Adriano - racconti e altro

Il buon fratello

Nelle parti d’oriente c’era una volta un re potentissimo, il quale aveva un fratello che tutti chiamavano il duca. Un giorno il re chiamò il fratello e gli disse di apparecchiar ogni cosa in modo che all’indomani potesse uscire alla caccia nel vicino bosco. Gli apparecchi furono fatti. Al mattino tutti, per tempo, vanno al bosco, e la caccia fu allegra assai. Quando venne la sera, il capo caccia suona il corno, segno che tutti dovevano raccogliersi per tornare nella città. Accorrono i cacciatori al suono del corno, ma alla chiamata manca il re. Lo aspettano e quando, dopo lungo aspettare, non lo vedono farsi innanzi, tutti pensierosi si mettono a cercarlo di qua e di là per il bosco. Il duca specialmente era fuori di sè per il dolore. Dopo aver camminato per un buon pezzo, finalmente con suo gran contento vede il re appoggiato a un marmo candidissimo. Appena vedutolo, dice: Perchè, fratello carissimo, non sei tu accorso al suono del corno? Forse che non l’hai udito? Ma tu mi sembri mesto; rispondimi, chè noi tutti siamo in pena per te.

Risponde il re: Oh! se tu sapessi, fratel mio, ciò che m’è accaduto, mi compiangeresti.

- Parla dunque, - ripiglia l’altro.

- Or bene, ti dirò tutto. Io ero qui intento alla caccia. Vedo un magnifico sparviero levar il volo. Lo prendo di mira, lo colpisco e una goccia del suo sangue cade proprio su questo bel marmo. Tosto, senza ch’io sappia il perchè, mi dimentico della caccia e mi viene un pensiero, che non posso cacciar dalla mente, e che mi fa così mesto come tu vedi. Il pensiero che mi affligge egli è, che, se io potessi avere per sposa una giovane che fosse candida come questo marmo e rossa come questo sangue, sarei il più felice uomo del mondo. Ma com’è possibile che ciò s’avveri? Ecco perchè io m’affliggo.

Dice il duca: Acchetati, fratello mio, perchè, se tutti i guai che t’addolorano son questi, io stesso ci rimedierò. Io son buono, vedi, d’andar in cerca della bella giovane che tu desideri per sposa e trovartela, fosse anche in capo del mondo.

Il re si lasciò persuadere dalle parole del fratello, e in sua compagnia raggiunse i cacciatori.

Il giorno dopo, il duca, preso seco un valente pittore, se n’andò al marmo, presso il quale aveva trovato la sera innanzi il re afflitto. Qui fece che il pittore dipingesse sopra una tela una giovane bellissima, candida come il marmo e vermiglia come il sangue dello sparviero. Poi, salutato il re, con un solo servo fidato partì e cominciò il giro del mondo in cerca della bella donna.

Dopo sett’anni, tutti i paesi in terraferma che si conoscono gli aveva percorsi. Rivoltosi allora al servo, disse: Ormai è tempo che ci mettiamo in mare, che forse la fortuna ci sarà più amica. - Si accordò col capitano di una nave e dopo un lungo viaggio giunse a un’isola. Seppe che qui dovevasi vendere un cavallo veramente maraviglioso. La maraviglia stava in questo, ch’esso era tanto veloce da percorrere un dieci miglia al minuto. Il duca s’invaghì del cavallo e, desiderando di farne un presente al fratello, si fece mettere a terra e lo comperò. Montato poi ancora in sulla nave, viaggiò e viaggiò e non si vedeva che cielo e acqua, fino a che giunse a un’altra isola. Sceso, gli fu riferito che qui si doveva vender un pappagallo pur maraviglioso. E la maraviglia stava in questo, che ringiovaniva di dieci anni chiunque lo avesse accarezzato. Anche di questo si invaghì il duca e, per farne un presente al re, s’accordò del prezzo e lo comperò. In ogni città, in ogni paesucolo, a cui la nave approdava, era sua prima cura d’informarsi delle più belle donne che vi fossero, ma non ancora era stato fortunato di trovar quella, che solo s’avvicinasse in bellezza al ritratto che portava seco. Afflitto per queste sue vane ricerche, volle mutar nave, sperando sempre che da ultimo la fortuna gli arriderebbe. Un giorno, mentre discorreva col nuovo pilota, si fece portar innanzi il ritratto, e domandò a quello se ne’ suoi lunghi viaggi avesse mai visto una donna così bella. Rispose il pilota: Se io vi dicessi che ne vidi già una che vince costei in bellezza, come il sole vince in splendore la luna, voi non mi credereste. Eppure questa è la verità.

