Adriano - racconti e altro

Eroi e no

Lupo Nero era il capitano della squadra ed era tutto ciò che Bimbo sognava di diventare. Era forte, era possente, aveva una barba folta e braccia solide e villose. La sua testa brizzolata era un faro che splendeva sopra i compagni, lo stendardo che tutti seguivano. Poche cicatrici ne segnavano la pelle esposta, e se quello non era segno di grande valore, in mezzo ai corpi sfregiati e mutilati degli altri mercenari, allora Bimbo non sapeva proprio cosa dirti.

Lupo Nero era un eroe, punto e basta. Un eroe invincibile. Il suo eroe.

Portava un pesante spadone allacciato alla schiena larga e si diceva che potesse troncarci in due una persona, se voleva. E lo aveva fatto, da giovane. Lo aveva fatto spesso. E se giovane oggi non lo era più, se gli anni si erano portati via un po’ della sua potenza, avevano lasciato in cambio esperienza e scaltrezza. Dal baratto ci aveva solo guadagnato, dicevano. Bastava guardarlo.

Bimbo lo guardava spesso. Lo adorava.

Lupo Nero non era il suo nome vero, ma era così che lo chiamavano nella squadra e lo conoscevano in giro per il mondo, dove era passato per lavoro. Ce n’erano pochi di nomi veri, nel gruppo. Non ti serve un nome vero se sei mercenario, dicevano. Era solo un peso che ti tirava giù. «Perché se pensi al tuo nome, pensi a quello che eri, a quello che hai fatto per finire qui. Meglio non pensarci. Se ci pensi, esiti. Se esiti, muori. L’ho visto fin troppe volte, credimi.» Così gli aveva spiegato Genio, il luogotenente di Lupo Nero. Glielo aveva spiegato la prima sera, attorno al fuoco, tra un boccone e una birra. Bimbo ci aveva creduto ed era diventato Bimbo.

Non un gran nome, ma era così che lo aveva chiamato Lupo Nero, quando si erano incontrati per la prima volta, anni fa. Bimbo era un bambino e Lupo Nero un mercenario di passaggio, che gli aveva salvato la vita. «Ma solo perché passavo di qui, bimbo. Non prenderci il vizio,» gli aveva detto.

Bimbo non ci aveva preso il vizio, ma aveva deciso cosa sarebbe diventato da grande: un eroe come quell’uomo barbuto. Sarebbe andato anche lui in giro per il mondo a salvare la gente e tutte le altre imprese favolose che si sentivano nelle storie. Era la sua missione. Lo chiamava.

La gente nel villaggio lo guardava storto, quando parlava così, ma la gente del villaggio ti guardava sempre storto, quando dicevi qualcosa di strano. Concepiva una sola vita, quella gente: sposare una tua cugina, o un tuo cugino, e lavorare nei campi, allevare bestiame, al massimo diventare fabbro o un piccolo artigiano, ma solo se eri nato nella famiglia giusta. Non era difficile trovare un cugino o una cugina da sposare: lo erano quasi tutti, al villaggio. Ma non era una vita per Bimbo.

Non che ai tempi si chiamasse Bimbo. Si chiamava Mosca, allora, e non era molto meglio, ma era il nome che gli aveva rifilato la madre, perché diceva che non stava mai fermo e ce l’avevi sempre in mezzo ai piedi. Non aveva una grande tradizione in fatto di nomi, il villaggio. I genitori chiamavano i figli con la prima cosa che passava per la loro testa e poteva andarti molto male. Da grande potevi ricevere un soprannome migliore, certo, ma non era comunque una bella storia.

A Gobbo era andata ancora peggio. Era il migliore amico di Bimbo e non era davvero gobbo, ma la madre lo aveva chiamato così perché era sempre curvo, da bambino, e Gobbo era rimasto. Avevano giocato assieme, un tempo, ed erano cresciuti assieme, come fratelli che vanno d’accordo. Quasi di sicuro erano cugini, anche se i genitori non ricordavano bene tutti gli incroci di matrimoni. Faceva poca differenza. Erano amici ed erano sempre assieme.

Lo erano anche il giorno in cui Lupo Nero era entrato nella vita di Bimbo, che era ancora Mosca.

Erano usciti a giocare nel boschetto dietro al villaggio, come al solito, e come tutti i bambini che si rispettano non avevano ascoltato la madre e le sue raccomandazioni. Gioca a questo, gioca a quello, nasconditi qui, nasconditi là, e il tempo era passato, era venuta sera, i boschi erano diventati più bui, Mosca era rimasto da solo alla fine di un nascondino riuscito anche troppo bene, i rumori si erano fatti sempre più strani e minacciosi, e i sentieri sembravano tutti uguali, nessuno familiare, nessuno che lo avrebbe riportato a casa. Chissà come sarebbe andata a finire, se in quel momento non fosse passato Lupo Nero con la sua compagnia di mercenari, diretti al villaggio per una sosta alla locanda.

«Sarebbe andata a finire che ti avremmo trovato noi,» aveva detto qualcuno in paese. Si stavano già preparando a cercarlo, dicevano: li aveva allertati Gobbo, e comunque non sarebbe successo nulla di male. Erano boschi sicuri da quelle parti, specie in quella stagione, vicino al villaggio e ai campi.

Ma Mosca sapeva un’altra storia, perché l’aveva vissuta. Sapeva che Lupo Nero gli aveva salvato la vita e che senza di lui gli sarebbe successo qualcosa di molto brutto. Così era diventato il suo eroe e aveva giurato che da grande sarebbe stato anche lui così, un colosso con uno spadone sulla schiena e una mano forte, un paladino della giustizia che girava il mondo a salvare le persone.

I genitori avevano scosso la testa e sorriso. La madre si era preoccupata un poco, ma il padre aveva spiegato che capitava a tutti e gli sarebbe passata. Sarebbe cresciuto e avrebbe messo la testa a posto come gli altri. Le fantasie dei bambini passano sempre.

Cresciuto era cresciuto, ma passata non gli era passata. Dieci anni dopo, la squadra di mercenari di Lupo Nero si era trovata di nuovo nelle vicinanze del villaggio e il ragazzo li aveva seguiti assieme a Gobbo, anche lui stanco della vita in paese, anche lui in cerca di qualcosa di nuovo. Sposare una cugina e diventare contadino poteva andare bene per altri, non per loro. E Gobbo se la passava pure peggio, perché suo padre gli aveva già trovato una moglie.

«Sembra un uomo!» si era lamentato Gobbo. «Ha la barba! Ha le basette! Ti dico, i baffetti sì, sono normali, ci stanno, ma quelli non sono baffetti. Ha più barba di me! Sposatelo tu, quel mostro!»

Non che ci volesse molto ad avere più barba di loro. Non aveva ancora cominciato a crescere più di tanto e se ne vergognavano un po’. Gli uomini dovevano avere la barba. Le donne era meglio se non l’avevano, per cui Mosca poteva capire l’amico ed era contento di avere compagnia, così non aveva esitato ed erano fuggiti assieme. In cerca di avventura e di un futuro migliore.

Lupo Nero non si ricordava più di lui e non era sembrato molto entusiasta di quei due ragazzini che sì, avevano una specie di spada, ma neanche la sapevano usare. «Tornatevene a casa, che non è vita per due come voi,» aveva detto, serio e severo ma non senza una traccia di affetto. Magari ripensava a come era stata per lui, quando aveva cominciato chissà quanto tempo prima.

Ma era intervenuto Genio ad aiutarli. Faccia dura e una cicatrice a chiudergli un occhio, era apparso rassicurante come un coltello contro la schiena in un vicolo buio. Mosca avrebbe scoperto poi che era così di suo, e sembrava duro e cattivo solo perché faceva un lavoraccio nel gruppo. Pensava alle strategie, i rifornimenti, e insomma gestiva la vita quotidiana nella squadra. Un lavoro importante, ma un lavoro che ti mangiava il fegato, dicevano. Lui però lo sapeva fare bene. Era il migliore.

Mosca sapeva che Lupo Nero li aveva accettati solo perché lo aveva detto Genio e tanto bastava. Si erano appartati a discutere, c’erano state parole sull’ultimo lavoro, che era costato più del previsto, e carne fresca sarebbe tornata utile. Si erano anche portati le spade, i ragazzini. Tanto valeva provarli, vedere come se la sarebbero cavata. C’era un numero da raggiungere e con quei due lo avrebbero raggiunto. Lupo Nero non era sembrato convinto, ma alla fine li aveva presi e i due novellini erano in gruppo, nuova carne sulla griglia dei mercenari: dovevano imparare sul campo, se sul campo non ci volevano restare, perché tempo non c’era. Era la vita e funzionava così per tutti.

