Adriano - racconti e altro

Ospedale da sogno

Quell’ospedale era strano. Aldo Frollini ne aveva avuto il sospetto fin dal primo giorno di ricovero, ma la certezza era arrivata soltanto al secondo. Ok, facciamo terzo, perché il secondo giorno non era neppure consapevole di dove si trovasse, rimbambito com’era dall’anestesia e dai suoi postumi. Lo avevano operato, che era poi anche il motivo per cui si trovava in ospedale. Giusto una cosetta alla schiena, roba da niente. O così aveva detto il chirurgo e chi era lui per contraddirlo? Lui Aldo, dico. Ma l’operazione era andata e una volta ripreso, nonché ritornato in una stanza normale, Aldo aveva avuto la certezza che l’ospedale era strano.

Vero, dal suo punto di vista tutti gli ospedali erano strani. Erano luoghi di passaggio, capite, sospesi tra dimensioni sociali. Una volta entrato in ospedale, non appartenevi più alla normale società, ma ti trovavi in una specie di limbo, sospeso tra essere e non essere. Non più parte del corpo sociale, non ancora escluso del tutto. Un limbo, appunto, almeno secondo il suo modesto parere. Siccome tutti i luoghi di transito seguono leggi diverse dai luoghi normali, è inevitabile che siano strani. O giù di lì, ci siamo capiti. Il punto è che gli ospedali erano posti strani in generale.

Quell’ospedale era più strano della media.

Nel terzo giorno di ricovero, dopo l’operazione e il periodo di limbo nel limbo trascorso in terapia intensiva, che per Aldo Frollini aveva significato dormire quasi tutto il tempo nella penombra e con strani macchinari che facevano beep attorno a lui, più un infermiere che di tanto in tanto passava di lì a fare cose non molto chiare, che potevano includere aghi, era ritornato in una stanza normale, in compagnia di un altro paziente più o meno normale. Aveva anche l’aria di una mummia svegliata in malo modo, ma in ospedale hanno tutti quell’aria, più o meno, per cui non era strano. Era strano che una infermiera gli aveva portato un foglietto e lo aveva posato sul comodino. Il comodino nel vicino di letto, non di Aldo. Aldo aveva solo osservato la scena, un poco perplesso.

Perché una infermiera dovrebbe portare un foglietto a un paziente? Se ha qualcosa da dire, può dirlo a voce, no? Tanto più che Ramsete III lì accanto non aveva l’aria di chi riesce a muovere il braccio e afferrare qualcosa sul comodino. Ma forse era un qualche avviso per i suoi parenti, già. Perché ce ne doveva avere anche lui, giusto? Sì, così aveva più senso.

Non che ad Aldo interessasse davvero. In quel periodo i suoi problemi erano le flebo, l’indegnità dei pannoloni, gli infermieri che passavano e un letto da cui non si poteva alzare ancora per un po’. Ma presto ti potrai alzare e poi sarà peggio, gli aveva detto un infermiere ghignante. Scherzava, ma non poi così tanto e Aldo lo sapeva. Coricato e con le flebo, poteva pure non sentire il dolore. In piedi la differenza si sarebbe notata subito. E auguri ad andare in bagno da solo. Ma dicevamo di Ramsete e di quel biglietto sul comodino, che doveva essere per un parente. Ovvio.

Poi un parente era arrivato e tutto aveva smesso di avere senso. Definitivamente.

Era una figlia, o forse una nipote. Una donna sulla quarantina, a ogni modo, o così stimava Aldo, la cui specialità non era mai stata determinare a occhio l’età di una persona. Non assomigliava granché a Ramsete III, è vero, ma poche cose assomigliavano a Ramsete ed erano ancora capaci di respirare, figurarsi poi camminare da sole. Le cose che assomigliavano a Ramsete e si muovevano da sole, di solito le dovevi abbattere con un colpo alla testa, almeno secondo certi film. Ma stiamo divagando.

Il punto è che nel pomeriggio era passata quella donna, aveva cordialmente ignorato Aldo Frollini, si era fermata accanto a Ramsete III, lo aveva salutato ricevendo forse un rantolo in risposta, aveva notato il foglietto sul comodino, lo aveva raccolto e il suo volto si era spaccato in un sorriso quasi da cocomero. Aldo lo aveva trovato un poco inquietante, mentre fingeva di non spiarli.

«Stavolta tocca a te! Non sei contento?» aveva esclamato la donna, guardando Ramsete. Che non le aveva risposto, vero, ma forse il ricordo di un muscolo si era contratto sulla sua faccia rinsecchita.

