Adriano - racconti e altro

Occhio!

A poche persone piace svegliarsi nel cuore della notte, qualunque sia la causa. Una telefonata forse è il modo peggiore, ma anche il citofono di casa non è male. Rumori violenti davanti alla finestra? È un discreto fastidio, sì, ma non quanto i rumori violenti al piano di sopra. Sia come sia, una sveglia in piena notte è una gran rottura di scatole: su questo possiamo concordare.

Nel corso della sua vita, Paolo Sgionfi aveva sperimentato parecchi risvegli sgraditi, per un motivo o per l’altro, e non ne aveva apprezzato neppure uno. Per questo erano stati sgraditi, dopotutto. Se li avesse apprezzati, sarebbero stati risvegli graditi. Pura questione di logica. Il punto è che Paolo era un veterano dei risvegli in piena notte, o almeno amava considerarsi così, che spesso significa più o meno la stessa cosa. Al primo posto della sua lista personale, al momento, si trovava il risveglio per una improvvisa e intensa chiamata di natura. Alle tre di notte. In inverno. Con casa gelida.

Proprio quello che gli era appena capitato. Per questo era al primo posto.

Paolo Sgionfi aprì a fatica un occhio. Buio. Si girò lentamente verso destra e le cifre verdastre della sveglia sul comodino entrarono a poco a poco nel suo campo visivo. Erano familiari. Erano come il vecchio amico che non vorresti rivedere, perché non siete mai stati poi così amici, ma prima o poi te lo ritrovi fra i piedi lo stesso. Paolo se lo ritrovava fra i piedi adesso. Alle 3:14.

Richiuse l’occhio. Le cifre verdastre gli danzavano ancora dietro la palpebra. Erano familiari. Era la sveglia che aveva usato ai tempi dell’università, quando era giovane e forte. O almeno giovane. Per più di venticinque anni lo aveva accompagnato ovunque, nella cattiva e nella pessima sorte. Sempre accanto a lui, sul comodino alla destra del letto. In ogni alloggio, in ogni pseudocasa. La sua unica compagnia notturna, si potrebbe anche dire. Triste, ma vero.

Tre e quattordici. Doveva proprio alzarsi? La vescica gli rispose che sì, doveva proprio. Era urgente e la situazione si sarebbe dovuta risolvere al più presto, in un modo o nell’altro. La scelta del luogo era ancora sua, ma a breve non lo sarebbe più stata. E dunque.

Paolo sospirò dentro. Perché finiva sempre così? L’età, forse. La prostata, forse. L’età e la prostata. Il freddo. L’anima di suo nonno in carriola. Ma alzarsi si doveva alzare e alzarsi si alzò, borbottando e accompagnando ogni movimento con un concerto per articolazioni irrigidite in la bemolle.

Faceva freddo. Come poteva fare così tanto freddo? Era al chiuso. Era in casa! Ma faceva così tanto freddo che poteva sentire i peli del naso brinarsi a ogni respiro. Non aveva senso!

«Fa freddo,» gemette.

«Il riscaldamento è disattivato per proteggere l’ambiente,» rispose l’assistente domestico con la sua voce pacata e falsa, che Paolo odiava tanto.

«Ma fa freddo!»

«Proteggere l’ambiente è più importante.»

Paolo Sgionfi scosse la testa e rinunciò. Questione di un paio di minuti, dopotutto, poi sarebbe corso a seppellirsi di nuovo sotto le coperte. Non valeva la pena di discutere con un pezzo di plastica. Con un passo da zombi affetto da emorroidi raggiunse il bagno, sbatté il piede sinistro contro lo spigolo, il solito maledetto spigolo, soffocò una violazione del secondo comandamento, entrò in bagno a luci spente, raggiunse la tazza, stavolta si ricordò di alzare l’asse, puntò, fuoco. Aaah!

Ne valeva quasi la pena, per quell’istante in cui ti liberavi. Era un quasi molto grande, d’accordo, e Paolo ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma era pur sempre una piccola soddisfazione. Piuttosto di niente, come si suol dire. O almeno come diceva suo nonno Ennio.

Tese il braccio destro per tirare l’acqua e fu allora che sentì il rumore.

Paolo Sgionfi si fermò. Cos’era? Sembrava una specie di cric cric, ma molto leggero, come di una cosa che gratta appena su una superficie metallica. Solo che era un bagno. La ceramica abbondava, o magari era similceramica o variazioni sul tema, ma di metallo non ne trovavi molto. E quindi?