Poi c’era stata la faccenda dei nomi.

Mosca non era un nome da mercenario e non ci voleva un genio per capirlo. Non era neppure il tipo di nome con cui il ragazzo voleva farsi conoscere, non in mezzo a quei veterani dalla faccia severa.

«Bimbo,» aveva detto. «Chiamatemi Bimbo.»

«Con quella faccia, di sicuro!» aveva riso un tizio con un solo orecchio e circa la metà dei denti.

Lupo Nero non aveva reagito. Forse non stava neppure ascoltando. Mosca aveva sperato in qualcosa di più, magari addirittura che si ricordasse di lui, ma era ovvio, no? Chissà quanti ne aveva salvati... Mica se li poteva ricordare tutti.

«E il tuo compare?» aveva chiesto Genio.

«Non so, ci vuole proprio un nome diverso? Adesso?» si era lamentato Gobbo, a disagio in mezzo a tutti quegli sguardi.

«Abbiamo anche la lagna, lì!» aveva riso un altro mercenario. Il nome gli era rimasto addosso.

Li avevano battezzati con una birra di pessima qualità. Mosca era diventato Bimbo e Gobbo adesso era Lagna. Non un gran miglioramento, secondo lui, ma erano mercenari, erano parte del gruppo, ed era tutto ciò che contava. Per Bimbo, almeno.

Era passata più di una settimana da allora. Adesso viaggiavano attraverso le colline, marciavano in direzione della costa, quel mare che nessuno dei due ragazzi aveva mai visto o immaginato. Era una terra delle storie, qualcosa di cui sentivi raccontare di notte. Presto lo avrebbero visto davvero.

Era soprattutto la sede del prossimo lavoro. Le coste e i mari erano posti che pochi umani vedevano, almeno da quelle parti. C’erano i pesci e i pesci non amavano gli umani. Erano bastardi, mostri, e li volevano solo affamare, soffocare, uccidere. Chiudevano i mercati, ficcavano ovunque le loro luride mani palmate. Bisognava ributtarli in mare, sulle isole da dove erano arrivati. O noi o loro. Così si diceva, la sera, e Bimbo ci poteva pure credere. Non sapeva neppure come fosse fatto un pesce. Era solo un altro nome che sentivi nelle storie. Pesci. Esseri strani, fiabeschi.

Li aveva ingaggiati un qualche signore locale, che voleva difendere il suo territorio, oppure cercava di espandersi verso la costa. C’era comunque da combattere, aveva bisogno di uomini e i nemici che li aspettavano erano pesci. Lupo Nero lo aveva spiegato in una manciata di parole, dopo averli presi nel gruppo. Non era un gran lavoro, ma era un lavoro. Il tizio pagava bene e non sarebbe stata una cosa troppo difficile, finché si rimaneva sulla terraferma. In riva al mare il discorso era un altro, ma era dura arrivarci. I pesci erano pesci, ma erano degli accidenti. Si partiva sulla terra: di eventuali extra avrebbero discusso solo se la campagna fosse andata bene per davvero.

«Ma ne discuterà con Genio, e Genio gli caverà anche i soldi che ha nel culo.» Aveva sorriso, Lupo Nero. Un sorriso duro, ma amichevole a modo suo. Un sorriso da compagni.

Bimbo era preoccupato ma non troppo. Non sapeva come fosse fatta una battaglia. Sapeva che c’era gente che cercava di ammazzarsi, a volte per una qualche ragione, a volte per quello che capita. Non c’erano mai state battaglie al villaggio. Ogni tanto qualcuno cercava di infilzare qualcun altro, e di tanto in tanto ci riusciva, ma non erano battaglie. Erano duelli, risse, agguati. Cose normali. Bimbo non aveva mai neppure visto morire qualcuno, a parte la nonna, ma lei non contava. Era vecchia, la nonna: a ucciderla era stata la vecchiaia, non un’altra persona.

«Ma vedrai che andrà tutto bene,» diceva a Lagna. «Abbiamo Lupo Nero con noi, no? Lupo Nero è un eroe. Nessuno lo batte.»

Lagna si stringeva nelle spalle e non replicava. Era inutile discutere, quando tirava fuori il suo Lupo Nero, l’eroe per eccellenza. Non fingeva neanche di ascoltarti, se gli davi torto. Era un problema, sì, ma non un problema troppo grosso. Per adesso.

A Lagna non era mai interessato fare il mercenario. Gli interessava lasciare il villaggio, prima che lo costringessero a sposare quella specie di cugina barbuta. E vedere il mondo, anche. Passare tutta la vita chiuso in un buco in mezzo al nulla, a spalare terra e guardare il culo di muli e buoi, lo lasciava più che volentieri ad altri. Ma servivano soldi per vedere il mondo, e si poteva pure cominciare dal lavoro di mercenario. Non era bello, ma avrebbe almeno imparato a difendersi. Quanto a eroi e altre storie, a lui non interessavano proprio. Facessero quello che volevano.

Bimbo scuoteva le spalle, quando Lagna parlava così. Insieme avevano lasciato il villaggio, insieme erano arrivati lì e insieme avrebbero vissuto un’avventura. Avrebbero combattuto al fianco di Lupo Nero, soprattutto, che era la cosa più importante. Al resto avrebbero pensato poi. Intanto si marciava attraverso colline che non finivano mai e il tempo era decente, caldo ma non troppo.

Bimbo si aggiustò la spada che portava in vita. Era un peso a cui non si era ancora abituato e per cui non aveva trovato la giusta posizione. Sembrava sempre sbilanciata, prima verso destra, poi verso sinistra. Ma era la prima volta che viaggiava armato e doveva prenderci la mano. Avrebbe imparato sul campo, come diceva Lupo Nero. Si guardava attorno di continuo, attirato e disgustato da quella gente piena di cicatrici e povera di corpo. Occhi, orecchie, pezzi di naso, dita: sembrava proprio che in battaglia si potesse perdere di tutto. Bimbo si osservò le mani, segnate dal lavoro nei campi ma ancora intere. Per adesso. Sarebbe successo anche a lui? Ci avrebbe rimesso qualche pezzo?

«Immagino che succederà a tutti, prima o poi,» aveva commentato Lagna, stringendosi nelle spalle. «Quando ci sei in mezzo, tagli quello che capita. A me non piace molto, a dire il vero.»

Bimbo sospirò. Gobbo o Lagna che fosse, il suo amico rimaneva sempre lo stesso. Non era contento di essere coi mercenari, ma ci era venuto lo stesso e lo aveva fatto per lui. Bimbo lo sapeva e gli era grato. Era un punto fermo, a modo suo. Una sicurezza. Sapevi sempre cosa aspettarti da lui.

Era anche in parte foresto, dicevano al villaggio, e si vedeva. Un nonno o una nonna, venuti da fuori e diversi. Non malvagi, ma diversi. E Lagna diverso lo era, in parte.

Alto e magro, ancora in cerca di quella coordinazione nei gesti che perdi mentre cresci e a volte ritrovi quando hai finito, pareva uno spaventapasseri di carne. Capelli corti e mossi, castano chiaro, in faccia la vaga peluria di chi desidererebbe davvero la barba ma proprio non gli cresce: in mezzo a mercenari barbuti e ingrigiti, non potevi non notarlo.

Bimbo non era sicuro di cosa significasse davvero foresto, ma probabilmente non aveva a che fare con le piante, anche se un po’ il suo amico ci assomigliava. Un salice, forse, che si lamentava invece di piangere, con braccia secche e muscoli non ancora pervenuti.

Lui invece era diverso. Era il classico ragazzo del villaggio, fatto in serie. Un poco più basso, con le spalle larghe, i capelli scuri che gli arrivavano alle spalle, ma soprattutto una barbetta che sembrava poco più di un’ombra, per adesso, ma era segno che sarebbe cresciuta, e bene. Questione di tempo, tutto qui, ma avere peli veri sulle guance e sul mento valeva più di mille medaglie per un ragazzo che voleva sembrare un uomo. Bimbo lo voleva, nonostante il nome.

Presto avrebbe anche avuto occasione di dimostrarsi uomo. In battaglia. Al fianco di Lupo Nero.