«Lo dirò a tutti e ti faremo una bella festa, vedrai! Verremo tutti, davvero!»

Ramsete aveva continuato a giacere inerte sul suo letto, mentre la donna squittiva e cinguettava altre frasi liete e incomprensibili, invocando e forse evocando misteriosi tutti, che avrebbero partecipato a eventi altrettanto misteriosi e ne sarebbero stati contenti. Aldo aveva seguito ogni cosa con la coda dell’occhio e i tentacoli delle orecchie, simulando indifferenza e sonno in corso. Che strana scena.

Cosa significava? Lo scoprì quando la tizia se ne andò. Aveva lasciato il foglietto sul comodino, più o meno dove lo aveva appoggiato l’infermiera, ma adesso era girato con la scritta in su. Adesso un intraprendente vicino di letto si poteva raddrizzare un poco, torcere dalla parte giusta e spiare che ci fosse scritto di tanto interessante. Forse. Se davvero era quel genere di persona, un ficcanaso privo di scrupoli per la privacy altrui. Una specie di Google antropomorfo, insomma.

Aldo Frollini non lo era, per carità. A muoverlo non fu una forma di curiosità morbosa, ma soltanto il più onorevole dei sentimenti: pura preoccupazione umana verso il suo compagno di stanza. Era un uomo sofferente, era chiaro a tutti, ed era dunque suo dovere, suo di Aldo, informarsi su quale fosse il problema, per poter prestare aiuto nel modo migliore. Perché era molto generoso, un vero modello di altruismo, il nostro Aldo Frollini. Sarebbe sbagliato pensare male di lui. Davvero!

Sarebbe altrettanto sbagliato pensare che sia facile torcersi di lato dopo un’operazione alla schiena.

Aldo lo scoprì a proprio danno, anche se lo avrebbe già dovuto sapere. Quarantott’ore di immobilità a letto, ecco cosa gli aveva detto un medico dopo l’intervento. O forse un infermiere? A malapena si era reso conto di essere una forma di vita pluricellulare, quando si era ripreso dall’anestesia: pensare a dettagli avanzati come il sesso o il ruolo di una persona che gli parlava erano compiti al di là delle sue capacità, in quel momento. Comunque glielo aveva detto qualcuno e lui aveva obbedito.

Sollevarsi un poco nel letto non fu difficile, soprattutto perché ad alzarsi fu il letto, non lui. Quando però si trattò di piegarsi di lato e protendere un braccio per afferrare il foglio sul comodino altrui, il nostro prode Aldo si accorse che non aveva abbastanza divinità da invocare. Faceva malissimo e poi ancora un poco. Era come... no, non gli veniva un termine di paragone appropriato. Era sofferenza a livelli che non aveva mai neppure immaginato possibili, almeno non sul piano fisico. Torquemada si sarebbe commosso, vedendo la sua agonia.

O forse no. Aldo Frollini era una brava persona, ma aveva anche lui qualche piccolo difetto. Tipo la poca resistenza al dolore, che lo induceva a fare testamento anche quando sbatteva il piede contro lo spigolo della porta. Alcuni si erano anche spinti a definirlo un frignone, una drama queen, ma erano giudizi affrettati ed esagerati, come chiunque potrebbe capire a prima vista. La schiena faceva male sul serio, mica balle. Lo avevano operato da poco, dopotutto: dovete capire!

Fra una lacrima e una bestemmia, un piagnisteo e mille gemiti, il nostro Aldo Frollini riuscì alfine a tendere le sue dita eburnee non sulla materna lira, ma sul foglio del vicino di letto, il nostro Ramsete III, che nel frattempo aveva dato tutti i segni di vita di un pallone sgonfio. Con una fatica immane, il convalescente dalla schiena incerottata afferrò il foglio, lo alzò un poco, torse il collo e guardò. E ne fu sorpreso. Ed ebbe la conferma che in quell’ospedale c’era qualcosa di strano.

Era un testo breve e sembrava battuto a macchina, per quanto possa apparire incredibile all’epoca di computer e stampanti. Pure, questo gli dicevano i suoi occhi. Non che ci fosse molto da leggere, per il resto: c’erano una data e un orario. La data era quel giorno, l’orario la sera tarda. Che significava? E perché la tizia aveva reagito così, quando aveva letto il foglio? Ne era stata felice e aveva fatto un gran... ok, baccano non era la parola giusta, non era stata rumorosa, ma gli aveva dato l’impressione di volerlo essere. Aveva quella particolare aura da persona in festa, capace di saltare con le braccia al cielo, schiamazzare e tutto il resto della pantomima. Ammesso che succedesse davvero nella vita reale, ma Aldo era pronto a credere di tutto. Era pieno di gente strana il mondo.

