La leggenda della Morte
Capitolo XII
Gli assassinati e gli impiccati
Ogni volta che su una strada si verifica un incidente seguito da morte immediata, bisogna sempre provvedere a erigere una croce nei pressi di quel luogo. In caso contrario, l’anima del morto non troverà pace, se non dopo che un incidente simile si sarà verificato nello stesso luogo. È per questo che lungo le strade bretoni si incontrano così tante croci di pietra o di legno, piantate sul fianco delle scarpate.
Nella Haute-Cornouaille, quando si passa davanti a queste “croci della sfortuna”, l’usanza è di gettare un sasso ai loro piedi1, nel fosso.
(Comunicato da Hourmant. - Collorec.)
Sulla strada da Quimper a Douarnenez si trova la tomba di un uomo chiamato Tanguy. È morto in questo luogo, assassinato. Nessuno passa mai davanti al tumulo di terra, sotto cui è stato seppellito, senza piantarvi una piccola croce che ha improvvisato con l’aiuto di qualche ramo tagliato da una siepe vicina.
Chi viene meno a questa pratica rischia di fare un brutto incontro lungo la strada e di morire di una brutta morte, come Tanguy.
Quando una persona è stata assassinata, se l’assassino entra nella stanza in cui è stato deposto il cadavere, o anche semplicemente passa per strada davanti alla soglia della casa, le ferite del cadavere si riaprono e ricominciano a sanguinare abbondantemente2.
C’è un procedimento infallibile per scoprire un assassino rimasto sconosciuto. Soltanto, non può essere praticato che sette anni in punto dopo il decesso della vittima, quando i suoi resti sono stati riesumati e trasportati all’ossario.
Ecco come si fa. Si sceglie nell’ossario uno degli ossi più piccoli della mano destra del morto, un osso del suo indice se è possibile; lo si immerge nell’acquasantiera della chiesa, poi lo si avvolge nel proprio fazzoletto da tasca e lo si porta con sé fino a quando non si incontra in un faccia a faccia la persona che si sospetta abbia commesso l’omicidio. Gli si chiede, facendo finta di niente: «Non avete forse perso qualcosa?»
Subito lui comincerà a cercare, a tastarsi, e spesso vi risponderà: «No, non mi pare... Che cosa avete trovato, dunque?»
A quel punto, prendete il vostro fazzoletto, spacchettate l’oggetto e, stringendolo nel vostro pugno chiuso, direte: «Tendete la mano.»
Senza alcun sospetto, vi tenderà la mano e voi vi depositerete l’ossicino. Non avrà neppure fatto in tempo a riceverlo che – se è lui l’assassino – lo getterà via molto in fretta, con una brutta smorfia e gridando: «Che io sia maledetto! È un carbone ardente (eur c’hlaouen tan) che mi avete passato!»
E voi potrete constatare che, in effetti, sul palmo della mano ha una grossa vescica, come se l’ossicino del morto vi avesse impresso il marchio di un ferro rovente.
(Comunicato da Françoise Thomas. - Penvénan.)
Si dice che i suonatori, che suonano a morto per qualcuno che è morto di morte violenta senza che si sia potuto scoprire per quale causa, sappiano se sia stato un incidente o un crimine in base alla voce delle campane.
Lo strumento, qualunque esso sia, usato per commettere un omicidio, ferisce inevitabilmente tutte le persone che vogliono usarlo in seguito per un impiego normale. È così che, quando il mietitore si ferisce con la sua falce, non si evita mai di dire: «Ar fals-man, zur mad, a zo eun dra bennag a fall da laret warnhi (Questa falce, di sicuro, ha qualcosa di brutto da raccontare sul proprio conto).» Si intende che in precedenza deve essere stata usata per qualche azione malvagia.
LXXVI – Il penn-baz del morto
Désiré Mingam, di Tréduder, il mercante di maiali, dopo aver perso il suo penn-baz (bastone dalla punta ferrata) sul Foarlac’h a Lannion, ne ricevette uno nuovo in regalo da uno dei suoi confratelli di Rospez. Ora, la sera stessa, mentre rientrava a cena alla sua locanda, il bastone che gli era stato regalato si ingarbugliò in modo così terribile tra le sue gambe che finì per sbattere la testa sul selciato della strada e rimase a terra mezzo morto. Guarì comunque nel giro di quattro o cinque settimane.
Non appena ebbe ricominciato a percorrere le fiere, però, anche il penn-baz ricominciò a fargli brutti scherzi. Alla fine, si disse che tutto ciò non era naturale e, deciso a non servirsi mai più di quel randello della malora, lo appese nell’atrio per la sua cinghia di cuoio.