Intanto però il suono di piedi in marcia era il ritmo della vita. La campagna attorno era tranquilla, campi vuoti e milioni di ettari di cielo azzurro a dominarli. Un bel giorno per viaggiare, così aveva dichiarato Lupo Nero, e viaggiare viaggiavano, oltre una collina e giù verso la prossima. Prima di sera avrebbero raggiunto un villaggio e là si sarebbero fermati a dormire. Altri tre giorni circa di cammino, se tutto andava bene, e sarebbero arrivati alla città del loro nuovo datore di lavoro.

«Quello che ci paga il disturbo,» aveva detto Lupo Nero. Gli altri ne avevano riso, forse perché era una battuta che potevano capire soltanto loro. Bimbo e Lagna non l’avevano capita. Giusto il tempo di scambiarsi uno sguardo e un sorriso incerto, poi avevano scosso le spalle e finto di ridere anche loro. Avevano tanto da imparare, dopotutto; tante le cose che ancora non capivano.

A cominciare dalla vespa.

Marciava dietro di loro, il passo così leggero che quasi non lo sentivi. Avanzava come si preparasse a balzare su una preda, forse per quelle sue ginocchia che si piegavano al contrario rispetto a quelle di un umano, forse perché era proprio fatta così, individuo di un’altra specie finito chissà come nel loro gruppo di umani. Bimbo la guardava spesso, di sfuggita. Era la prima vespa che vedeva.

Non che somigliasse davvero a una vespa, non all’insetto, ma la chiamavano così e in fondo era un nome come un altro. Una vespa. La vespa. La loro vespa.

Alta, molto alta, e snella, ma snella come un cane da caccia, o un lupo. Non magra. ma quasi fatta di molle, tutte cariche e pronte a scattare. Bimbo ne aveva vista una, di molle. L’aveva un mercante di passaggio. Diceva che veniva dalle città più lontane, nel nord, e ne aveva qualcuna da vendere, se il villaggio se le poteva permettere. Nessuno se le poteva permettere, ma erano oggetti strani.

Come era strana la vespa.

Aveva due braccia e due gambe, come gli umani e come si diceva le avessero i pesci, ma ti davano la sensazione di essere fatte di troppi pezzi. Le ginocchia erano all’indietro, sì, ma anche il resto era diverso. Si piegava troppo, quando camminava. Per questo sembravano molle.

Aveva una testa tonda, senza naso e orecchie visibili, e una sottile peluria dorata a ricoprire tutte le parti esposte del corpo. Non erano molte: indossava pantaloni di cuoio fino alle ginocchia, c’erano strane fasciature attorno ai polpacci, una maglia di un materiale che sembrava metallo le copriva sia il busto che le braccia, fino ai polsi, e sopra indossava una specie di giubbino, fatto di un tessuto che Bimbo non conosceva. Non lo conosceva nessuno, neanche chi aveva viaggiato tanto.

La guardavano tutti, quando era vicino, ma solo di sfuggita. In vita portava una grossa cintura, con appese due spade corte, e un borsello sul davanti, che nessuno le aveva mai visto aprire. Neanche si capiva se fosse maschio o femmina. Neanche sapevano se ci fossero maschi e femmine tra le vespe. Era un popolo che si mischiava poco agli altri, e facevano paura. Potevano essere molto pericolose, se credevi alle storie. Gli altri della compagnia sembravano crederci.

Che ci faceva in un gruppo di mercenari umani? Bimbo aveva chiesto, ma nessuno sapeva. Le vespe erano neutrali, a quanto si diceva. A volte ne trovavi qualcuna assieme ai pesci, a volte assieme agli umani, ma in genere se ne stavano per i fatti propri. Ed era meglio così. A nessuno piacevano. Erano vespe, no? Mica ti potevi fidare. Potevano mettersi in testa di tutto, da un momento all’altro. La loro gente non pensava come gli umani veri. Non lo erano, dopotutto. Erano vespe.

Quella che viaggiava con loro aveva cominciato molto male. L’avevano trovata due settimane prima e aveva chiesto di unirsi al gruppo. Perché? Facevano la stessa strada, aveva detto, con una voce che ti faceva venire il mal di testa, come aveva raccontato Fiuto, il battitore. Fiuto era un ometto basso e nervoso, che trovava sempre la strada giusta. Lupo Nero si fidava di lui, quindi lo seguivano tutti.

Orecchio l’aveva sfidata subito, la vespa. Perché non vogliamo gente incapace, aveva detto, ma era la gente non umana che non voleva. Non si fidava dei non umani, Orecchio. Era stata la lama di un pesce che gli aveva tagliato mezzo orecchio e quasi la testa: aveva ancora una lunga cicatrice sotto i capelli, che la vedevi quando tirava vento. Così aveva sfidato la vespa e le aveva prese.

Fiuto aveva raccontato la storia a Bimbo e Lagna mentre mangiavano attorno al fuoco, gesticolando e sorridendo. Era stata veloce che quasi non la vedevi, quella vespa. Orecchio aveva caricato come un cinghiale, come al solito, e la vespa non aveva fatto una piega. Aveva deviato l’attacco con le sue spade corte, poi lo aveva disarmato, sgambettato e inchiodato a terra con la lama alla gola. «E in un attimo era finito tutto,» aveva sorriso Fiuto. «Bella figura che ha fatto, Orecchio. Non sapete quante gliene abbiamo dette, hah!»

Da allora si era unita al gruppo e nessuno aveva avuto da ridire, ma nessuno le si era più avvicinato. Se la tiravano dietro perché era forte, ma fine della storia: non volevano averci altro a che fare, loro.

«Ma è un maschio o una femmina?» aveva chiesto Bimbo.

Fiuto aveva scrollato le spalle. «Tu lo capisci? Io no e non voglio controllare, grazie.»

«E come si chiama? Un nome ce l’avrà, no?» era stata la domanda di Lagna.

Altra scrollata di spalle. «Haiisa, o qualcosa del genere. Vallo a capire se è un nome o un verso.»

I due ragazzi ne avevano discusso un poco tra loro, quella sera, ma delle vespe non si sapeva niente, erano anche peggio dei pesci. I pesci dominavano le coste e le isole e guai se ti avvicinavi al mare senza il loro permesso, ma erano sparsi un poco ovunque nel mondo. Se c’è acqua ci sono pesci, si diceva. Le vespe no. Vivevano tutte nel loro continente, e guai a chi ci entrava, e non uscivano mai.

O quasi mai. Di tanto in tanto poteva capitarti di vederne una nelle terre degli altri, e parlavano al femminile, se la lingua degli umani aveva genere, ma loro erano femminili come sequoie. Che cosa facessero o volessero, nessuno lo sapeva.

«Mio padre diceva che alcune lasciano la loro terra perché non hanno altro posto dove stare,» aveva spiegato Lagna. «Lui lo aveva sentito quando era stato in giro assieme a un mercante, sai. Anni fa. Prima di sposarsi. Da giovane. Però non ne ha mai viste, anche se di pesci sì, qualcuno lo ha visto in giro. I mercanti devono trattare coi pesci, sai. Se vuoi spedire qualcosa per mare, ti servono loro.»

«Dici che è una criminale e l’hanno cacciata?» aveva chiesto Bimbo.

«Non so. Forse. In fondo è in un gruppo di mercenari, no? Qualcosa di male lo avrà fatto.»

«Noi non abbiamo fatto niente di male!»

«Sì, va bene, ma noi siamo...»

«E Lupo Nero non ha fatto niente di male! Lui è un eroe! Mi ha salvato la vita, lo sai.»

Lagna aveva scosso un poco la testa e bofonchiato qualcosa, che suonava come una resa. Per un po’ si era parlato ancora della vespa, poi la discussione era morta lì, tra il sonno che arrivava e tutta la stanchezza di una giornata a marciare per le colline.

Adesso marciavano di nuovo, in un paesaggio che sembrava sempre uguale, colline e campi, campi e colline, e boschi. La vespa procedeva dietro di loro, ma taceva e li ignorava. Tendeva a ignorare tutti, o così sembrava. Bimbo e Lagna gettavano di tanto in tanto uno sguardo verso quella figura così ignota e aliena, la prima che avessero mai visto. Sembrava riassume tutto ciò che desideravano scoprire nel mondo. Riassumerlo e anticiparlo.

Vespe, pesci, lucertole: specie più o meno intelligenti, che incontravi spesso e volentieri nelle storie, nelle favole, nelle leggende. Incontrarne una nella realtà, però, era tutta un’altra cosa. Era come se fossero entrati in una storia, piena di cose strane. Erano davvero in un’avventura, adesso.

