’acquasantiera a portata di mano; Wilherm però non temeva che la sete e le donne brutte, per cui imboccò la via più breve, facendo risuonare le scarpe sui ciottoli della strada.

Era quella una notte senza luna; le foglie correvano trasportate dal vento, le fonti gocciolavano tristi lungo i poggi, i cespugli fremevano come un uomo che ha paura e, nel mezzo di questo silenzio, i passi di Wilherm riecheggiavano nella notte come passi di gigante. Niente però lo spaventava e continuava a camminare.

Passando accanto al vecchio maniero in rovina, sentì la banderuola che gli diceva: «Torna indietro, torna indietro, torna indietro!»

Wilherm continuò il suo cammino. Arrivò davanti alla cascata e l’acqua gli mormorò: «Non passare, non passare, non passare!»

Posò il piede sulle pietre levigate dal fiume e lo attraversò. Quando raggiunse una quercia tarlata, il vento che soffiava tra i rami ripeteva: «Resta qui, resta qui, resta qui!»

Ma Wilherm colpì l’albero morto col suo bastone, sfilandogli accanto, e allungò il passo.

Entrò infine nella valle infestata. In tre parrocchie suonò la mezzanotte. Wilherm cominciò a fischiettare il motivo di Marionnik24. Nel momento in cui fischiettava il quarto verso, però, sentì il rumore di una carretta non ferrata25 e la vide venire verso di lui coperta da un drappo funebre.

Wilherm riconobbe la carretta della morte. Era trainata da sei cavalli neri e condotta dall’Ankou26, che impugnava una frusta di ferro e ripeteva senza sosta: «Vattene o ti porterò con me!»

Wilherm gli cedette il passo, ma senza lasciarsi scuotere.

«Che fai dunque da queste parti, signor Di Ker-Gwen27?» gli chiese sfacciatamente.

«Prendo e sorprendo,» rispose l’Ankou.

«Sei dunque un ladro e un traditore?» continuò Wilherm.

«Sono colui che colpisce senza riguardi e senza rispetto.»

«In altri termini uno stolto e un bruto. Allora non mi stupisce più, tesoro mio, che tu sia dei quattro vescovadi, perché ti si può applicare benissimo il proverbio28. Ma dove te ne vai oggi, per essere tanto di fretta?»

«Vado a cercare Wilherm Postik,» rispose il fantasma passando oltre.

Il libertino scoppiò a ridere e continuò il cammino.

Quando giunse davanti alla piccola siepe di prugnolo che conduceva al lavatoio, notò due donne bianche che stendevano della biancheria sui cespugli.

«Per la mia vita, ecco due giovani donne che non temono la rugiada!» disse. «Perché siete nei prati a un’ora così tarda, mie colombelle?»

«Noi laviamo, asciughiamo, cuciamo!» risposero in coro le due donne.

«Che cosa, dunque?» chiese l’uomo.

«Il sudario del morto che ancora parla e cammina.»

«Un morto! Per Dio! Ditemi il suo nome.»

«Wilherm Postik.»

Il giovane uomo rise ancora più forte della prima volta e scese lungo il piccolo sentiero accidentato.

A mano a mano che avanzava, però, sentiva sempre più distinti i colpi di bastone delle lavandaie notturne sulle pietre del douéz29. Presto vide le donne stesse, che battevano i loro drappi funebri e cantavano il triste ritornello: “Se un cristiano non ci verrà a salvare,/ fino al giorno del giudizio dovremo lavare,/ al chiaro di luna, nel suon del vento,/ bisogna lavare il sudario bianco30”.

Come si accorsero dell’allegro compagno, tutte corsero con grandi grida, offrendogli i loro sudari e gridandogli di strizzarle per farne uscire l’acqua.

«Un piccolo servizio non si rifiuta mai tra amici,» rispose Wilherm allegramente, «ma una alla volta, belle lavandaie: un uomo non ha che due mani per strizzare come per abbracciare.»

Posò allora il suo bastone e prese l’estremità del drappo mortuario che gli offriva una delle morte, avendo cura di strizzarlo nella stessa direzione di lei, perché aveva imparato dalle vecchie che era il solo modo per non essere spezzati.

Ma mentre strizzava così il sudario, ecco che altre lavandaie circondavano Wilherm, che riconobbe sua zia e sua moglie, sua madre e le sue sorelle. Tutte gridavano: «Mille disgrazie a chi lascia bruciare i suoi nell’inferno! Mille disgrazie!» E si tiravano i capelli scarmigliati, levando le loro mestole bianche, e in tutti i lavatoi della valle, lungo tutte le siepi, sopra tutte le lande, voci ripetevano: «Mille disgrazie! Mille disgrazie!».

Wilherm, fuori di sé, si sentiva i capelli drizzarsi sulla testa; disturbato com’era, si dimenticò la precauzione presa fino ad allora e cominciò a strizzare nella direzione opposta. Nello stesso istante, il sudario gli strinse le mani come una morsa e cadde stritolato dalle braccia di ferro della lavandaia.

Passando di primo mattino accanto al lavatoio, una ragazza di Henvik, chiamata Fantik ar Fur, si fermò per mettere un ramo di agrifoglio nella sua brocca di latte appena munto31 e notò Wilherm disteso sulle pietre blu. Credette che ad abbatterlo così fosse stato il vino di fuoco e gli si avvicinò con un pezzo di giunco per svegliarlo; vedendo però che rimaneva immobile, la ragazza si spaventò e corse al villaggio ad avvertire gli altri. Si venne col parroco, il campanaro e il notaio, che era sindaco della comunità; il corpo fu recuperato e sistemato su una carretta tirata da buoi; i ceri benedetti che erano stati accesi, però, si spensero subito, cosa che fece loro comprendere come Wilherm Postik si fosse meritato la dannazione. Anche il suo corpo fu deposto all’esterno del cimitero, sotto la scalinata di pietra, là dove si fermano i cani e i miscredenti.”32

Qui vediamo il motivo delle lavandaie notturne declinato in una forma leggermente diversa, ma ancora perfettamente riconoscibile, nonostante una narrazione fin troppo curata e fiorita: Guissinien era un professionista in questo campo, a quanto ci dice Souvestre, e lo si nota subito. Fra la sua comparsa anche una nostra vecchia conoscenza, altro personaggio caratteristico del folklore bretone: l’Ankou, la personificazione della morte, giusto nel caso avessimo bisogno di ricordare il ruolo delle lavandaie notturne, ma sopratutto il mondo a cui appartengono.

In questa storia ci appaiono più che altro nei panni di vendicatrici, come morti inquieti che vengono a prendere quei vivi che si sono guadagnati la dannazione. Non sappiamo di preciso quanto di tutto ciò sia dovuto al narratore e quanto compaia regolarmente nel folklore bretone: forse non sempre vengono a cercare le proprie vittime, ma è chiaro anche da altri racconti che incontrarle non è buono per la salute. Se è possibile che a volte vadano in cerca di persone che meritano di essere punite, è certo che interagire con loro porta solo disgrazie, in Bretagna, come già ci avvertivano sia Camby che Le Men. Non troviamo suggerimenti su come affrontare il pericolo costituito dalle lavandaie, a differenza di quanto ci è stato tramandato per la Bean Nighe scozzese: siamo stati avvertiti che è bene strizzare il bucato nella stessa direzione in cui lo strizzano loro, se non vogliamo finire maciullati, ma non possediamo informazioni su come trarre profitto dalle lavandaie, ammesso che nel folklore bretone ci fosse un modo per farlo.

Tutto questo ci è confermato, in linea di massima, anche da altri racconti bretoni sul tema. Tre storie di lavandaie raccolte da François-Marie Luzel sono state pubblicate di recente in traduzione inglese all’interno di un libro che prende il titolo proprio da loro: The Midnight Washerwoman and Other Tales of Lower Brittany, Princeton, 2024. Non mi pare dunque necessario tradurle a mia volta, perché non c’è bisogno di spulciare libri dell’Ottocento per trovarle, ma mi accontenterò di evidenziare le particolarità che, a mio parere, sono più rilevanti per il nostro caso.

La prima storia ci racconta di una lavandaia notturna che non solo non vuole essere aiutata, ma diventa aggressiva e insegue i tre passanti occasionali che le avevano chiesto se volesse una mano col suo lavoro: riescono a sfuggirle a fatica e sono da lei rimproverati per essere rimasti fuori fino a tardi. Il secondo episodio è molto breve e ricorda le classiche storie di fantasmi che si raccontano attorno a un falò, almeno nei romanzi che amano inserire scene di questo genere. Una ragazza si sente chiamare di sera, mentre cammina per strada, ma non vede nessuno. Si avvicina al luogo da cui è venuta la voce, sente anche il rumore di qualcuno che batte i panni su una pietra del lavatoio, si spaventa e fugge: in seguito si ammalerà e rischierà di morire33.

