Il tumulo di Lovecraft e i mondi sotterranei
L’opera letteraria di Howard Phillips Lovecraft, oltre ai racconti pubblicati a proprio nome, include anche un buon numero di racconti classificati come collaborazioni. Alcune di queste storie sono collaborazioni nel vero senso del termine, che Lovecraft ha scritto assieme a colleghi o amici; molte altre, invece, sono storie che lui ha revisionato, oppure che ha scritto su commissione. Il cliente gli forniva un testo da correggere, in alcuni casi, mentre in altri si limitava a suggerirgli una possibile trama e Lovecraft provvedeva a scrivere il racconto, che sarebbe poi apparso in pubblicazione sotto il nome del committente. Questo come premessa generale.
Tra le storie di Lovecraft prodotte su commissione, un posto di rilievo lo occupa il racconto lungo The mound, pubblicato in italiano a volte come Il tumulo, a volte come K’n-yan1. Scritto tra la fine del 1929 e l’inizio del 1930 per conto della signora Zealia Brown Bishop, che avrebbe fornito a Lovecraft soltanto una vaga idea su una collinetta in una zona dell’Oklahoma, dove apparirebbe il fantasma di un indiano che a volte sembra una donna, si sviluppa in una lunga storia che espande i miti di Cthulhu, arricchendoli di mondi sotterranei a più livelli, popolazioni antidiluviane dai poteri misteriosi, creature preumane di aspetto abominevole e tutto il resto dell’armamentario che ha reso famoso il nostro autore dopo la sua morte.
Fin qui, tutto normale. Un particolare curioso di questo racconto, però, è che presenta somiglianze con alcuni miti dei nativi americani, in particolare quei miti cosmogonici che raccontano come i primi esseri umani vivevano in un mondo sotterraneo, a volte a più livelli, dal quale sarebbero emersi seguendo un percorso che è quasi l’opposto di quello raccontato da Lovecraft nella sua storia. Se in The mound troviamo un personaggio che abbandona il mondo di superficie per scendere negli abissi della terra, dove scoprirà un nuovo mondo, i protagonisti dei miti indiani partono dal mondo sotterraneo e ascendono pian piano verso la superficie, superando a volte alcuni livelli intermedi. La somiglianza tra il racconto lovecraftiano e i miti dei nativi americani è solo una coincidenza, come può accadere spesso, oppure Lovecraft era a conoscenza di questi miti e li ha integrati volontariamente nella propria storia, usandoli come materia prima con cui costruire la sua avventura? Sarà difficile trovare una risposta definitiva a questa domanda, in assenza di materiale esplicito, ma proviamo ugualmente a osservare più da vicino le presunte affinità.
Partiamo dal racconto di Lovecraft. La trama e gli eventi non sono importanti in questo caso e li possiamo ignorare senza problemi: ciò che conta è solo la cosmologia che l’autore ci presenta per il sottosuolo. Se in altri suoi racconti troviamo già anticipazioni di un mondo ctonio, come ad esempio il misterioso abisso di luce azzurra che compare verso la fine della storia La città senza nome, è solo in The mound che Lovecraft ci offre una descrizione più dettagliata e precisa di come sarebbe strutturato questo mondo dentro il mondo. Attraverso la narrazione fatta da un personaggio della storia, vissuto nel Cinquecento e membro della spedizione di Coronado, scopriamo infatti che esistono ben tre livelli sotterranei: K’n-yan, Yoth e N’kai, diversi tra loro sia per le caratteristiche del territorio, sia per le forme di vita che vi abitano.
K’n-yan è il livello superiore, il più vicino al mondo di superficie, al quale è collegato da una serie di lunghi tunnel che emergono in più punti del continente americano e altrove. Questo primo livello è caratterizzato da una luce blu di origine misteriosa, che lo illumina costantemente e forma una specie di cielo non troppo diverso da quello del mondo di superficie. Ad abitarlo sono esseri umani o almeno umanoidi, simili agli indiani delle grandi pianure: un tempo appartenevano allo stesso ceppo di quelli che ancora abitano il mondo di superficie, ma in seguito avrebbero deciso di rifugiarsi nel sottosuolo, dove ancora vivono.