Trascorse del tempo, dei mesi, forse anche degli anni. Un giorno d’inverno in cui il gelo era forte, il nostro uomo ricevette la visita di un coltivatore dell’Armor di Plestin, che veniva a parlargli di affari. Una bottiglia di sidro fu stappata e, siccome il suo visitatore era tutto intirizzito, Désiré Mingam lo invitò a sedersi con lui accanto al fuoco, per berla.
Tutto d’un tratto, nel momento preciso in cui il coltivatore si sedeva sullo sgabello, nell’angolo dell’atrio, il penn-baz appeso al camino si staccò come da solo e finì per cadere proprio ai piedi dell’uomo.
«Guarda, guarda,» disse quello, raccogliendo il bastone ed esaminandolo con un’aria bizzarra, senza essere troppo curioso. «Da dove vi viene questo aggeggio?»
«Perdiana,» disse Mingam, «è uno dei miei confratelli che me l’ha donato, ormai da un po’ di tempo, e non posso dire che quel giorno mi abbia fatto un regalo vantaggioso.»
«Ah! E perché?»
«Perché non c’è incidente che quel maledetto pezzo di agrifoglio non mi abbia causato.»
Cominciò così a raccontare. Quando ebbe finito, l’uomo gli domandò: «Per cortesia, ditemi, ve ne prego, il nome del mercante che aveva il penn-baz in proprio possesso.»
«Dovreste conoscerlo, perché abita dalle vostre parti: è Jacques Bourdoullouz, di Toull-an-Héry... Vi interessa così tanto?»
«Molto, e voi capirete il perché. Prima di tutto, però, voi non avrete dimenticato, penso, che mio padre fu trovato morto col cranio fracassato sul greto di Saint-Efflam.»
«Certo, la cosa causò molto subbuglio ai tempi. Credo anche che non sia mai stato possibile scoprire l’assassino, non è così?»
«Niente più che lo strumento che era servito a commettere l’omicidio e che, secondo il parere del medico legale, non poteva essere stato che una mazza da spaccapietre o un penn-baz. Ora, il penn-baz da cui mio padre non si separava mai non era accanto al suo cadavere. L’assassino, compiuto il crimine, se l’era portato via! Quel penn-baz era marchiato con due tacche a croce sul manico. Ebbene, guardate qui!»
L’uomo tese a Désiré Mingam il bastone che aveva raccolto. Le due tacche a croce erano lì, usurate, incrostate, ma visibili.
«È dunque questo,» mormorò Mingam. «Non me ne sorprendo più, adesso. E cosa farete?»
«Volete affidarmi questo oggetto?»
«Oh! Prendetelo, tenetelo. Non lo voglio più vedere.»
Di affari non si parlò più, capirete bene. Il coltivatore ripartì il più in fretta possibile, dirigendosi verso Plestin, dove c’erano dei gendarmi. La sera stessa, Bourdoullouz, messo all’improvviso di fronte allo strumento accusatore, fu costretto a confessare il proprio crimine. È morto in galera. Dio ne abbia pietà!3
(Raccontato da Fanchon ar Fulup. - Ploumilliau, 1893.)
Le persone assassinate “ritornano” fino a che il loro assassino non ha “pagato pegno”.
Non c’è che un modo per impedire loro di ritornare: è di seppellire con loro le calzature – scarpe o zoccoli – che indossavano nel giorno della morte4.
(Fanchon ar Fulup. - Ploumilliau.)
Gli impiccati, si dice, sono condannati ad abitare tra il cielo e l’inferno, per l’eternità. Non ci sono esempi di un uomo che si sia dato volontariamente la morte impiccandosi (ar maro croug) e sia salito in cielo, ma non ci sono neppure esempi che sia precipitato all’inferno. Ecco perché.
Quando il diavolo va a raccogliere l’anima di un moribondo, è accanto alla bocca che si apposta per afferrarla, perché è da lì che esce in condizioni normali. L’impiccato, però, ha la gola serrata dalla corda5. La sua anima, trovando questo passaggio bloccato, cerca un’altra porta e, mentre il suo nemico l’aspetta in alto, lei se ne scappa tranquillamente dal basso, in modo che il diavolo rimanga truffato.
(Comunicato da Dall an Dluz. - Cléder.)