Si guardò attorno, ma era buio e non vide alcunché. Un poco di luce stradale filtrava dalla tapparella e magari a breve i suoi occhi si sarebbero adattati abbastanza da permettergli di vedere qualcosa, ma la domanda era: voleva davvero restare lì al freddo ad aspettare? E ancora non aveva tirato l’acqua.

La tirò. Lo scroscio fu breve e coprì ogni altro rumore, reale o inventato che fosse. Paolo scosse un poco la testa, come un cane alla moviola, sospirò e chiuse gli occhi. Aveva freddo. Faceva freddo. A metterci un poco di fantasia, ma neppure troppa, poteva immaginare il fiato che gli usciva da naso e bocca in nuvolette di condensa. Forse succedeva davvero.

Paolo Sgionfi riaprì gli occhi. Sempre buio, ma sbiadito. La luce arrivava ed era poca, ma bastava a guardarsi attorno e vedere che il bagno era normale. Squallido come sempre, vuoto come sempre. Il solo essere vivente era lui, e lui era immobile, quindi niente poteva fare rumore. Tutto risolto.

Non lo era.

Al ritorno del silenzio, il rumore riprese. Era sottile, come se qualcuno volesse fare sentire che stava cercando di non farsi sentire. Assomigliava un poco a...

Paolo sorrise. Ah, già. Ovvio. Ci avrebbe dovuto pensare prima e forse ci avrebbe pensato prima, se il suo cervello non fosse ancora addormentato per almeno il sessanta per cento. Adesso che ci aveva pensato, però, tutto era tornato a posto e lui poteva tornare a letto. Al caldo. A dormire.

Aveva già sentito un rumore simile. Era successo tempo prima, quando aveva dimenticato il vasetto vuoto di yogurt sul tavolo e uno scarafaggio esploratore ci si era infilato dentro. Era di plastica, era abbastanza alto e chissà come aveva fatto quello schifoso a infilarsi dentro, ma una volta entrato ci era rimasto. Non riusciva più ad arrampicarsi fuori. Così aveva grattato con le zampe qui e là, sulla superficie di plastica liscia. A Paolo era venuto quasi un colpo, quando lo aveva sentito. Un grattare del genere non è il tipo di rumore con cui ti vuoi svegliare. Poi aveva acceso la luce, individuato la causa e tutto si era risolto per il meglio. In una prospettiva antropocentrica, quantomeno.

In bagno non c’erano vasetti, che lui sapesse, ma di sicuro c’erano altre cose in cui uno scarafaggio si poteva infilare. Erano creativi, quei cancheri. Bastava trovarlo e sistemarlo. Problema risolto. Ma lo voleva davvero fare adesso? Volerlo no, ma gli toccava. Via il dente, via il dolore.

Paolo Sgionfi chiuse di nuovo gli occhi e si concentrò sul rumore. Da dove veniva? Dal lavandino o dintorni. No, un poco più in alto. Dallo specchio, forse, o dall’armadietto dei medicinali. Non che ci fossero molti medicinali e non che fosse proprio un armadietto, ma ne faceva le veci e tanto basta.

Paolo riaprì gli occhi e si avvicinò al lavandino, distante giusto un mezzo passo. Il rumore lì era più intenso e sì, non c’erano dubbi: si era infilato nell’armadietto. Come avesse fatto era un altro paio di maniche, ma c’era e lui lo doveva rimuovere. Non un lavoro difficile.

Il cosiddetto armadietto era giusto un piccolo parallelepipedo di metallo appeso in verticale accanto allo specchio sopra il lavandino. Aprivi l’anta e trovavi due piccole mensole, su cui potevi mettere a tua discrezione qualche flaconcino o roba simile. Non molti, perché lo spazio era poco, ma non era un malato cronico e non gliene servivano molti. Aveva una scatoletta di cerotti, un poco di cotone, il rasoio, una piccola confezione di aspirina e una di tachipirina. Tutto qui. Mancava il disinfettante, è vero, ma non si ricordava mai di comprarlo e non ne aveva mai avuto bisogno. Finora.

Paolo si tolse una ciabatta, per ogni evenienza, poi aprì lo sportello. Era pronto a tutto e pensava al fastidio di dover pulire l’armadietto, il giorno dopo, ma era un lavoro da fare e lui lo avrebbe fatto.

Un attimo dopo scoprì di non essersi preparato ad almeno una cosa.