La terza storia è più curiosa e presenta elementi in comune coi racconti del popolo fatato che troviamo nelle isole britanniche, in particolare con le storie di folletti e variazioni sul tema che cercano di entrare nella casa della vittima, chiedendo a vari oggetti di aprire la porta per loro. La lavandaia notturna ci si presenta qui come esperta di arti domestiche in generale: brava a filare, oltre che a fare il bucato e tingere le stoffe, entra così in una strana amicizia competitiva con la padrona di casa, che ha passioni simili alle sue. Sarà poi il marito della donna a riconoscere la lavandaia per quello che è, descrivendola come una creatura inviata dal Diavolo. Finisce con la donna che si libera della lavandaia e impara che è male lavorare fino a tardi.

Molto simile a questo è un altro racconto sul tema della lavandaia notturna, riportato all’interno del già citato La légende de la mort di Le Braz. Lo traduco di seguito, sempre con la solita avvertenza sulle note incluse nel testo, che non sono a carico mio ma a carico di Le Braz e di Georges Dottin. Mia è la traduzione in italiano, anche stavolta.

CIV – Quella che lava di notte.

Fanta Lezoualc’h, di Saint-Trémeur, per guadagnare qualche soldo, lavorava alla giornata nelle fattorie dei dintorni. Per questo non si poteva occupare dei proprio lavori domestici se non di sera. Una sera, dunque, si disse così mentre rientrava: «Oggi è sabato, domani domenica. Bisogna che mi sbrighi a lavare la camicia di mio marito e quelle dei miei due figli. Faranno in tempo ad asciugarsi, da qui all’ora della messa grande, perché la notte promette di essere bella.»

C’era in effetti un magnifico chiaro di luna. Fanta prese dunque il fagotto della biancheria e se ne andò al fiume a lavarlo. Ed eccola là che insapona, strofina, batte, con tutta la forza delle braccia. Il rumore della sua mestola riecheggia lontano, nel silenzio della notte, moltiplicato da ogni eco: plic, plac, ploc!

Era tutta dedita al suo lavoro. Qualunque fosse l’attività, vi si dedicava a piena forza, con entrambe le mani. Fu senza dubbio per questo che non sentì arrivare un’altra lavandaia.

Era una donna esile, svelta come una cerva, e che portava sulla testa un enorme cesto di biancheria con tanta leggerezza come se ci fosse dentro un fagotto di piuma. «Fanta Lezoualc’h,» disse, «tu hai il giorno a tua disposizione; non dovresti prendere il mio posto di notte.»

Fanta, che si credeva sola, sussultò per lo spavento e non seppe sulle prime cosa rispondere. Finì poi per balbettare: «Non tengo a questo posto più che un altro. Te lo cedo, se questo può farti piacere.»

«No,» rispose la nuova venuta. «È per scherzo che ho parlato in questo modo. non ti voglio alcun male, tutto al contrario. La prova è che io sono disposta ad aiutarti subito, se me lo consenti.»

Fanta Lezoualc’h, rassicurata da queste parole, rispose alla Maouès-noz, alla “donna della notte”: «Santo cielo, non è certo da rifiutare. Solo, non vorrei abusare di voi, perché il vostro bagaglio mi sembra più grosso del mio.»

«Oh, io! Non ho alcuna fretta.» E la donna della notte gettò da parte il suo fascio di biancheria e tutte e due cominciarono a strofinare, insaponare e battere di buona lena. Mentre lavoravano, chiacchieravano.

«Avete una vita dura, Fanta Lezoualc’h?»

«Lo potete ben dire! Soprattutto in questo periodo. Dopo l’Angelus del mattino e fino al calare della notte sono nei campi. E dovrò continuare così fino alla fine di agosto. Vedete, sono quasi le dieci di sera e non ho ancora cenato.»

«Oh, beh, Fanta Lezoualc’h,» disse la sconosciuta. «Tornate dunque a casa vostra e mangiate in pace. Non sarete ancora arrivata al terzo boccone che io vi avrò riportato la vostra biancheria, pulita come si deve.»

«Siete davvero una buon’anima,» rispose Fanta, e se ne tornò di corsa fino a casa propria.

«Già qui?» esclamò il marito, vedendola tornare. «Sei molto veloce a lavorare!»

«Oh, è tutto grazie a un amabile incontro che ho fatto.» E cominciò a raccontargli la sua avventura.

Il marito l’ascoltava allungato sul suo letto, dove finiva di fumare la pipa. Fin dalle prime parole di Fanta il suo volto si fece molto preoccupato. «Oh! Oh!» le disse, quando ebbe finito. «Dunque è questo che tu chiami un amabile incontro. Dio ti protegga dal farne spesso di simili! Non hai dunque pensato a chi fosse quella donna?»

«All’inizio avevo avuto un poco di paura, ma poi mi sono tranquillizzata in fretta.»

«Disgraziata! Hai accettato l’aiuto di una Maouès-noz

«Gesù, Dio mio! Non ne avevo idea... E adesso cosa facciamo? Perché sta per venire a riportarmi la biancheria.»

«Finisci di cenare,» rispose l’uomo, «poi sistema accuratamente tutti gli utensili che si trovano sul focolare. Appendi soprattutto il tripode34 al proprio posto. Poi spazza la casa, in modo che l’aia sia nitida; poi metti la scopa in un angolo, con la tesa in basso. Fatto questo, lavati i piedi, getta l’acqua sui gradini della soglia e vai a letto. Ma fai presto.»

Fanta Lezoualc’h obbedì in fretta. Seguì punto per punto le raccomandazioni del marito. Il tripode fu fissato al suo chiodo, il pavimento della casa pulito anche sotto i mobili, la scopa rovesciata, col manico in aria, l’acqua che era servita a lavare i piedi di Fanta versata sui gradini della soglia.

«Ecco!» disse Fanta, saltando sul “bank-tossel” e infilandosi a letto, senza neppure prendersi il tempo per spogliarsi del tutto. Proprio in quel momento, la “donna della notte” bussò alla porta. «Fanta Lezoualc’h, apri! Sono io che ti riporto la tua biancheria.»

Fanta e il marito rimasero ben zitti. La donna della notte ripeté la propria “richiesta di aprire” una seconda, poi una terza volta. Lo stesso silenzio all’interno dell’alloggio. Allora si sentì levarsi un gran vento, là fuori. Era la collera della Maouès-noz35.

«Visto che nessun cristiano mi apre,» urlò una voce furiosa, «tripode! Vieni ad aprirmi!»

«Non posso! Sono appeso al mio chiodo”» rispose il tripode.

«Allora vieni tu, scopa!»

«Non posso! Mi hanno messa a testa in giù.»

«Allora vieni tu, acqua dei piedi!»

«Ahimè, guardatemi! Non sono che qualche schizzo sui gradini della soglia36

Il grande vento si spense subito. Fanta Lezoualc’h udì la voce furiosa che si allontanava brontolando: «Che “luogo maledetto”! Farà meglio a rallegrarsi di avere trovato qualcuno più saggio di lei che le ha tenuto una lezione!»

(Raccontato da Créac’h. - Plougastel-Daoulas, ottobre 1890.)”37

Anche qui, come nella terza storia registrata da Luzel, la lavandaia notturna non è presentata come un morto inquieto, ma ci appare più come un misto tra una fata e una strega, con un retrogusto da spirito infernale. Anche il controllo degli elementi atmosferici è tipico di certi esponenti del popolo fatato e delle streghe in generale, nelle storie: qui lo vediamo attribuito alla lavandaia, che suscita un forte vento all’esterno della casa. Non che ci sia qualcosa di particolarmente strano o insolito, di per sé: le figure del folklore hanno una certa tendenza a mescolarsi tra loro e i confini non sono sempre molto netti tra un tipo di personaggio e l’altro. Anche tra i baschi si possono trovare figure soprannaturali, come le Laminak, che tendono ad assorbire caratteristiche tipiche delle streghe o delle fate, in certe storie.

La lavandaia notturna bretone, in sintesi, presenta tratti in comune con la Bean Nighe, ma anche differenze notevoli: non è profetica ed è legata quasi esclusivamente al mondo dei morti, senza quel tratto “fatato” che troviamo nelle storie scozzesi. Se la natura della Bean Nighe si manteneva più vaga, quella della lavandaia bretone è tratteggiata in modo molto chiaro: è una morta inquieta, che ha un lavoro da svolgere per punizione di una qualche colpa commessa in vita ed è sempre pronta a condurre alla distruzione i viventi che si immischiano nei suoi affari, anche solo per puro caso. L’accenno al neonato contenuto nella biancheria da strizzare, fatto da Sébillot, ci rimanda poi a un aspetto della lavandaia notturna che troveremo più prominente in altre aree, dove a ricevere questa condanna ai “lavori forzati”, per così dire, non sono tanto le donne morte di parto, quanto piuttosto le donne che si sono macchiate di infanticidio.