- E dov’è questa donna tanto bella? - domandò tutto lieto il duca.

- Dove la sia è detto ben presto. Vedete voi laggiù, all’orizzonte, quel magnifico palazzo che sorge dall’acqua? Là abita la donna di cui vi parlo. Però non vi pensate nè anche di poterla vedere, perch’ella si sta sempre chiusa nel suo palazzo. E se io fui fortunato di vederla, fu un caso, chè un giorno, passando di là, la giovane si fece alla finestra e così la vidi.

Al sentir questo, il duca venne in tanto desiderio di veder la giovane, che cominciò a pregare il pilota che lo mettesse a terra vicino a quel palazzo. Poi promettendogli gran danaro, lo persuase a volerlo aiutare nell’impresa non solo di veder la giovane, ma anche di rapirla. Sbarcati dunque, il duca, vestitosi da gioielliere e presa una cassetta di gioie, andò sotto alle finestre del palazzo, e passeggiando su e giù gridava: Le belle gioie! le belle gioie! Era poco che il finto gioielliere si trovava lì, quando sente aprirsi piano piano una finestra e per uno spiraglio scorge il viso d’una bellissima giovane. Questa, chiamatolo a bassa voce, gli dice: Buon uomo, aspettate un poco che tosto discendo con la mia padrona, perchè siamo curiose di vedere le vostre gioie. - Il duca fa cenno che le aspetta e intanto pensa: Dio mio! s’è così bella la cameriera, che sarà mai della sua padrona? Ed ecco si spalanca la finestra, e per una scala di seta scende una giovane così bella, che a paragone di lei il ritratto era uno scarabocchio, e poi scende la cameriera. Come furono giù, s’accostarono al gioielliere, e fatta aprire la cassetta, subito la signora esclamò: Oh! non sono poi così belle com’io credeva; di assai più belle ne ho io nel mio palazzo. - Il duca, che non pensava ad altro che a rapire la giovane, disse: Senta, la mia buona signora; un pover’uomo non può mica portar seco gioie di troppo gran valore, perchè c’è sempre da temere dei ladri; però se lei fosse così buona di venire un po’ in quella nave, che vede laggiù ancorata, le farei vedere tali gioielli da maravigliare. - E la signora: Che dite voi mai? Non sapete ch’io son guardata a vista e non so nè anche perchè mi sia lasciata indurre a scendere in istrada. - Ma e il gioielliere e la cameriera insistettero tanto che da ultimo ella promise al giovane che il giorno seguente lo aspetterebbe e si lascerebbe condurre alla nave.

Venuto il giorno seguente, il giovane fu puntuale, com’è da credere, al convegno. Andò sotto la finestra del palazzo gridando: Le belle gioie! le belle gioie! Ed ecco aprirsi la finestra e per la scala di seta discendere la bellissima signora. Discesa, si guardò attorno, per paura che alcuno la vedesse, e poi, accostatasi al duca, disse: Eccomi pronta, andiamo pure alla nave.

Andarono, ma non appena furono dentro, che il pilota fece levar l’àncora, e la nave, come una saetta, prese il largo per l’alto mare. Appena la giovane s’accorse del tradimento, cominciò a gridare e a strepitare predicendo danni e disgrazie al rapitore e a sè stessa, e pregava il pilota e i marinai che la riconducessero a terra. Tutto inutile, chè nessuno l’ascoltava. Allora fece per gettarsi in mare, ma il duca la trattenne a viva forza. Poi, presala per mano, la condusse in una stanzetta e, chiusa a chiave la porta, cominciò a confortarla. Poco dopo, come vinta da stanchezza, cadde in un profondo sonno. Poteva aver dormito una mezz’ora, quando tutto pallido e tremante si sveglia e gira gli occhi di qua e di là come uno spaventato. La giovane gli domanda: Che v’è accaduto, che mi parete mezzo morto di paura? - Risponde il giovane: Mentr’io dormiva, m’è apparsa un’ombra terribile, la quale minacciando m’ha detto: Ah! duca, duca, tu porti a regalare al re tuo fratello un cavallo incantato. Guardati bene, perchè appena egli lo cavalcherà, un serpente lo divorerà, e se tu parlerai di sasso diventerai.