LXXVII – L’impiccato
C’erano due giovani. Uno si chiamava Kadô Vraz, L’altro Fulupik Ann Dû. Tutti e due appartenevano alla medesima parrocchia, si erano seduti allo stesso banco al catechismo, avevano celebrato assieme la loro prima Pasqua e, da allora, erano rimasti i migliori amici al mondo. Quando alle processioni si vedeva apparire uno di loro, le ragazze si davano di gomito e bisbigliavano ridendo: «Scommettiamo che l’altro non è lontano».
Sarebbe stato necessario camminare a lungo prima di trovare un’amicizia più perfetta della loro. Si erano giurati che il primo di loro che si fosse sposato avrebbe preso l’altro come suo “testimone di nozze”. «Che io sia maledetto,» aveva affermato ciascuno di loro, «se non manterrò la parola».
Venne un tempo in cui si innamorarono e la sfortuna volle che fosse della stessa ereditiera. La loro amicizia, però, non ne soffrì minimamente, all’inizio. Facevano la loro corte lealmente alla bella Marguerite Omnès, non parlavano mai male l’uno dell’altro, frequentavano anche in compagnia i vecchi di casa Omnès e brindavano alla salute reciproca con le abbondanti scodellate di sidro che Margaïdik versava loro.
«Scegli tra di noi quello che ti piacerà di più,» dicevano alla ragazza. «Tu renderai felice uno, senza rendere l’altro un geloso malvagio.»
Marguerite non poteva che sentirsi molto in imbarazzo, nonostante tutte le loro belle assicurazioni. Doveva comunque decidersi. Un giorno in cui Kadô Vraz venne da solo, lei lo fece sedere alla tavola della cucina e, sistemandosi di fronte a lui, gli disse: «Kadô, provo per voi una grande stima e una sincera amicizia. Sarete sempre il benvenuto a casa mia ma, non dispiacertene, non saremo mai marito e moglie.»
«Ah!» rispose lui, un poco sconcertato. «È dunque Fulupik che avete scelto... Non te ne voglio, e neppure a lui!»
Cercò di darsi un buon contegno, si sforzò di nascondere le proprie emozioni, ma il colpo era inaspettato e lo colse in pieno cuore. Dopo qualche parola banale, se ne andò, vacillando come un ubriaco, benché avesse a malapena portato alle labbra il bicchiere che Marguerite gli aveva riempito. Quando fu uscito dal cortile degli Omnès e si ritrovò da solo con la sua disgrazia, lungo la strada vuota che portava a casa sua, si mise a singhiozzare come un bambino a cui hanno fatto del male. Si disse: «A che serve vivere, ormai?» E prese la decisione di morire. Prima di questo, però, volle stringere la mano di Fulupik Ann Dû ed essere il primo ad annunciargli la sua fortuna.
Invece di continuare verso Kerbérennès, che era la casa della sua famiglia, prese dunque un sentiero sulla sinistra per andare a Kervas, dove abitava Fulupik. La vecchia Ann Dû pelava delle patate per la cena. Fu stupita dall’aspetto così pallido, così sofferente di Kadô Vraz.
«Che cos’hai?» gli domandò. «Sei bianco come un sudario.»
«È solo perché mi vedete nella foschia notturna, gentile madrina. Sono venuto a informarmi su quello che Fulupik ha in programma di fare domani, domenica.»
«In verità non te lo saprei dire. Pensa te che Fulupik a quest’ora sta tenendo a battesimo un neonato!»
«Bah!»
«Sì. È ancora questa ragazza Nanès, che ha partorito un figlio bastardo. Sono andati a bussare a tre porte per trovare un padrino. Nella disperazione del momento, si sono rivolti a Fulupik, che ha accettato. Avrei preferito che avesse rifiutato come gli altri tre, ma è un testardo che non vuole capire niente. Ho avuto bene da obiettare che davanti a certe malelingue rischiava di essere scambiato per il padre del bambino; si è vestito bene ed è partito per il paese. Ha anche giurato, partendo, che avrebbe fatto suonare le campane6.»
La vecchia non aveva ancora finito di parlare, quando uno scampanio gioioso risuonò in lontananza.
«Come ti stavo dicendo...» gridò Môn Ann Dû, prestando l’orecchio. Poi riprese: «Mio figlio è uno scervellato. Tu dovresti farlo ragionare, Kadô. Sei più serio di lui, tu. Temo spesso che la sua testardaggine gli porterà qualche disgrazia.»