Un primo esempio ce lo fornisce George Sand nel suo Légendes rustiques, opera in cui ha raccolto leggende e tradizioni popolari della zona francese di Berry. Il capitolo dedicato alle lavandaie notturne si apre proprio con queste parole, che confermano anche quanto dicevo poco sopra.

“Ecco, secondo noi, la più sinistra delle visioni di paura. È anche la più diffusa; credo che la si trovi in tutti i paesi.

Attorno alle acque stagnanti e alle sorgenti limpide, nelle brughiere come ai bordi delle fontane ombreggiate lungo i sentieri vuoti, sotto i vecchi salici come nelle pianure bruciate dal sole, si sentono, durante la notte, il battere precipitoso e gli schiocchi furiosi di lavandaie sovrannaturali. In certe province, si crede che evochino la pioggia e attirino il temporale facendo volare fino alle nubi, con le loro mestole agili, l’acqua delle sorgenti e degli acquitrini. C’è qui un po’ di confusione. L’evocazione delle tempeste è il monopolio degli stregoni conosciuti col nome di adunatori di nubi. Le autentiche lavandaie sono le anime delle madri infanticide. Battono e torcono incessantemente un qualche oggetto, che assomiglia a un lenzuolo ammuffito, ma che, visto da vicino, non è altro che un cadavere di bambino. Ognuna ha il proprio o i propri, se ha ripetuto più volte questo crimine. Bisogna stare molto attenti a non osservarle o a non disturbarle; perché, anche se voi siete alti un metro e ottanta e con muscoli in proporzione, loro vi afferreranno, vi batteranno nell’acqua e vi torceranno né più né meno che se voi foste un paio di calzini.”38

George Sand prosegue poi raccontandoci alcune storie di queste lavandaie notturne, in particolare aneddoti riguardanti un certo suo conoscente, che sosteneva di averle incontrate davvero in un paio di occasioni: interessanti come episodi da raccontare in una notte attorno al fuoco, ma che non ci forniscono alcun materiale extra. Li possiamo tralasciare. Più utili, semmai, sono due punti che troviamo qui reiterati: una certa tendenza a mescolare le lavandaie notturne con le streghe o altri personaggi simili del folklore locale, come abbiamo visto anche in Bretagna nelle storie riferite da Luzel e da Le Braz, e il legame tra gli spettri delle lavandaie e gli infanticidi commessi in vita, che dovrebbero espiare in quella forma, lavando le tracce del proprio crimine.

Donne morte di parto, oppure donne che hanno ucciso i propri figli: queste sono le lavandaie notturne, quando non sono mescolate ad altre figure soprannaturali del folklore locale. Possiamo descriverle come madri mancate in entrambi i casi, da un certo punto di vista: perché sono morte nei tentativo di diventare madri, oppure perché hanno rigettato la maternità uccidendo i propri figli. È una dicotomia che troveremo ancora: a volte l’accento è posto sul primo aspetto, a volte sul secondo. Sembra essere più raro trovare una zona in cui entrambe le colpe siano presenti allo stesso tempo, nel comporre la figura spettrale della lavandaia. Non è impossibile, sia chiaro: è solo più raro, almeno nelle epoche a cui risalgono le testimonianze conservate.

Prima di esplorare le Alpi, dove troveremo altre lavandaie infanticide, ci attende una tappa in una zona decisamente più meridionale rispetto alle precedenti, ma anche decisamente non alpina. Pure, anche lì compaiono le lavandaie notturne, e anche lì sono donne morte di parto, condannate per un tempo più o meno lungo a fare il bucato ogni notte, da sole o assieme ad altri spiriti inquieti come loro, fino a quando non avranno espiato quello che devono espiare.

In Sardegna, infatti, troviamo una versione locale della lavandaia notturna che abbiamo incontrato nel mondo celtico: queste figure sarde sono chiamate sas panas, ma la differenza principale rispetto alle colleghe settentrionali è la lingua usata per indicarle. Per il resto, ci si presentano sempre come lo stesso tipo di personaggio, a grandi linee. Ecco una loro breve introduzione, fornita da Giuseppe Calvia ai primi del Novecento e contenuta in un più lungo articolo sul folklore di una zona sarda.

“Sas Panas – Quando una donna muore durante il parto, va soggetta a diventare pana o lavandaia notturna, che si reca alle vasche di campagna alla mezzanotte con uno stinco di morto per battere i panni (sa daedda).

Vi è in Sardegna qualche donna del popolo, che racconta di averle vedute, e aversi fatto da esse imprestare sa daedda, e la pana essersene partita senza riprendersela. Solo alla mattina seguente queste donne si avvidero d’aver portato seco uno stinco di morto, ed allora, per consiglio del confessore, lo riportarono un’altra notte, alla medesima ora, per restituirlo alla proprietaria, dicendo: Té sa daedda chi no est sa mia. La pana avrebbe risposto: «Pius has ischidu tue ca no dea.» Affinché dunque una donna morta durante il parto non diventi lavandaia notturna, si usa metterle nella bara un ago col filo senza nodo, un pezzo di tela, un par di forbici, un pettine ed un ciuffo di capelli del marito. E ciò perché essa abbia una scusa legittima da rispondere alle altre panas, che la inviteranno a recarsi alla vasca per lavar le fascie del lattante. Le panas le diranno: «Comà, a benides?» Ed essa risponderà: «Nono, chi so cosende, nono chi so ispizzende (pettinando) a maridu meu.»”39

Come possiamo vedere, dunque, “pana” è il nome assegnato alla lavandaia notturna in Sardegna, o almeno in alcune zone della Sardegna: l’autore dell’articolo indica che gli esseri fantastici di cui parla sono presenti nelle credenze sarde “specialmente di Logudoro”, per cui la pana era personaggio del folklore di quella zona, come minimo. Sulla sua diffusione nel resto dell’isola non ci è dato sapere altro, almeno nell’articolo citato. Sulla base di altre storie, però, sembra essere presente in una buona parte della Sardegna, o almeno sembra esserlo stata, in passato.

Anche la pana sarebbe una donna morta di parto, ossia di morte prematura, come era considerata in passato. Questo tratto la ricollega subito alla Bean Nighe scozzese e alle lavandaie bretoni, perché anche nel loro caso la morte durante il parto è una delle possibili cause del loro attuale status di spirito inquieto, condannato a fare il bucato per un tempo variabile. In Bretagna ci sono anche altri modi per diventare una lavandaia notturna, ma in Sardegna sembra che una pana possa essere prodotta solo in questo modo. Di contro, il folklore sardo ci mostra anche sistemi per impedire che la morta debba diventare una pana, cosa che invece non abbiamo trovato nelle regioni settentrionali.

I panni lavati dalla pana, inoltre, sembrano essere soltanto quelli del neonato, perché si parla di “lavar le fascie (sic) del lattante”: il bambino nato durante il parto fatale per la madre, supponiamo, anche se il testo non lo specifica.

Il ricorso a particolari oggetti per “disinnescare” la trasformazione in pana, poi, ha un suo interesse particolare, specie se lo osserviamo alla luce della storia bretone riferita da Le Braz, che abbiamo letto poco sopra. In quella storia, la lavandaia notturna si rivolgeva ai vari oggetti della casa, per farsi aprire e per raggiungere la donna che aveva preso di mira. Nel folklore sardo riferito da Calvia, le altre lavandaie notturne (panas, se preferite) chiamano la donna neo-morta che hanno preso di mira per farla entrare nel loro gruppo, ma lei dovrebbe utilizzare gli oggetti per rifiutare l’invito. L’opposto di quello che accade in Bretagna, in breve. Pura coincidenza? O forse entrambe le situazioni sono sviluppi inversi che partono da un modello di base comune? Forse non lo sapremo mai per certo, ma è una somiglianza piuttosto curiosa, a modo suo.

Altre fonti sarde ci indicano anche una durata per la punizione a cui è sottoposta la donna morta di parto: dovrà essere una pana per sette anni, in genere, anche se esistono testimonianze di tempi più brevi, che tendono comunque a oscillare tra i due e i sette anni. Considerato che Grazia Deledda, in un articolo sulla Rivista delle tradizioni popolari italiane, ci informa che nel nuorese il periodo di lutto per un parente variava da un minimo di due a un massimo di sette-otto anni a seconda del grado di vicinanza, è possibile che il tempo da trascorrere come pana corrispondesse alla durata del lutto in famiglia. Ricordiamo invece che sulle isole Ebridi e in Bretagna le lavandaie sono in genere condannate al lavoro notturno per tutti gli anni che avrebbero vissuto, se una morte prematura non le avesse strappate alla vita: sotto questo aspetto, dunque, la pana se la cava meglio delle colleghe celtiche, in media.