Una data e un orario. Aldo Frollini lasciò cadere il foglietto, fece un mezzo tentativo di rimetterlo a posto, poi gli passò la voglia e si accasciò di nuovo sul letto, gemendo un poco. Cosa significava? E aveva importanza? Ne aveva avuta per la tizia, in apparenza, e quindi...

Sospirò e scosse la testa. Inutile pensarci tanto. Lo avrebbe visto quella sera, sbirciando senza farsi notare. Avrebbe visto tutto, avrebbe saputo tutto e si sarebbe tolto la curiosità. Per adesso era meglio riposarsi un poco e sperare che i suoi sforzi non gli avessero aperto la ferita. O forse non era quello il termine corretto. Come si chiamava l’incisione di una operazione? Ferita? Gli sembrava sbagliato, ma al momento non aveva idee migliori e comunque non era importante. Aldo lasciò perdere e di lì a poco si addormentò. Forse.

Quando riaprì gli occhi, c’era un’infermiera che gli cambiava la flebo. Neppure si era accorto della flebo. Gliel’avevano messa mentre dormiva? Quindi aveva dormito. Farfugliò una domanda coi toni di un malato terminale; l’infermiera sorrise e gli spiegò che era un antidolorifico. Ottimo. Perché la sua schiena era in condizioni terribili, davvero. Come se una bestia selvaggia gliel’avesse lacerata a colpi di artiglio. Come se avesse mille cocci di vetro sul materasso. Come se questo e quello. Era un tormento quale neppure Dante sarebbe mai riuscito a immaginare.

L’infermiera sorrise e annuì, spiegò che sarebbe passato in un attimo e poi se ne andò, con un passo che ad Aldo sembrò troppo veloce. Offensivamente veloce, si potrebbe dire. Lui non lo disse, perché non era quel genere di persona, però lo pensò a lungo, mentre il pomeriggio sfumava nella sera.

Venne l’ora di cena, venne un vassoio con un pasto terribile, da mensa universitaria, e Aldo Frollini faticò a mangiare, perché era scomodo e perché l’infermiera scortese non si era degnata di tagliargli la bistecca in pezzi abbastanza piccoli per i suoi gusti. Come si può guarire a dovere, se il personale ti tratta così? Era davvero un pessimo posto quell’ospedale, e aveva abitudini strane. No, lo avrebbe sconsigliato a tutti i suoi amici, non appena ne avesse trovato qualcuno. Intanto mangiava.

La sera sgocciolò via. Arrivò di nuovo la tizia che aveva visitato Ramsete III, accompagnata da altra gente che Aldo non aveva mai visto, ma che prometteva bene. Non erano proprio vestiti a festa, ma vestiti bene sì. Un poco tendente allo scuro, d’accordo, ma in fondo era un ospedale e anche il nero e le variazioni sul tema erano usati spesso per gli abiti da sera, no? Quindi tutto funzionava. Circa.

Non funzionava un’altra cosa. Un infermiere molto sgarbato aveva trascinato una specie di divisorio tra il suo letto e quello del vicino, come quando ti vengono a lavare o cambiare il pannolone. Perché lo aveva fatto? E adesso lui come avrebbe potuto vedere cosa succedeva dall’altra parte? Ok, poteva sentire, ma sentire e basta non bastava. Bisognava anche vedere, diamine! Ma no, quell’infermiere si doveva essere messo in testa che era una questione di privacy o palle varie. Come se Ramsete III se ne potesse ancora preoccupare! Era un miracolo se riusciva a tirare due respiri di fila.

Pure, privacy fu. Così Aldo sentì, ma non vide.

Sentì i tizi che chiacchieravano tra loro, rievocando eventi passati. E ti ricordi, e quella volta, e poi, e sì, e quando, e lui, e questo, e quello. Ti ricordi? Aldo Frollini non si ricordava, ma avrebbe voluto sentire qualcosa di più interessante. Dovevano davvero passare la serata in viale delle rimembranze, quei tizi? Lui voleva sapere cosa significasse il messaggio, cavolo! Del passato del vecchiaccio non gli poteva fregare di meno. Sembrava anche noiosissimo, a sentirlo così. Perdita di tempo, davvero.