Lupo Nero li guidava intanto oltre l’ennesima collina, a passo saldo, costante. Dicevano che potesse tenerlo per tre giorni di fila, senza fermarsi, senza dormire. Secondo Lagna erano storie, figurarsi se una persona lo può fare davvero. Per Bimbo era tutto vero. Perché Lupo Nero non era una persona. Era un eroe e gli eroi possono tutto. Lagna lo guardava storto, quando attaccava con quella solfa e la tirava in lungo, ma non ribatteva più. Aveva imparato che non serviva.

L’azzurro intenso del cielo aveva cominciato a cambiare colore. Il sole era sempre più basso a est, sulla linea bitorzoluta di un orizzonte collinare. Doveva esserci un villaggio e di sicuro ne avevano visti di campi coltivati. Ma niente case, non ancora. Non che fosse un problema: Fiuto era avanti, in avanscoperta, e presto sarebbe tornato. Il villaggio era praticamente dietro l’angolo.

«Ci siamo quasi,» disse Lupo Nero, sempre alla testa del gruppo. «È dietro la prossima. Poi ci sarà da mangiare e bere per tutti. O almeno per chi non si è già bevuto le tasche, hah!»

Altre risate, che Bimbo e Lagna accolsero con un sorriso incerto. Poi spuntò la sagoma di Fiuto, parlò con Lupo Nero, annuì e scivolò in coda. Un mormorio attraversò i mercenari. Tutto a posto, come da programma. L’atmosfera cambiò in meglio, si fece rilassata, quasi allegra. E quando il sole era un caleidoscopio di tinte spalmato sopra l’orlo delle colline e l’ovest si scuriva di crepuscolo, la loro destinazione emerse finalmente dalla campagna, scoglio abitato in un oceano vegetale.

E uno scoglio lo sembrava davvero. Una manciata di case e casolari distribuita attorno alla strada sterrata che tagliava le colline, altre cascine sparpagliate nei dintorni, il solito corredo di campi e di stalle, coltivazioni e pascoli, varie ed eventuali. Fumo che saliva da qualche tetto, vaghi movimenti per strada e attorno alle fattorie, frattaglie di vita che si ripete monotona ogni giorno, e del mondo se ne frega. Il genere di posto che i due ragazzi conoscevano anche troppo. C’erano nati e cresciuti, in un posto così. Ne erano appena fuggiti, sperando di essersene liberati. E invece...

«Non è un granché, ma meglio di un calcio in faccia,» disse Lupo Nero, guidando il gruppo verso il villaggio. «Non il posto peggiore in cui siamo stati e migliore di molti altri.»

Ci furono grugniti di assenso e alzate di spalle. Scesero la collina, raggiunsero le prime case, poi la sola taverna del paese, che faceva anche da locanda per i pochi che passavano ed erano costretti per una qualche ragione a fermarsi. Sembrava un largo granaio riadattato alla meno peggio, quasi vuoto a quell’ora, in quel giorno e forse anche in quell’anno. Giusto un paio di persone a bere nell’angolo, forse anziani o forse adulti conservati male: si girarono quando il gruppo entrò, poi tornarono a farsi i fatti propri. Tanto meglio per i mercenari. Sedettero, bevvero, mangiarono.

Non un granché, come aveva detto Lupo Nero, ma meglio di un calcio in faccia. Ai ragazzi andava bene. Erano abituati a quei posti, ci erano cresciuti, e adesso potevano anche bere senza qualcuno a rompere le scatole. C’erano le battute degli altri, sì, commenti sui bambini che non dovrebbero bere quella roba, che la mamma si arrabbia, ma erano un gioco, niente di serio, e comunque erano solo parole, aria che ti soffiava addosso per un attimo e poi passava oltre.

Le parole non disturbavano Bimbo. I fatti a volte sì.

La vespa sedeva sola. Mangiava senza espressione, beveva acqua, non partecipava alle chiacchiere, non scherzava, non esisteva. Lagna la vide alzare la testa un paio di volte, come ad annusare l’aria, poi tornava a fissare il piatto in silenzio. Non sembrava neppure parte del gruppo, e in effetti non lo era, non proprio. Una vespa in mezzo agli umani: come può far parte di qualcosa? Non può, ovvio.

«Ma secondo te cosa ci fa qui quella?» chiese a bassa voce Lagna. «Dico, davvero!»

Bimbo scrollò le spalle. «La mercenaria, credo. Come noi. Come gli altri.»

«Assieme agli umani

Altra scrollata di spalle. «Magari è normale. Magari ce ne sono parecchie.»

Lagna scosse la testa. «Te l’ho detto. Le uniche che si vedono fuori dalle loro terre sono quelle che se ne sono dovute andare, perché non avevano più un posto. Gente cacciata di casa, insomma. Non è che mi fido molto ad averne una intorno. Una che cammina sempre dietro di noi, poi.»

Bimbo lo fissò in silenzio, poi annuì. «Sì, beh, non piace molto neanche a me, ma anche il resto del gruppo non mi piace poi molto.» Abbassò ancora di più la voce, anche se nella sala c’era rumore a sufficienza da seppellire anche un urlo. «Voglio dire, Lupo Nero è un eroe, va bene, anche meglio di come lo ricordavo io, ma gli altri... Alcuni non sono proprio molto simpatici.»

Lagna sorrise. «Mettiamola così. Se ne incontrassi uno al buio, cambierei strada di corsa.»

«Ma, voglio dire, sono mercenari, no? È normale che facciano i duri. Se sono insieme a Lupo Nero, però, devono per forza essere brave persone. Sotto sotto. Sembrano cattivi e spietati, ma poi...» E si strinse nelle spalle, cercando di sorridere. Lagna annuì.

Ne avevano discusso pure la sera prima, mentre gli altri bevevano attorno al falò. Bimbo era partito con una idea dei mercenari un po’ diversa dalle persone che aveva trovato. Un gruppo di eroi liberi e selvaggi, che vanno dove la legge non arriva, per aiutare e salvare. Così li descriveva sempre nelle sue fantasie, quando ne parlava con gli amici, a casa. Gente come Lupo Nero, o come Lupo Nero gli era apparso anni prima, quando il piccolo Mosca era smarrito nel bosco e piangeva. La realtà però gli aveva mollato una robusta badilata in faccia. Gente rozza, sporca, volgare, che beveva e urlava, coperta di cicatrici, un pezzo che mancava qui, un altro là. Lupo Nero era sempre un eroe, ma gli altri sembravano pensare solo ai soldi e ad ammazzare.

Secondo Lagna era normale. Erano mercenari, non eroi, e i mercenari combattono per soldi. Cosa si aspettava, seriamente? Era un gruppo che magari poteva andare bene per cominciare e fare un poco di esperienza, ma poi era meglio filarsela il più veloce possibile e tanti saluti. Che poi lui neanche lo voleva diventare un eroe. Lui voleva lasciare il paese, vedere il mondo, combinare qualcosa con la propria vita, qualcosa che non fosse sposare una cugina barbuta e invecchiare spalando letame nei campi. Come aveva spiegato più volte, i mercenari erano un allenamento rapido. Poi, via di corsa.

Ma Bimbo continuava a dire che sotto sotto dovevano essere buoni, perché erano compagni di Lupo Nero e i compagni di Lupo Nero dovevano essere buoni perché erano assieme a un eroe. Bontà per osmosi, grossomodo. Alla fine avevano concordato di restare fino alla fine della famosa campagna contro i pesci, per vedere come sarebbe andata. Bimbo era certo che Lupo Nero avrebbe dimostrato di essere un grande eroe; Lagna si era astenuto dal commentare.

Intanto Lupo Nero si era alzato e stava discutendo col gestore del posto, un ometto grassoccio, dalla testa quasi completamente calva e la faccia come un pallone sgonfio. Aveva riso, ma poi si era fatto serio e adesso Lupo Nero ascoltava in silenzio, fronte aggrottata e occhi fissi sull’oste. Annuiva, poi ascoltava di nuovo, faceva una domanda sottovoce e annuiva ancora. Di cosa parlavano? Qualcosa di serio? Qualcosa di importante? Bimbo notò che il resto del gruppo non sembrava interessato e si continuava a bere come prima. Doveva essere normale. Magari accadeva sempre.