Un dettaglio interessante, poi, è che la pana utilizza uno stinco di morto per battere i panni. Questo non lo abbiamo trovato in altre regioni, anche se nella storia bretone riferita da Souvestre si parla di “mestole bianche” usate dalle lavandaie notturne. Che fossero in origine ossa di morto, come in Sardegna? Non lo possiamo escludere, in linea di massima, e il colore bianco è di certo collegato alla morte fin dalla preistoria europea, essendo appunto il colore delle ossa scarnificate, ma è solo una ipotesi molto vaga: prendiamola pure in considerazione, ma non usiamola come base su cui fondare una qualche teoria che aspiri alla solidità.

Altre misteriose lavandaie notturne compaiono qui e là sulle Alpi, anche se le storie sul loro conto sembrano essere molto meno precise rispetto a quelle prese in esame finora, o almeno non sono molto precise le informazioni che abbiamo a disposizione. Ecco ad esempio quanto ci raccontava Maria Savi-Lopez sulle Alpi occidentali e nordoccidentali, verso la fine dell’Ottocento.

“Questi tipi strani di notturne lavandaie si ritrovano con frequenza nelle leggende alpine. Esse sono, secondo la credenza popolare, anime di donne che erano solite a lavorare di festa. Le leggende francesi dicono invece che sono donne le quali hanno uccisi bambini; esse lavano un drappo mortuario e battono continuamente sul cadavere di un ragazzo che manda sempre un suono lugubre. Anche sulle Alpi della Svizzera francese non manca questa bizzarra creazione della fantasia popolare e dicesi che le gollières a noz, o lavandaie di notte, sono bellissime fanciulle ma perfide ammaliatrici. Esse al chiaror della luna lavano vicino alle fontane isolate. Se chiedono aiuto ad una persona che passi, bisogna usare molta attenzione per contentarle ed evitare d’incorrere nel loro sdegno.”40

Possiamo subito notare che le lavandaie alpine non sono presentate come donne morte anzitempo, ma solo come donne che devono espiare una qualche colpa commessa in vita, in particolare l’infanticidio o l’aver lavorato in un giorno di festa. Non discuto che, dalla nostra prospettiva attuale, i due crimini non si collochino proprio sullo stesso piano: tra fare il bucato di domenica e uccidere un bambino, non dovrebbero esserci dubbi su quale sia l’atto più grave. Pure, anche lavorare in una festività religiosa ha un suo valore come crimine e possiamo anche partire da questo, per levarcelo di torno prima di passare all’infanticidio, che è molto più rilevante per il legame che le lavandaie sembrano possedere col parto e la maternità in generale.

Il peccato commesso da chi lavora in un giorno di festa può essere considerato una rottura di piani: un sacrilegio vero e proprio, in quanto inquina il tempo sacro mescolandolo col tempo profano. Il sacro, infatti, rappresenta tutto ciò che non è profano, ossia tutto ciò che non appartiene alla nostra vita quotidiana: è il momento in cui si fa un passo al di fuori del tempo comune, per entrare nel tempo eterno del divino, in qualunque forma ci si manifesti in quella particolare cultura. È la stessa idea alla base dello sfasamento temporale che troviamo in molte storie in cui un personaggio esce per un poco dal mondo umano, per toccare un mondo differente, a volte divino e a volte l’Aldilà: in quanto radicalmente diversi tra loro, diverso è anche lo scorrere del tempo tra i due piani.

Le feste religiose erano occasioni in cui si metteva per un poco tra parentesi la vita di ogni giorno, per toccare per un momento un’altra dimensione, un altro livello. Un modo per ricaricarsi, da un certo punto di vista, che poteva avere luogo solo in periodi particolari dell’anno, carichi di un valore simbolico riconosciuto da quel popolo. Erano momenti in cui, entro certi limiti, le barriere tra il mondo quotidiano e l’altro mondo si indebolivano, rendendo dunque possibile una certa mescolanza tra i due livelli. Tutto ciò avveniva in modo ben controllato e ben definito, ovvio, ma avveniva. La sospensione del lavoro normale in occasione di certi giorni specifici, come il sabbath ebraico, deriva proprio da questa idea: è un momento in cui il tempo profano va accantonato, per entrare in comunione col tempo sacro e avvicinarsi alla propria divinità, qualunque essa sia. È un tempo in cui ci si ricorda che esiste qualcosa al di là del quotidiano, al di là della vita di tutti i giorni.

Cosa succede quando si lavora in uno di questi giorni sacri? Succede che si trasgredisce alla separazione tra i due livelli, il sacro e il profano. Lavorando durante un tempo sacro, lo si inquina, lo si degrada, facendolo degenerare a tempo profano. Per questo presso culture diverse troviamo storie di cose terribili che capitano a chi profana il tempo sacro: perché è una profanazione vera e propria, letteralmente, in quanto il sacro è sminuito e reso profano.

Anche per un semplice bucato? Anche. La Rusalka russa odiava le donne che osavano fare il bucato o stendere i panni nei giorni festivi e non perdeva occasione per punirle nel peggior modo possibile, specialmente nella settimana della Pentecoste, che le era sacra (grossomodo). Perfino in racconti di vita quotidiana, senza alcun collegamento col mondo soprannaturale, non era raro fino all’Ottocento che qualcosa di male capitasse a chi aveva lavorato di domenica, e succedeva proprio perché il lavoro era stato svolto di domenica. Che le lavandaie notturne fossero donne punite per la profanazione di una festa religiosa, dunque, ha una sua logica interna, per quanto strana ci possa apparire oggi.

Possiamo aggiungere a tutto questo che il bucato era espressamente vietato in occasione di certi giorni, o almeno era fortemente sconsigliato, con tanto di storie per giustificare questo particolare tabù. Paul Sébillot, nel suo Légendes et curiosités des métiers, ci fornisce alcuni esempi di tutto ciò, almeno per le aree francofone. Nel capitolo “Lavandières et blanchisseuses”, possiamo leggere quanto segue, a titolo di esempio.

“C’è un certo numero di giorni nel corso dell’anno durante i quali la liscivia è considerata pericolosa, sia per chi la fa, sia più in generale per la persona di cui si lava la biancheria. Nel XVII secolo, il curato Thiers segnalava, tra le superstizioni in voga, quella di non fare la liscivia né durante le Quattro Tempora, né durante le Rogazioni, né durante i giorni in cui si canta Ténèbres, né da Natale fino all’Epifania, né durante l’ottava della Fête-Dieu, né di venerdì, per paura che non capiti qualche disgrazia. Una parte di queste credenze è ancora in vigore.”

Il testo ci offre poi diversi esempi, ma qui ne inserirò soltanto alcuni, giusto per dare una idea delle superstizioni concernenti i giorni negativi per il bucato. In Franche-Comté, “Celui qui fait la bue aux Rogations/ Sera au lit pour les moissons”; nella Charente, chi fa il bucato durante la settimana santa corre il rischio di morire entro l’anno; in Normandia, in Alta Bretagna e nel Poitou, a rischiare di morire può essere una persona della casa, oppure una delle lavandaie; nei dintorni di Brive, a rischiare la morte sono gli uomini di casa. Il venerdì santo è un giorno particolarmente funesto. In Alta Bretagna, fare il bucato quel giorno significa lavare il proprio sudario; a Valenciennes si diceva che Dio maledice le persone che lavano (in quel giorno, ovvio).

Di particolare interesse per noi è una superstizione che troviamo in Poitou: chi fa il bucato durante la festa di Notre-Dame de Mars sarà condannato, dopo la propria morte, a tornare al lavatoio fino a che qualcuno non avrà fatto recitare un certo numero di messe per la sua anima. Sorte abbastanza familiare, direi. Più vicino a noi, in Provenza, si diceva che “Qu fai bugado entre Caremo et Carementrant li bugadiero moron dins l'an”, mentre a Marsiglia non si doveva lavare la biancheria intima durante l’ottava dei Morti, perché quel gesto ricordava troppo il lavaggio della biancheria che era stata usata da nostri defunti. In Franche-Comté, sempre durante questa settimana, fare la liscivia significa lavare il proprio sudario. E così via.

Gli esempi non mancherebbero, ma dovrebbe essere chiaro che esistevano giorni in cui fare il bucato significava rischiare grosso, almeno nell’immaginario popolare. Esistevano anche storie più o meno edificanti che spiegavano l’origine di questi divieti, di solito riconducendoli a una qualche infrazione commessa nei riguardi di una figura cristiana: Gesù, la Madonna o il santo di turno. Non avrebbe molto senso ripercorrerli in dettaglio: chi fosse interessato può partire dal testo di Sébillot e proseguire con la bibliografia da lui indicata. Il punto è che non bisognava fare il bucato in certi giorni legati alla religione, perché si rischiava conseguenze gravi. Il caso delle lavandaie notturne si inserisce perfettamente in questa idea: una punizione particolare per una trasgressione comune.