Era buio, e fu una fortuna. La luce del lampione filtrava nella stanza e disegnava le sagome, ma non ti lasciava vedere abbastanza bene. Paolo Sgionfi vide fin troppo.

C’era qualcosa nell’armadietto. Non uno scarafaggio. Era qualcosa che ricambiava lo sguardo.

Un occhio: questo fu il suo primo pensiero. Un ragno: questo il secondo. Un occhio ragno.

Un ragnocchio.

Paolo indietreggiò, sbattendo contro il box doccia.

Il suo rasoio era appoggiato sul fondo dell’armadietto. Sopra il rasoio c’era un occhio umano. Non ci era appoggiato sopra, ma si reggeva su una serie di zampette che ricordavano quelle che classico ragno domestico. La pupilla era fissata su di lui. Era vitrea.

Paolo Sgionfi volle gridare, ma non ne aveva il fiato. Lo aveva perso tutto aprendo l’armadietto. Era pronto a schifezze di ogni tipo, ma non a quella. Perché non aveva senso. Non poteva esistere.

Quindi non esisteva.

Stava sognando, ovvio. Era un’allucinazione. Uno scherzo degli occhi, del sonno, di quel che volete voi, ma non era reale. Certe cose non possono esistere e basta. Caso chiuso.

Assieme al caso, Paolo chiuse anche gli occhi. Poteva sentire il rumore delle zampette, poi smise di sentirle. Non era un bel segno, forse, non se ci pensavi bene, ma lui non voleva pensarci bene. Era il genere di cosa a cui non vuoi pensare e basta. Così tenne gli occhi chiusi fino a che il rumore non fu cessato. Li riaprì con una discreta dose di caghetto metaforico.

Non c’era più. L’armadietto era tornato a contenere solo le cose normali, reali, che ci aveva messo lui. Perfetto. E il ragnocchio? Ma non era mai esistito, ovvio. Aveva sentito un rumore e forse c’era stato davvero un qualche insetto lì dentro, un grosso scarafaggio o un ragno deforme, ma adesso se n’era andato e tutto si era risolto per il meglio.

È in un qualche angolo in casa, gli sussurrò una parte traditrice del cervello. Forse nel letto.

Ma era chiaramente falso e Paolo non l’ascoltò. Colpa del sonno, della stanchezza, la roba di bassa qualità che doveva mangiare perché non poteva permettersi altro. C’erano mille ottime ragioni reali, non aveva senso preoccuparsi di quello che reale non era. Tutto risolto.

Uscì dal bagno, chiuse la porta e tornò in camera, muovendosi al buio come sempre. La stessa parte traditrice del suo cervello gli suggeriva terribili agguati dietro a ogni angolo, ma Paolo la ignorava. Non che ci fossero molti angoli sul cammino: esci dal bagno, gira a destra e la porta della camera è subito lì, davanti a te. E nessun ragno in mezzo. E nessun occhio. E... niente in generale, ecco.

Pure, camminava senza altare troppo i piedi da terra. Un insetto ci poteva essere e non aveva voglia di calpestarlo, se possibile. Poteva essere sporco e... disordinato, già.

In camera, a letto, al caldo. Caldo potenziale, almeno: perché diventasse reale, ci voleva tempo. Era il suo stesso corpo a produrre il caldo, non le coperte: le coperte lo trattenevano e basta. Ma presto il caldo sarebbe arrivato e il problema risolto. Era stata una brutta sveglia notturna, ma era passata.

Paolo Sgionfi si seppellì come sempre faceva in inverno, lenzuola e coperte tirate fin sopra la testa e immerso più che poteva nel letto, raggomitolato in un minuscolo universo di calore, ultimo baluardo contro il gelo esterno. A poco a poco si contrasse in una posizione quasi fetale, mentre la coscienza si affievoliva e il sonno si avvicinava con un passo da Pantera Rosa.

Cric cric.

Paolo si irrigidì. Di nuovo? Quell’insetto schifoso si era davvero infilato in camera sua? Adesso era lì con lui, da qualche parte al buio? E... grattava su qualcosa. Poteva essere il comodino. Poteva non esserlo, certo, c’erano di sicuro mille altre spiegazioni migliori per quel rumore. Perché allora era la peggiore quella che gli veniva in mente? Sembrava davvero ingiusto.

Cric cric.

No, non aveva ragione di preoccuparsi. Era protetto, era al sicuro, era sotto le coperte. Non un solo pezzo del suo corpo sporgeva. L’insetto schifoso facesse pure quello che voleva là fuori, ma lì sotto, nel tepore gentile e materno delle coperte, Paolo era al sicuro. Era protetto. Era...