- Non ve l’ho detto io fin da principio, - disse mesta la giovane, - che la mia compagnia v’avrebbe portato disgrazia? Oh! m’aveste creduto.

E il giovane ripigliò: Per questo non voglio disperarmi. Quanto al cavallo, appena mio fratello gli s’accosterà per volerlo cavalcare, io lo passerò da parte a parte con la spada.

Detto questo, s’addormentò da capo, e da capo subito dopo si desta tutto spaventato. La giovane gli domanda la cagione del suo turbamento, ed egli risponde: M’è comparsa la medesim’ombra di prima e con cipiglio minaccioso m’ha detto: Ah! duca, duca, tu porti al tuo fratello il pappagallo incantato; ma pensaci bene prima, perchè non appena egli lo toccherà, un serpente lo divorerà, e se tu parlerai di sasso diventerai.

- Oh! poveretta me, - esclamò la giovane, - lo sapeva io che la sarebbe riuscita così; perchè non ascoltarmi?

Poco dopo per la terza volta il duca s’addormenta e poco stante per la terza volta si sveglia a un tratto tutto atterrito.

- Che avete? domanda la giovane.

- Se sapeste l’orribil sogno ch’io ho fatto. M’è comparso da capo la medesim’ombra e mi ha detto: Ah! duca, duca, tu porti al re tuo fratello la bella giovane; guarda bene però, perchè non appena egli la toccherà, un serpente lo divorerà, e se tu parlerai di sasso diventerai.

Disse la giovane: È veramente orribile il sogno che voi faceste. Sappiate poi ancora che quello che così vi minacciò è un mio zio, del quale era il palazzo da cui mi levaste con l’inganno. Egli è un potentissimo mago, e quand’ha giurato di vendicarsi di alcuno, non c’è forza umana che lo possa salvare.

Ripigliò il giovane: Finchè si trattava del cavallo incantato e del pappagallo, il rimedio mi pareva facile uccidendoli... ma uccidere voi io non posso.

- Vedete dunque s’io aveva ragione, quando vi scongiurava a lasciarmi; concedete ora almeno ch’io mi getti in questo mare e sarete libero d’ogni guaio.

- Mai, mai più concederò questo, - rispose il giovane; - piuttosto morir io che esser causa della vostra morte.

Intanto dopo alcuni mesi di viaggio e per terra e per mare, giunse il duca in patria. Quando vi fu, si presentò al fratello e abbracciatolo disse che gli aveva condotta la sposa da lui desiderata e, oltre a ciò, alcuni presenti di raro pregio. Appena il re sentì nominare la sposa, voleva subito vederla, ma il duca non volle, dicendo: Sappi ch’io ho viaggiato molto e molto, specialmente nelle parti d’oriente. La giovane ch’io conduco è appunto di questi paesi ed ella desidera seguirne in tutto e per tutto le costumanze. Or tra queste ce n’è una, per la quale la sposa non si mostra allo sposo se non il terzo giorno dopo che siano incominciate le feste delle nozze.

Al re, suo malgrado, convenne acconciarsi a questa costumanza; e per non perder tempo, comandò subito si facessero gli apparecchi per le feste. All’indomani fu il primo giorno di corte bandita, e grande era il numero degli invitati. Al termine del banchetto, al quale sedevano i grandi del regno, il duca s’alzò e disse loro che egli da’ suoi viaggi aveva condotto seco un cavallo così maraviglioso, che, appena uno gli montava in sella, correva dieci miglia al minuto. Tutti, all’udire questa novella, la credevano una smargiassata; ma il duca li cavò ben presto da questa falsa credenza, perchè fattosi condurre il cavallo, saltò in sella e dato di sprone volò su esso con tanta velocità che appena l’occhio gli poteva tener dietro. Quando torna, vogliono provar gli altri, ed è sempre lo stesso, chè il cavallo percorre dieci miglia al minuto. Il re, presente alla prova, non era meno maravigliato degli altri, e vuol pur esso provare. Invano cerca il duca de’ pretesti per dissuaderlo, chè quello, sempre più ostinato, s’avvicina al cavallo e già pone il piede in sulla staffa, quando il fratello, che ben ricordava le minacce del mago, sguaina la spada e d’un colpo taglia le quattro gambe alla magnifica bestia. Il re, al vedere quest’atto, che crede un disprezzo a suo riguardo, monta in tanta collera, che, sguainata pure la spada, s’avventa contro il fratello. Gli astanti poterono a stento trattenere i due fratelli e di nuovo riappacificarli. Così era terminato il primo giorno delle feste.

