Adriano - racconti e altro

Concerto notturno

Angelo Smorto aveva sempre sofferto di insonnia. Ok, non proprio sempre, non letteralmente, ma da quando era adolescente sì e tanto gli bastava. Siccome quel periodo era trascorso ormai da un bel pezzo, la sua insonnia aveva diversi decenni di vita e costituiva un sempre soggettivo. Pure troppo.

Si era evoluta, questo lo doveva riconoscere. Se all’inizio era la classica difficoltà a prendere sonno, adesso cambiava a seconda dei periodi o forse a caso. Poteva non riuscire ad addormentarsi, poteva svegliarsi orribilmente presto, oppure poteva non rimanere addormentato a lungo, svegliandosi più e più volte e alternando fasi di sono da una mezz’ora scarsa a fasi di veglia di almeno un’ora. La notte era un tormento, il periodo peggiore del giorno. Che non è una contraddizione, anche se la sembra.

Aveva provato più o meno tutte le soluzioni non farmacologiche, ma alla fine si era arreso: il sonno non sarebbe mai stato un suo amico. Se questa era la realtà, forse era meglio preoccuparsi di trovare un buon modo per rendere più utili e produttive le lunghe ore sprecate a rigirarsi nel letto. Dopo vari tentativi più o meno fallimentari, Angelo aveva trovato una risposta. La musica.

Più precisamente, la chitarra classica.

Aveva sempre amato la musica, Angelo Smorto. Amava ascoltarla, ma amava ancora di più suonare. Il problema era che la musica non aveva mai ricambiato la sua passione. Ascoltarla sì, in quel caso la musica era inerte e non si poteva opporre, ma tutti i tentativi di imparare uno strumento si erano risolti in un modo molto deprimente. Era scarso, non aveva orecchio e, beh, ci siamo capiti.

Era però ostinato, il nostro Angelo. Aveva scelto di concentrarsi su uno strumento solo, uno che non lo avrebbe fatto litigare coi vicini, e vi aveva dedicato tutti gli sforzi della sua mezza età. Ancora era molto lontano dall’essere decente, ma almeno riusciva a strimpellare diversi brani, alcuni anche non troppo male, ed era una soddisfazione. Piccola, è vero, ma meglio di niente.

Quando era chiaro che il sonno non ne voleva sapere di passarlo a trovare, Angelo Smorto si alzava, apriva la finestra (meteo permettendo), spostava una sedia proprio di fronte, sistemava lo sgabello e preparava la chitarra classica. Siccome non poteva dormire, suonava serenate alla notte.

Era scrupoloso. Angelo. Teneva le unghie corte in entrambe le mani, pizzicava le corde soltanto coi polpastrelli, non ci metteva mai troppa forza e il risultato era una musica che poteva sentire lui, ma non i vicini. Si sarebbero arrabbiati molto, se lo avessero sentito suonare in piena notte. Siccome lui non li voleva fare arrabbiare, pizzicava piano le corde della chitarra, quasi sussurrando all’aria buia e fresca. Era un concerto privato, musica da camera per pochi intimi. Lui, la notte, forse la stanza, e l’albero deforme che cresceva proprio lì di fronte.

Non era un granché di albero. Angelo non era botanico e non ne avrebbe saputo riconoscere il tipo, ma era convinto che anche un botanico avrebbe avuto difficoltà a dirlo. Era storto, aveva rami che si contorcevano in ogni direzione, foglie che crescevano dove capitava e in generale faceva pensare ai risultati di strani esperimenti nucleari nella fantascienza anni Cinquanta. Poteva anche far pensare a Lovecraft, per chi preferiva quelle letture. Ad Angelo non piaceva nessuna delle due categorie, così si limitava a compatire quel Rigoletto vegetale che spuntava davanti alla sua finestra.

Suonava anche per lui, da un certo punto di vista. Era il suo unico spettatore vivente. E a volte, se lo guardavi dalla giusta angolazione e se la luce della strada o della luna lo colpiva nel modo giusto, ti sembrava quasi di poter immaginare che ci fosse una persona nascosta tra quei rami deformi. O una sagoma vagamente umanoide, quantomeno. Era fantasia, era suggestione, era come cercare figure di animali o cose nelle nuvole. Un passatempo innocuo, che a volte aiutava Angelo a non sentirsi così solo e disperato nelle sue notti infinite senza sonno e con troppi pensieri.