Era un insetto, non il babau. Perché le coperte lo avrebbero dovuto fermare?

Perché gli insetti non si infilano sotto le coperte, ovvio. Quello lo fanno gli umani. È vero, anche gli insetti si possono infilare nelle lenzuola, ma quelle sono le cimici e lo fanno solo quando tu le stendi fuori e non controlli il bucato prima di tirarlo dentro. Paolo non stendeva mai fuori. Neppure aveva un fuori dove stendere, se anche lo avesse voluto fare. Quindi era al sicuro sotto le coperte.

Il suono si fece più delicato e più vicino, come se qualcosa stesse camminando piano sulle coperte. Piano ma non troppo. Piano per far sentire che voleva far piano, ma abbastanza forte da farti sentire che era lì e che cercava di fare piano. Non ne sentiva il peso, ma poteva immaginare di sentirlo. Era quasi più brutto. Cosa voleva quell’affare?

Il rumore si fermò quando doveva essere più o meno sopra di lui. Paolo Sgionfi era rigido dentro il suo bozzolo di coperte e sentiva, sentiva la presenza di quel maledetto affare. Non con l’udito e non con il tatto, ma con un senso extra, che potremmo definire immaginazione. Quel senso speciale che ti fa vedere quello che non vedi, udire quello che non odi, e così via. Lo avete sperimentato pure voi e non c’è bisogno di aggiungere altro. Quel senso.

E adesso? Respirava a fatica. Adesso una persona adulta sarebbe riemersa di colpo dalle coperte, in un attimo avrebbe acceso la luce e via con la caccia all’insetto. Quello che fai alle tre di notte con la zanzara che continua a ronzarti attorno alle orecchie, insomma. E l’orario era giusto, perché le tre di notte erano passate da non molto, e un insetto a rompergli le palle lo aveva davvero. Quindi...

Paolo esitò. Poteva essere pericoloso? Non era un occhio, d’accordo, ma era un ragno grosso e forse velenoso. Poteva rischiare di farsi male. Se solo avesse aspettato un poco, giusto per verificare cosa si sarebbe messo in testa di fare, magari quell’accidente se ne sarebbe andato da solo. Eh? Eh?

L’accidente non se ne andava.

Paolo Sgionfi lo poteva vedere benissimo con l’immaginazione. Era lì, appollaiato su di lui, come il più abominevole dei pappagalli sulla spalla del più abominevole dei pirati. O qualcosa del genere, ci siamo capiti. Doveva essere più o meno all’altezza del suo petto, adesso. Se ne stava lì, aspettava e spiava. Oh, se spiava. Spiava col suo occhio terribile.

No, doveva smetterla con la fantasia. Era solo un insetto. Ributtante, magari pure velenoso, ma solo un insetto. Niente di meno, ma soprattutto niente di più. Lo poteva affrontare, se voleva. Lo avrebbe sconfitto senza difficoltà, se voleva.

Solo che davvero non lo voleva.

Ma era stanco, aveva sonno, era esasperato, stressato e domattina si sarebbe dovuto alzare presto. Si doveva dare una mossa, in un senso o nell’altro. O si addormentava con quel coso addosso, oppure si alzava e lo scacciava, schiacciava, spiaccicava, quello che serviva. E doveva farlo adesso.

Paolo sospirò dentro. Già, non c’erano alternative. Non sarebbe riuscito a dormire con quel coso sul letto, quindi se ne doveva liberare. E poi chissà, guardiamo il lato positivo. Magari avrebbe scoperto che se n’era già andato da solo. Era possibile, no? Con un poco di ottimismo.

Raccogliendo tutte le proprie scarse forze fisiche e spirituali, Paolo si preparò a spostare le coperte e zompare all’aperto, accendere la luce e annientare l’invasore. Questione di un attimo, se gli andava tutto bene. Una manciata di secondi e avrebbe potuto dormire in pace. Quindi, carica!

Il suo braccio sinistro scattò fuori dal bozzolo di coperte, cercò a tentoni l’interruttore, lo trovò e nel tempo di un clic luce fu. Con l’altro braccio spinse via le coperte, si raddrizzò come uno strano e un poco spettinato pupazzo a molla che spunta da una scatola, guardò verso il punto del letto in cui era sicuro di trovare l’intruso e non lo trovò. La coperta era vuota.