Venuto il secondo, durante il banchetto, il fratello del re fa venire il pappagallo, e dice: Chi tocca questo pappagallo, diverrà più giovane di dieci anni. Il re stende subito la mano per toccar l’uccello, ma vi s’oppone il duca, dicendo: Non fate, chè ciò sarebbe contro ogni giustizia. Bisogna cominciar da’ più vecchi e venire giù giù a’ più giovani.  - Così si fece; però, quando venne la volta del re, il fratello improvvisamente con la spada uccide il bellissimo pappagallo. Il re s’adira di nuovo, e ancora a stento possono tenerlo i circostanti dal non uccidere il duca.

Venne il terzo giorno delle feste, e questo fu il più splendido. Durante il banchetto, il duca fece condurre innanzi la giovane, la quale apparve tanto bella, ancorchè si mostrasse mesta, che tutti rimasero come incantati. Il re poi, a cui quella doveva essere sposa, era fuori di sè per l’allegrezza e avrebbe voluto subito accostarsele e abbracciarla. Ma lo ritenne il fratello dicendogli: Ne’ paesi di questa giovane è costume che lo sposo non tocchi la sposa se non quando le nozze siano state celebrate. - Si celebrarono dunque le nozze, e queste furono così sontuose che mai si videro le uguali. Venne la sera e i due giovani sposi se n’andarono a letto. Non appena però il re fece per baciare la giovane, che s’aperse il soffitto della camera ed entrò un terribile serpente. Questo in un baleno si avventa addosso al re, quando una mano invisibile alza una spada e tronca la testa al mostro. Il re, rientrato in sè dallo spavento, grida: Aiuto, aiuto. Accorrono i servi, e vedono lungo disteso per terra il serpente, e poi traggono di sotto il letto il duca che ancora teneva in mano una spada insanguinata, con la quale appunto aveva ucciso il mostro. Al re parve questo un tradimento del fratello, e tenne per fermo che si fosse nascosto per togliergli la vita durante il sonno; e, senza ascoltar le preghiere di alcuno, lo fece gettare in un’oscura prigione.

Eran passati più anni che il duca si trovava chiuso nella prigione, quando mandò a dire al re che gli concedesse una grazia. La grazia era, che voleva scolparsi della taccia di traditore, e poi era pur contento di morire. Il re credette di concedergli quanto chiedeva e chiamati tutt’i principi, marchesi e conti ch’erano stati presenti alle feste di nozze, fece venire innanzi a loro il duca. Questi, come fu alla loro presenza, cominciò a parlare in questo modo:

- Voi dovete sapere che solo l’amore per il fratello mi condusse a cercar quasi tutto il mondo, perch’egli avesse la bella sposa, ch’ora forma la sua delizia. E io al fine la trovai e mi convenne rapirla con inganno , chè altrimenti non avrei potuto. Mentre me ne ritornava su una nave tutto contento, ecco nel sonno m’appare un mago il quale dice: Ah! duca, duca, tu meni al re il cavallo incantato, sappi però che appena egli lo cavalcherà un serpente lo divorerà, e se tu parlerai di sasso diventerai. E perchè il re mio fratello non avesse a morire, io tagliai le gambe al cavallo maraviglioso.