Ma era fastidiosamente rumorosa, non finiva e l’orario indicato sul foglio si avvicinava. Aldo si era spostato strisciando sulla schiena fino a sistemarsi al margine del letto, contro le protezioni e a poca distanza dalla barriera divisoria. Era stato faticoso e doloroso e per questo aveva maledetto ancora il tizio che aveva sistemato il divisorio, ma aveva bisogno di sapere, capite? Era una cosa importante.

E Aldo Frollini seppe. Più o meno.

All’orario prestabilito, sulla stanza scese il silenzio. Beh, qualcosa di abbastanza vicino al silenzio e che, in mancanza di meglio, ne poteva fare le veci. Piedi che strisciavano, gole che si schiarivano, le narici di qualcuno che si prosciugavano per suzione interna, forse anche i rantoli di Ramsete. Stava per succedere qualcosa, era ovvio. C’era quel genere di atmosfera. E infatti qualcosa accadde.

Entrò una vecchia. Aveva un vestito vagamente da infermiera, ma non troppo e non uguale a quello delle altre infermiere dell’ospedale. Aldo sbirciava da una palpebra semichiusa, fingendo di dormire perché, non si sa mai, magari avevano qualcosa in contrario. Loro, capite. Lui di sicuro ne aveva di cose in contrario, a cominciare dalla specie di maglioncino che la vecchia indossava, nero e chiuso sul davanti da una serie di bottoni. Forse aveva un nome, ma Aldo non lo conosceva. Era però di un pessimo gusto che, davvero, la metà basta. Rendeva la vecchia ancora più vecchia della sua età.

Già: quale sarebbe la sua età? Aldo Frollini non ne aveva idea. La faccia era vecchia, senza dubbio, con rughe come un campo appena arato, ma i capelli erano neri, e corti, e gli occhiali rendevano più evidenti che mai i suoi occhi da gufo. Non era arcigna, di per sé, ma emanava un’aura di arcigneria profonda, da maestra severa e molto antiquata, una di quelle che bacchettano le dita.

La vecchia attraversò a passo lento il campo visivo di Aldo Frollini, fino a sparire oltre i confini del divisorio. I tizi sull’altro lato della barriera si azzittirono davvero. Pure i rantoli cessarono. E adesso cosa stava per succedere? Aldo avrebbe dato una gamba della sua ex moglie per vederlo, ma proprio non poteva. Maledetto il divisorio e l’infermiere che lo aveva sistemato!

Silenzio. Due inservienti entrarono di corsa nella stanza e svanirono anche loro oltre il divisorio. E adesso? Cosa ci facevano lì? Non erano infermieri, ma quel genere di tizi che fa lavori più pesanti in ospedale, che non richiedono un vero addestramento ma solo muscoli. A cosa servivano? Di certo non a immobilizzare Ramsete III: era più morto che vivo anche nelle migliori condizioni...

Silenzio. Un fruscio. Un sospiro prolungato. Silenzio. Un fruscio. Un altro sospiro.

Aldo Frollini si rodeva il fegato e aveva anche dimenticato il male alla schiena. Cosa fate? Ditemelo subito, ve lo ordino! Devo sapere! Ne ho bisogno! Ma non seppe, non allora.

La vecchia uscì a testa bassa e passo lento. Dietro il divisorio ci fu altro movimento, pochi suoni, un naso soffiato e poi la quiete, ma una quiete agitata, forse in positivo o forse in negativo, Aldo non lo sapeva dire. Sapeva solo che era successo qualcosa, lo sentiva, ma non lo aveva visto. Che rabbia!

Anche gli inservienti sfilarono di nuovo davanti al suo campo visivo. Portavano una barella e sulla barella c’era Ramsete III, che aveva smesso di sembrare morto per diventarlo davvero. Qualcosa gli copriva il volto, forse un fazzoletto o forse un tovagliolo. Pian piano sfilarono via anche i tizi che lo avevano festeggiato in modo così strano, che fossero parenti o altro. Ultima venne la donna, carica di quello che doveva essere stato il bagaglio del nuovo defunto. E la serata finì.

Perché? Aldo Frollini ci pensò a lungo, prima di addormentarsi e forse anche dormendo. Non capiva e non sapeva. Peggio, ipotesi brutte gli passavano per la testa. Ma brutte brutte, mica balle. O forse sì, forse erano balle. Aldo lo sperava. Perché se non lo erano... Ma no, lo erano di sicuro. Ovvio.

