Adriano - racconti e altro

Il pistola

L’uomo in nero fuggì nel deserto e il pistola lo seguì. Per un poco. Poi decise che nel deserto faceva davvero troppo caldo, non si era portato abbastanza da bere, non era vestito come si doveva, aveva dimenticato la crema protettiva e insomma era un casino, davvero, meglio lasciare perdere. Che poi, il deserto? Ma siamo seri? Aspettiamo che torni e gli diciamo di fuggire in un posto migliore, ecco.

Così il pistola tornò indietro, borbottando, e che l’uomo in nero finisse pure a crepare disidratato dove voleva, come voleva e quando voleva. Anche perché, dai, ti vesti di nero e fuggi nel deserto? Sul serio? C’è da essere scemi, scusate.

Scrollandosi la sabbia dagli stivali, il pistola pensò che aveva fatto la scelta giusta. Lo pensò ancora più forte nel bar dove si rifugiò una volta tornato in paese, in cerca di ombra e fresco, o perlomeno un caldo leggermente inferiore.

Lo trovò, assieme a una robusta dose di liquidi da ingurgitare, di ogni gradazione. Sedette, distese le vertebre della schiena con un concerto da xilofono rotto, contemplò la parete. Pensò. Ricordò.

La parete. Non era un granché, faceva anzi piuttosto schifo e diffondeva attorno a sé un microcosmo di tristezza malinconica, alla maniera degli ospedali o delle scuole, specie quando sono affrescate di quel verde sbiadito che nessuna persona sana di mente userebbe mai nella propria casa.

Casa. Le pareti di casa. Il pistola si smarrì in un flashback lungo e irrilevante su un momento della sua adolescenza che potrebbe essere molto simbolico, ma anche no, e che aveva vagamente qualche contatto con le pareti di casa. Dopo una decina di pagine di narrazione, il pistola adolescente si era ricordato, per motivi irrilevanti, del giorno in cui lui e suo cugino avevano rotto una vetrata. Erano bambini, e giocavano. Era accaduto al mare. Da qualche parte e per qualche motivo.

Mentre giocava con suo cugino, prima di rompere la vetrata, la luce intensa del mare aveva acceso in lui il ricordo di un’altra luce intensa, al momento della sua nascita, e aveva ricordato che, proprio mentre stava nascendo, la confusione dell’evento gli aveva fatto ricordare la sua vita precedente, in cui era stato uno scarabeo stercorario, e rotolava pacifico la sua palla di escrementi in un giorno di sole incerto, tendente al bigio, e mentre rotolava la sua palla di escrementi aveva ricordato il giorno in cui, semplice larva, aveva percepito per la prima volta un mondo all’estero di sé, qualcosa che gli si contrapponeva, una realtà che non era il pistola-scarabeo e che nel non essere lui lo costringeva a riconoscersi, a prendere coscienza di sé come pistola scarabeo, e in quel momento...

Ma non ci interessa ed è bene tornare al presente, al pistola-umano. Che era al bar e faceva quello che quasi tutti fanno, quando sono in un bar. Beveva.

Beveva, con una passione che raramente aveva conosciuto prima, con una sete che non era proprio sete, ma più voglia di qualcosa di liquido. Beveva alla facciaccia dell’uomo in nero, che lo potesse stroncare una insolazione. Beveva e ordinava ancora, fino a ruttare due anime e mezzo. Il terzo rutto glielo stroncò in gola l’ombra lunga che calò sopra di lui. Veniva dalla porta.

«Dobbiamo parlare,» disse l’ombra, o meglio la persona umanoide che la proiettava. Le ombre non sono solite parlare, sapete, anche se di tanto in tanto vi possono dare questa impressione, specie se avete da poco assunto le sostanze giuste. O anche quelle non giuste, a seconda.

«Parla pure, ti ascolto,» rispose il pistola, ricominciando a bere.

L’ombra apparteneva all’uomo in nero, ed era in tinta col proprietario. Non che fosse poi così nero, ormai: il sole, i lavaggi e la semplice usura, oltre a una certa dose di sabbia e altro materiale non ben definito, avevano collaborato per sbiadirne il colore, come sempre succede. Al suo interno, forse, il mantello che lo avvolgeva era probabilmente un nero lucido, ma l’esterno trasmetteva soltanto una certa tristezza: parlava di tempi andati, epoche migliori, rare permanenze nell’armadio.

«Perché sei tornato indietro?» chiese l’uomo in nero, o in nericcio che dir si voglia, sudando come sette maiali. Non aveva scelto l’abbigliamento migliore per il deserto, ma in fondo non è che avesse proprio scelto. C’erano convenzioni da rispettare e lo sapeva bene. Sono importanti, le convenzioni. Se non le rispetti, la vita è soltanto una polpetta della mensa. E una polpetta preparata in mensa non è una bella cosa da trovarsi davanti. Trovarsela in bocca è anche peggio.