Ecco un imprevisto. Era stato così sicuro di trovarlo, che era un brutto colpo scoprire di avere forse immaginato tutto. O magari no, magari ne aveva immaginato solo una parte. Se guardava bene nelle vicinanze, forse c’era una traccia di quel ragno maledetto. Poteva essere su una parete, sul soffitto o più o meno ovunque. I ragni sono fatti così, dopotutto. Movimenti a trecentosessanta gradi pieni. Se te ne scappa uno, non sai mai dove potrebbe essere finito. Dove meno te lo aspetto, di sicuro.

Ecco un brutto pensiero di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Paolo si guardò attorno con cautela e la lentezza di un paralitico con piaghe del decubito. La stanza si ostinava a rimanere vuota.

Forse allora se n’era andato davvero. Con un sospiro si afflosciò sul letto, pronto a spegnere la luce e tornare a imbozzolarsi nelle coperte. Aveva vinto la battaglia senza neppure combatterla. Non era il massimo della soddisfazione, ma si sapeva accontentare.

Clic clic.

Paolo Sgionfi spalancò gli occhi. Dov’era adesso? Era attutito, il rumore, e sembrava venire da sotto e da dietro. Da sotto il letto? Da dietro la testata del letto? Da sotto la testata?

Paolo si rialzò, si sporse dal letto, afferrò una pantofola e caricò il braccio. Era armato, adesso, e si sentiva più o meno pronto a tutto, ma con giudizio. Sollevò un poco il bordo delle lenzuola con la mano libera, si chinò e guardò sotto il letto. E lo vide.

Era lì nella penombra, orribile come un presidente del consiglio italiano. Era lì e lo fissava.

Un occhio. Un occhio umano, castano, che per qualche motivo si reggeva su zampette da ragno. Ne aveva otto ed erano molto sottili, ma lo sostenevano. Che cosa era quell’orrore? Da dove veniva? Il pensiero che fosse una qualche nuova diavoleria smart per sorvegliare gli inquilini lo accarezzò e se ne andò quasi subito. Aveva senso, da un certo punto di vista, ma non ne aveva sotto tutti gli altri. E dunque? Cosa poteva essere? Un vero ragno, che casualmente sembrava un occhio umano? Ma non sembrava finto, quell’occhio. Sembrava che lo stesse fissando davvero.

Paolo sollevò la pantofola. La abbassò. La sollevò di nuovo. Chiuse gli occhi per un istante, scosso dallo schifo per quello che si preparava a fare, poi strinse i denti e li riaprì. Il ragno si era mosso. Si stava muovendo a grande velocità. Si muoveva verso di lui, verso la sua faccia capovolta e stordita che sporgeva dal bordo del letto. Ebbe solo il tempo di pensare di spostarsi, poi il ragno balzò.

Paolo Sgionfi lo sentì atterrargli sulla faccia, sentì le sue zampette gelide che gli aderivano alla pelle e grattavano. Poi non sentì più.

Si svegliò alle sei in punto dal più brutto incubo che avesse mai avuto negli ultimi diciotto anni. Era un vero orrore, con occhi che lo inseguivano e lo aggredivano, gli scavavano la faccia e... Ma no, lo voleva dimenticare al più presto. Lo avrebbe dimenticato al più presto. Una colazione, una lavata di faccia, sfregando bene e a fondo, e poi tutto gli sarebbe sembrato di nuovo normale. Perché tutto era normale. Solo un incubo. Niente di più.

Paolo Sgionfi si guardò nello specchio del bagno. La pelle attorno all’occhio destro sembrava quasi arrossata, come se avesse pianto o se si fosse sfregato troppo forte. Poteva averlo fatto. Dopo che ti capita un incubo del genere, strofinarsi gli occhi è normale. Anche qualche lacrima ci può stare. Un evento logico, semplice, razionale. Niente di cui preoccuparsi. Meglio pensare al lavoro, adesso. Lo attendeva e non sarebbe stato piacevole. Non lo era mai, nella sua esperienza.

E mentre Paolo si lavava e pensava al lavoro spiacevole, un occhio sotto il suo letto si mosse piano. Tremò, vibrò, si scosse. Aveva ancora qualche traccia di sangue sui bordi, ma presto sarebbe sparito tutto. Spariva sempre tutto. Otto puntine lucide e metalliche sporgevano dai suoi lati. Poche ore e il cambiamento sarebbe terminato. Avrebbe avuto... beh, non ali per volare, ma gambe per camminare.

E andare in cerca di un nuovo padrone.

Era un lavoro importante, capite.

di Adriano Marchetti