Il secondo livello sotterraneo è Yoth, collegato a K’n-yan da alcuni passaggi. È caratterizzato da una luce scarlatta e un tempo era popolato da una specie intelligente di quadrupedi affini ai rettili, molto avanzata sul piano scientifico e tecnologico, ma ormai estinta misteriosamente. Non abbiamo altri dettagli sul conto di questi esseri, ma è possibile che siano una variante degli abitanti che Lovecraft aveva immaginato per la città senza nome, anche se in quel caso l’abisso ctonio a cui erano collegati aveva la luce blu come sua caratteristica, invece della luce rossa di Yoth.
Il terzo e più profondo livello sotterraneo è N’kai, eternamente immerso nell’oscurità. Di questo mondo ci è raccontato ben poco: sappiamo che era abitato in un passato molto remoto da forme di vita che possedevano sensi diversi, avevano prodotto grandi civiltà ma si erano estinte in modo misterioso prima ancora che Yoth fosse popolato. In seguito vi sarebbero apparse nuove creature prive di forma, simili ad ammassi di fango nero e viscido, capaci di modellarsi come preferivano. Una specie di variante degli shoggoth apparsi in altre storie di Lovecraft, insomma.
Questa è dunque la struttura del mondo sotterraneo presentato nel racconto The mound. Tre livelli, caratterizzati da tre colori diversi e tre tipi di abitanti diversi. Il livello più alto è azzurro, il secondo è rosso, il più profondo è nero. Il primo è popolato da bipedi umanoidi, il secondo da quadrupedi rettili, il terzo da creature amorfe e striscianti. Ricordiamo questa distinzione, soprattutto quella dei colori, perché la ritroveremo più avanti in storie di altra origine.
Per il resto, fin qui nulla di strano. Lovecraft racconta spesso di luoghi misteriosi sotterranei, abitati a volte da altrettanto misteriose forme di vita, umanoidi o meno. Che cosa c’è di tanto rilevante nella cosmologia che troviamo in questo racconto? C’è che presenta curiose somiglianze con alcuni miti cosmogonici diffusi fra le tribù indiane del nord America, in particolare tra le tribù stanziate nei dintorni della zona in cui la storia è ambientata. Potrebbero essere somiglianze casuali, ovvio, ma è anche possibile che abbiano costituito una fonte di ispirazione per Lovecraft. Premesso che non riusciremo in ogni caso ad arrivare a una risposta definitiva, non sulle basi di quanto sappiamo per certo, proviamo a indagare un poco su queste somiglianze.
Prima di tutto, l’ambientazione. A differenza della maggior parte delle storie di Lovecrat, The mound si svolge in Oklahoma: più nello specifico, si svolge nei dintorni di un paese di nome Binger (esiste davvero). Dal suo epistolario sappiamo che l’autore aveva scritto alla sua committente, la signora Bishop, una lettera con annesso un breve questionario per avere informazioni sul posto in cui avrebbe dovuto ambientare la storia. Cercava descrizioni del paesaggio, eventuali note di colore su avvenimenti nei dintorni, magari anche qualche leggenda indiana. Tutto ciò che, a suo parere, poteva servire a rendere più verosimile l’ambiente e, chissà, magari a fornirgli anche una qualche ispirazione. Tutto ciò che aveva come punto di partenza, ricordiamo, era questo vago suggerimento: “Dalle mie parti c’è un tumulo indiano che si dice sia infestato da un fantasma senza testa. A volte sembra una donna”. Così almeno ci riferisce Robert Barlow, amico di Lovecraft stesso.
Non abbiamo idea di cosa contenesse la risposta della signora Bishop, o almeno io non sono riuscito a trovare informazioni in proposito, anche se mi piacerebbe molto riuscirci. In mancanza di prove definitive, dobbiamo accontentarci di ipotesi. Se la descrizione del paesaggio non dovrebbe avere dato problemi, quali storie indiane potrebbe aver conosciuto Lovecraft? Di materiale ce ne sarebbe, in teoria, ma non sappiamo se fosse anche noto alla committente. Inoltre, in una sua risposta alla signora Bishop, Lovecraft scrive di avere utilizzato anche descrizioni dell’Oklahoma che aveva letto nei libri. Solo descrizioni del paesaggio o anche altro? Domanda senza risposta. Vediamo però che cosa esisteva da scoprire.
Partiamo dagli indiani Caddo, i cui superstiti vivono tuttora nei dintorni di Binger2, ossia proprio nel posto in cui è ambientato il racconto. Provenienti del Texas, per un certo periodo erano stati lasciati in relativa pace dal governo degli Stati Uniti, perché non causavano problemi ed erano collaborativi a sufficienza. Verso il 1830, però, la fame di nuove terre da colonizzare aveva convinto il governo a liberarsi di quei fastidiosi indiani, che avevano la sfrontatezza di vivere su terreni che sarebbero stati molto più utili nelle mani degli eroici pionieri statunitensi. I Caddo furono così trasferiti nelle riserve dell’Oklahoma, dove ancora sopravvivono in un qualche modo.