«Perché c’è caldo,» rispose il pistola, riempiendo di nuovo il bicchiere. «Ma secondo te, fuggire nel deserto con questo tempo? Ma tu sei scemo, guarda.»

«Ci sono cose che si devono fare, piacevoli o meno. L’uomo in nero deve fuggire nel deserto e tu lo devi seguire. Capito? Non devi infilarti in un bar a bere.»

Il pistola scosse la testa. «Ascolta, ma perché ti dovrei seguire, scusa?»

«Per raggiungermi. Per parlarmi. Per compiere la tua vendetta. E poi per cominciare tutta la tua avventura, no? È il primo passo, capisci? Io fuggo, tu mi raggiungi, cerchi di spararmi, poi parliamo un poco e alla fine tac, tu vai avanti. E il gioco è fatto.»

Il pistola ci pensò. «Ascolta, ma visto che tanto sei già qui, e un qualche inseguimento c’è stato, ci possiamo mettere a parlare e stop, che si fa prima, no? Tanto è la stessa cosa.»

L’uomo in nero sospirò. «No che non è la stessa cosa. Sei tu che devi inseguire me, non io te. Tu mi insegui, io la tiro un po’ per le lunghe, alla fine mi faccio raggiungere e l’avventura vera e propria comincia. Non è difficile da capire.»

«Uuuuh, non ci ho voglia,» bofonchiò il pistola, con un broncio da bambino capriccioso.

L’uomo in nero sedette. Era proprio un pistola di un uomo, inutile parlare con lui. Eppure... eppure lo doveva fare. Era il suo ruolo, il suo compito, la parte che gli era stata assegnata e lui l’avrebbe portata a termine. In un modo o nell’altro. Con le buone o le cattive. Era l’uomo in nero, dopotutto. Un uomo in nero che si rispetti deve essere sempre pronto a usare le cattive.

«Riposiamoci un poco e poi ne riparliamo, ok?»

Il pistola alzò le spalle. Alzò anche una mano e la testa, per ordinare un altro giro e farsi portare un po’ di salatini e roba simile. Porcheria, come la chiamava la mamma, quando lui era bambino e tutto doveva ancora cominciare. Porcheria. Eppure la mangiava, lei, e ne mangiava parecchia. Ma era porcheria quando la mangiava il papà, e quando la offrivano a lui, o quando la chiedeva lui. Per lei no. Forse il suo apparato digerente era speciale e trasformava la porcheria in cibo sano e salutare?

Il pistola non lo aveva mai scoperto. Erano tante le cose che non aveva mai scoperto su sua madre, e le cose che aveva scoperto non erano state tutte piacevoli. Ma era una storia lunga ed era una storia per un altro giorno. Non poteva raccontarla in un bar, né concedersi un flashback solitario, non con tutto ciò che gli stava accadendo attorno. O che gli sarebbe accaduto a breve, quantomeno. Sapeva solo che i salatini erano stati per lui una porcheria: per questo adesso li mangiava con gusto. Perché era grande e ricordava il volto di suo padre quando si rimpinzava di noccioline.

Si servì anche l’uomo in nero, senza complimenti. Aveva tolto il mantello, posandolo su una sedia lì accanto, e aveva sganciato i primi bottoni della camicia. Camicia nera, ovviamente, come nero era ogni altro capo di abbigliamento che il pistola riuscisse a vedere. Nera anche la barbetta e neri i capelli. La pelle no. La pelle era pallida, ma lucida, e odorava di sudore. Ne era anche coperta, in effetti, così come probabilmente ne erano chiazzati i vestiti. Ma il nero maschera, sapete.

Il nero maschera sempre. Era una cosa che aveva imparato anni prima, attraversando quel villaggio di cui adesso non avrebbe parlato, perché non ne aveva voglia. Il nero maschera e a volte una maschera è tutto ciò che ti serve. A volte è l’unica cosa che ti serve, per vivere e andare avanti, un giorno dopo l’altro. In estate no. In estate e al sole fa troppo caldo per vestirsi di nero. O anche per indossare una maschera, specie se copre tutto il viso e non fa passare aria.

Bevvero e mangiarono, mangiarono e bevvero. Attorno a loro, il bar era un brusio vago, a cui non prestavano attenzione e che non prestava loro attenzione. Il deserto era distante e nessuno dei due lo rimpiangeva, né ne sentiva la mancanza. Ma c’erano convenzioni da rispettare, dannazione! E le convenzioni dovevano essere rispettate, con le buone o le cattive. O anche con le normali.