Quando si svegliò il mattino dopo, per nulla riposato, il divisorio era sparito e non c’era più traccia dell’altro occupante di quella stanza. Letto rifatto, comodino svuotato, di sicuro anche l’armadio era vuoto. Sparito tutto. Il che aveva senso, dato che lo avevano portato via morto, ma era inquietante lo stesso, proprio perché lo avevano portato via morto. E per quanto era successo prima del decesso.

Poi vennero la colazione, la pulizia della stanza, visita mattutina con controllo della schiena e tutto il resto dell’armamentario ospedaliero. Routine, solida e normale routine. Non bastava a cancellare il siparietto della sera precedente, che non aveva senso alla luce del sole, come non ne aveva avuto alla luce elettrica. Non un senso che Aldo fosse pronto ad accettare, perlomeno.

«Cosa è successo al mio compagno di stanza?» chiese a un’infermiera di passaggio con tutta la poca naturalezza che Aldo riuscì a simulare.

«Portato via. Non si preoccupi,» gli rispose lei. Ma si preoccupava sì, perché d’accordo, da un certo punto di vista era vero che lo avevano portato via, ma l’avevano portato via coi piedi in avanti e una barella sotto la schiena, stecchito come un insetto con le zampe all’aria. Non il genere di pensiero a cui puoi associare il concetto “rassicurante”, capite. E c’era la vecchia a cui pensare. E il messaggio battuto a macchina, ricevuto il giorno stesso.

Mancavano però le risposte. Risposte che Aldo Frollini fosse disposto ad accettare, come si diceva.

Passò qualche giorno, mentre la sua schiena migliorava e ricevette il permesso di alzarsi da letto, il che serviva almeno a liberarlo dall’indegnità del pannolone. Venne il nuovo compagno di stanza, un vecchio con un girello e il catetere, accompagnato da una moglie peripatetica che trascorreva tutto il giorno a camminare avanti e indietro per la stanza, parlando con un pesante e quasi incomprensibile accento da Magna Grecia. Aldo la trovò simpatica come la zanzara delle due di notte.

Mentre si trascinava lungo il corridoio del reparto, cercando di fuggire la stanza diventata di colpo inabitabile e, da un certo punto di vista, cercando anche di fare un poco di esercizio fisico (ma era solo una scusa, diciamolo pure), si fermò davanti alla porta aperta di una stanza da cui usciva il tipo di rumore che non associ normalmente a un ospedale, per quanto strano possa essere. Musica. Rock. Da boomer, d’accordo, ma pur sempre rock. Che succedeva?

Succedeva che era in corso una specie di festa, apparentemente. Il centro era il letto di un tizio, testa pelata e faccia pelata, non un pelo che fosse visibile. Puzzava di chemio lontano un chilometro e per Aldo non fu un buon auspicio, ma il tizio era arzillo, nei limiti del possibile. Sedeva dritto nel letto e teneva un bicchiere di plastica. Chiacchierava con altra gente, che teneva bicchieri di plastica e pure qualche pizzetta. Pareva una festa. Una specie di festa di compleanno in ospedale, per un paziente a occhio e croce di mezza età portata male, ma pur sempre una festa di compleanno. Si poteva fare?

Aldo Frollini non lo sapeva, ma per un attimo lo invidiò. Poi cominciò a odiarlo. Perché lui aveva la sua festa in ospedale? Non era giusto! Aveva anche un tumore, probabilmente, ma magari gli era già passato e comunque era secondario. Certe cose dovrebbero essere vietate! Era semplicemente giusto che non si potessero fare. Per rispetto verso chi non ne riceveva mai, capite. Per fini umanitari. Non per invidia. Aldo non era quel genere di persona. È per giustizia, e la legge è uguale per tutti.

Era già pronto a dirigersi scandalizzato verso il gabbiotto delle infermiere, a denunciare l’orrore in corso, quando un altro orrore gli passò accanto e gli fece scordare tutto. La vecchia. La vecchia che aveva fatto qualcosa al suo precedente compagno di stanza, il buon Ramsete III. Cosa faceva lì? Ma era una domanda sciocca, a modo suo. Aldo temeva di saperlo.

La vecchia entrò nella stanza del festeggiato calvo. Ci fu un breve applauso dei presenti; il pelato si guardò attorno, con un sorriso stordito, poi appoggiò il bicchiere sul comodino. La vecchia si fermò davanti a lui e... Aldo sbatté le palpebre come un gufo. Cosa significava?