Fra i racconti di quel popolo ce n’è uno di un certo interesse per noi: è la storia della creazione e delle prime migrazioni3. È un mito cosmogonico, incentrato soprattutto sull’origine dell’uomo e su come fu popolata la terra: ci racconta anche le migrazioni che i primi esseri umani avevano dovuto compiere, prima di trovare finalmente il paese giusto in cui vivere. La parte che ci interessa, al momento, è soltanto quella che riguarda la prima migrazione, in un’epoca in cui il mondo era buio e sole e luna non esistevano ancora. Ci interessa perché, sebbene non specificato subito, i primi esseri umani vivevano in un mondo sotterraneo e la loro prima migrazione avviene proprio dal sottosuolo verso il mondo di superficie.
Il mito cosmogonico dei Caddo ci racconta infatti che all’inizio dei tempi regnava solo la tenebra e tutto il resto non era come lo conosciamo oggi. A un certo punto appare il primo uomo, la sola forma di vita esistente. Un attimo dopo, però, c’è già un villaggio abitato da migliaia di persone, anche se non è spiegato da dove sia spuntato. Il primo uomo scompare per un po’, per poi tornare con molti semi commestibili, che distribuisce alle altre persone. Dopo aver spiegato diverse cose alla gente e aver posto le prime basi per la civiltà, insegnando loro la necessità di avere un capo, per esempio, gli altri scelgono proprio lui come capo e gli danno il nome “Luna”.
Luna li guida poi verso il nuovo mondo in cui dovranno vivere. Capiiamo così che il loro primo villaggio si trovava sottoterra perché nel corso del viaggio emergono in superficie e scoprono che è quello il nuovo mondo. Non tutti riescono però a uscire a causa dell’intervento di Coyote, una delle persone che seguivano Luna e il primo responsabile della sua elezione a capo: guardando dietro di sé4, Coyote causa la chiusura del passaggio verso la superficie. Gli esseri umani si dividono così in due: una metà che continua il viaggio verso ovest, seguendo Luna, e una metà che torna al villaggio nel sottosuolo, perché il passaggio tra i due mondi si è chiuso. La storia poi prosegue, ma non è rilevante per noi.
Nel mito cosmogonico degli indiani Caddo, originari del Texas ma adesso trasferiti in Oklahoma, proprio accanto al villaggio dove è ambientato il racconto di Lovecraft, troviamo così un elemento che, seppure in termini diversi, appare anche in The mound: gli uomini di superficie e quelli del sottosuolo appartengono a uno stesso ceppo originario, che poi si è diviso. Alcuni vivono adesso in superficie, mentre altri sono rimasti nel sottosuolo. Il mito non ci racconta che fine abbiano fatto gli uomini rimasti a vivere sottoterra. È possibile che si siano trasformati in animali, come succederà più avanti a una parte degli umani di superficie, e in questo caso avrebbero dato origine a tutte le specie che ancora oggi vivono sottoterra. È altresì possibile che abbiano continuato a vivere come umani, ma in un mondo diverso da quello di superficie.
Una storia come questa potrebbe aver suggerito a Lovecraft almeno una parte della trama, ammesso che lui la conoscesse. Ma la conosceva davvero? Non lo sappiamo. Sappiamo che aveva chiesto alla signora Bishop, la sua committente, informazioni su eventuali leggende indiane della zona, ma non sappiamo cosa lei gli abbia risposto. Considerato che gli indiani Caddo non sono mai nominati nel racconto, apparirebbe poco probabile che Lovecraft potesse conoscere il loro mito cosmogonico. Gli unici indiani nominati nel racconto appartengono alla tribù dei Wichita, probabilmente perché sono quelli che Coronado dichiarava di avere incontrato durante la sua esplorazione, che fornirà le basi storiche per il racconto. Questo non segna però la fine della nostra ricerca, anzi.