«Parliamo,» disse l’uomo in nero. «Ma mentre parliamo, ti sfido,» aggiunse, togliendo un mazzo di carte da una tasca. Un mazzo da briscola, molto usato. Consunto, con gli angoli arricciati e un poco spelacchiati, raccontava di lunghe permanenze in tasca e ancora più lunghe permanenze tra le mani di giocatori antichi e nuovi, al sole e nella notte, nel vento e nella pioggia. Raccontava di infinite veglie attorno ai falò, turni di guardia che non passavano mai, solitudini senza nome e senza fine. E mani, mani incalcolabili che mai avevano conosciuto l’igiene, ma avevano conosciuto il mazzo: lo avevano mescolato, lasciando sulle carte un fantasma olfattivo della propria presenza, uno strato un poco viscido e unto, spettri di esistenze precarie e mai ricordate.

Tutto questo il mazzo lo raccontò senza aprire la bocca, perché i mazzi di carte non hanno la bocca, neppure se sono da briscola, neppure se a mescolarli è un uomo in nero. Ma la mente umana può far parlare ogni cosa, se così vuole e se la sua fantasia è malata a sufficienza, o se la carenza di contatti umani l’ha erosa a sufficienza da costringerla a cercare rifugio negli oggetti.

«Mi vuoi leggere il futuro?» chiese il pistola, con un mezzo sorriso.

«Il futuro lo conosco già. Ti ciulerò tutti i soldi e tornerai a casa in mutande. Uno come te non mi batterà mai. Non mi hai mai battuto, non mi batterai neppure oggi. È il tuo destino. Ma se preferisci, non giochiamo a soldi. Giochiamo solo per il piacere di giocare, ok?»

«Se preferisco?»

L’uomo in nero alzò un sopracciglio. «Se hai troppa paura di perdere, o se non te lo puoi permettere. Non sono così cattivo, mi basta solo batterti. Non che sarà molto divertente, in fondo. Sono anni che non trovo giocatori alla mia altezza e tu non lo sei. Non lo sei mai stato.»

Il pistola si raddrizzò. «Attento, perché io ero forte a briscola. Ricorda!»

«Da giovane, sì. Ai tempi della scuola. Ma ormai...» Si strinse nelle spalle, sorridendo triste.

Al pistola non piacque quel gesto. Estrasse il portafogli e sbatté una banconota sul tavolo. «Cinque a partita, ok? Mettici i tuoi, forza, e vediamo chi tornerà a casa in mutande. E chi perde paga anche il conto, chiaro? Tutto, sia il mio che il tuo.»

«Ma se ci giochiamo tutti i soldi qui, poi chi perde con cosa lo paga il conto?»

«Problemi tuoi, perché sarai tu a perdere.»

L’uomo in nero sorrise e mescolò. Era proprio un pistola.

Parlarono e giocarono, giocarono e parlarono. Si conoscevano da tempo e avevano una lunga storia tra loro, una storia dura, difficile, dolorosa. Una storia di sfide, scontri, legami, negli anni difficili e duri della crescita. Una storia che non sarà raccontata qui, perché non ha la minima rilevanza con la partita. Si erano poi persi di vista, per ragioni che hanno una rilevanza anche minore; si erano persi di vista come spesso succede, quando la vita si allarga in un delta di possibilità e futuri e sparpaglia i tuoi desideri, le tue compagnie, la tua essenza. Sparpaglia tutto al vento e il vento non ha pietà, perché non è un essere vivente ma solo aria che si sposta. Eccetera eccetera.

Ma le radici erano profonde e la terra fertile; i frutti sui rami erano sempre gli stessi e gli argomenti di discussione pure. Non si scappa dai luoghi comuni. Per quanto lontano tu possa andare, scoprirai che ti hanno preceduto. Così parlarono del passato, i vecchi tempi, di prima che il mondo andasse avanti, in quel processo che in altri luoghi chiamano semplicemente invecchiare.

Ricordi? Eran belli i nostri tempi. Quei miti morti ormai, la scoperta di Hemingway, le cose sognate e ora viste, stoviglie color nostalgia. La tristezza li avvolse come miele, mentre giocavano, e il fine stesso del gioco non aveva più importanza, non contava più, erano mani che si tenevano occupate, mentre le bocche lavoravano, sul cibo e sulle parole. O almeno era così per il pistola. Per l’uomo in nero era un lavoro serio e come un lavoro serio lo viveva. Strozzava, andava liscio, pescava.

Come sempre. Non era cambiato di una virgola, negli anni, ed era un altro aspetto che ricordavano ora con una lacrima virtuale. Era l’uomo in nero e l’uomo in nero giocava solo per vincere, mai per giocare, anche se nel mondo di prima non era ancora l’uomo in nero, ma uomo e basta. Aveva una ferocia nei gesti, una spietatezza nello schiacciare le carte sul tavolo, che il pistola non aveva mai saputo eguagliare. Ecco cosa gli mancava davvero, forse: cosa gli era mancato in tutti quegli anni. La spietatezza, la volontà di calpestare tutto e tutti per arrivare in fondo. Ma l’avrebbe imparato nel suo ultimo viaggio. Lo sapeva già, anche se ancora non lo sapeva davvero. Glielo avrebbe insegnato l’uomo in nero, che intanto smazzava.