«Siate tranquilla,» rispose Kadô Vraz. «Vi confermo al contrario che deve essere nato sotto una buona stella.» Augurandole una buona serata, girò i tacchi. Sulla soglia, si fermò per un momento. «Buona madrina,» disse. «Pregate dunque Fulupik di venirmi a raggiungere domani verso l’alba, all’incrocio della Lande-Haute.»
La Lande-Haute è un dorso di collina disseminato di erba magra e piantato con qualche ginestrone, dove pascolano le vacche dei poveri. Due strade, due sentieri semmai, si incrociano ai piedi di un calvario. È a questo calvario che si recò Kadô Vraz. Era passato prima a casa per prendere una cavezza, con la scusa di dover riportare dai campi la giumenta grigia. Attaccò la cavezza a uno dei bracci della croce e si impiccò.
Quando, all’alba del giorno dopo, Fulupik si trovò al luogo di appuntamento, fu per vedere il corpo del suo amico che dondolava tra la terra e il cielo. A quei tempi, per niente al mondo ci si sarebbe permessi di toccare un uomo che si era volontariamente dato la morte. Fulupik Ann Dû, molto addolorato, scese in pianura a raccontare la disgrazia che era capitata. Quando riferì la cosa agli Omnès, Marguerite si mise a piangere a dirotto.
«Ah!» gridò il giovane. «Dunque è lui che amate!»
«Hai commesso un errore, compagno,» rispose Omnès il vecchio, che fumava la pipa nell’atrio. «Margaïdik, ieri pomeriggio, ha annunciato a Kadô Vraz che, per quanta amicizia gli portasse, eri tu che avrebbe sposato.»
Questo fu un grande balsamo per il cuore di Fulupik Ann Dû. Seduta stante, fu deciso il giorno delle nozze. Per esempio, si convenne che non avrebbero danzato e che ci sarebbe stato soltanto un pranzo alla locanda, a causa della triste morte di Kadö Vraz.
La settimana seguente, il fidanzato si mise in strada, accompagnato da un altro giovane, per fare il “giro degli inviti”. Mentre passavano ai piedi della Lande-Haute, la sera, Fulupik si percosse la fronte tutto a un tratto.
«Ho giurato a Kadö Vraz che non avrei avuto al mio matrimonio nessun altro testimone se non lui. Bisogna che io lo inviti. È una formalità superflua, lo dico, ma almeno avrò mantenuto la mia parola. Ne va del mio benessere all’altro mondo.» Si mise così a inerpicarsi sul pendio.
Il cadavere dell’impiccato, già deteriorato, oscillava sempre attaccato alla corda. All’avvicinarsi di Fulupik, una nube di corvi se ne volò via.
«Kadô,» disse lui, «io mi sposerò mercoledì mattina. Ti avevo giurato di prenderti come mio testimone di nozze. Sono venuto a invitarti, perché tu sappia che io sono fedele alla mia parola. Il tuo coperto sarà preparato alla locanda del Soleil levant.»
Detto questo, Fulupik si riunì col suo compagno che lo attendeva a una certa distanza e i corvi, intimiditi un momento prima, terminarono di scarnificare in pace i resti mortali di Kadö Vraz. Fulupik avrebbe inoltre invitato volentieri il suo figlioccio, ma il povero piccolo essere era morto nel frattempo.
Venne il giorno delle nozze. Lo sposo novello, tutto contento, non aveva occhi che per la giovane sposa che, sotto la sua cuffia di fine merletto, bisogna riconoscere che era la la ragazza più bella che si potesse vedere. Certo, Fulupik non pensava più a Kadô. D’altro canto, non si era messo in pace con la coscienza, riguardo a questo affare? Dunque, la festa procedeva bene. Le pietanze erano succulente. Il sidro nei bicchieri aveva un bel colore di oro giallo. Gli invitati cominciavano a chiacchierare rumorosamente. Già si brindava alla salute e Fulupik si preparava a rispondere ai suoi ospiti, quando tutto a un tratto, di fronte a lui, vide levarsi il braccio di uno scheletro, mentre una voce sinistra sogghignava: «Al mio migliore amico!»
Orrore! Nel posto che gli era stato riservato era seduto il fantasma di Kadö Vraz.
Lo sposo divenne pallido. Il suo bicchiere gli cadde di mano e si frantumò in mille pezzi sulla tovaglia. Margïdik, la giovane sposa, era anche lei più bianca della cera. Un silenzio terribile si stese su tutta la sala.
Il locandiere, sorpreso di vedere che non mangiavano e non bevevano più, brontolò con un tono scontento: «Liberi voi! Ma le cose sono state preparate. Quello che non sarà consumato, sarà pagato lo stesso.»