Sappiamo che all’inizio del Novecento i Wichita e i Caddo vivevano nella stessa riserva, attorno al villaggio di Binger. Vivevano appunto in quella zona che ancora oggi si chiama Caddo County. Era lì che il governo statunitense li aveva parcheggiati, dopo averli scacciati dai territori dove abitavano in passato. Entrambi i gruppi erano arrivati lì dal Texas, anche se non dalla stessa zona, e avevano una lingua quasi in comune: se non identici, infatti, i loro linguaggi appartenevano almeno alla stessa famiglia linguistica. E le loro tradizioni, anche quelle si assomigliavano? Possibile, ma non è necessario. Avevano però un retaggio comune ed è già un punto di partenza. La forzata convivenza potrebbe avere portato anche a una minima condivisione culturale, spontanea o meno.
Se i loro miti e le loro leggende non si sono mescolati durante la forzata convivenza, una minima osmosi si potrebbe comunque essere verificata: alcuni aspetti della cultura wichita si sarebbero potuti appiccicare ai Caddo, proprio come alcuni aspetti della cultura caddo si sarebbero potuti appiccicare ai Wichita. Niente di così strano, in linea di massima. È anche possibile, poi, che tutto questo problema in realtà non esista e che nel racconto appaiano solo gli indiani Wichita perché questo era l’unico nome che la signora Bishop conoscesse, oppure perché a Lovecraft serviva un collegamento diretto con Coronado, ma è un altro discorso. Partiremo giusto per sicurezza dal presupposto che la scelta degli indiani Wichita al posto dei Caddo sia deliberata.
Cosa sappiamo dei Wichita? Che erano arrivati dal Texas, appunto, ma sappiamo anche che intrattenevano relazioni con gli indiani Pueblo5 stanziati nel New Mexico. Fin dai tempi prima dell’invasione dei coloni, per quanto è stato possibile ricostruire, le donne dei Wichita avevano l’abitudine di aiutare i Pueblo durante il periodo della raccolta e non erano rare le famiglie “miste”, con donne Pueblo che andavano a vivere tra i Wichita. Che esistesse una certa mescolanza tra questi due gruppi ci apre le porte per influssi culturali molto, molto promettenti, soprattutto per quanto riguarda la cosmogonia e la cosmologia indiana.
Tra gli indiani Pueblo troviamo infatti anche la tribù degli Zuñi6, stanziata oggi in New Mexico, al confine con l’Arizona. Come ci è riferito anche da Mircea Eliade nel suo Miti, sogni e misteri, gli Zuñi raccontavano un mito molto interessane sulla origine dell’uomo e sulla struttura del mondo sotterraneo. L’intera cosmogonia non è rilevante per quello di cui ci stiamo occupando qui, dunque limiteremo l’analisi alla struttura del mondo, così come è presentata nel mito raccontato da Eliade.
La Madre Terra è chiamata Awitelin Tsita, che significa grossomodo “la madre terra che contiene quattro volte”. Secondo gli Zuñi, infatti, la terra possedeva al proprio interno quattro grandi caverne, chiamate anche le quattro matrici del mondo. In queste caverne Awitelin Tsita tratteneva tutti i figli che concepiva dal Padre Cielo, in una versione che è quasi l’opposto del mito greco di Gea e Urano: se per i greci era il cielo a costringere la terra a trattenere al proprio interno i suoi figli, per gli Zuñi è invece la terra a trattenere deliberatamente i propri figli. Sarà dunque necessario l’intervento dell’eroe civilizzatore, che libererà i figli della terra e li condurrà attraverso i quattro livelli sotterranei fino al mondo di superficie, dove vivono tuttora.
In questa sede, però, non siamo interessati al processo di liberazione e di “nascita” delle varie forme di vita, ma soltanto alla struttura dei mondi del sottosuolo, secondo il mito degli Zuñi. Tenendo sempre presente il modo in cui Lovecraft aveva descritto i tre mondi sotterranei nel suo racconto The mound, che è il nostro punto di partenza, vediamo come gli indiani Zuñi descrivevano le loro quattro matrici del mondo.
Il primo e più profondo livello è un mondo di tenebra, dove si schiudono le uova di tutti gli esseri viventi o, come preferiscono indicarli gli Zuñi, i semi degli uomini e delle creature. Questi embrioni di esseri viventi sono molto primitivi e imperfetti: trascorrono il proprio tempo strisciando nel buio, pigiati gli uni contro gli altri, si lamentano, mormorano, si insultano e litigano tra loro. Sono quasi simili a rettili, se proprio vogliamo attribuire loro una qualche forma.