Quel venerdì aveva sperato di potersi addormentare presto. Era stanco, Angelo Smorto, e di recente la sua insonnia era stata terminale, non iniziale: si svegliava verso le tre, ma almeno prendeva sonno verso mezzanotte o poco dopo. Un buon compromesso, secondo il suo parere. Non il massimo, ma il meglio che si potesse aspettare al momento.

Non accadde. La sua insonnia sembrava avere preso una piega diversa, perché all’una aveva ancora gli occhi spalancati e all’orizzonte non si scorgeva alcuna traccia di meritato riposo. Brutta storia. Si alzò, aprì la finestra, prese la chitarra e si preparò come al solito. Un piccolo concerto avrebbe forse attirato il sonno, o almeno lo avrebbe aiutato a rilassarsi e a far passare il tempo. Meglio che niente.

Non accese la luce. Non ne aveva bisogno. Ormai le sue dita trovavano da sole i tasti giusti lungo il manico della chitarra e la luce serviva solo ad attirare attenzione e insetti. Il buio funzionava meglio ed era più poetico. Era più adatto, quando suonavi una serenata alla notte. Alla notte e all’albero, il suo unico spettatore vivente. Più vari ragni e insetti, ok, ma loro non contavano. L’albero sì.

Angelo cominciò con Tarrega, che era il suo preferito in quel periodo. Occhi chiusi e capo chino sul suo amato strumento, suonò prima alcuni studi per scaldarsi le dita; passò a Lagrima, Danza Mora e danzò adagio sul suo arrangiamento di Malaguena. Pensò se inserire anche Recuerdos de Alhambra, ma il suo tremolo era patetico anche in occasioni normali e quella notte non se la sentiva proprio. Il brano gli piaceva e un giorno avrebbe imparato a suonarlo come si doveva. Peccato che non sarebbe stato quel giorno. O notte, per essere precisi.

Alzò la testa e guardò fuori dalla finestra dopo l’ultima nota. L’albero era lì e se ti piegavi un poco a sinistra potevi immaginare di vedere una sagoma tra i rami. Una sagoma fatta di rami e ombre. Oggi si vedeva abbastanza bene e Angelo sorrise. Era compagnia, già. Era immaginaria, ma era meglio di niente. E poi era quasi un amico, quell’albero. L’albero e la sua strana ombra fatta di rami.

Riprese a suonare e fu il turno di Paganini, una serie di brani composti per chitarra. Non certo le più famose opere del grande violinista, ma il massimo che le sue dita si potessero permettere. Cominciò col Perigoldino, passò a un rondò, un rondoncino, una sonatina e così via, di brano in brano. Erano i pezzi con cui si scaldava sempre, per prepararsi al gran finale con la sinfonia della Lodovisca. C’era anche la Campanella, con un tocco di Carcassi, ma quella notte non se la sentiva. Forse la prossima.

Alzò di nuovo lo sguardo prima della sinfonia; la sagoma di rami e ombre era sempre lì. Sorrise. Le piaceva Paganini? Ovviamente! A chi non sarebbe piaciuto? Poi Angelo credette di vedere qualcosa fuori posto e il suo sorriso si spense.

La sagoma era cambiata? Difficile esserne sicuri, ma l’impressione era quella. Di solito sembrava si fosse girata a guardare verso destra, ma in quel momento era come se la sagoma stesse guardando in fronte a sé. Come se stesse guardando verso di lui.

Fantasia, ovvio. Fantasia e un gioco di luci. Doveva essere cambiato qualcosa nel riflesso, magari il vento aveva mosso un paio di rami, e adesso sembrava avere una posa diversa. Tutto normale. Non c’era molto vento, d’accordo, ma l’illusione ottica era così sottile che non ne serviva molto per dare l’impressione che tutto fosse cambiato. Angelo scrollò le spalle e tornò a chinarsi sulla chitarra.

Suonò la sinfonia, si rilassò un poco col Bourrée di Bach preso dalla suite per liuto numero 996, un classico che conosceva da anni ma di cui dimenticava sempre un paio di note nella seconda parte. Si concentrò per non dimenticarle anche quella volta, fallì, lo ripeté da capo, ebbe un attimo di dubbio, lo superò e arrivò in fondo, non soddisfatto ma poteva bastare così. Perché si sbagliava sempre? Era assurdo, ma era la realtà. Forse Bach non era fatto per lui, o lui per Bach.

