Adriano - racconti e altro

Papa' al lavoro

Era buio nella famosa città civile, quando Alberto Camisoni rientrò a casa, lasciò cadere la valigetta in un angolo e sospirò. «Sono arrivato.»

«Avete fatto tardi, oggi.» Claudia spuntò dalla cucina, asciugandosi le mani.

Asciugandosi le mani. Perché le donne sono sempre lì, ad asciugarsi le mani, quando rientri a casa? Cosa fanno tutto il giorno? Giocano con l’acqua? Ma scacciò subito quel pensiero, inutile.

«C’era la riunione, te l’avevo detto. Non finiva più.»

«Vuoi che ti prepari qualcosa?»

«No, grazie, sono a posto così, abbiamo mangiato un po’. E poi sono di corsa, esco di nuovo.»

«Proprio stanotte?» gli chiese Claudia, con una ruga che le si disegnava sulla fronte. La solita ruga, quella del “non sono contenta”, quella del “perché mi contraddici?”. Alberto la ignorò.

«Stanotte, sì. Lo sai anche tu che dobbiamo,» le rispose, per poi guardarsi attorno, col più vago dei disagi. «E Luca?»

«A letto. Ti ha aspettato per un po’, poi è venuto tardi ed è crollato. Voleva farti vedere il disegno.»

«Già, capisco. Mi spiace.»

Era vero. Gli dispiaceva sempre, quando non poteva vedere il sorriso del figlio. Era una debolezza, da un certo punto di vista, ma non era convinto poi che lo fosse davvero. È una forza, si disse, e lo pensava davvero, anche in quel caso. Amava quel bambino, punto. Peccato che avesse fatto tardi.

Entrò in camera, stanco, e per qualche momento chiuse fuori il mondo. Doveva cambiarsi, non ne poteva più della cravatta, lo strozzava. Tempo di appendere nell’armadio quel ruolo e indossarne uno più adatto al prossimo compito. Al ritorno avrebbe ritrovato la propria faccia di sempre, quasi nuova, lì ad aspettarlo.

Era stata una giornata infinita e ancora continuava. Sveglia presto, breve tappa nella cucina calda e solare da padre di famiglia, per la colazione, poi via nell’ufficio, da giovane dirigente in carriera. Il luogo era luminoso, ben arredato, ancora meglio areato, ma c’erano ombre, là negli angoli. C’erano sempre. E doveva passarci quasi tutta la mattina, più il pomeriggio. Tirava aria viziata, alla fine. Ma era il suo lavoro e lo accettava.

Poi finalmente si tornava a casa, nel salotto da padre di famiglia, al caldo buono di un immaginario camino. Il focolare domestico. Lì si sentiva in pace. Era il suo spazio preferito. Era se stesso, lì, o almeno era ciò che concepiva come se stesso. Era anche il vero Alberto Camisoni? Poco importava.

Quel giorno gli era toccata pure la riunione con gli altri, per definire gli ultimi dettagli del progetto. Una riunione in uno sgabuzzino da idealista, da eroe carbonaro, stanza morta in cui non entrava più dai tempi dell’università. L’arredo era cambiato un poco, negli anni, c’erano ragnatele e muffa sui muri, l’odore non era buono, ma talvolta un uomo deve fare ciò che deve fare. Così aveva riaperto lo sgabuzzino, gli aveva cambiato aria ed ecco la riunione.

Adesso poteva concedersi qualche minuto da padre, prima di passare alla porta successiva.

In abiti comodi e sportivi, uscì dalla sua stanza ed entrò in punta di piedi in quella del figlio. Luca, il suo Luca, dormiva sereno in un buio brulicante di giocattoli e vestiti. Un posto in cui non sapevi mai come muoverti, con tutta la roba che c’era, ma ad Alberto andava bene così. Claudia non era d’accordo, diceva che lo viziava troppo, ma si sbagliava. Faceva quello che era giusto. Osservando la cameretta, nella poca luce che filtrava dalla porta socchiusa, sentiva di aver ragione.

Era il simbolo di tutto ciò che lui non aveva mai potuto avere a quell’età: ecco il punto. Viziava Luca, perché non poteva più viziare se stesso bambino. Alberto poteva permetterselo, i soldi non mancavano, col suo lavoro, e i risparmi erano assicurati. Perché non avrebbe dovuto dare il meglio al proprio figlio? E anche qualcosa in più, se gli era possibile. Lo guardava dormire, lì in mezzo, e tutto diventava giusto.

Sul comodino c’era un disegno, quello che gli voleva mostrare. Se non ci fosse stata la riunione, avrebbe fatto in tempo. Alberto storse il naso, ma anche la riunione era per il bene di Luca. Non la avrebbe mai accettata, altrimenti, ma serviva a dargli un futuro migliore. Anche se Claudia non era d’accordo neppure su quello. Secondo lei era sbagliato, non era un buon progetto. Alberto sospirò. Ah, le donne...

Studiò il disegno nella luce del corridoio. Papà al lavoro. Era lui, alla scrivania, con un computer davanti. E grosse pareti grigie che lo chiudevano. Non gli piacquero, quelle pareti, ma il resto sì. A soli quattro anni, com’era già bravo a disegnare, il suo Luca! Meritava un regalo.

Ripose il foglio sul comodino, sistemò le lenzuola, guardò il figlio un’ultima volta. Sì, era per il suo bene. Per garantirgli sicurezza, oggi e in futuro. Chiuse piano la porta e tornò in salotto.

«Ci vai davvero, allora?» gli chiese Claudia, preoccupata. Non aveva neppure acceso il televisore e non era da lei, decisamente. La solita moglie apprensiva.

«Vado, certo. Ma non c’è niente da preoccuparsi, vedrai,» disse, con un sorriso quasi convincente. «I vicini saranno già là anche loro. Sarà un po’ come una sagra, dai. È ora che vada anch’io, però.»

«Almeno stai attento,» lo salutò lei, con un mezzo sospiro e la faccia da cucciolo abbandonato.

Alberto si abbottonò la giacca, le sorrise di rimando e uscì. Sul pianerottolo fece una breve pausa, per respirare. Fuori dal salotto confortevole, giù per le scale e ancora più giù. Era una cantina fredda e umida che lo attendeva. Non un bel posto, non un posto di cui essere orgogliosi, forse, ma sempre un posto che ogni tanto bisognava visitare. Per il bene della tua famiglia, a volte devi scendere nella cantina. Anche gli altri erano dell’idea, nel quartiere. E in fondo tutti i veri abitanti lo volevano.

La città era buia e silenziosa, nella notte di novembre. Alberto raggiunse camminando la piazza, a passi svelti. Dietro la mole angolosa e imponente del duomo, la luna calava monca. Davanti, una folla bisbigliante si era già radunata. Alberto si aggregò ai vicini di casa, salutando. C’era lavoro da fare, un progetto da realizzare. Bisognava dare una lezione. Padroni a casa nostra era il motto.

Partirono, per svolgere il loro nobile dovere.

Nell’indifferenza generale dei dormienti, nel silenzio di chi guardava altrove, la famosa città civile si inabissava con gioia nello scantinato deserto della sua personale notte dei cristalli, il pogrom della sua idea di pulizia, e di giustizia. Ma anche quello era lavoro, in fondo. C’erano rifiuti umani da sgomberare, per garantirsi un buon domani, per il bene dei cittadini veri, nobili. I cittadini civili.

Per un dato valore di civiltà.

di Adriano Marchetti