Nessuno gli rispose.
Soltanto Kadö Vraz, alzatosi in piedi, parlò rivolgendosi a Fulupik Ann Dû: «Come mai sembro essere di troppo, qui? Non mi avevi invitato tu? Non sono forse io il tuo testimone di nozze?»
Siccome Fulupik rimaneva in silenzio, col naso incollato al suo tovagliolo, «Non ho niente a che fare con quelli che sono qui,» continuò il morto. «Non voglio guastare a lungo il vostro divertimento. Me ne andrò. Ma tu, Fulupik, ho il diritto di domandarti soddisfazione. Ti darò di nuovo un appuntamento alla Lande-Haute per stanotte, alla dodicesima ora. Sii puntuale. Se tu mancherai, io non mancherò te!» Un secondo dopo, lo scheletro era sparito.
La sua partenza fu un sollievo per i presenti, ma le nozze si conclusero comunque con tristezza. Gli invitati si ritirarono il più in fretta possibile. Fulupik rimase solo con la sua giovane moglie. Non ne ebbe alcuna gioia; come si suol dire, aveva delle pulci nelle braccia.
«Gaïdik,» disse lui, «tu hai sentito lo spettro di Kadô Vraz. Cosa mi consigli di fare?»
Lei chinò la testa e rispose, dopo averci pensato: «Questo è un terribile momento da superare. È meglio però sapere subito di cosa si tratta. Vai all’appuntamento, Fulupik, e che Dio ti accompagni!»
Lo sposo abbracciò a lungo la sua “sposa novella” e poi, siccome l’ora era tarda, se ne andò nella notte chiara. C’era una luna bianca. Fulupik Ann Dû camminava, il cuore desolato, l’anima piena di un presentimento sinistro. Pensava: «Questa è l’ultima volta che percorro questa strada. Prima che sia passato molto tempo, Marguerite Omnès si risposerà, vedova e vergine.» Si abbandonava in questo modo a penose fantasie, fino a che, giunto ai piedi della Lande-Haute, si ritrovò faccia a faccia con un cavaliere vestito di bianco.
«Buonasera, Fulupik!» disse il cavaliere.
«Lo stesso a voi,» rispose il giovane, «benché io non vi conosca altrettanto bene di come io sono conosciuto da voi7.»
«Non vi stupite se io conosco il vostro nome. Potrei anche dirvi dove state andando.»
«Decisamente, voi ne sapete molto più di me su tutte quante le cose. Perché io vado non so dove.»
«Voi andrete, in ogni caso, all’appuntamento che vi ha dato Kadô Vraz. Salite in groppa. La mia bestia è robusta. Porterà senza fatica un doppio carico. E all’appuntamento dove volete andare, sarà meglio essere in due che da soli.»
Tutto ciò sembrava parecchio strano a Fulupik Ann Dû. Ma aveva la testa così smarrita! E poi il cavaliere parlava con una voce così gentile! Si lasciò persuadere, montò a cavallo e, per tenersi in sella, strinse lo sconosciuto con le braccia attorno alla vita. In un batter d’occhio furono sulla cima della collina. Davanti a loro la forca si stagliava nera contro il cielo color argento e il cadavere dell’impiccato, che non era più che uno scheletro, dondolava nel vento leggero della notte.
«Scendi adesso,» disse a Fulupik il cavaliere di bianco vestito. «Vai senza paura dallo scheletro di Kadô Vraz e toccagli il piede destro con la mano destra, dicendogli: “Kadô, tu mi hai chiamato e io sono venuto. Parla, se lo desideri. Cosa vuoi da me?”»
Fulupik fece quanto gli era stato appena ordinato e proferì le parole sacramentali. Lo scheletro di Kadô Vraz si mise subito a scuotersi con un suono di ossa che sbatacchiano tra loro e una voce sepolcrale grido: «La mia maledizione sia su chi ti ha insegnato8. Se tu non lo avessi trovato sulla tua strada, a quest’ora io sarei in viaggio verso il paradiso e tu avresti preso il mio posto su questa forca!»
Fulupik se ne tornò sano e salvo verso il cavaliere e gli riferì l’imprecazione di Kadô Vraz.
«Va bene,» rispose l’uomo bianco. «Monta di nuovo a cavallo.» Discesero il pendio al galoppo.
