Adriano - racconti e altro

Pan e' morto

Gli dei nascono e gli dei muoiono. Nascono quando le persone credono nei miti, con cui il mondo e i fatti del mondo sono descritti e spiegati; muoiono quando in quei miti nessuno crede più, perché nuove spiegazioni sono nate, migliori, e le vecchie tramontano, abbandonate e a volte derise. È un processo di selezione naturale, o di selezione narrativa: le storie che sanno convincere più a lungo, e più a fondo, sopravviveranno anche più a lungo. Lo stesso accade agli dei che le accompagnano. Un dio è una storia: distruggi la sua storia e avrai distrutto il dio.

Cosa succede a un dio che muore? Dipende. Se la sua storia è stata forte a sufficienza, quel dio potrebbe rimanere nei dintorni, come abitudine o tradizione: vuoto di vita, vuoto di forza, sarà solo un nome e qualche rituale, tramandato come quei tesori di famiglia, ormai inutilizzabili nella vita quotidiana, ma troppo cari per essere gettati. Qualcosa che accumula polvere e ragnatele in soffitta, oppure in cantina. Se la sua storia non è stata forte a sufficienza, o se troppi secoli sono ormai passati, il dio sparirà, giù nello sciacquone del tempo. A volte, il suo nome o un suo vago necrologio potrebbe essere trovato in un testo di antropologia, che nessuno legge, o in un altro libro destinato a occupare spazio nelle biblioteche, discariche supreme per i rifiuti metafisici incombustibili.

Questa non è la storia di un dio. È la storia di creature mitiche e di come abbiano fronteggiato la propria possibile estinzione, trasformandola in un nuovo e più solido inizio. La storia dei fauni.

Il dio Pan era morto, o almeno così dicevano gli umani. Ai fauni, nel mondo in cui tutte le creature mitiche vivevano, questa notizia pareva alquanto strana. Certo, anche i loro boss, Fauno e Silvano, non lo sentivano più da un pezzo, ma gli dei ellenici erano fatti così, in particolare un tipo selvatico come Pan: tra quello e pensare che fosse morto, però, c’era una bella differenza. Ma gli umani lo pensavano morto e questo era grave. Molto grave. Fatale, forse. Perché erano gli umani a fare la storia, mentre le creature mitiche ne erano solo personaggi, come gli eroi, gli dei e le grandi gesta.

E quando gli umani si convincono che un dio sia morto, per quel dio è giunto il tempo di svuotare in allegria la propria cantina di vini pregiati, farsi prestare grosse somme di denaro dagli amici, per poi scialarle senza ritegno, e insomma togliersi tutti gli ultimi sfizi, che persino un dio potrebbe ancora avere, perché per quel dio non ci sarà un domani. Se gli umani chiudono il libro della tua storia, la tua storia è conclusa. Perché sono gli umani a scrivere le storie; sono gli umani a creare e uccidere gli dei. Soltanto gli umani.

O almeno, così era sempre stato.

Furono proprio i fauni, raccolti attorno a un fuoco sui pascoli di un appennino mitico, a domandarsi per primi se un “è sempre stato così” implicasse anche un “sarà sempre così”, oppure se esistessero altre soluzioni. C’era spazio, ad esempio, per infilarci anche un “finora”, con possibili aperture su un “d’ora in poi”? Poteva essere il momento giusto per scoprirlo.

Che gli umani credessero sempre di meno, e che sempre meno umani credessero, erano due dati di fatto, di cui nessuno dubitava. Bastava guardarsi attorno e contarsi, per verificarlo. Meglio ancora, si poteva guardare un poco più in là e osservare quanto stesse accadendo alle altre creature mitiche: una cosa che, in effetti, i fauni avrebbero dovuto fare già da tempo, ma a cui fino ad allora non avevano badato. Tempo di badarci.