Dopo il bucato in un giorno di festa, passiamo a un crimine decisamente indiscutibile: l’infanticidio. La generica accusa di avere ucciso bambini ci rimanda subito a quanto già abbiamo visto per le lavandaie bretoni nel racconto riferito da Sébillot: anche loro erano condannate a fare il bucato di notte, perché avevano ucciso i propri figli. George Sand ce lo conferma in un’altra zona della Francia: per lei, avere ucciso un figlio è il solo modo per diventare lavandaia notturna. Lo abbiamo ritrovato anche sulle Alpi. Siamo legittimati a pensare che dietro questa accusa, piuttosto generica, se ne nasconda anche una molto più specifica? Le lavandaie notturne erano condannate solo perché avevano ucciso un figlio appena nato, oppure anche perché avevano abortito, uccidendolo dunque prima della nascita? I termini vaghi con cui se ne parla ci autorizzano almeno a ipotizzarlo, anche se non valgono certo come prova. Rafforza però l’impressione generale che il loro status di spiriti inquieti sia dovuto al fallimento di quello che, per certi versi, potremmo considerare come un rito di passaggio, forse il più importante rito di passaggio per le donne nelle società del passato. Vediamo in che senso.

Dalle donne morte di parto alle donne che hanno abortito, o comunque ucciso i propri figli. Lo slittamento sarebbe interessante, tanto più che, se uccidere un figlio prima o dopo la nascita vale come peccato presso la maggior parte delle religioni, pare molto più strano che una donna possa essere condannata per il “crimine” di essere morta senza volerlo. La giustificazione, di solito, è che la donna in questione è morta anzitempo e quindi deve trascorrere sulla terra tutti gli anni che non ha potuto vivere, prima di procedere nel regno dei morti (verso l’inferno, il paradiso o altro ancora, a seconda dei casi e delle convinzioni di quel popolo): la processione dei morti, che troviamo in diverse tradizioni europee medievali e successive, segue la stessa logica, dopotutto. Fin qui è accettabile e lo troviamo anche in altri casi. La cosa curiosa è che, per le lavandaie, questa morte anzitempo, di parto, sia percepita come una colpa da scontare, e non certo in modo piacevole41.

Che morire di morte non naturale, come era considerata una morte improvvisa e/o violenta, specie se in giovane età, produca spiriti inquieti è un motivo che ritroviamo presso numerosissime culture e popolazioni, inclusa la classicità romana: i lemures romani erano proprio questo, spiriti di persone morte all’improvviso, che dovevano essere placati ogni anno nel corso di apposite cerimonie, i Lemuria, che si svolgevano in tre giorni di maggio. Niente di strano, dunque, se una donna morta di parto debba tornare come spirito inquieto. Niente di strano, inoltre, se questo spirito inquieto dovesse comportarsi in modo aggressivo nei confronti dei vivi: i precedenti, di nuovo, sono numerosi. La cosa strana è che questo ritorno nei panni delle lavandaie notturne sia presentato come una punizione, almeno secondo le testimonianze che abbiamo mostrato qui, ma forse il problema è solo che non la dobbiamo interpretare come una punizione in senso morale42.

La lavandaia notturna, come abbiamo già detto parlando del mondo celtico, è un personaggio che esiste in limine: è una figura di confine, che non appartiene propriamente né al mondo dei vivi, né a quello dei morti, ma ha un piede in entrambi. Pur essendo morta, continua ad abitare la periferia del paese dei vivi, può interagire coi vivi e, almeno nel caso della Bean Nighe, controlla anche gli accessi al regno dei morti. Non è specificato a quale grado arrivi questo controllo, beninteso. La Bean Nighe poteva solo prevederli e preannunciarli? Oppure poteva determinare la vita o la morte di una persona? Secondo le testimonianze raccolte da Campbell, era possibile salvare la vita di una persona sottraendo alla Bean Nighe l’abito che stava lavando. Questo suggerisce che il suo decreto non fosse immutabile, ma consentisse un certo margine di manovra. O forse sono solo imprecise le testimonianze che abbiamo.

Peraltro, il collegamento tra profezie e panni immersi in acqua è presente tanto nel folklore delle isole britanniche, quanto in quello di diverse regioni francesi. Uno dei modi per scoprire se una persona ammalata sarebbe guarita o morta consisteva nel recarsi presso un’apposita fontana o sorgente, che aveva fama locale di essere benedetta, e gettare in acqua un indumento non lavato appartenente al malato, di solito una camicia o variazioni sul tema. In base al comportamento del panno, si potevano trarre presagi sulla sorte della persona: in alcune zone, ad esempio, l’abito che affonda subito era segno nefasto, mentre in altre zone bisognava vedere come si espandeva sulla superficie dell’acqua, o altro ancora. Esisteva tutto un codice, variabile in base alla sorgente, con cui interpretare i segni, ma tutto era sempre legato alla reazione del panno a contatto con l’acqua.

Ci troviamo davvero a una distanza incolmabile rispetto alla Bean Nighe, che immerge in acqua le camicie di chi morirà a breve? A me non sembra. Una figura soprannaturale che profetizza la morte lavando i vestiti in una sorgente mi pare piuttosto vicina a una profezia sulla possibile morte fatta immergendo i vestiti (sporchi) in una sorgente. Quale delle due immagini abbia preceduto l’altra, però, è un discorso diverso e potremmo trovarci di fronte a un enigma del tipo “uovo o gallina”, almeno sulla base delle informazioni arrivate fino a noi.

La lavandaia notturna è comunque una figura che esiste ai margini, nei punti di transizione. È questa la sua sorte, perché in vita ha fallito una prova iniziatica, un rito di passaggio? Sappiamo che i riti di passaggio erano fondamentali per ottenere un posto nella società: fallire poteva significare esclusione. Diventare madre è sicuramente il rito di passaggio per eccellenza, per una donna: non solo cambia definitivamente e irreversibilmente il suo status, ma le riconosce anche un ruolo vitale come guardiana dei confini. La madre è la porta attraverso cui si entra nel mondo. La porta, che sia un dolmen43 o una incisione a triangolo o losanga, è simbolo femminile fin dalla preistoria, perché la donna è l’ingresso nella vita. Ancora nel neolitico troviamo sepolcri megalitici con una forma a utero, a cui si accedeva tramite un passaggio che può ricordare il canale del parto. Il morto era deposto in quell’utero di pietra per facilitare la sua futura rinascita, il suo nuovo ingresso nel mondo.

La lavandaia notturna, in questa prospettiva, sarebbe dunque una donna che è venuta meno al suo ruolo di porta della vita, o perché è morta durante il parto, ossia mentre “fungeva” da porta, oppure perché ha rinnegato il proprio ruolo di madre, uccidendo i figli (prima o dopo il parto è secondario). La colpa da scontare avrebbe dunque un valore più rituale che morale: non ha potuto o saputo portare a termine la prova di iniziazione, facendosi madre fino in fondo, e per questo non può trovare un posto nella società, ma deve rimanere ai margini, come fuoricasta. Rimanere ai margini e cancellare i segni del proprio fallimento, lavando i panni nell’acqua, il solvente universale, che tutto purifica. Purificazione che, in più di una tradizione, consiste nel rimuovere il sangue, come abbiamo visto nelle storie di lavandaie: sangue della madre o del figlio, a seconda dei casi44.

È interessante notare a questo proposito un motivo che ritorna più volte nel folklore europeo. Un elemento che compare in diverse fiabe appartenenti alla categoria in cui una donna umana deve inseguire un marito fatato che si è separato da lei, infatti, è una camicia macchiata di sangue. Di solito è la camicia indossata dall’uomo al momento della separazione e le macchie sono quelle lasciate dal sangue della donna, dopo che il marito l’ha schiaffeggiata perché lei aveva violato un qualche tabù, rendendo così inevitabile la loro separazione. Sono giusto tre gocce, di solito, niente di eccessivo. Sono però tre macchie che nessuna lavandaia riuscirà a rimuovere e continueranno a segnare la colpa dell’uomo. O la colpa della donna che ha violato un tabù: questione di prospettiva.

Quando la donna riesce finalmente a trovare il palazzo in cui si è nascosto il marito fatato, la prima cosa che incontra è di solito un lavatoio, dove alcune serve del palazzo stanno facendo il bucato. Una di loro si lamenterà sempre delle macchie di sangue sulla camicia del padrone: nonostante l’abbia ormai lavata innumerevoli volte, ancora non è riuscita a rimuoverle. Ed è una camicia importante, a cui il padrone tiene molto: è il suo indumento migliore, che dovrebbe indossare al suo matrimonio, il giorno seguente. La sola persona capace di rimuovere le macchie di sangue sarà ovviamente la nuova arrivata: lavare la camicia, cancellando il marchio del tabù violato, è il primo passo per farsi riconoscere e riconquistare il marito fatato, col conseguente lieto fine. Ci riuscirà anche perché ha superato con successo la prova che il marito le aveva imposto, per rimediare al danno iniziale.