«Secondo me c’è un qualche problema da queste parti,» disse Lagna. «I campi qui non mi sembrano ben tenuti. Alcuni sono proprio lasciati andare. Quelli più a sud, dico. Dalla parte dove dobbiamo andare noi,» aggiunse sempre a voce bassa. Non che servisse davvero sussurrare, in mezzo a quella confusione, ma ci sono cose che si devono dire sussurrando. Ti fanno sentire meglio.

Bimbo lo fissò, fronte aggrottata. «Io non me ne sono accorto.»

«Lo so, tu guardavi solo Lupo Nero. A ogni modo, secondo me c’è lavoro per noi.»

Bimbo scrollò le spalle, senza rispondere. Tornò a studiare Lupo Nero e la conversazione con l’oste, come se fosse la cosa più interessante del mondo. Lagna sospirò. Attorno a loro bevevano tutti e si scherzava come al solito. Scena classica, ma in una locanda anziché attorno al fuoco all’aperto. Ma qualcosa di diverso c’era. La vespa lo stava fissando dal suo angolo, un bicchiere vuoto davanti, il resto del mondo a una certa distanza. Annuì appena, Haiisa o come cavolo si chiamava. Lagna si girò da un’altra parte. Giocherellò un poco col bicchiere, poi smise. Serata lunga.

Finì quando Lupo Nero li richiamò con una manata sul tavolo. C’era ancora tanta strada da fare, era meglio partire presto il mattino dopo, la festa è bella quando è corta, eccetera eccetera. Grugniti più o meno non entusiastici lo accolsero, ma tutti obbedirono.

«Passeremo la notte fuori, qui dentro non c’è posto per tutti,» spiegò, mentre Fiuto li guidava fuori dal villaggio. «È un buco. Non c’è niente per noi, qui. E dobbiamo partire presto.» Altri grugniti tra i mercenari, con qualche testa che annuiva e spalle che si alzavano.

«Hanno bisogno di aiuto e non hanno soldi per pagarlo.»

La voce si alzò inattesa dai margini della squadra. Una voce bassa, senza accento, ma che sentivi un poco vibrare nelle orecchie. Non umana, anche se usava quella parlata meticcia che si era sviluppata col mescolarsi di specie diverse per soddisfarne i bisogni fondamentali: comunicare e insultarsi. E il gruppo aveva un solo non umano. Quindi...

Il resto della squadra si girò a fissare la vespa. Immobile, braccia incrociate, faccia che forse aveva una espressione e forse era seria, ma vallo a capire. Guardava Lupo Nero e sembrava aspettare.

«Già, non hanno soldi. Problemi?» rispose il capo. Si fissavano negli occhi, adesso, lui e la vespa. Il resto della squadra si spostò un poco, lasciando un corridoio libero tra i due. C’era aria di spettacolo e lo spettacolo piaceva a tutti, specie se era gratis. La vespa non piaceva a nessuno. Orecchio sorrise e diede di gomito al vicino. «Adesso la sistema lui,» sussurrò. «Così impara.»

Ma a Genio sembrava non piacere molto. Continuava a saltellare con lo sguardo dall’uno all’altra, fronte aggrottata, masticandosi il labbro inferiore. Fece per avvicinarsi a Lupo Nero, poi guardò la vespa, fece un passo indietro, tornò a guardare il capo, strinse i pugni, li rilassò.

Lagna seguiva attento i gesti del mercenario. Tirava una brutta aria.

«C’è qualcosa che non va. Guarda Fiuto come è nervoso,» sussurrò a Bimbo, che gli stava accanto. Ma l’amico non sembrava averlo sentito. I suoi occhi rimanevano fissi su Lupo Nero e il resto del mondo poteva anche non esistere, almeno per quanto lo riguardava. Lagna sospirò di nuovo.

La vespa rimaneva tranquilla, come se stessero parlando del tempo. «Nessun problema. I problemi li avrete tu e il tuo branco, se continuerete per questa strada. Hai sentito l’oste.»

Lupo Nero sbuffò. «Hah, l’oste! E tu cosa ne sai, eh?»

«Più di te, che hai smesso di ascoltare quando hai capito che non c’erano soldi.»

«Adesso l’ammazza, vedrai,» sorrideva Orecchio, parlando col vicino. Molti sembravano d’accordo con lui, annuivano e torcevano le labbra, mostrando sprazzi di denti. Altri restavano seri. Genio non era contento per niente. Di nuovo accennò ad avvicinarsi al capo e di nuovo si fermò.

«Questi sono i miei metodi. Se non ti vanno bene, puoi andartene. Se ci riesci.» Lupo Nero torse un angolo della bocca in un sorriso senza gioia. Non c’era proprio traccia di gioia in tutta la sua figura. C’era traccia di acciaio, però: nei muscoli tesi, nella promessa dello spadone che portava sul dorso. Ancora nel fodero, certo, ma per quanto? In molti sembravano chiederselo.

La vespa tese le labbra, mostrando una nutrita collezione di denti appuntiti, simili a zanne. «Non ce ne sarà bisogno. Prima del tramonto di domani la tua banda non esisterà più, se continuate su questa strada. Vedrai. Succede a chi non ascolta e non si informa.»

Un mormorio confuso attraversò la squadra. Erano gente superstiziosa, i mercenari, come succede a tutti i gruppi che vivono un giorno alla volta, la morte sempre sottobraccio. Alla gente superstiziosa certi discorsi non piacciono. Portano male. Lupo Nero li guardò, vide il nervosismo e si preparò ad agire. Genio fu più rapido. Lo raggiunse, lo afferrò per un braccio, gli sussurrò in un orecchio.

Lupo Nero ascoltò in silenzio, sguardo fisso sulla vespa. Annuì, poi allontanò Genio con un gesto. Il luogotenente cercò di avvicinarsi di nuovo, ma il capo lo spinse da parte con la mano. Lupo Nero si schiarì la gola e parlò a voce alta. «Va bene, vespa, facciamo sentire a tutti la favoletta, eh? Vediamo cosa ne pensano loro, eh?» Sorrise, poi girò lievemente la testa verso i suoi uomini, senza rompere il contatto visivo con la vespa. Parlò.

«Sentite la storiellina dell’oste. Dice che in paese le cose vanno male, perché nei campi qui attorno c’è una specie di demone o qualcosa del genere. Non lo sanno neanche loro cos’è, hah! Dicono che è un demone perché secondo loro è grande, grosso e cattivo e fa tanta paura. Bah! Va bene, gli dico io, tu ci paghi e noi te lo facciamo fuori, che ne dici? Ma lui no, piagnucola: sono poveri, sono qui, sono là. Bah!» Scosse la testa e sputò a terra, verso la vespa. «Sono balle. Noi non siamo mica qui a farci raccontare scemenze da quattro contadini morti di fame. Se ci sono dei banditi che fanno paura e loro vogliono pagarci per ammazzarglieli, ottimo: è un lavoro. Se ci sono animali selvatici che li attaccano e vogliono pagarci per ammazzarglieli tutti, ottimo: è un lavoro. Ma se non ci pagano e si aspettano che noi lavoriamo lo stesso perché sono tanto simpatici, per me possono pure crepare. Ce lo abbiamo già un lavoro ed è da un’altra parte. Questo è solo un buco di culo di paese che domani ci saremo già dimenticati. Chissenefrega di loro e delle loro storie. Giusto?»

Il coro di assenso fu generale. Solo Bimbo li fissava a bocca aperta. Fissava soprattutto Lupo Nero: lo fissava come se lo stesse vedendo per la prima volta. Il che non era del tutto sbagliato. Accanto a lui Lagna sorrideva senza allegria. Tutto come previsto.

Era allegro Lupo Nero, di un’allegria feroce. «Allora, vespa? Altro da dire?» Sputò di nuovo.

Le braccia di Haiisa si scossero leggermente. «Fate come vi pare. Tanto a crepare sarete voi.»

«Vuoi scommettere?»

La vespa rimaneva priva di espressione, a parte le labbra dischiuse e le zanne in mostra. «Sì, voglio scommettere. Vuoi provare?» Le sue mani scivolarono verso le spade corte che aveva in vita. Erano mani dalle dita lunghe, con una nocca in più rispetto a quelle di un umano. E si piegavano in avanti e indietro, quelle nocche. Sembravano tentacoli. Lagna le guardò con un brivido.

Anche Genio fissava quelle dita e cercò di avvicinarsi a Lupo Nero, ma di nuovo fu allontanato. Per un momento sembrava proprio che si dovessero scannare lì dove si trovavano, ai margini miserabili di un villaggio miserabile in mezzo a una terra miserabile di colline miserabili. Qualcosa si allentò, nell’aria e nelle spalle di Lupo Nero. «Non perdiamo tempo con scemenze,» ringhiò. «Abbiamo un lavoro che ci aspetta. Domani si parte presto.»