E vinceva. Vinceva tutto e vinse anche qualcosa di più. Vinse anche un biglietto di sola andata per il futuro e il destino del compagno di gioco, nemico di battaglia. Quel destino che aveva deciso con l’asso di bastoni, un segno dove soltanto una categoria può vincere, come i nonni ben sanno.

Quando il pistola non aveva più niente da farsi fregare, alzò finalmente lo sguardo, sopra un tavolo vuoto di cibo ma ricco di morti, bicchieri vuoti e bottiglie asciutte. Alzò lo sguardo a incontrare gli occhi dell’uomo in nero. «Ho perso,» disse. Storse la bocca. Aveva gli zigomi un poco umidi, come le guance più sotto. Lacrime, o congiuntivite.

«È stata una bella partita, no?» chiese l’uomo in nero. «E comunque ti avevo avvisato. Non mi hai mai battuto, lo sai, e anche stavolta non avevi alcuna speranza di battermi. Non hai mai capito il segreto del mio gioco, vedi? E senza capirlo puoi solo perdere.»

«E qual è il segreto?» chiese il pistola, protendendosi verso di lui sopra la tavola.

«Ho barato.»

Poi l’uomo in nero gli schizzò negli occhi il whisky che ancora gli rimaneva nel bicchiere, afferrò il mantello e si lanciò fuori, di corsa, in volo, molto prima che il pistola potesse asciugarsi la faccia e registrare l’accaduto, per poi reagire di conseguenza. Era già sparito, oltre la porta e chissà dove, quando il pistola ebbe finito di ripulirsi e posato sul tavolo il fazzoletto. Gli occhi gli bruciavano un poco: non era un whisky di gran qualità. Ma non erano solo gli occhi a bruciargli. Non lo avrebbe lasciato andare così, quel cane imbroglione. Non stavolta. L’uomo in nero non gli sarebbe fuggito.

Così anche il pistola si alzò e sarebbe corso a raggiungere il suo rivale, se proprio in quel momento non si fosse avvicinato il barista, afferrandolo per un braccio. La sua mano era forte, quasi una presa da tenaglia, e il pistola non si poteva sottrarre. Non si voleva sottrarre, in fondo. Perché il suo onore era in gioco, e anche un buon numero dei suoi denti. Gli anelli sulle dita del barista dovevano fare molto male, se portati in veloce contatto con la bocca di qualcuno. Di un pistola che voleva fuggire senza pagare, per esempio. Aveva dimenticato l’esistenza del conto, nel fuoco della rabbia vindice che al momento lo dominava. Il barista glielo ricordò.

«E il conto chi lo paga, eh?»

Il pistola lo fissò, fissò quella faccia consumata e dura, che aveva già visto chissà quante terribili scene da dietro il bancone, tacendo, servendo, asciugando bicchieri, non facendo sconti o crediti. E ne avrebbe vista un’altra, a breve. L’avrebbe vista molto da vicino. Il barista lo avrebbe dovuto capire da solo e forse lo avrebbe capito, se fosse stato più sveglio. Chiunque lo avrebbe capito, guardando negli occhi del pistola: occhi freddi, profondi, da gelato corretto con una robusta dose di coloranti tossici. Occhi puntati contro di lui, contro il barista. «Mettimelo in conto,» disse il pistola.

Poi il pugno partì e quegli occhi si chiusero.

Qualche tempo dopo, il pistola era di nuovo in piedi, malfermo sulle gambe ma dritto, ancora una volta ad affrontare il destino. Aveva perso tempo, troppo tempo, e aveva pure perso un paio di denti, che non sarebbero più ritornati. Solo la prima delle tante cose che avrebbe perso, in quella ricerca, e non la peggiore, se non su un piano strettamente estetico. Ma aveva uno scopo, adesso; aveva un obiettivo da raggiungere, qualcosa che prima non gli era mancato. Quell’obiettivo era davanti a lui.

Era molto avanti, forse troppo, ma non aveva importanza. C’era tempo e il tempo era per una volta dalla sua parte, o almeno era neutrale. Col tempo lo avrebbe raggiunto. Avrebbe avuto la vendetta che cercava, ma soprattutto avrebbe recuperato tutti i soldi che il maledetto imbroglione gli aveva ciulato. Tutti, a cominciare dalla loro prima partita, anni e secoli prima, quando il mondo non era ancora andato avanti e il domani sorrideva.

L’uomo in nero fuggì nel deserto e il pistola lo seguì. Coi pugni stretti e l’odio tra i denti, nonché un conto da saldare.

di Adriano Marchetti