Il pelato si era irrigidito di colpo, senza alcuna ragione apparente, ed era ricaduto di schiena sul letto dove era rimasto seduto normalmente fino a poco prima. Un attimo dopo due inservienti accorsero nella stanza, forse gli stessi che erano accorsi da Ramsete, forse solo due persone vestite allo stesso modo. Aldo non lo sapeva, ma non era importante al momento. Era importante che li vide afferrare il pelato e tenerlo immobile. Perché? Ma la vecchia già si chinava sul paziente. Aveva una siringa pronta e gli iniettava qualcosa sul dorso della mano. Il dorso della destra, per essere precisi. Poco dopo ecco apparire una seconda siringa e già con l’altra iniezione, stavolta nel polso sinistro. Cosa significava? Per un attimo Aldo Frollini ebbe un terribile déjà vu della preanestesia che gli avevano fatto in occasione dell’intervento alla schiena. Non si era svolta proprio così, ma era stata una scena simile a sufficienza da inquietarlo. O così la ricordava, quantomeno.

Cosa aveva appena visto? Aldo non lo sapeva, ma gli piaceva sempre meno quel posto. Il pelato non si muoveva più, non dava proprio segni di vita. Le persone che fino a poco prima avevano bevuto e festeggiato assieme a lui, e chissà cosa c’era stato da festeggiare, adesso raccoglievano le loro cose e si allontanavano a passo lento, chiacchierando tra loro, alcuni ancora col sorriso in faccia. No, era sempre più insensato. Possibile che...

Ma Aldo Frollini non ebbe il tempo di concludere il pensiero. Gli inservienti dovevano uscire con la barella su cui portavano il pelato, e lui si fece da parte. Una mano posata al muro, per sostenersi e in un certo senso darsi forza e coraggio, Aldo si allontanò in direzione della sua stanza. Aveva visto il rituale, se rituale era. Avevano fatto così anche con Ramsete III? Probabile. Ma significava che, beh, avete capito anche voi, no? Davvero? In quell’ospedale facevano certe cose? E così, davanti a tutti? Aldo lo trovava strano, ma non poteva negare di avere visto fin troppo.

Doveva andarsene da lì. Forse. Probabilmente. O magari no, non era un pericolo per lui. Perché sì, Ramsete III era già più morto che vivo, e l’altro aveva fatto la chemio, per cui era ovvio che avesse cose gravi. Lui invece era in ospedale per una semplice operazione alla schiena, che si era pure già risolta e senza problemi. Era al sicuro, di sicuro. Era ovvio. Se ci pensavi bene, dico. E comunque lo avrebbero dimesso a fine settimana. Meglio non pensarci più.

Così fece. Girò meno e sempre a occhi bassi, per non dover vedere cose che non avrebbe mai voluto vedere. La schiena sembrava migliorare un poco, ma la rottura di scatole in camera no. La tizia che probabilmente era la moglie del nuovo compagno di stanza continuava a vagolare avanti e indietro, lagnandosi ed emettendo altri suoni sgradevoli in un dialetto che Aldo non capiva ma era molesto lo stesso e forse anche un poco di più per la sua incomprensibilità. Ma presto lo avrebbero dimesso.

Poi venne il giorno in cui si svegliò e scoprì che no, non lo avrebbero dimesso. Non esattamente.

C’era gente nella stanza. Troppa gente. Cosa ci facevano lì? Aldo Frollini li conosceva pure, ed era sbagliato. Non aveva parlato a nessuno del ricovero, a parte al vicino di casa che faceva volontariato e aveva promesso di passarlo a prendere il giorno in cui lo avrebbero lasciato tornare. In effetti era lì, occhiali alla John Lennon, espressione da catechista concusso e sorriso da peace & love. Ma non era da solo. C’erano anche alcuni colleghi di Aldo, che non si sarebbero fatti vedere vicino a lui per due milioni di euro depositati anonimamente su un fondo nero nelle isole Cayman. E poi...

Aldo sbatté le palpebre come un gufo artritico. La sua ex moglie? Cosa ci faceva lei? E sorrideva, il che era la cosa più assurda di tutte. O almeno mostrava i denti, d’accordo, ma il principio era quello e la differenza minima. Perché era lì? Eppure lei aveva giurato che lo avrebbe rivisto soltanto morto e solo per piantargli un paletto nel cuore e assicurarsi che non tornasse, schifoso verme traditore che non era altro. Perché dunque era lì e lo guardava ghignando?