Un rapido sguardo verso la finestra e la sagoma sembrava cambiata di nuovo. Assurdo! Adesso era girata verso sinistra e un poco più ingobbita. Cosa stava succedendo? Perché? Non era preoccupante e non era misterioso, ma era fastidioso. Lo distraeva. Era solo una sagoma che credevi di vedere per uno strano gioco di luci, ombre e rami. Doveva restare sempre identica, se la guardavi dalla stessa posizione, e lui la stava guardando dalla stessa posizione. Allora perché continuava a cambiare, quel giorno? Quella notte, ok, ma il punto rimane. Continuava a cambiare ed era fastidioso.

Angelo Smorto sbuffò. Meglio non pensarci. Non aveva senso e serviva solo a distrarlo. Meglio che pensasse solo alla musica. Prima o poi il sonno sarebbe arrivato, anche se non tanto e non a lungo. Il resto era irrilevante. Musica e poi sonno, la combinazione vincente. Le ombre non contavano.

Abbandonò Bach e passo ad Asturias di Albéniz, che gli piaceva molto e la prima parte era ripetitiva quanto bastava per cullarti il cervello. Gli piaceva soprattutto perché la melodia era suonata sulle tre corde basse, col pollice, mentre le altre dita fornivano l’accompagnamento. Era diverso dal solito e un piccolo cambiamento faceva sempre bene, di tanto in tanto.

La concluse con gli armonici di cui era piuttosto orgoglioso, perché sentiva di saperli eseguire bene. Erano più o meno la sua specialità e avevano un bel suono anche su una chitarra che non era niente di speciale, come la sua. Forse merito delle corde. Quelle sì che erano buone, in nylgut. Si preparò a proseguire con Rumores de la Caleta, quando qualcosa gli fece alzare lo sguardo.

La sagoma era... sparita.

No, non proprio sparita. Era come se si fosse dissolta. Smontata? Qualcosa del genere. Angelo non sapeva trovare il verbo giusto, ma sapeva quello che stava vedendo. La sagoma era lì, più o meno, e la potevi ancora immaginare, ma aveva perso la sua solidità. Non che fosse mai stata solida, era un effetto prodotto da rami, luci e ombre, ma aveva dato una sensazione di solidità che adesso mancava e si era quasi smontata. Era distorta, era disordinata, era fluida, era...

Angelo scosse la testa. Cosa era? Solo un gioco di luci e ombre, appunto. Era cambiato qualcosa, il vento aveva forse spostato un paio di rami e adesso l’illusione non funzionava più. Tutto qui. Inutile farsi problemi o strane fantasie. Che poi forse la sagoma non era mai neppure esistita. Non davvero. Forse era sempre stato un caso di iperrealtà.

Hah, che parola interessante! Iperrealtà. Angelo Smorto l’aveva sperimentata alcune volte tempo fa, da giovane o dintorni. Un miscuglio di carenza di sonno, stanchezza fisica e chissà cos’altro, quello che può succedere alla chimica del tuo cervello. Non ci sei molto con la testa, quasi dormi in piedi e le cose attorno a te assumono un aspetto diverso. Il cartello stradale diventa una persona, il cestino della spazzatura è qualcuno rannicchiato, il cartellone pubblicitario per un attimo appare come gente ferma a chiacchierare. Un cortocircuito tra occhi e cervello, un errore nel costruire una immagine in base ai dati raccolti dai sensi. Iperrealtà. Un nome come un altro.

Tutto qui.

Rami deformi diventano una sagoma accucciata su un albero? Anche, volendo. Adesso l’illusione si era rotta, per qualche motivo. Niente di strano, niente di anormale. Non valeva la pena di pensarci.

Angelo ci pensò ancora un poco, fissando l’albero, poi scrollò le spalle e tornò a suonare. La musica lo avvolgeva, non proprio bella ma accettabile, e la notte invecchiava attorno a lui. Poteva sentire il primo vero tocco di torpore sulle sue palpebre, la bocca che voleva sbadigliare, la vaga sensazione di ovatta dentro il cranio. Il sonno si avvicinava. Presto avrebbe potuto dormire. Ottimo. Il tempo di accordare in re la sesta corda e suonare il Chiaro di luna di Beethoven, arrangiato da Tarrega, poi fu il momento di pulire le corde, il manico, la cassa di risonanza e mettere via la chitarra. A posto.