Il gruppo si disperse. Lupo Nero si allontanò con Genio, e Fiuto poco più indietro. I soliti gruppetti si formarono, ognuno che andava per i fatti propri, ognuno che girava ben lontano dalla vespa. In un paio di minuti erano rimasti solo i due ragazzi e la vespa stessa, che ancora non si era mossa.

«Sarà meglio che andiamo anche noi,» disse Lagna a voce bassa. «Meglio riposare.»

Bimbo scosse la testa, fissando il suolo. Sospirò. «Non è così che funziona.»

«Ma è così che funziona. Non è bello, ma è così. Meglio abituarsi.»

Bimbo scosse di nuovo la testa, sembrò sgonfiarsi un poco e si incamminò. Lagna notò che la vespa li stava ancora fissando, le fece un vago cenno col capo che poteva essere un saluto o più o meno di tutto, a seconda dei gusti, e poi seguì l’amico. Meglio dormici sopra, già. Aveva l’idea che il domani sarebbe stato un giorno lungo e sgradevole. Brutto affare.

La vespa era ancora immobile a fissarli, quando svanirono mischiandosi al buio.

Non accadde altro quella sera, ma il mattino dopo sì. Lupo Nero chiamò una sosta appena usciti dal villaggio, si girò a guardarli, sistemò la cintura e torse la bocca in un mezzo sorriso. «Ora che siamo fuori e siamo solo noi, parliamone pure. La storia del demone l’avete già sentita. È una balla, quasi di sicuro, ma Fiuto dice che qualche problema c’è, più avanti. Tracce strane, segni che non conosce. Forse si sbaglia, forse no. Meglio stare pronti.»

«A cosa?» chiese un mercenario.

«Pronti in generale, per adesso. Si procede in ordine, ci si guarda attorno, si mantiene la guardia alta fino a che non siamo fuori da queste colline. Forse non succederà niente, probabilmente andrà tutto bene, ma non si sa mai, no? Potrebbero essere semplici banditi e dovrebbero essere scemi parecchio per attaccare briga con noi, ma potrebbero anche esserlo. Il mondo è pieno di gente scema.»

«Ma dura poco,» commentò la voce roca di qualcuno.

Lupo Nero sorrise. «Ovvio. Comunque, il punto è che qualcosa potrebbe esserci. Non mi piacciono le storie coi potrebbe. Sono viscide. Quindi attraversiamo le colline in fretta, in ordine e tenendo un paio di uomini di sentinella. Se non succederà niente, ottimo: consideriamolo un allenamento per la battaglia che ci attenderà più avanti. Se succederà qualcosa, saremo noi a succedere agli altri e sarà peggio per loro. Tutto chiaro?»

Tutto chiaro. Lupo Nero annuì, si girò verso sud e alzò il braccio destro a segnalare la partenza. E il gruppo partì, in ordine come ancora non avevano marciato.

Bimbo procedeva a testa bassa, scuotendo piano la testa. Lagna era al suo fianco come sempre, e un paio di passi più indietro c’era la vespa, come il giorno prima. Perché li seguisse, non ne avevano la minima idea. Forse perché erano gli unici a non avercela con lei, o forse perché... beh, chi mai può sapere cosa passa per la testa di una vespa? Loro due no di certo. Prima di unirsi al gruppo neppure sapevano come fossero fatte le vespe. Ma non era importante.

Per Bimbo, almeno. Lagna si preoccupava un po’ di più, ma non poteva farci niente. Andava così.

«Ancora non capisco perché non aiutano il villaggio,» borbottò Bimbo. «Se c’è un problema, e se il problema potremmo averlo anche noi, non sarebbe meglio aiutarli subito? È più semplice.»

«No, è più semplice passare oltre e fregarsene,» disse Lagna. «Siamo solo di passaggio e il lavoro è più avanti. Qui non ci pagano. Se troveremo un problema lungo la strada, lo affronteremo. Non ce li andiamo a cercare noi, se non ci pagano. Siamo mercenari. I mercenari combattono per soldi.»

«Sì, lo so, ma...»

«Come ti ho detto anche ieri, funziona così. Abituati al pensiero.»

Bimbo sbuffò. «Lo so che sono mercenari e lo so che combattono per soldi, non per salvare gli altri! Ne abbiamo già parlato e d’accordo, va così. Ma Lupo Nero... Mi aspettavo...»

«Lupo Nero è un capo e un buon capo deve ascoltare anche i suoi uomini, no?»

«Già. E poi... e poi magari fa solo così per dire, no? Per tranquillizzare gli altri, mentre invece noi andiamo a caccia di questo demone, o quello che è, no? E quando poi lo troviamo, Lupo Nero in un attimo lo sistema e salva il villaggio. Già, è così. È sicuramente così.»

Lagna non rispose. Si girò un attimo a controllare la vespa, e la trovò dietro di loro a fissarli, non una parola, non una espressione comprensibile sulla faccia. Li fissava con quegli occhi blu scuro, un blocco unico senza pupille o cornea. Neanche si capiva cosa stesse guardando davvero. Che strana creatura! Lagna tornò a fissare il percorso davanti a loro, sentendosi poco tranquillo.

Avevano raggiunto quella che sembrava una cava o i resti di una cava. Dovevano avere sventrato una collina, nel corso di anni o più. Ne restava un troncone dimezzato, che scendeva a strapiombo verso una distesa di terra grigiastra e sassi: un scarpata ripida, troppo per scalarla a mani nude, ma anche per scenderla senza scivolare e rompersi qualcosa. Nella roccia si vedevano ancora i segni di chissà quanto tempo prima, le ferite lasciate dagli attrezzi che l’avevano squartata per cavare argilla, pietre o chissà cosa. Il resto era uno spiazzo vuoto e tranquillo, silenzioso, su cui il sole batteva fin troppo caldo. Non vi entrarono subito. Lupo Nero si era fermato alla testa del gruppo. Guardava.

«Meglio che facciate qualche passo indietro, se non volete farvi male.»

La voce risuonò calma e bassa alle spalle di Bimbo e Lagna. Aveva un timbro strano, un tono che ti risuonava nelle orecchie e le faceva tremare. Non proprio spiacevole, ma un poco fastidiosa. Come un flauto basso e ruvido, un suono che nessuna gola umana poteva produrre. Infatti non lo era.

Si girarono e la vespa era lì a ricambiare lo sguardo. Forse. Poteva essere tranquilla, poteva essere incuriosita. Difficile dirlo. La sua faccia non aveva espressioni che un umano sapesse leggere, ma si poteva forse immaginare che ci fosse un briciolo di allegria in lei. Le sue mani penzolavano vicino alle due spade corte, senza sfiorarle. Forse si preparava a impugnarle, forse era una posa normale.

«Perché dovremmo farci male?» chiese Bimbo.

La vespa scosse leggermente le braccia. «Non dovreste, ma potreste. È più sicuro se state indietro. A breve ci sarà battaglia. E sarà breve.»

«Cosa significa, scusa?»

«Guardate.»

Guardarono. C’era agitazione alla testa del gruppo. Lupo Nero discuteva con Genio e Fiuto: la testa e gli occhi del capo, a voler essere cattivi o realisti. I ragazzi li vedevano gesticolare verso un punto più avanti, dietro la curva della scarpata che copriva quasi tutto il loro lato destro. Fiuto sembrava il più agitato, ma anche Genio era a disagio. Lo capivi dalla sua posa. Lupo Nero no: lui era calmo.

Il resto del gruppo era indietreggiato di qualche passo. Non preoccupati, non ancora, ma pronti sì: lo dovevi essere sempre quando eri mercenario. Se non eri pronto, eri morto. O così aveva detto Genio e i ragazzi gli avevano creduto. Sembrava verosimile. Qualcuno aveva posato la mano sull’arma che portava, spada o lancia che fosse. Non prometteva bene.

«Non capisco...» cominciò Bimbo. La vespa si portò un dito davanti alla bocca. Silenzio. Gesto che a quanto pare conoscevano anche le vespe. Lagna notò di nuovo quante nocche aveva quel dito. Sì, gli faceva piuttosto senso. Si muoveva troppo. Si muoveva in direzioni sbagliate. Rabbrividì.