«Qui ti ho incontrato,» riprese lo sconosciuto, «e qui io ti lascio. Vai a raggiungere la tua sposa. Vivi con lei in buona intesa e non rifiutare mai il tuo aiuto ai poveri che si rivolgeranno a te. Sono il bambino che tu hai fatto battezzare. Vedi che di un bastardo Dio può fare un angelo. Tu mi rendesti un grande servizio acconsentendo a essere il mio padrino, dopo il rifiuto di tre persone. Adesso io ti ho reso un servizio uguale. Siamo pari. Arrivederci, nella gloria del cielo9!»
(Raccontato da Lise Bellec. - Port-Blanc.)
NOTE
1 - In Irlanda, nel luogo dove un uomo è morto di morte violenta, si pone un mucchio di pietre che ogni passante accrescerà (Haddon, A batch of Irish folklore, Folklore, t. IV, p. 357). In Scozia, si crede che la terra che copre il posto dove è stato commesso un omicidio sia rimescolata da degli uccelli durante la notte (G. Henderson, Survivals in belief among the Celts, p. 98).
2 - In Scozia e nelle Ebridi è un modo per scoprire l’autore di un omicidio. Un assassino che è stato costretto a toccare con la propria mano il cadavere della sua vittima riceverà su di sé un getto di sangue, o almeno il sangue comincerà a colare dalle ferite (Mac Phail, Folklore from the Hebrides, Folklore, t. VII, p. 403).In Irlanda il funerale di una persona assassinata deve passare davanti alla casa dell’assassino (Haddon, A batch of Irish folklore, Folklore, t. IV, p. 360).
3 - Confrontate, nelle Vieilles histoires du pays breton, pp. 284-301, l’accetta che è servita a commettere un omicidio e che non tarda a portare la morte nella casa dove è conservata.
4 - Un uomo assassinato ritorna di notte fino a che non ha punito l’assassino (D. Hyde, Beside the fire, p. 160). Il re O’Conchubhair, ucciso da Thomas de Bûrca, ritorna tre notti di seguito a scaglire il suo assassino contro il suolo e la terza volta lo lascia morto sul posto (G. Dottin, Contes irlandais, pp. 49-52); è invisibile a tutti, eccetto che alla sua vittima.
In Scozia, quando un omicidio è stato commesso, si crede che lo spirito dell’assassinato ritorni a tormentare l’assassino per obbligarlo a confessare il proprio crimine (W. Gregor, Folklore of the North-East of Scotland, p. 69). Se si seppelliscono le calzature di un uomo assassinato, gli si impedisce di ritornare a tormentare la gente della zona in cui l’omicidio è stato commesso (Revue des traditions populaires, t. V, p. 255; G. Henderson, Survivals in belief among the Celts, pp. 275-276). Si crede anche che gli spettri che infestano i cimiteri siano quelli che hanno commesso un crimine e che non possono riposare prima di averne fatto una confessione a una persona viva (W. Gregor, Notes on the folklore of the North-East of Scotland, p. 215).
Nelle Ebridi, si dice che il fantasma di una persona assassinata infesti il luogo dell’omicidio fino a che non abbia trovato qualcuno più forte di lui che lo atterri, lo costringa a parlare e a raccontare la propria storia (Mac Phail, Folklore from the Hebrides, Folklore, t. VII, p. 401).
In Galles, la credenza che un uomo assassinato ritorni a infestare il luogo dove il suo corpo giace senza sepoltura, o fino a che il suo assassino non sia stato punito, è segnalata da E. Owen, Welsh folklore, p. 193, e da Rhys, (Celtic folklore, p. 73).
5 - È senza dubbio per analogia con la corda dell’impiccato che in Irlanda si dice che chiunque passi sotto una corda di canapa morirà di morte violenta, oppure commetterà un crimine (lady Wilde, Ancient legends, p. 206).
6 - In Bretagna, di solito non si suonano le campane per i battesimi dei figli illegittimi. Questi battesimi sono detti “silenziosi” (ar vadeziant zioul). È un atto meritorio ed è una buona raccomandazione di fronte a Dio aver tenuto a battesimo un bastardo (Luzel, Revue de Bretagne, de Vendée et d’Anjou, t. IV, 1890, p. 301).
7 - È un dettaglio frequente nelle storie irlandesi che gli esseri fatati conoscano e chiamino per nome i personaggi con cui hanno un qualche affare (Contes et légendes d’Irlande, p. 12; cfr. pp. 98, 195).
8 - Cfr. G. Dottin, Contes irlandais, p. 191, l. 25.
9 - Cfr. Luzel, Légendes chrétiennes, t. II, p. 126: L’ombre du pendu.