Il secondo livello è un altro mondo di oscurità, ma è più spazioso del livello inferiore e gli esseri viventi che riescono a raggiungerlo si possono muovere già meglio. Rimane comunque un luogo di transito, non molto diverso dal precedente, ma è comunque un miglioramento.
Il terzo livello è molto più grande e luminoso dei precedenti. È descritto come una vallata sotto le stelle ed è un luogo in cui gli esseri viventi si fermano per un po’ nel corso della loro lenta ascesa verso la superficie, abbandonandolo soltanto quando sono diventati troppo numerosi per continuare a vivere lì e hanno dunque bisogno di pi spazio.
Il quarto e ultimo livello sotterraneo è luminoso come l’alba e in questo luogo gli umani primordiali possono cominciare a percepire davvero il mondo e a sviluppare una forma di intelletto, per quanto sia ancora primitivo e limitato. Sono come bambini, che un poco alla volta cercano di svilupparsi seguendo le proprie inclinazioni naturali. È qui che gli eroi civilizzatoli li tratterranno per un certo periodo, insegnando loro le basi della cultura che dovranno possedere nel mondo di superficie.
Superata anche questa caverna, tutto ciò che resta è il mondo di superficie, dove gli uomini potranno finalmente nascere alla luce non appena saranno pronti. Perché l’analogia tra le quattro matrici del mondo e la gravidanza è esplicita e riconosciuta anche dagli Zuñi stessi: i due eroi civilizzatori che guidano gli umani verso la superficie agiscono come levatrici, aiutando gli uomini a uscire sia dal ventre del suolo, sia dallo stato di barbarie. La terra è la madre di tutti, in fondo, e i primi umani nacquero dalla loro madre primordiale, proprio come anche oggi i loro discendenti continuano a nascere dalle madri umane.
Se proseguiamo il nostro viaggio nei miti dei nativi americani e ci spostiamo in Arizona, troviamo gli indiani Navajo7, più o meno collegati ai Pueblo8. Anche per loro gli uomini sono nati dalla terra e anche loro hanno una mitologia in cui la dimensione ctonia del mondo è stratificata in una forma molto precisa, simile a quella già trovata tra gli Zuñi e nel racconto di Lovecraft. Sempre come i loro colleghi Zuñi, anche i Navajo ci raccontano nella loro cosmogonia di come gli uomini siano passati da un mondo all’altro, salendo sempre di più, fino ad arrivare alla superficie. Anche qui non ci occuperemo dell’intero mito, ma soltanto di come erano immaginati i mondi sotterranei9.
Secondo il mito navajo, il primo mondo è di colore rosso ed è circondato da oceani. Qui i primi esseri umani vivevano e avevano tutti il nome di un diverso tipo di insetto, oltre a essere capaci di volare. Non era una vita pacifica né ordinata, perché litigavano in continuazione, commettevano adulterio e non conoscevano alcuna forma di struttura sociale vera e propria. Caos completo.
Il secondo mondo è al di sopra del primo e lo si può raggiungere attraverso un foro nel cielo. Il suo colore è blu e ha grossomodo l’aspetto di un grande altipiano circondato dal nulla. Prima che fosse raggiunto dagli umani che abitavano nel mondo inferiore, questo mondo apparteneva al popolo delle rondini, ma è anche descritto come un luogo dove nessuna forma di vita esiste, né animale né vegetale: solo terreno brullo e desolato. Per un certo periodo gli umani arrivati dal primo mondo riescono comunque ad abitarvi in pace, grossomodo, ma poi ricominciano a litigare.
Il terzo mondo è al di sopra del secondo e anche in questo caso lo si può raggiungere attraverso un foro nel cielo. Il suo colore è giallo e inizialmente appartiene al popolo delle cavallette. Come già il mondo precedente, anche questo è descritto come una terra desolata, in cui niente esiste tranne il popolo che già lo occupava all’arrivo dei primi umani. Di nuovo, per un certo periodo quelli che sono arrivati dal basso convivono in pace con gli abitanti originari, poi cominciano a litigare.
Il quarto mondo è raggiungibile attraverso un passaggio molto contorto, come un viticcio. Il suo colore è bianco e nero, mentre il cielo continua a essere privo di sole, luna o stelle, come nei mondi precedenti. Il suo territorio è molto più esteso dei mondi inferiori, con grandi montagne in tutti e quattro i punti cardinali, ed è abitato da un gruppo di umani che coltivano la terra e sono molto ospitali: si fanno chiamare Pueblos. Per un certo tempo tutto va bene, fino a che si verifica un altro incidente e abbiamo così l’ultima migrazione, quella verso il quinto mondo: il mondo di superficie.