Poi non ci fu più bisogno di parlare. Precipitò come un macigno dalla scarpata, dritto in mezzo ai mercenari alle spalle di Lupo Nero. Con gli artigli ne falciò due prima ancora che il resto del gruppo avesse tempo di capire cosa stesse succedendo, o anche solo cosa fosse atterrato in mezzo a loro. Lo capirono subito dopo e indietreggiarono, armi alzate in una difesa che pareva già disperata.

La creatura era grossa, alta più di due umani. Che fosse un demone, una bestia o altro ancora, non lo si poteva dire. Ricordava un gorilla depilato a cui qualche spiritoso avesse appiccicato una grottesca faccia da tapiro. Le zampe anteriori terminavano in grossi artigli, massicci, che sembravano capaci di scavare persino nella roccia. Ma era tutto massiccio, e solido. Grosso. Accovacciato, come pronto a scattare, aveva gettato da parte i cadaveri delle sue prime due vittime, come se non contassero più. E in effetti non contavano più. Erano morti. Adesso aspettava, carico. Pronto.

Nessuno si avvicinava. I mercenari indietreggiavano, aprendosi a ventaglio. La bestia era piovuta in mezzo a loro, separando il grosso del gruppo da Lupo Nero e i suoi due luogotenenti. Era un guaio inaspettato, un guaio che nessuno si sarebbe augurato. Ma era lì, adesso. Era lì tutto per loro.

Bimbo e Lagna erano in fondo, più lontani di tutti gli altri. Guardavano, cercando di capire cosa mai fosse successo e cosa si preparasse ancora a succedere. La vespa era un pilone dietro di loro, alta e immobile. «Ve lo avevo detto,» sussurrò.

«Cosa...» cominciò a chiedere Bimbo. Di nuovo fu zittito con un gesto. La vespa puntò un dito agli occhi, poi in avanti verso la bestia e gli altri mercenari, e annuì. Guardate.

Anche la bestia guardava, bocca aperta a mostrare una notevole collezione di zanne. Non sembrava avere fretta. Non ne avevano neppure gli umani. Nessuno si avvicinava, nessuno voleva finire come i colleghi che avevano avuto la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, ossia vicino alla scarpata, dove la bestia era atterrata. Qualcuno si sarebbe dovuto muovere, prima o poi, ma nessuno pareva intenzionato a offrirsi volontario. Aspettavano tutti Lupo Nero. Era il capo, era il più forte. Era lui che avrebbe dovuto dire cosa fare.

Lupo Nero annuì. Accennò a Genio e Fiuto di restare indietro, poi avanzò di qualche passo. Subito la bestia si girò verso di lui con un basso grugnito. Si fissavano, adesso, pronti entrambi all’attacco.

Lupo Nero sorrideva. Alto, nobile, sguardo determinato. Sollevò il pesante spadone a due mani e si tenne pronto a bloccare qualsiasi attacco, pronto soprattutto a rispedirlo al mittente carico di tutta l'insensata potenza di chi ha imparato a fare una cosa sola nella vita, ma l’ha imparata molto bene.

Non sarebbe stata quella bestia ridicola a batterlo. Demone o animale che fosse, non sarebbe bastato a ucciderlo. Era sopravvissuto a cose ben peggiori nel corso della sua carriera. Era solo un peccato che non ci fosse niente da guadagnare, anche se magari poteva ricavarne qualcosa portando la testa al villaggio che si erano lasciati indietro da poco. Ci avrebbe pensato poi.

Il gruppo attorno fissava in silenzio. Tutto si sarebbe deciso in un attimo. Un assalto, forse due. Chi vince e chi perde, e il perdente non si sarebbe più rialzato. Nei loro sguardi c’era un poco di paura per sé, ma nessun dubbio. Il risultato era ovvio, il vincitore evidente. Lupo Nero li aveva già guidati in cento campagne, contro avversari di ogni tipo. Non sarebbe mai morto in un posto del genere, un letamaio abbandonato con una bestia stupida come avversario. Era inconcepibile.

Lo scontro si risolse in un attimo. La bestia attaccò per prima, balzando sull'avversario con tutta la potenza delle sue gambe corte e massicce, tutto il peso del suo largo corpo. Lupo Nero lo intercettò con lo spadone, o almeno tentò. Fu lento. Troppo lento. Con un artiglio la bestia lo inchiodò a terra, con l'altro gli falciò la testa dal collo. Volò come la pallina lanciata da un bambino, precipitando tra sassi e resti di vecchi scavi. Stelle filanti di sangue ne segnarono la traiettoria. La bestia alzò il muso al cielo e ruggì il proprio trionfo.

Bimbo si irrigidì con un gemito strozzato, occhi sbarrati e increduli. «Cazzo...» commentò Lagna, girandosi verso la vespa. Che non c'era più. Ebbe giusto il tempo di vedere la sua sagoma slanciata in uno scatto che una lepre le avrebbe invidiato, gambe che pompavano come zampe di leopardo. In un attimo svanì dietro la curva della collina sventrata. Li aveva abbandonati.

«Vigliacca...» sussurrò, tornando a guardare davanti a sé, ma molto infelice di doverlo fare.

Genio e Fiuto morirono un attimo dopo. Il primo aveva tentato di attaccare, l’altro si era limitato a difendersi. Nessuna differenza nel risultato: entrambi macellati dagli artigli della bestia, così grossa ma così veloce. Il resto del gruppo fuggì in ogni direzione.

O almeno tentò. La bestia fu dietro di loro in un attimo, zampe anteriori che scattavano da una parte all’altra così veloci che a malapena le vedevi. Era impossibile. Ne cadde uno, poi un altro, e un altro ancora. Lagna perse presto il conto. Vedeva solo che fuggivano e cadevano, moscerini schiacciati a raffica, senza pietà. Alcuni scapparono e la scamparono, ma non avrebbe saputo dire quanti. Pochi. Il reso copriva la spianata sassosa e brulla della cava, coriandoli rossi alla fine della festa.

Dovevano scappare anche loro. Si girò verso Bimbo per dirglielo, per trascinarlo via se necessario, ma lui non c’era più. Con un suono che era più gemito che urlo, faccia fatta di lacrime e sguardo da animale in trappola, Bimbo si era lanciato verso la bestia, in pugno la spada vecchia e rovinata che si era portato da casa, davanti a sé nessuna speranza. Lagna impallidì. Quello scemo...

Tutto finì in un attimo. Bimbo caricò la bestia gridando. La bestia lo scacciò con una zampata quasi svogliata, moscerino che non merita neppure un briciolo di attenzione. Lagna vide l’amico atterrare qualche metro più in là, rotolare un poco nella polvere e fermarsi. Non si muoveva più. La spada gli era caduta e luccicava lì vicino.

Lagna si leccò le labbra, immobile. Era rimasto solo. Peggio, era rimasto solo con la bestia. Che al momento non lo stava guardando. Abbozzò qualche passo verso Bimbo, ci ripensò. Troppo tardi. La bestia si era girata verso di lui. Lo fissava. Non sembrava ancora aggressiva, ma non dovevi essere un profeta per capire che lo sarebbe diventata a breve. Bastava guardarsi attorno. C’erano cadaveri e armi sparpagliate, e anche qualche pezzo umano sparpagliato. I suoi ex compagni di viaggio.

Lagna allungò una mano verso cintura e fodero, ci ripensò, l’allungò di nuovo. Estrasse la spada, la guardò per un momento, scosse la testa. C’erano spade ovunque per terra, assieme a lance e tutto il resto dell’arsenale dei mercenari. Erano state utili come grissini bagnati. E adesso?

La bestia urlò al cielo, poi si girò di nuovo verso di lui flettendo gli artigli insanguinati. Sembrava un segno molto, molto brutto. Lagna indietreggiò, giusto per fare qualcosa.

«Non muoverti! Guarda che, anche se non lo sembro, io sono un possente guerriero!» gridò.

La bestia non sembrò neppure averlo sentito. Avanzò di un passo; Lagna indietreggiò di due.

«Ti ho detto di non muoverti, o sarò costretto a usare la mia spada!» La agitò un poco in aria, come a rafforzare il concetto. La bestia avanzò di un altro passo, Lagna indietreggiò di altri due.

«Ultimo avvertimento! Guarda che non sto scherzando! Non voglio doverla usare!»

Era verissimo, ma sembrava anche inutile. Piangeva, adesso. Guardò per un attimo verso Bimbo, un corpo immobile a terra, poi tornò alla bestia, che avanzava ancora, ma lenta. Merda. Merda merda e ancora merda. A sapere che sarebbe finita così, tanto valeva restare al villaggio e sposare la cugina, barbuta o meno che fosse. Inutile. Tutto inutile.