I fauni non erano più numerosi come prima, quando nessuno dubitava di loro e i pastori lasciavano spesso e volentieri offerte, perché proteggessero le greggi. Erano calati. Erano calati molto, adesso che si contavano. L’estinzione era ancora lontana, o almeno a una discreta distanza, ma non poi così tanto, non quanto sarebbe stato rassicurante. Pastori che si ostinavano a credere, o almeno a seguire la tradizione, esistevano ancora, ma affidarsi soltanto a loro sarebbe stato un rischio, forse fatale.

Era successo anche ad altre razze. Prendiamo le sfingi, per esempio. Da quanto tempo non se ne vedevano più? Gli ellenici le avevano abbandonate e persino gli egizi, sull’altra sponda del mare, si erano quasi dimenticati di cosa rappresentasse quell’enorme affare di pietra, in mezzo alle piramidi, e del perché lo avessero mai costruito, millenni fa. Così le sfingi erano sparite. Non solo loro. Altre creature erano svanite, altre si erano rarefatte; restavano ancora le più forti e numerose, ma per quanto? Per quanto?

Fu un lungo consulto quello che tennero, i fauni, e molte le opinioni che danzarono nell’aria; erano una razza allegra e spensierata, di natura, ma anche la natura deve inchinarsi alla necessità, quando la vita è in gioco, e la necessità li costrinse a pensare. Pensare a fondo, come mai avevano fatto. E il risultato fu l’impensabile. Rafforzare la fede non era la strada giusta: valeva come palliativo, come soluzione temporanea, ma il problema sarebbe stato solo rinviato, non risolto. Quello che i fauni dovevano fare era passare dal mito alla realtà. Entrare nella storia, assieme agli umani, e costruirla con loro, scriverla con loro. Tornare all’appennino reale, abbandonando quello mitico. Così fecero.

In una mattina di primavera, quando le greggi coprivano i pascoli e i richiami dei pastori danzavano tra i monti e i prati, assieme a parole molto meno gradevoli e poetiche urlate dagli stessi, quando qualcosa andava storto, i fauni uscirono dalle foreste e scesero verso di loro. E il mondo si fermò a guardarli. O almeno, quella minuscola parte di mondo, in cui erano apparsi all’improvviso: i monti e i pascoli dell’Italia lungo la dorsale appenninica, dalla Gallia Cispadana fino al Sannio e oltre. Non erano numerosi, non erano minacciosi, ma erano proprio come le storie li descrivevano: zampe di capra, corna di capra, orecchie di capra, odore di capra, ma per il resto umani. E sorridevano.

Alcuni pastori fuggirono alla vista, altri rimasero immobili accanto alle proprie greggi, altri ancora si concessero un leggero sorriso: esistevano davvero, dunque, non erano soltanto le storie dei nonni e le leggende accanto al fuoco, mentre si cenava. Esistevano davvero. E furono proprio quei pastori che ancora credevano, che ancora ricordavano e a modo proprio proseguivano le tradizioni, a dare loro una forma, a fissarli nella realtà, a renderli fauni veri, non solo fauni mitici. I fauni rientrarono nel mondo in pace, per aiutare e sopravvivere, e i pastori li accolsero.

I legionari arrivarono in seguito, quando la notizia ebbe lasciato i pascoli, per raggiungere le città. I confusi racconti parlavano di mostri, spuntati dalle montagne per aggredire la gente; la realtà che i soldati videro, marciando attraverso la campagna, parlava di mostri, certo, ma non proprio mostri mostri, non il tipo di mostri che si sarebbero aspettati loro. Fauni? Ma i fauni non erano solo storie? E non erano buoni, o almeno benefici, o se non altro non strettamente malevoli? Non proteggevano gli animali? Sembravano almeno pacifici, se non proprio buoni, seduti assieme a pastori e greggi, oppure a conversare tranquilli con la gente dei villaggi. Cosa fare, dunque?