È possibile che questo motivo sia filtrato nelle fiabe locali provenendo dalla figura della lavandaia notturna? Possibile sì, ma sicuro no. Nulla ci vieta di ipotizzare un collegamento, ma è meglio non darlo per scontato e non farvi troppo affidamento. Potrebbe sempre essere una pura coincidenza: la realtà non deve per forza funzionare come un romanzo di Dickens.

Fiabe a parte, lavandaie e assistenti alla nascita erano due figure che presentavano notevoli e curiose affinità nelle tradizioni locali di diverse zone della Francia, proprio il paese dove le lavandaie notturne sembrano essere più diffuse. Uno studio su queste due figure è contenuto nel capitolo 12 di Une campagne voisine ed è principalmente a questo che faremo riferimento qui45: si parla nello specifico di quanto avveniva nel villaggio di Minot, in Borgogna, ma è un discorso che può essere esteso anche ad altre località, con qualche piccolo ritocco.

La donna-che-aiuta (femme-qui-aide) aveva due ruoli fondamentali, nonché molto simbolici: presiedeva alla nascita e alla morte, ossia all’ingresso nel mondo e all’uscita dal mondo. Soprattutto, si occupava dei rituali connessi a queste due fasi. Rituali anche a base di acqua. Al momento della nascita, la donna-che-aiuta non interveniva direttamente durante il parto: quello era il ruolo della levatrice (sage-femme) prima e del medico poi. Il suo compito cominciava subito dopo la nascita e riguardava i riti che accompagnavano l’ingresso del bambino nel mondo. Era lei a fargli il primo bagno, subito dopo il parto, e a vestirlo per la prima volta. Era lei a fare da madrina al battesimo. Era lei a cambiare e lavare le lenzuola del letto in cui la madre aveva partorito. Era lei che continuava a tornare in visita fino a che il cordone ombelicale non si era staccato. Nei casi in cui il bambino moriva alla nascita, poi, era sempre lei a battezzarlo.

In parallelo, la donna-che-aiuta si occupava di tutti i rituali che seguivano la morte di una persona. Spogliava e lavava il morto, lo radeva se necessario, lo rivestiva dei suoi abiti migliori, cambiava le lenzuola del letto in cui era morto e le lavava, gestiva i turni per la veglia funebre e così via. Sia in caso di nascita che in caso di morte, il suo compito consisteva nello svolgere correttamente tutti quei rituali che devono accompagnare le due principali fasi di transizione umana: l’ingresso nel mondo e l’uscita dal mondo. La donna-che-aiuta non si occupava di nascita e morte sul piano fisico, incombenze lasciate ad altre figure: se ne occupava sul piano simbolico e rituale, intervenendo dopo che i due fatti si erano già compiuti.

Abbiamo così un’altra figura liminale, proprio come la lavandaia notturna. La donna-che-aiuta era una sorta di portinaia dell’esistenza, che accoglieva i nuovi arrivati e chiudeva la porta dopo l’uscita di chi se ne andava. In entrambi i casi, il suo primo compito consisteva in un bagno rituale, una sorta di rito di purificazione: facendo il primo bagno al neonato, ne rimuoveva le impurità anche simboliche che avevano accompagnato il suo ingresso nel mondo; facendo l’ultimo bagno ai morti, ne rimuoveva le impurità che avrebbero potuto ostacolare la loro uscita dal mondo. Non che il lavaggio si limitasse ai corpi, perché era suo compiuto anche cambiare e lavare le lenzuola del letto in cui erano avvenute nascita e morte. Approfittava di questi lavaggi anche per trarre profezie sulla sorte dei neonati? Non escludo che alcune donne lo abbiano fatto, dato che anche in quella zona della Francia esistevano superstizioni simili sui panni immersi in certe fonti di cui abbiamo parlato in precedenza, ma questo è secondario.

Il legame tra partorienti e bucato si può spingere anche molto più in là. Non si tratta solo di fare il primo bagno al neonato, o di lavare le lenzuola e la biancheria della partoriente, due compiti che spettavano alla donna-che-aiuta; esistevano anche precise superstizioni in diverse zone della Francia che collegavano il bucato alla gravidanza. Riaprendo il già citato libro di Sébillot, Légendes et curiosités des métiers, possiamo leggere che “nei Vosges, è pericoloso fare la liscivia in una casa abitata da una donna incinta, a meno che non si prenda la precauzione di far rotolare fuori la tinozza dopo aver tolto la biancheria. Il parto sarà ritardato di un tempo uguale a quello durante cui la tinozza vuota sarà rimasta dentro casa. Nello Yonne, si ha anche cura in casi simili di capovolgere la tinozza.” In altri casi, troviamo che il bucato può ritardare o anticipare il parto, se la donna incinta è nelle vicinanze, e la presenza di una donna incinta può anche alterare la qualità del bucato.

Giriamola pure come preferiamo, ma nel folklore di certe zone d’Europa, in Francia in particolare, sembra esserci un legame tra gravidanza e bucato, che interagiscono tra loro in modi strani. O forse è solo l’acqua e la gravidanza, dato che anche in Veneto esistevano superstizioni che parlavano del pericolo costituito dai corsi d’acqua per le donne che li attraversavano durante la gravidanza. Il bucato potrebbe dunque essere solo un caso limite di un’antica credenza dal carattere più generale.

Riassumendo, esistono alcuni casi speciali in cui una morta può essere condannata a diventare una lavandaia notturna: se ha fatto il bucato in un giorno proibito, se ha danneggiato il bucato altrui, se è morta di parto, se ha commesso un infanticidio. Ci sono poi altri casi limite, a cui si accenna qui e là, ma questi sono i motivi principali. A volte ne troviamo uno solo, come per la pana, che è morta di parto, o per le lavandaie di Berry, che sono solo infanticide; escludendo i casi in cui sembra una normale legge del contrappasso dantesca46, però, il legame più interessante rimane quello tra il fallimento nel diventare madre e la condanna a fare il bucato di notte.

Chi muore di parto è condannata a diventare una lavandaia notturna; chi è madre snaturata, che ha ucciso i propri figli, è condannata a diventare lavandaia notturna. A volte la lavandaia lava soltanto la biancheria; a volte all’interno della biancheria vi è il cadavere del figlio; a volte lava solo il cadavere del figlio. Incontrarla non promette mai nulla di buono: a volte ti costringerà ad aiutarla, cercando di ucciderti; a volte si accontenterà di nuocerti; altre volte potresti anche ricavarne qualcosa di positivo, ma sarà sempre un dono avvelenato, accompagnato da profezie che davvero non avresti voluto conoscere, almeno secondo le testimonianze di Campbell citate all’inizio.

Curiosamente, nel suo Mondo contadino, Dino Coltro ci indica una convinzione diversa nel Veneto: “ci more de parto, va diritta in Paradiso”47. Forse è anche per questo che nel Triveneto, sebbene non manchino certo le lavandaie soprannaturali48, non troviamo una categoria che corrisponda del tutto alle lavandaie notturne da noi esaminate fin qui, ossia donne condannate per infanticidio o per essere morte di parto. La promessa di Paradiso è però senza dubbio una cristianizzazione di epoca più recente, se consideriamo che la morte di parto era vista come un evento negativo presso popoli e culture di ogni tipo in giro per il mondo, e anche in Veneto non mancano altre superstizioni relative a gravidanza, acqua e gesti che possono essere compiuti o che devono essere evitati da chi è incinta. Lo stesso Coltro ce ne indica diverse, sempre in quel capitolo del suo libro; la differenza principale è la promessa di Paradiso, forse per cancellare una superstizione più antica e negativa. Sarebbe in linea con le abitudini della Chiesa, quando si trattava di combattere le superstizioni preesistenti.

Sia come sia, le donne morte di parto sembrano essere solo condannate a fare il bucato; le donne che hanno ucciso i propri figli, invece, devono spesso lavare qualcosa che contiene, oppure che è, il cadavere di un bambino, presumibilmente il figlio che avevano ucciso. In entrambi i casi appare come un atto per cancellare e purificare, per togliere le tracce di quanto è accaduto. Lavare sia il neonato che le lenzuola è un gesto rituale compiuto anche nella realtà al termine di un parto senza problemi, come abbiamo visto poco sopra, per cui non è di per sé un’attività strana, collegata a un parto. Sebbene non strana, qui diventa però una punizione che la madre stessa deve scontare, invece di lasciarla a una intermediaria. Non solo dovrà provvedere lei stessa al lavaggio, ma lo dovrà fare dopo la morte, per un numero variabile di anni.