Si potrebbe continuare, ma il punto dovrebbe essere chiaro: per diverse tribù indiane residenti nella zona meridionale degli Stati Uniti i primi esseri umani nacquero in un mondo sotterraneo e solo in un secondo momento raggiunsero la superficie, dove vivono tuttora. In più di un caso, poi, abbiamo visto che il sottosuolo non ha una struttura semplice, ma stratificata: più livelli, ognuno dei quali ha caratteristiche diverse ed è abitato da forme di vita diverse, oppure corrisponde a stadi diversi di evoluzione di uno stesso popolo. Considerato che Lovecraft, nel racconto The mound, ha descritto un mondo sotterraneo diviso in più strati e popolato da esseri umani di aspetto quasi identico agli indiani, è almeno possibile lo abbia fatto conoscendo questi miti? Non siamo purtroppo in grado di dare una risposta definitiva, ma le somiglianze sono affascinanti.
Che i primi esseri umani siano usciti dal terreno non è certo una idea insolita. I miti di popolazioni anche molto diverse tra loro ci raccontano di un profondo legame tra gli umani e la terra, quasi una forma di continuità. In alcuni casi la terra è la materia prima con cui gli uomini sono stati fabbricati da una qualche figura divina; in altri casi, la terra è la madre che li ha partoriti in un qualche modo. Senza bisogno di andare molto lontano, possiamo trovare esempi in abbondanza nell’antica Grecia.
Il mito di Deucalione e Pirra, tanto per cominciare, ci racconta di come quella coppia abbia ripopolato il mondo, dopo che Zeus aveva scatenato un diluvio per cancellare la precedente stirpe umana. Marito e moglie cominciarono a camminare gettando sassi dietro di sé: i sassi gettati da Deucalione divennero uomini, mentre quelli gettati da Pirra divennero donne. La nuova stirpe umana, quella a cui anche noi apparteniamo, sarebbe quindi nata dai sassi.
Procedendo, troviamo la madre di Zeus, Rea, che avrebbe affondato le dita nel terreno mentre era in preda alle doglie: dai solchi lasciati nel suolo sarebbero nati i dattili. Questi personaggi, il cui nome da solo ci rende ben chiara la loro origine, costituivano un gruppetto di figure di numero variabile e la cui descrizione non è sempre coerente. Presentano affinità coi nani delle tradizioni nordiche, si trovano spesso ad aiutare Efesto nel suo lavoro e in alcuni miti i dattili occupano anche il ruolo di progenitori degli esseri umani veri e propri. In ogni caso, sono nati dal suolo.
Ancora, gli ateniesi erano molto orgogliosi del proprio legame con la terra e si consideravano autoctoni nel senso più stretto del termine, ossia nati “dalla terra stessa”. Il loro fondatore mitico e primo re, Eretteo10, sarebbe nato dal seme di Efesto, versato sul suolo durante un tentativo fallimentare di stuprare Atena. La sua natura ctonia era ulteriormente sottolineata dal fatto che era per metà serpente, animale abbinato sempre alla terra e al sottosuolo. Figli dell’Attica, che era vista come una madrepatria in senso letterale, in epoca arcaica gli ateniesi usavano anche la cicala come elemento decorativo, a rafforzare questo concetto: si identificavano così con l’insetto che vedevano emergere dal suolo già adulto, come se la terra l’avesse generato spontaneamente.
Ancora, il mito della fondazione di Tebe ci racconta che Cadmo, dopo avere ucciso con una pietra il drago/serpente11 che aveva trovato in Beozia, avrebbe raccolto e seminato nel terreno i denti del mostro. Da questi denti sarebbero spuntati diversi guerrieri, che avrebbero subito cominciato a lottare tra loro. I cinque guerrieri superstiti sarebbero diventati i primi abitanti di Tebe, la città che Cadmo avrebbe fondato in quel luogo. Potremmo continuare a lungo, parlando del popolo dei mirmidoni, che Zeus avrebbero creato dalle formiche12, ma il punto dovrebbe essere chiaro.