Se lo chiesero in molti, nei giorni che seguirono la comparsa dei fauni. Sterminarli era decisamente una pessima idea, per svariati motivi, non ultimo dei quali il fatto che sembravano piuttosto utili: ottimi pastori, ottime conoscenze agresti, di indole pacifica e ben disposti verso gli umani. No, non sarebbe stata una buona politica, per Roma, sterminare i fauni, anche perché ormai erano tutti quanti convinti che esistessero davvero e che le leggende su di loro fossero reali. Distruggerli sarebbe stata una pessima pubblicità e l’impero ne avrebbe fatto molto volentieri a meno, specie in quel periodo.

Schiavizzarli? Solo un secolo prima, o anche meno, sarebbe stata la soluzione perfetta: come ogni nuova popolazione sottomessa, avrebbero fornito mano d’opera all’impero, o alla repubblica che lo aveva preceduto, e, col tempo, si sarebbero anche potuti guadagnare la libertà. Peccato solo per le guerre servili, l’ultima e più violenta delle quali li aveva costretti ad abolire la schiavitù.

Niente più schiavi a Roma, ma solo liberi lavoratori, a basso stipendio e alto sfruttamento: la resa era maggiore ed eliminavano anche le spese di vitto e alloggio per mantenerli. Era stata questa la saggia proposta di un anziano senatore, che tutti avevano ben presto accolto e attuato, chiudendo così definitivamente il capitolo delle rivolte interne e dando una spinta robusta al progresso economico dell’allora Repubblica. Un lavoratore convinto di essere libero e padrone di se stesso, infatti, rende molto più di uno schiavo rassegnato: parole del senatore geniale, ben presto diventate realtà.

Bocciata anche l’idea di rendere schiavi i fauni. E allora? Non c’erano senatori geniali, all’epoca, e l’imperatore stesso poteva essere considerato geniale solo in senso inverso: furono giorni di tensioni e di dibattiti vani, quando il caso dei fauni giunse a Roma, assieme ad alcuni ambasciatori di quel nuovo antico popolo, scortati dai legionari e parcheggiati nei pressi di un boschetto dedicato a loro.

«Veniamo in pace» dissero. «Chiediamo solo di poter vivere e lavorare assieme a voi, come normali cittadini. Al vostro servizio, ovviamente» aggiunse il portavoce, chinando il capo cornuto alle folle che lo ascoltavano e fissavano. I bambini li additavano, gli anziani annuivano e sorridevano, fieri di vedere le proprie convinzioni confermate, alla faccia dei giovani che li irridevano. I fauni esistono, come dicevamo noi. Visto? E adesso provate di nuovo a contraddirci.

Dopo altri dibattiti, e oltremodo annoiato da quella perdita di tempo, l’imperatore scrollò le spalle. Vogliono restare a lavorare per noi? Facciano pure, basta che riconoscano le nostre leggi, la nostra autorità e paghino le tasse. Abbiamo già cani e porci nell’impero, un branco di mezze capre non farà molta differenza. Ma non potranno portare armi, almeno per adesso.

Non le portarono. Non le avevano mai usate, in realtà. Disponendo di mezzi molto più efficienti, in caso di bisogno. E così, a qualche mese di distanza dalla loro prima apparizione nel mondo, i fauni divennero cittadini romani a tutti gli effetti, come già gli altri popoli italici, una categoria a cui loro stessi appartenevano, in fin dei conti. Divennero una nuova tribù, la gens Fauna.

Gente pacifica, lavoratori seri, forse non proprio brillanti e non proprio profumati, ma il bestiame non vi badava e anche i pastori umani non emanavano certo aroma di violette, per la maggior parte del tempo. Il popolo del mito aveva abbandonato le storie e si era fatto realtà, per sopravvivere; la strada era stata aperta e altri forse l’avrebbero percorsa, in futuro, ma il futuro era lontano e il presente era tutto ciò che contava. Il presente dei fauni, cittadini romani.

Pan forse era morto, ma la gens Fauna aveva cominciato a vivere.

di Adriano Marchetti