Se la morte avviene durante il parto, la punizione sarà scontata subito. Nei casi di infanticidio, invece, la punizione sarà rinviata, ma a volte diventerà anche qualcosa di diverso. Se nelle storie alpine o di Berry le donne infanticide diventano sempre lavandaie, in Bretagna possono anche subire punizioni differenti, come ci mostra l’esempio della donna diventata una scrofa, contenuto anche nel capitolo XIII dell’opera La légende de la Mort, di Anatole Le Braz. Questa variante mi sembra però di origine cristiana e non appartenere al nucleo più antico delle lavandaie notturne, anche se è difficile poterlo provare oltre ogni dubbio. Sia come sia, la donna che ha fallito come madre, volontariamente o meno, dovrà tornare dopo la morte per cancellare le tracce del proprio fallimento, lavando i panni e a volte i cadaveri.

Potremmo lanciarci ora in una lunga digressione sulle figure delle Matres o di Matrona, così diffuse tra i popoli celtici da avere lasciato tracce innumerevoli sia nell’arte di epoca romana realizzata in Gallia e Britannia, sia nella toponomastica locale. Il culto di queste figure femminili era senza dubbio legato alle sorgenti e ai fiumi, alle acque in generale, e forse presiedevano sulla vita e la morte, o almeno sulle fasi di entrata e uscita, in modo simile alle Parche, alle Moire e alla Norne. Avevano però un legame diretto con le donne morte di parto e condannate a fare il bucato di notte? Non per quanto ne sappiamo noi, quindi non ne discuterò in questa sede. Chiunque voglia però approfondire e cercare eventuali collegamenti, che esistano o meno, è libero di farlo: non sarò certo io a impedirglielo o a ritenere impossibile la presenza di un legame49.

La lavandaia notturna è dunque il personaggio usato in questa parte d’Europa per dare una collocazione post mortem a una categoria di donne: quelle morte anzitempo durante il parto, oppure quelle che si erano macchiate di gravissime colpe contro un aspetto dell’ordinamento sociale, come è certo il caso dell’uccisione dei propri figli50. Il folklore di numerosi popoli riserva un trattamento particolare agli spiriti di chi ha commesso omicidi, oppure è morto anzitempo. Erano considerati spiriti pericolosi per i vivi, spesso violenti: non necessariamente malvagi, ma privi di controllo a sufficienza per minacciare l’ordinamento sociale. Bisognava dunque esorcizzarli, o almeno inserirli in un quadro generale che desse loro una ragione di essere, che ne controllasse la minaccia. In epoca storica, in questa parte d’Europa la lavandaia notturna è il ruolo che è stato scelto per gli spiriti di queste donne particolari.

Sono esistite altre figure prima delle lavandaie notturne, in epoca remota? Possibile. Il ruolo di lavandaia, però, sembra avere funzionato bene a sufficienza, visto come si è radicato nell’immaginario popolare. Perché lavare era una tipica attività femminile, forse, e perché l’acqua era il solvente universale, che poteva sciogliere ogni attaccamento e cancellare ogni macchia. Perché bucato e bagno avevano un ruolo fondamentale in occasione di nascita e morte, tanto presso i popoli europei come in altre parti del mondo. Si lavano i neonati e si lavano i morti. A lavarli è di solito una donna, spesso una donna che li ha accompagnati durante quelle due transizioni. Lavare le proprie colpe, in questa ottica, non è forse una punizione troppo campata per aria, nel caso di chi ha fallito durante una nascita, oppure ha ucciso chi era appena nato.

D’altro canto, quante sono le culture in cui il paese dei vivi e il paese dei morti sono separati da un qualche tipo di acqua, da attraversare con ponti, barche e variazioni sul tema? Troppe per potercene occupare qui. L’acqua separa vita e morte; la lavandaia notturna, non più viva ma non ancora morta a pieno titolo, lavora con l’acqua e nell’acqua, sul confine tra vita e morte. Continuerà a farlo, fino a che non avrà concluso questa sua ultima transizione, trovando un posto stabile nel paese dei morti.

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NOTE

1 - John Gregorson Campbell, Superstitions of the Highlands & Islands of Scotland, Glasgow, 1900, cap. 1.

2 - Questa espressione significa più o meno “Bada a quel che fai”, “Attento a te”, almeno nelle storie scozzesi.

3 - John Gregorson Campbell, Witchcraft & Second Sight in the Highlands & Islands of Scotland, Glasgow, 1902, cap. III.

4 - Ovviamente non sono rare le storie in cui l’eroe di turno si trova diviso tra la fedeltà alla famiglia di nascita e quella alla famiglia di adozione, oppure in cui è costretto a combattere contro i fratelli adottivi, pur non volendolo fare, ma questo è un altro discorso.

5 - Si veda per esempio John Colarusso, Nart Sagas, Princeton, 2002, dove questo stratagemma è utilizzato in più di un racconto. Nella nota 3 al racconto 53, dove ciò accade, possiamo leggere ad esempio: “Fosterage was practiced in the North Caucasus. A man could become a fictive child to a woman by grabbing her breast and pretending to suck at it, regardless of whether he was older than she was or whether he took her breast surreptitiously or by force. Blood feuds were sometimes ended by a furtive and desperate act of such symbolic suckling.”

6 - “LUPUS IN FABULA silentii indictio est in hoc proverbio, et eiusmodi silentii, vel in ipso verbo ut ipsa fabula conticescat, quia lupum vidisse homines dicimus, qui repente obmutuerunt; quod fere his evenit, quos prior viderit lupus, ut cum cogitatione in qua fuerint etiam verbis et voce careant.” La medesima superstizione è citata anche nel diciassettesimo secolo da Giambattista Basile all’inizio della novella dei sette colombi nel suo Cunto de li cunti, meglio noto come Pentamerone: lo sguardo del lupo ti toglie la voce. Possiamo considerarla con tutta probabilità una variante del malocchio, quel malvagio potere magico posseduto dallo sguardo di certi esseri e presente sotto vari nomi nel folklore di innumerevoli popolazioni in ogni angolo del mondo.

7 - The Mythology of all races, volume III, Celtic, Slavic, Boston, 1918, pag. 255.

8 - “Le lavandaie ar cannerez nos (le cantatrici notturne), che vi invitano a strizzare la loro biancheria, che vi spezzano le braccia se le aiutate in malo modo, che vi annegano se vi rifiutate, vi portano alla carità, eccetera.” Si trova a pag. 73 o dintorni del primo volume, a seconda dell’edizione che consultate.

9 - Ho trovato questa parola scritta al plurale Cauuerezou in un titolo del 1460. La si pronuncia oggi in Cornouaille Couerezou. (N.d.A.)

10 - Questa credenza in una riparazione da compiere sulla terra dopo la propria morte per le colpe commesse durante la vita è per i bretoni una sorta di articolo di fede. Ho menzionato in precedenza, parlando dei nani, la penitenza di questa donna, condannata a tornare sulla terra per filare tanto lino quanto ne aveva rubato durante la vita. Si crede comunemente in Bretagna che ogni persona dovrà mangiare dopo la morte tanti moggi di cenere quanti sono stati i moggi di pane che ha volontariamente perduto o sprecato in questo mondo. Le ragazze di fattoria che, per impazienza o negligenza, nel preparare le crêpes lasciano colare la pasta nel fuoco, ritorneranno di notte a piangere e gemere presso il loro antico focolare, dove faranno vani sforzi di accendere il fuoco. Si vedono, di notte, i mugnai che, per aver truccato le macine o per qualunque altra mancanza, hanno perduto del grano che era stato affidato loro, percorrere di notte i sentieri che frequentavano durante la vita, portando in spalla sacchi riempiti di pietre. In breve, per ogni torto materiale, soprattutto quelli ai danni di orfani, bisognerà fare ammenda dopo la morte.
Una credenza che appartiene a un altro ordine di idee è questa: le donne sposate, che hanno volontariamente ostacolato l’incremento della propria famiglia, ritorneranno in terra sotto forma di una scrofa accompagnata da un numero di porcellini uguale a quello dei figli che avrebbero avuto obbedendo alla legge naturale. Per sbarazzarsi di questi vari spettri, è necessario scongiurarli. Vedremo poi cosa intendano i bretoni per scongiurarli. (N.d.A.)

11 - In alcune zone di Finistère si crede che il supplizio che infliggono alle proprie vittime consista invece nel picchiarle violentemente sul volto col loro bucato strizzato. (N.d.A.)

12 - R.F. Le Men, Revue celtique, “Traditions et superstitions de la Basse-Bretagne”, 1870-1872, vol. I, p. 421.

13 - Paul Sébillot, Littérature orale de la Haute-Bretagne, Parigi, 1881, pagg. 202-203.

14 - Kannérez-noz. Questa credenza delle lavandaie notturne è diffusa in tutta la Bretagna, ma soprattutto nel Léonnais. Il discrevellerr che ci raccontò questa tradizione aveva, come Sancho Pancha, la mania dei proverbi; abbiamo conservato quelli che ci ricordavamo e che non richiedevano, per la loro comprensione, una spiegazione troppo lunga. (N.d.A.)