Non ebbe appena dette queste parole, che un grido di terrore s’alzò da tutti quelli ch’erano presenti. Le gambe del duca erano diventate di pietra. Gridavano tutti: Non più, non più; taci, taci. Ma il duca continuò:

- M’addormentai un’altra volta, e un’altra volta m’apparve il mago e con voce più terribile gridò: Ah! duca, duca, tu porti al re il pappagallo maraviglioso, sappi però che appena egli lo toccherà un serpente lo divorerà, e se tu parlerai di sasso diventerai. Ed io, come avete veduto, quando il re lo volle toccare, uccisi il pappagallo.

Detto questo, un altro grido di terrore s’alzo dai circostanti. Il busto del duca era diventato pietra. Tutti gridavano: Non più, non più; taci. Ma il duca continuò:

- M’addormentai per la terza volta, e per la terza volta m’apparve il mago e adirato disse: Ah! duca, duca, tu vuoi condurre al re tuo fratello la bella giovane ch’è mia nipote. Guardati dal farlo, perchè appena egli la toccherà un serpente lo divorerà, e se tu parlerai di sasso diventerai. Ed io, perchè ciò non avvenisse, mi nascosi sotto il letto degli sposi, e quando venne il mostro sotto forma di serpente per uccidere il re, con la spada lo spensi. Ormai il sacrificio è compiuto; e se muoio, muoio contento, perchè non sarò più tenuto per un traditore.

Ebbe appena dette quest’ultime parole, che tutto il corpo del duca non era più che una statua di marmo. E tali sembravano i presenti, tant’era la commozione provata per il caso dello sventurato principe. Ma più di tutti si mostrava commosso il re e più disperata ancora la regina.

Passarono alcuni anni da questo fatto, e la regina un giorno, entrata nella sua stanza, s’inginocchiò e così prese a pregare ad alta voce: Zio, o zio, la tua vendetta ormai è compiuta, la tua ira dev’essere ormai sazia; abbi pietà d’una sventurata, cagione di tanti dolori. Insegnami tu il modo di ridonar la vita all’infelice cognato. - Le rispose una voce, che pareva venisse di lontano: Io non posso far questo, tu sola lo puoi.

- Come lo poss’io? - domandò la giovane.

- Ecco, tu devi svenare i tuoi tre bimbi e col sangue di essi ungere la statua del cognato, e subito lo spirito della vita rientrerà in lui.

Inorridì la regina a questa proposta e per poco non svenne. Quando rientrò in sè, le parve d’essere come una pazza. Girava di qua e di là e non sapeva risolversi a seguire il crudele consiglio del mago, chè troppo bene voleva a’ suoi tre bimbi. Un giorno, come spinta dal destino, piglia un coltello, va alla stanza, dove dormivano i tre bimbi e, chiusi gli occhi, taglia loro la gola; ma non ha appena compiuto il misfatto, che il coltello le scappa di mano, manda un urlo e cade a terra fuori de’ sentimenti. Accorrono i servi, accorre il ree vedono l’orribile scena. Rinvenuta, la regina conta tra i singhiozzi l’accaduto e abbracciando lo sposo inorridito dice: Vedi a che m’ha condotto l’amore della giustizia; per te si è sacrificato il duca, e io per lui ho sacrificato i tuoi figli. Di questi noi ne potremo aver ancora, ma un cognato e un fratello tale, morto una volta, è follia solo il pensar di riaverlo.

Il pianto sgorgava dagli occhi del re e di tutti i presenti, che fu solo temperato dal comparire del duca, salvato col sangue dei tre bimbi uccisi. E così ebbero termine gli affanni de’ giovani sposi, che non ebbero più a soffrire della crudeltà del mago e vissero vita tranquilla e lieta.

Commento

Una storia lunga e piuttosto complicata, come si può capire già a prima vista. Vediamo di prendere in esame le sue componenti una alla volta.

Candida come il marmo e rossa come il sangue: manca solo la chioma nera come le penne del corvo e poi abbiamo il tipico modello di bellezza celtica, come compare in forma maschile nella storia irlandese di Deirdriu e in forma femminile nelle avventure di Parsifal (versione di Chrétien de Troyes) e di Peredur (Mabinogion). Lo stesso Parsifal, guardando quella combinazione di colori, cadde in una trance simile a quella del re della nostra fiaba e sconfisse anche due cavalieri in una giostra, quasi senza accorgersene. Il re non fa altrettanto, ma si limita a smarrirsi durante la solita battuta di caccia, forse l’incidente più usato per separare temporaneamente un aristocratico dalle sue balie.