Che gli uomini siano spuntati dal suolo è un elemento comune ai miti di popoli molto diversi tra loro e che ancora sopravvive in versione ridotta e semplificata in alcune storielle popolari: chi non ha mai sentito parlare di bambini nati sotto a un cavolo? Ciò che rende interessanti i miti zuñi e navajo è il loro ricorso a un sottosuolo articolato su più livelli, per dare così una storia molto precisa a come i primi esseri umani sarebbero usciti dal terreno: non spuntati come funghi, ma emersi dopo un lungo viaggio, quasi partoriti dalla terra dopo una gestazione che li ha trasformati un passo alla volta in quello che sono oggi. Le migrazioni che i primi esseri umani compiono nel sottosuolo sono quasi le tappe di una evoluzione, il cui punto di arrivo è la civiltà che esiste oggi nel mondo di superficie e che, ovviamente, ogni tribù identificava con la propria civiltà.
Nel racconto The mound di Lovecraft troviamo qualcosa di simile, anche se non è rappresentato come una serie di migrazioni. Nel livello più basso del sottosuolo, ossia nel mondo di N’kai, vivono creature ancora indistinte, che strisciano nell’oscurità e hanno un corpo non ben definito, capace di cambiare e modellarsi da solo; nel mondo intermedio, Yoth, troviamo una popolazione di rettili quadrupedi; nel mondo più alto, K’n-yan, abbiamo normali bipedi quasi identici agli indiani. Anche l’età dei tre mondi collabora a suggerire l’idea di una evoluzione: il mondo più anticò è anche il più basso, mentre il mondo più vicino alla superficie è il più recente di tutti, l’ultimo a essere popolato. Anche per Lovecraft, dunque, la vita sotterranea si muoverebbe dal basso verso l’alto.
Entro certi limiti.
Se nei miti indiani i primi esseri umani nascono nel livello più profondo del sottosuolo e si fanno strada poco alla volta verso la superficie, nella storia di Lovecraft il movimento è quasi opposto. Gli esseri umani provengono dalla superficie e solo in un secondo tempo scendono nel sottosuolo, quando le civiltà che lo avevano abitato prima di loro si sono già estinte. Forse. O forse non si sono estinte, ma sono regredite e degenerate? Che sia avvenuta una degenerazione è ipotizzato, ma non è mai stabilito in forma definitiva.
Il tema della regressione sembra essere stato molto caro a Lovecraft, che lo usa in più racconti. Nelle sue storie gli esseri umani sono spesso costretti a confrontarsi con quello che sono stati e che potrebbero tornare a essere. Una paura delle proprie origini è presente in vari racconti, a volte declinata sul piano personale, come paura del passato della propria famiglia, a volte proiettata su un piano più universale, come paura dei segreti nascosti nel passato del pianeta. Se i miti cosmogonici degli indiani Zuñi e Navajo sono a modo loro ottimisti e ci raccontano di come l’umanità sia emersa alla luce, lasciandosi alle spalle il passato nelle viscere della terra, Lovecraft ci racconta di una terra che è ancora piena di segreti pericolosi, a cui certi esseri umani aspirano a ritornare, attraverso una discesa che è quasi un’antinascita.
Si potrebbe facilmente psicanalizzare questo aspetto di Lovecraft, ma è un lavoro che non mi interessa e che lascio volentieri ad altri. Il nostro punto di partenza era la somiglianza, casuale o voluta, tra la descrizione dei mondi sotterranei che troviamo nel racconto The mound e i miti cosmogonici di alcune tribù indiane residenti nelle vicinanze del luogo in cui la storia è ambientata. In entrambi i casi abbiamo un sottosuolo stratificato, composto da più livelli, con caratteristiche diverse e abitanti diversi. Nel caso dei miti navajo, ogni livello è anche contraddistinto da un colore specifico, proprio come succede nel racconto di Lovecraft. È soltanto una coincidenza, oppure lo scrittore aveva almeno una vaga conoscenza di quei miti e li ha utilizzati come base per costruire il suo universo ctonio?
È una domanda a cui non siamo in grado di rispondere per mancanza di dati, purtroppo. Come dicevo anche all’inizio, sappiamo che Lovecraft aveva chiesto alla sua committente di fornirgli informazioni su eventuali leggende indiane in quella zona, anche solo per dare un tocco di colore al racconto. Cosa gli avrà risposto la signora Bishop? Se qualcuno è in possesso di una copia della sua lettera, sarei molto interessato a leggerla. In sua mancanza, possiamo solo ipotizzare. Sappiamo poi che Lovecraft si è basato in parte anche su letture personali per descrivere l’Oklahoma, e di certo i riferimenti alla spedizione cinquecentesca di Coronado provengono da quelle letture. Quei libri contenevano anche riferimenti alle leggende degli indiani che abitavano quei territori? È almeno possibile, ma non lo sappiamo.