15 - Miz-du, nome bretone di novembre; a volte è chiamato du, per abbreviare. (N.d.A.)

16 - Nome dato alla festa di Ognissanti; la si chiama anche goël an oll sent. (N.d.A.)

17 - An al du, oppure an al kornek, l’angelo cornuto; nomi grotteschi del diavolo. (N.d.A.)

18 - Il proverbio bretone è più espressivo: Map e ted eo Kadyou, nemed e vamm a lavaré gaou; che significa: Di suo padre è figlio Kadiou, a meno che sua madre non abbia mentito. (N.d.A.)

19 - Gardinn, i pezzenti o i furfanti; è il nome familiare dato nel Léonnais ai normanni che vi vengono a comprare cavalli. (N.d.A.)

20 - Avel fal; nome dato dai bretoni a ogni tipo di influenza maligna. (N.d.A.)

21 - Il proverbio bretone è formulato meglio: Pa ne mens muy dimé noan, e man va lod e peb unan; letteralmente: Siccome non ne ho più una mia, ho la mia parte di ognuna. (N.d.A.)

22 - Il proverbio bretone è un distico: Ober strakgla e scorgesik. Ma distum quet kesek sponntik. (N.d.A.)

23 - I mugnai sono considerati in generale gli autori delle canzoni licenziose. (N.d.A.)

24 - Motivo di una canzone molto famosa: “Koantik he marionik/ Koantik a delikadd,/ Ro evel eur rosennikk/ A glaz e daou lagadd”. (N.d.A.)

25 - Karr-meulon; la si distingue, in Bretagna, dalla carretta ferrata karr-hoüarnet. (N.d.A.)

26 - L’ankou, letteralmente l’angoscia; questo nome indica solitamente il fantasma della morte. (N.d.A.)

27 - Spiritosaggine sul pallore dello spettro della morte; Gwen significa bianco. (N.d.A.)

28 - Il proverbio è molto noto. “Laër evel ul Leonardd, traytour evel un Treywergadd, sod evel ur Gwennedadd, brusk evel ur Kernevadd”, ossia “Ladro come un Léonard, traditore come un Tregorrois, stolto come un Vannetais, brutale come un Cornouaillais”. (N.d.A.)

29 - Douéz significa, in bretone, fossato di città fortificata; siccome però quei fossati erano in passato pieni d’acqua ed erano usati anche dalle lavandaie, i lavatoi sono stati chiamati douéz e, nella nostra provincia, questa parola è ormai passata dal bretone nel francese normale. È stato solo aggiunto un errore linguistico, rendendo maschile douéz. (N.d.A.)

30 - Abbiamo cambiato alcune cose in bretone. “Quen na zui Kristen salver/ Rede goële’hi hou liçer/ Didan an earc’h ag an aër”, ossia “Fino a quando non verrà un salvatore cristiano,/ Dovremo sbiancare la nostra biancheria/ Sotto la neve e il vento”. (N.d.A.)

31 - Le bretoni portano le loro brocche di latte sulla testa e, perché il liquido si agiti il meno possibile, vi immergono di solito dei rametti di rovo o di agrifoglio. (N.d.A.)

32 - Émile Souvestre, Le foyer breton, Parigi, 1874, pagg. 144-155.

33 - Ammalarsi e morire, o almeno rischiare di, è una conseguenza piuttosto frequente degli incontri col soprannaturale, tanto nel folklore bretone quanto in quello di altre parti di Europa. Più l’incontro è ravvicinato e maggiori sono le probabilità di morire, in apparenza.

34 - Il tripode occupa una posizione di rilievo nelle leggende bretoni; è un utensile che possiede in qualche modo un valore o una potenza magica. (N.d.A.)

35 - Cfr. la Groeg-Er-Loer di Le Rouzic, Carnac, pagg. 218-219. (N.d.A.)

36 - In un racconto irlandese, uno spettro non può commettere le proprie malefatte nelle case dove c’è dell’acqua pulita; entra in una casa dove non è stata presa la precauzione di gettare all’esterno l’acqua sporca (Curtin, Tales of the fairies, pag. 179). Sembra che gli spettri siano come le fate, che hanno orrore del disordine e della sporcizia (Curtin, pag. 179; Folklore, vol. VII, pagg. 166, 171).
In una storia collezionata da Kennedy, Legendary fictions of the Irish Celts, pagg. 146-147, si trova un episodio analogo dove figurano l’acqua dei piedi, la corda dell’arcolaio, la scopa, il carbone di torba. Vi si possono paragonare i mezzi utilizzati nel Connaught per allontanare le fate, che consistono nel mettere la scopa nel suo posto dietro la porta, coprire il fuoco e gettare sul letame l’acqua dei piedi (J. Cooke, Notes on Irish folklore from Connaught, Folklore, vol. VII, pag. 209). In Scozia, si toglie la corda dell’arcolaio per impedire alle fate di filare durante la notte (W. Gregor, Revue des traditions populaires, vol. IX, pag. 634). (N.d.A.)

37 - Anatole Le Braz, La Légende de la mort, 1922, vol. II, pagg. 234-238.

38 - George Sand, Légendes rustiques, “Les laveuses de nuit ou lavandières”.

39 - Giuseppe Calvia, “Esseri meravigliosi e fantastici nelle credenze sarde”, in Archivio per lo studio delle tradizioni popolari, anno XXII, num. I, pubblicato nel 1903.

40 - Maria Savi-Lopez, Leggende delle Alpi, Torino, 1889, pagg. 337-338.

41 - È anche vero che lo stesso accade in certi racconti moralizzanti buddhisti, come la storia di Fujiwara no Ason Hirotari, la numero 9 nel terzo volume del Nihon Ryōiki, opera giapponese del IX secolo. Hirotari trovò all’inferno la moglie, morta a causa della gravidanza, che doveva scontare lì sei anni di punizione per questo motivo, e lo stesso Hirotari era stato portato all’inferno proprio perché la moglie voleva che il marito scontasse una parte della punizione, in quanto il figlio era anche suo. Non era condannata a fare il bucato, d’accordo, ma quella donna era comunque sorella spirituale delle nostre lavandaie notturne. Per inciso, Hirotari se la caverà promettendo una serie di rituali in onore dello spirito della moglie e potrà così tornare al mondo dei vivi.

42 - Presso i Naga, popolazione del sudest asiatico, morti improvvise come quelle durante il parto erano considerate “morti malvagie” e trattate alla stregua di crimini orrendi, a quanto ci dice J.P. Mills. Non erano l’unico popolo a pensarla così. È almeno possibile che qualcosa di simile valga anche nel caso delle nostre “lavandaie” europee. Il non essere riuscite a portare a termine un compito con profonde valenze rituali, come è il generare una nuova vita, vale come un fallimento che deve essere punito? Potrebbe, per quanto assurdo ci possa sembrare al giorno d’oggi. Cfr. A. Jensen, Myth and Cult among primitive peoples, Chicago, 1963, pagg. 307-312.

43 - Il dolmen era la “pietra femminile”, proprio come il menhir era la “pietra maschile”. Non credo sia necessario scomodare Freud per riconoscere le allusioni.

44 - Il cadavere di bambino che troviamo in alcune versioni potrebbe esserne una variante più macabra ed esplicita: non solo la macchia del sangue come simbolo della colpa, ma la vittima stessa che deve essere cancellata.

45 - “La femme-qui-aide et la laveuse”, di Yvonne Verdier, capitolo 12 di Une campagne voisine - Minot, un village bourguignon, 1990, di Tina Jolas, Marie-Claude Pingaud, Yvonne Verdier e Françoise Zonabend.

46 - La condanna a diventare lavandaie notturne per aver rovinato il bucato altrui, oppure per aver fatto il bucato in un giorno in cui era vietato.

47 - Dino Coltro, Mondo contadino, 2009, pag. 106.

48 - Dalle fade bianche ai vari tipi di Agana/Vivana/Aganis, il folklore del Triveneto ci ha conservato diverse figure che avevano l’abitudine di fare il bucato, spesso di notte, e che potevano reagire male se qualcuno le infastidiva o cercava di toccare i loro panni, ma nessuna di esse ci è chiaramente presentata come lo spirito di una donna morta di parto o colpevole di infanticidio, quindi non le ho incluse nel nostro discorso.

49 - Un problema con le figure di lavandaie soprannaturali, notturne o meno, è l’enorme quantità di materiale che esiste sull’argomento. Se non si circoscrive il più possibile il campo che ci interessa prendere in esame, si rischia di non arrivarci mai in fondo. Per questo ho scelto di trattare solo un tipo molto specifico di lavandaia.

50 - Medea sarebbe probabilmente diventata una lavandaia notturna, in un altro folklore. Anche così, nel folklore greco si poteva comunque aspettare un ritorno dall’Ade sotto forma di morto inquieto, benché non necessariamente con un lavoro nel campo delle pulizie.