La semplice coppia di colori rosso e bianco, peraltro, è interessante già così, perché ci rimanda a una dicotomia che risalirebbe almeno al neolitico in questa forma cromatica: la vita e la morte, rappresentate per l’appunto dal rosso, colore del sangue, e dal bianco, colore delle ossa scarnificate. Perché il sangue rappresenterebbe la vita e le ossa la morte, poi, mi pare evidente a sufficienza e non credo ci sia bisogno di dilungarsi. Aggiungendo il nero, che in questa fiaba però manca, abbiamo anche i tre cavalieri al servizio della Baba Yaga e che rappresentano il rosso dell’alba, il bianco della luce del giorno e il nero della notte.

Dettagli cromatici a parte, la fase iniziale della storia presenta il solito schema del re che ha bisogno di qualcosa e un membro della sua famiglia parte alla ventura per trovarlo: qui tocca al fratello, anziché ai soliti tre figli, ma il risultato non cambia. I tre oggetti che saranno recuperati nel corso del viaggio sono un cavallo magico, un uccello magico e una donna magica, come vuole la tradizione: la conquista dei primi due è meno avventurosa del solito, ma sono dettagli. Da notare poi che qui la donna “magica” non ha nome, mentre in molte altre varianti dello stesso motivo le è assegnato un epiteto altisonante, quasi divino. Nell’Ottocento e dintorni fiabe come questa sarebbero state considerate un mito solare, con la donna che rappresenta l’alba o qualcosa di simile, che l’eroe deve liberare dalla sua prigione per far nascere il nuovo giorno, ma lasciamo perdere.

Il rapimento della fanciulla segue uno schema classico, che troviamo tanto nelle fiabe quanto in racconti medievali più o meno epici: ci si finge mercanti, si attira la vittima sulla nave per mostrarle rare mercanzie e poi si prende il largo, prima che lei se ne possa accorgere. Più interessanti sono i tre sogni premonitori che l’eroe farà subito dopo e che gli annunciano il tipo di maledizione che lo ha colpito in seguito al rapimento della ragazza: tutti gli oggetti che ha recuperato e che vuole portare al fratello sono avvelenati e causeranno la morte del re. Se l’eroe cercherà di avvertire qualcuno, finirà pietrificato. Dovrà quindi fare tutto da solo e patirne le conseguenze.

Il motivo della fanciulla velenosa è triplicato: ragazza, cavallo e uccello sono tutti e tre collegati a un serpente, che l’eroe dovrà uccidere per salvare il re dalla morte. In particolare, nel terzo caso non se la potrà cavare distruggendo l’oggetto velenoso, ma dovrà nascondersi nella camera da letto della coppia e agire al momento giusto, per uccidere il serpente. A differenza di quanto accade nelle fiabe in cui il motivo della fanciulla velenosa è abbinato a quello della gratitudine del morto, qui l’eroe deve patire tutte le conseguenze del proprio atto, non potendo raccontare la verità. Solo anni dopo deciderà di parlare e la maledizione si attiverà pietrificandolo, quando tutta la corte lo riconosce come innocente. Sarà poi necessario il sacrificio dei figli della fanciulla velenosa per annullare la maledizione e liberare l’eroe pietrificato, giungendo così a un lieto fine sui generis.

Possiamo sottolineare che la morte di un figlio compare spesso nelle storie dove troviamo il motivo della gratitudine del morto: dopo aver ricevuto dall’eroe la promessa di dividere ogni cosa con lui, il morto pretenderà di dividere in due anche il bambino. In quei casi è solo un test e il bambino non è ucciso davvero. Qui invece di bambini sono tre e tutti e tre sono uccisi dalla madre, per ricambiare il sacrificio del genero.

Una fiaba curiosa, appunto, dove si mescolano diversi motivi classici, con un retrogusto di vaga barbarie: la scena dei bambini sgozzati non si può descrivere in molti altri modi e ci rimanda a un periodo storico che non è certo la fine dell’Ottocento, almeno non nel mezzo della pianura padana, dove Visentini raccolse la storia. Che contenga un ricordo di antichi miti? Forse, può essere. Sono solo ipotesi interpretative e il loro valore è relativo.