Angelo Smorto guardò un’ultima volta l’albero davanti alla sua finestra. La sagoma era svanita del tutto, l’illusione infranta. Un poco lo rattristava, ma in fondo non era importante. Forse domani sarà di nuovo lì, forse non ci sarà più. È la vita, dopotutto. E con tanta filosofia, socchiuse la finestra e si infilò sotto le coperte. Tempo di dormire, finalmente.

Angelo dormì, forse. Non ne fu sicuro, ma non ne era quasi mai sicuro. Poteva essersi assopito per una mezz’oretta, oppure poteva solo essersi perso in un vago dormiveglia, fatto di ricordi e fantasie. Il confine era sempre incerto, nel suo magico mondo di insonnie e confusione. A volte era sveglio e si sentiva addormentato, a volte era addormentato e si sentiva sveglio. Per un poco lui e il mondo si congedarono, solo questo era sicuro. Quando scollò un poco le palpebre, l’orologio sul comodino lo informò che era passata mezz’ora circa. Forse aveva dormito.

Si sentiva confuso, questo era certo. Si sentiva intorpidito, questo era ancora più certo. Era come un risveglio da un sonno improvviso, a metà di un pomeriggio troppo caldo. Apri gli occhi e per un po’ sei perso, non sai dove e quando sei. A volte non sai neanche se sei, che era forse la più terribile di tutte le sensazioni. Angelo adesso non lo sapeva. Sapeva solo di essere a letto. Al buio.

C’era qualcuno nella stanza con lui.

Era una sensazione, non una realtà oggettiva. Sarebbe potuta diventare una realtà o una illusione se avesse aperto bene gli occhi per guardarsi attorno, ma al momento non se la sentiva. Angelo Smorto non sapeva il perché. Sapeva solo che si sentiva di non sentirsela.

C’era qualcosa di sbagliato.

C’erano molte cose sbagliate nella sua vita, ma di solito non lo accompagnavano in camera da letto. Insonnia a parte, va bene, ma quella non contava più, non dopo tutti quegli anni. Le cose sbagliate e non sue, le cose esterne, le lasciava sempre fuori. Perché erano esterne, per l’appunto. E dunque?

Avrebbe potuto continuare a farsi seghe mentali, ma non se la sentiva. Era troppo stanco. Meglio se controllava e si toglieva il pensiero. Sarà stato un insetto, magari qualcosa di molto schifoso, tipo un ragno enorme, che era un’aracnide e non un insetto, d’accordo, ma non era il momento di fare tanto i pignoli. Era tempo di guardare e togliersi il pensiero.

Angelo Smorto aprì a forza gli occhi incrostati di cispa e guardò. E non si tolse il pensiero.

La sagoma era nella stanza con lui. Quella che aveva sempre visto nell’albero, fatta di rami, luci e ombre. Solo che non era più fatta di luci, ombre e accidenti vari. Era lì, in piedi accanto al letto, tra lui e la finestra. Che era aperta. L’aveva lasciata accostata, ma adesso era aperta. Con la sagoma in camera. Nella sua camera. Una sagoma vera. Ok, verosimile, ma troppo realistica per i suoi gusti.

Allucinazione, illusione, iperreatà. Parole rassicuranti volteggiavano e piroettavano nel suo cranio, a sussurrargli razionalità, normalità e altri sostantivi tronchi che promettevano bene. Ma la sagoma no che non prometteva bene. Era lì, era vagamente antropomorfa, ma non aveva una faccia, non aveva neppure confini nitidi e definiti. La intuivi, più che vederla. La percepivi. Ma era lì, davanti a lui, tra il letto e la finestra. Solo che non poteva essere lì. Non aveva senso.

Un sogno. Non si era svegliato davvero: stava ancora sognando. I suoi sogni di solito non erano così realistici, ma era un problema secondario. Stava sognando lo stesso. Sì. Giusto. Era inevitabile, se ci pensavi bene. Era la sola spiegazione possibile, quindi doveva essere la verità.

Angelo chiuse gli occhi. Respirò a fondo, inalando dal naso ed espirando lentamente dalle labbra, a piccoli colpi. Rilassati, svuota la mente, concentrati sull’aria, che entra ed esce, gonfia il diaframma e scorre dalle labbra. Non pensare. Non pensare di non pensare. Solo il respiro. Il resto non esiste.

Quando si sentì in pace a sufficienza, Angelo Smorto aprì di nuovo gli occhi. La sagoma era ancora lì. Si stava chinando su di lui.

Ah, qualcosa doveva essere andato storto. Che non avesse mai apprezzato molto i suoi concerti?

di Adriano Marchetti