Esistevano miti indiani che raccontavano di un sottosuolo a più livelli. Le tribù che raccontavano questi miti vivevano nelle vicinanze della zona in cui la storia è ambientata, oppure avevano avuto contatti anche stretti con gli indiani che ancora vivevano nella riserva accanto a Binger, villaggio in cui la storia si svolge. La materia prima a cui attingere era disponibile, dunque. Lovecraft vi avrà anche avuto accesso, per tramite della sua committente o in altro modo? Questo non lo sappiamo. Forse è solo una somiglianza fortuita, perché l’idea di un mondo sotto il mondo compariva già in storie precedenti, ma era appunto un mondo, non una serie di mondi. L’idea di un sottosuolo diviso in più livelli sarà stata interamente sua, oppure l’avrà presa dai miti indiani? Una domanda senza risposta, ma una suggestione interessante.
Non che sia davvero rilevante, perché in ogni caso Lovecraft ha dato un taglio tutto suo ai mondi sotterranei del racconto, un taglio che li distingue dai luoghi descritti nei miti indiani e li rende più che autonomi, qualunque sia la loro origine. Potrebbe averli inventati lui, potrebbe essersi ispirato a elementi già esistenti: qualunque sia il punto di partenza, il risultato finale rispecchia la visione del mondo di Lovecraft, così come la conosciamo dalle altre sue storie. I miti degli indiani d’America potrebbero essere finiti nel calderone delle sue letture, da cui spesso ha attinto per modellare nuovi racconti: se la lista di antropologi snocciolata nel racconto The whisperer in darkness corrisponde a un esempio delle sue reali letture, allora le probabilità che abbia incontrato i miti indiani aumentano sensibilmente, ma la certezza rimane lontana, sia in positivo che in negativo. Per conto nostro, possiamo solo notare le indubbie affinità e costruire ipotesi sulla loro rilevanza nella scrittura del racconto. Dati certi, però, non ne possediamo.
A meno che non spunti qualche nuovo documento di Lovecraft, ovvio. Molto improbabile, ma chissà.
NOTE
2 - Benche Binger sia in Caddo County, i Caddo non sono nominati nel racconto di Lovecraft. Compaiono invece gli indiani Wichita, che in quel periodo vivevano nella stessa riserva dei Caddo.
3 - La possiamo leggere come Tale of The Creation And Early Migrations in questa pagina web: https://accessgenealogy.com/native/tale-of-the-creation-and-early-migrations.htm
4 - Guardarsi indietro era proprio l’azione che Luna aveva chiesto loro di non fare. I paralleli mitici sono numerosi. 5 - Sotto questa etichetta sono raccolte diverse tribù indiane che vivevano nei territori che oggi formano il New Mexico e l’Arizona. Tra le loro caratteristiche principali vi erano gli insediamenti stabili e l’agricoltura, due elementi che li differenziano sensibilmente dallo stereotipo della tribù indiana tanto caro al cinema e alla letteratura occidentale, più legata invece agli abitanti delle grandi pianure, dediti alla caccia del bisonte. 6 - Il loro nome è scritto anche Zuni. 7 - Il nome può essere scritto anche Navaho, ma sono sempre la stessa tribù. 8 - Se non altro, spesso i Navajo li aggredivano per saccheggiarli. 9 - Il testo usato come riferimento è quello pubblicato nel libro Navaho legends di Washington Matthews: il testo è del 1897 ed era quindi almeno potenzialmente accessibile a Lovecraft. Esistono anche altre versioni del mito, ma la struttura dei mondi sotterranei rimane più o meno identica in ogni storia. 10 - Il suo nome è presentato a volte come Erittonio, ma è sempre lo stesso personaggio. 11 - Il termine drakon, in greco, significa in origine “serpente”, ma di solito non lo troviamo usato per indicare il genere di serpente che può attraversarti la strada mentre cammini in un campo: quello era semmai un ophis. In miti e leggende, indicava nella maggior parte dei casi rettili più grandi e pericolosi, che solo gli eroi avrebbero sconfitto, e che potevano anche essere dotati di zampe e altre parti che i serpenti normali non possiedono. 12 - In greco antico, myrmex significava formica. Esiste poi un altro mito secondo cui i mirmidoni si chiamerebbero in questo modo perché Zeus si trasformò in formica per sedurre la donna da cui nacque il loro primo re. Così è.