Non aveva paletti in mano, giusto? No, lui non ne vedeva. Allora...

Qualcosa scattò nel suo cervello confuso e semiaddormentato. Era un brutto qualcosa, ma era anche il qualcosa che avrebbe dovuto immaginare. Senza desiderarlo, ma facendolo lo stesso, Aldo ruotò il collo e fissò gli occhi cisposi sul comodino alla sua destra. Si morse le labbra.

Era lì. Era un biglietto scritto a macchina, posato sul sul comodino. Aldo Frollini tese una mano che sembrava fatta di cemento ed essere attaccata al braccio di qualcun altro. Non poteva, vero? C’era di sicuro un errore, vero? Un malinteso. Non era proprio così, vero? Voglio dire, non a lui, vero?

Sbagliato. C’era la data di oggi e c’era un orario. Un orario molto prossimo. Praticamente adesso. Il tempo di alzare lo sguardo verso la porta e Aldo la vide. La vecchia dal volto arato di rughe, capelli neri e occhi di gufo dietro occhiali che li mettevano ancora più in risalto. E il maglioncino scuro, un capo di abbigliamento di cui Aldo non conosceva il nome ma che lo offendeva in profondo, per una ragione a lui ignota. O forse per nessuna ragione, vallo a capire come funziona la mente umana.

Aldo Frollini si alzò, sgusciando dal letto con l’agilità di chi aveva dimenticato la schiena dolorante e tutto il resto. Mosse pochi passi verso la vecchia, con la gente che si apriva come le acque del mar Rosso davanti a lui. Non pensava più a come fossero arrivati lì. Non pensava più e basta. Vedeva la vecchia e il resto era sfondo, era irrilevante, era storia. Presto lo sarebbe stato anche lui.

Successe in un attimo. La vecchia gli venne incontro e Aldo sentì le forze abbandonargli le gambe. Si accasciò a terra come qualcosa di sgonfio e dimenticato in un angolo. Voleva parlare, ma non ci riusciva. Voleva muoversi, ma non ci riusciva. Poteva solo stare lì, per terra, a fissare come un pesce gettato sulla riva, a boccheggiare invano. Solo che non boccheggiava. Non fisicamente. Ma era lì in terra, era inerte, e la vecchia incombeva su di lui.

I due inservienti arrivarono subito dopo. Afferrarono Aldo Frollini per le braccia, come se si potesse divincolare o muovere in un qualunque modo. Non poteva. Lo tenevano lo stesso, lo tenevano forte. Cosa stava accadendo? Perché aveva perso ogni energia? Perché non si ribellava? Aldo non sapeva, ma sentiva. Sentiva le mani degli inservienti, le loro dita salde, e sentiva il vuoto dentro. C’era pace, da qualche parte, ma non era pace per lui. O no? C’era però rabbia, che avanzava. Rabbia inerte.

La vecchia si curvò su di lui, una siringa carica in una mano. Prima iniezione, poi la seconda. Sì, era come una preanestesia, grossomodo. Dava le stesse sensazioni, ma erano più rapide. C’era torpore e adesso i muscoli non li sentiva proprio più. Il corpo non era più il suo. Poteva vedere le mani che gli tenevano ferme le braccia, ma il senso del tatto era svanito. Era come guardare una foto. Ma non era una foto: era il suo corpo. Solo che forse non lo era più.

Aldo Frollini avrebbe voluto parlare, gridare, muoversi, fare qualcosa, qualsiasi cosa, perché adesso sì che capiva. Capiva anche troppo. Ma non ci riusciva. La sola parte del suo corpo ancora attiva, a modo suo, erano le dita delle mani. Si stringevano e si rilassavano, si stringevano e si rilassavano, come se stessero pompando qualcosa. Piano, sempre più piano. Guardatemi, pensava Aldo. Perché non mi guardate? Perché non agite? Ma nessuno agiva.

Ebbe solo il tempo di vedere la sua ex moglie che parlava con un collega di lavoro, poi calò il buio.

Aldo Frollini si svegliò un attimo dopo. Era a letto, era solo. Era anche in una stanza di ospedale, sì, ma non era un problema, non adesso. Perché aveva sognato tutto. La beata e benedetta realtà veniva ad avvolgerlo in un abbraccio materno e lo confortava. Un sogno. Uno schifosissimo sogno. Non ne aveva mai fatti di così lunghi e realistici, di così articolati, ma non aveva importanza. Era stato solo un sogno e quel finale, che tanto aveva odiato nelle storie, adesso lo amava. Un sogno!