Lagna indietreggiò ancora e sbatté la schiena contro qualcosa. Tese con cautela la mano libera. Cosa aveva urtato? Non era del tutto sicuro di volerlo sapere, ma non poteva essere peggio di quello che aveva di fronte. Le sue dita trovarono terra, e pietra. La parete della cava. Era indietreggiato dal lato sbagliato e adesso aveva le spalle al muro, quasi letteralmente. Non si era solo scavato la fossa: ci si era pure coricato. Era la fine. Merda!

La bestia spalancò la bocca a mostrare un notevole numero di zanne, non tutte dritte ma tutte spesse e affilate. Sì caricò sulle zampe posteriori come aveva fatto prima di balzare addosso a Lupo Nero e giocare a palla con la sua testa. Con gli artigli anteriori graffiava la terra, sollevando nuvolette di polvere. Ruggì piano, o forse ringhiò.

Lagna si leccò le labbra. Sollevò la spada e la tenne davanti a sé, come se davvero avesse qualche possibilità di combatterlo. Sudore scorreva libero sul suo volto, mischiandosi alle lacrime. Pungeva. Bruciava. Un mostro davanti e un muro dietro. Oh beh, in fondo era stata uno schifo di vita.

Sarebbe stato bello se fosse durata un poco di più.

Poi una lancia lunga e sottile scese verticale dal cielo, trapassò il cranio della bestia e lo inchiodò al suolo. La bestia emise un verso roco, tentò di sollevare un artiglio, emise un altro verso roco e non si mosse più. Lagna la fissò in silenzio. Non osava neppure battere le palpebre. Poteva essere solo un sogno. La bestia continuava a non muoversi. Lagna riprese a respirare con cautela. Alzò molto, molto lentamente lo sguardo lungo l'asta della lancia. Appollaiata in cima c’era la vespa, come un enorme gufo. Aveva le labbra allargate a mostrare un buon numero di denti appuntiti, ma non erano minacciosi come quelli della bestia. Forse. Per adesso.

«Sono arrivata in tempo per salvarti i pantaloni o hai bisogno di un cambio?» Scese dalla lancia con un lieve balzo e si spazzò le mani sul giubbino. «Non puoi attaccarli di fronte, questi. Sono troppo grossi e pesanti. Ti schiacciano,» spiegò. «Solo gli stupidi ci provano. E gli stupidi durano poco, lo hai visto anche tu, Tutti morti.» Accennò con la mano alla cava e alla sua collezione di cadaveri.

Lagna la fissava. Sbatté lentamente le palpebre.

«Meglio il mio metodo,» continuò la vespa. «Un colpo alla testa dall’alto verso il basso quando non se lo aspettano. Morto subito. Qui il terreno era giusto e c’erano esche a distrarlo.» Agitò le braccia in un gesto che poteva essere la sua scrollata di spalle. Lagna continuò a restare zitto, muovendo un poco la testa da una parte all’altra. Era il solo gesto che lo facesse sembrare vivo.

«Dunque? Che fine ha fatto il tuo collega? Lui non è rimasto indietro, vero?»

Lagna sembrò finalmente svegliarsi. Con la mano libera si sfregò occhi e faccia. Raccolse lacrime, sudore, polvere. Vedeva meglio, adesso, e vedeva il corpo di Bimbo, ancora accartocciato e ancora immobile. Lo puntò con un dito. Non sembrava ridotto troppo male, a vederlo così. Non sembrava neppure ridotto molto bene.

La vespa guardò e vide il corpo. «Ovvio. Voleva vendicare quel Lupo Nero, no? Bene, vediamo che si può fare. Magari è ancora vivo.»

Lo era. La bestia non lo aveva sventrato coi suoi artigli, ma solo spazzato via con una zampa. Aveva bisogno di essere rattoppato un poco e magari per qualche giorno sarebbe dovuto restare fermo, ma respirava, il suo cuore funzionava e il mondo non era proprio il migliore che si potesse chiedere, ma per un minuto o due potevi quasi fingere che lo fosse.

Se non lo studiavi troppo da vicino, ovvio.

La vespa esaminò per un poco le ferite di Bimbo, poi si alzò. «Un guaritore te lo farà ritornare come nuovo. Non potrà curargli la testa, ma...» Scosse un poco le braccia, con quella che Lagna era ormai quasi sicuro fosse la sua versione di una scrollata di spalle. «Tutti morti, gli altri?»

Lagna trovò finalmente la voce. «No,» sussurrò. «Non credo,» si corresse. «Sono scappati. Alcuni li ho visti. Poi non so. Avevo... altro per la testa.» Guardò l’amico, i cadaveri dei mercenari, la testa di Lupo Nero, di nuovo l’amico e infine la bestia. Era ancora ferma nello stesso punto, la lancia lunga e sottile a trapassargli il cranio, la sua punta conficcata nel terreno pietroso. Ma dove l’aveva trovata la vespa? Lagna non ricordava di averla mai vista con una lancia. Portava solo le due spade corte in vita, per quanto ne sapeva lui. Le portava ancora alla cintura, a penzolarle lungo i fianchi.

«Sì, è morto, non ti preoccupare,» disse la vespa, con quella voce che continuava a fargli vibrare le orecchie. Non suonava più così spiacevole come all’inizio. Forse perché gli aveva appena salvato la vita, un evento che ti aiuta parecchio a cambiare opinione su cose e persone.

Lagna la fissò. «Grazie,» disse.

«Di niente. A proposito, ti chiami davvero Lagna?»

«Mi chiamavano così loro,» e accennò ai cadaveri. «Il mio vero nome non è molto meglio. Gobbo. È così che mi hanno chiamato al villaggio dove sono nato.»

«Un nome è un nome. Il mio è impronunciabile per la vostra specie, ma potete usare Haiisa. Un po’ ci assomiglia, se hai gravi problemi di udito.»

Il ragazzo tentò un sorriso. «È davvero così impronunciabile?»

«Eccolo.» Emise un suono prolungato simile a un flauto di bambù con accompagnamento di gatti in calore. Nessuna gola umana sarebbe riuscita a imitarlo.

«Impronunciabile, sì. Vada per Haiisa, suppongo.» Il ragazzo sospirò, guardandosi attorno.

«Adesso cosa volete fare? Rovesciare tutti i sassi fino a trovare dove gli altri si sono nascosti, se ne è scampato qualcuno?» Le labbra si sollevarono di nuovo a mostrare due file di denti appuntiti, da gatto enorme. Forse era la sua versione di un sorriso.

Il ragazzo scrollò le spalle. «Adesso dovrò trovare un guaritore per Bimbo. Mosca. Gli altri...»

«Lasciali perdere, non ne vale la pena. Gente inutile. Cosa facevate con loro?»

«Mosca ammirava Lupo Nero. Era il suo eroe. Voleva diventare come lui. Io l’ho seguito più che altro perché volevo lasciare il paese e vedere il mondo. E poi siamo amici, sai. Un gruppo valeva l’altro, quando si comincia. No?»

La vespa lo fissò negli occhi. «No. Ma se vuoi vedere il mondo, vieni con me. Potresti essere utile. Di certo sarai più al sicuro. Magari imparerai qualcosa.»

Gobbo la guardò, mordendosi le labbra. «E dove vai?»

«A cercare un guaritore per il tuo collega, per cominciare. Interessato?»

Decisamente. Così partirono assieme: la vespa, Gobbo e Mosca inconscio. La cava e i suoi morti se li lasciarono indietro, così come si potevano lasciare indietro i soprannomi che avevano usato tra i mercenari. Non che i loro nomi veri fossero molto meglio, ma erano pur sempre un inizio e quando si comincia, beh, una cosa vale l’altra. A volte.

E poteva essere un buon inizio, quello. Forse non il migliore possibile, ma per qualche minuto lo poteva pure sembrare. Se lo guardavi dalla giusta prospettiva, ecco. Il ragazzo che era nato Gobbo e per un poco era stato Lagna pensò che la prospettiva attuale era abbastanza giusta, almeno migliore di prima. Magari lo avrebbe pensato anche Mosca, il fu Bimbo, una volta tornato tra i consci. Aveva un eroe da dimenticare, ma forse ne avrebbe trovati di migliori strada facendo.

Si poteva almeno sperare, no?

di Adriano Marchetti