Ma cosa aveva sognato, di preciso? Tutto? No, tutto no, perché la schiena gli faceva male. Quindi lo avevano operato. Era anche in una stanza normale, non in terapia intensiva, quindi era passato già il tempo necessario dall’operazione, ventiquattro ore o quello che era. Il resto era secondario. Prima o poi lo avrebbe saputo, ma per adesso gli bastava essere vivo, potersi muovere e dimenticare tutto. E al diavolo le infermiere vecchie e con indumenti dal nome ignoto.

Una breve occhiata alla sua sinistra gli disse che forse non era solo, perché c’era un divisorio che lo separava dal letto del vicino. Forse allora era reale anche quello, magari Ramsete III, oppure il tizio con la moglie peripatetica. Dettagli. Era confuso, forse per il sogno o forse per altro. Prima o poi la sua testa si sarebbe schiarita e tutto sarebbe tornato a posto. Ovvio. Solo un sogno. Che bello.

Non che fosse stato un sogno normale, Aldo Frollini lo sentiva. Un effetto collaterale dell’anestesia, forse? Possibile. Incompetenti com’erano i medici di oggi, chissà cosa gli avevano iniettato. Veleno per topi, probabilmente. Forse doveva far causa all’ospedale. Danni morali e materiali, magari pure esistenziali. Era stato un sogno brutto per davvero, dopotutto, e se lo aveva causato un problema di anestesia, allora era doveroso che lo ricompensassero. Non per soldi, ma per giustizia, capite.

Pure, che ospedale orrendo! Chissà cosa gli mettevano nelle flebo. Si sentiva intontito, ancora più di quanto sia legittimo sentirsi quando ci si è appena svegliati da un incubo. Aveva il cranio imbottito di ovatta, o così gli sembrava. Faticava a pensare, a mettere a fuoco la realtà, a tutto. Quanto era già passato dal suo ricovero? Aldo Frollini cercava di ricordare, ma non ci riusciva. Ramsete III forse lo aveva avuto davvero come compagno di stanza. Sembrava vagamente reale. Adesso non c’era più e questo doveva aver contribuito all’incubo.

Davvero non c’era più? Aldo guardò di nuovo verso la tendina divisoria. Una parte del suo cervello gli diceva che dietro non c’era Ramsete, ma forse si sbagliava. O forse no. Vallo a sapere. Meglio se evitava di prendere posizioni troppo definite, per adesso. I medicinali gli avevano davvero sballato la testa, questo era chiaro e indiscutibile. Che robaccia mettevano nelle flebo? Non aveva senso che si sentisse così confuso, appena sveglio.

Malasanità, ovvio. Avrebbe fatto causa all’ospedale e li avrebbe spelati vivi. Anche le mutande. Ok, le mutande magari no, non in senso letterale, perché gli facevano un po’ schifo, ma tutto il resto sì, e non per avidità, ma per giustizia, come si diceva. Perché era una persona giusta, lui. Una persona di sani principi, che va inteso come plurale di principio e non di principe. Ecco. Una bella causa contro l’ospedale. In nome della giustizia e del benessere umano. O qualcosa del genere.

Sì, avrebbe fatto così. Aldo si sentiva di cattivo umore (comprensibile, dopo quell’incubo) e doveva farla pagare a qualcuno. Era il minimo, davvero. Con un sorriso soddisfatto, si girò con cautela per prendere la bottiglietta di acqua sul comodino a destra. Le sue dita incontrarono un foglietto.

Aldo ingoiò qualcosa che sembrava un macigno. Uno scherzo, vero? Stava ancora cercando forza e coraggio a sufficienza per girarsi e controllare, quando qualcuno entrò nella stanza. Era una vecchia coi capelli neri, un volto arato di rughe, occhi da gufo incorniciati da una montatura antiquata. E un maglioncino scuro, abbottonato sul davanti: un capo di abbigliamento che aveva un nome, ma Aldo non se lo ricordava. Pure, lo trovava offensivo.

Stava ancora sognando, vero? Poi la vecchia avanzò verso di lui e Aldo scoprì che un pannolone gli avrebbe fatto molto comodo al momento. Forse era tardi per chiederne uno. Forse era tardi per tutto.

Perché la vecchia stava togliendo il tappo a una siringa.

di Adriano Marchetti