Il coniglio di Inaba e i wani
La storia del coniglio di Inaba è un episodio della mitologia giapponese piuttosto famoso a livello popolare, soprattutto per l’uso che n’è stato fatto in epoche successive, riciclandolo come fiaba. Non che nella versione iniziale fosse poi molto lontano da una fiaba tipica, ma presentava anche tratti di una certa importanza a livello mitico, perché era inserito nella saga che avrebbe portato Ōkuninushi a diventare la divinità principale sul territorio giapponese, almeno fino all’arrivo del divino nipote di Amaterasu e il successivo mito del kuni yuzuri, ossia la cessione del paese, con le divinità terrestri, i kunitsugami, che rinunciano al controllo sulle isole giapponesi, trasferendolo alle divinità celesti, gli amatsugami.
Inaba è il nome di una delle province in cui era anticamente diviso l’impero giapponese. Nel Giappone di oggi, è parte della prefettura di Tottori, che si trova a nordest della prefettura di Shimane, con cui confina. Considerato che l’antica provincia di Izumo è oggi parte della prefettura di Shimane, questi due territori erano molto vicini, entrambi affacciati sul mare che separa il Giappone dalla penisola coreana. Non è dunque strano che diversi elementi del folklore e forse di antiche credenze religiose siano comuni a entrambi i territori. Uno di questi elementi comuni è proprio la storia del coniglio in questione, al cui interno trova spazio anche la più nota e adorata divinità di Izumo, quell’Ōkuninushi a cui è tuttora consacrato il secondo santuario più grande e importante del Giappone1, subito dopo il grande santuario di Ise, consacrato ad Amaterasu. Non è poi strano se in entrambe le province si parli di wani, qualunque cosa siano di preciso queste creature marine. Ma vediamo intanto la vicenda.
La prima testimonianza che abbiamo della storia del coniglio di Inaba è contenuta nel più antico testo scritto giapponese che si sia conservato, ossia il Kojiki, la cui compilazione fu conclusa nel 712. Siamo nel primo volume di quest’opera, ancora in piena età degli dèi, e la saga di Susanoo è appena terminata: il mostruoso Yamata no Orochi è stato ucciso, Susanoo ha sposato la classica fanciulla che doveva essere divorata dal drago, si è costruito una casa e tutti vissero felici e contenti. È tempo di cedere il palcoscenico a una nuova generazione di divinità. Ecco dunque che arriva Ōnamuchi, il futuro Ōkuninushi. La prima avventura in cui questa divinità è coinvolta è proprio quella del coniglio di Inaba e dei wani. Ecco come ci è presentata nel Kojiki.
Il coniglio di Inaba
Allora, i fratelli di questo divino Ōkuninushi erano ottanta divinità. Tuttavia, il dominio su tutto il paese fu ceduto al divino Ōkuninushi. La ragione per cui gli fu ceduto il dominio è che le ottanta divinità avevano tutte quante deciso di voler sposare Yagamihime di Inaba.
Quando andarono tutti assieme a Inaba, fecero trasportare i bagagli al dio Ōnamuchi e lo portarono con sé come servitore. Qui, arrivati al capo di Keta2, c’era un coniglio nudo che giaceva a terra. Così le ottanta divinità parlarono al coniglio, dicendogli questo: «Ciò che devi fare è bagnarti nell’acqua di mare, poi coricarti sulla vetta di un’alta montagna, percossa dal vento». Questo gli dissero.
Così quel coniglio fece quanto gli avevano spiegato le ottanta divinità e si coricò a terra. Tuttavia, a mano a mano che quest’acqua salata si asciugava, la pelle del suo corpo cominciò a creparsi sotto il soffiare del vento.
Allora, mentre giaceva a terra piangendo in agonia, il divino Ōnamuchi che arrivava per ultimo vide quel coniglio e gli rivolse la parola: «Per quale motivo piangi riverso a terra?» Questo gli disse.
Il coniglio gli rispose parlando3 così: «Io mi trovavo sull’isola di Oki e, per quanto volessi passare da questa parte, non avevo alcun mezzo per attraversare. Allora, ingannando un wani del mare, gli parlai così: “Gareggiamo tra noi due, contando chi ha la famiglia più numerosa. Allora, tu fai venire quanti più parenti puoi e sistemali tutti allineati da quest’isola fino al capo di Keta. A questo punto, io passerò sopra di loro e li conterò correndo dall’altra parte. Sapremo allora se siano più numerosi della mia famiglia.”
«Dopo aver parlato in questo modo, quando si furono distesi in fila ingannati, io camminai sopra di loro e passai contandoli. Quando poi stavo per scendere a terra, io dissi: “Vi siete fatti imbrogliare da me!” Ma non avevo fatto in tempo a dirlo, che il wani coricato per ultimo accanto alla riva mi agguantò e mi strappò tutti i miei vestiti.
«Mentre piangevo e mi affliggevo per questo, le auguste ottanta divinità passate poco fa mi raccomandarono di fare così: bagnarmi nell’acqua di mare e sdraiarmi in un luogo ventoso. Questo mi dissero. Allora, dopo aver fatto come mi era stato detto, tutto il mio corpo si è ferito in questo modo.» Così parlò.
A quel punto, il divino Ōnamuchi diede queste istruzioni a quel coniglio: «Adesso raggiungi in fretta la foce di questo fiume e lava il tuo corpo usando quell’acqua, poi raccogli il polline di mazzasorda alla foce di quel fiume, sparpaglialo attorno a te e rotolatici sopra. La pelle del tuo corpo ritornerà sicuramente come prima.» Questo gli disse.
Allora, dopo aver fatto come gli era stato detto, il suo corpo tornò come prima. Questo è chiamato il coniglio bianco di Inaba. Oggi è chiamato il coniglio divino.
Allora quel coniglio parlò a Ōnamuchi, dicendo: «Queste ottanta divinità sicuramente non otterranno Yagamihime. Benché tu trasporti i loro bagagli, sarai tu a ottenerla.» Questo disse.
La storia prosegue confermando la dichiarazione finale del coniglio: Yagamihime, la ragazza desiderata da tutti, rifiuterà gli ottanta fratelli e sceglierà Ōnamuchi. Questo sarà soltanto l’inizio dei guai per il nostro eroe, che sarà ucciso più di una volta dai suoi fratelli scontenti e dovrà scendere nel paese sotterraneo dove Susanoo si è trasferito, per cercare il suo aiuto. In un modo o nell’altro lo otterrà, da un certo punto di vista, e sempre da lui otterrà anche il suo nuovo nome, con cui sarà conosciuto in seguito: Ōkuninushi, che letteralmente significa “il signore del grande paese”, titolo con cui diventerà la divinità più importante sulle isole giapponesi, almeno fino all’avvento del divino imperatore. Questa però è un’altra storia e qui non ci riguarda.
Una seconda versione della vicenda del coniglio di Inaba era contenuta nello Inaba fudoki, ossia la cronaca della provincia di Inaba, compilata nella prima parte dell’ottavo secolo, come tutti gli altri Fudoki4. Non ne conosciamo la data precisa, ma è stato sicuramente dopo il 713, anno in cui fu emanato il decreto imperiale che imponeva a tutte le province di compilare un Fudoki: è dunque un testo successivo al Kojiki, anche se forse lo è solo di una manciata di anni. Lo Inaba fudoki non è sopravvissuto, ma alcuni frammenti si sono conservati come citazioni più o meno affidabili all’interno di testi scritti in epoche successive. Un episodio che si è salvato è proprio quello che ci interessa in questa sede, ossia la storia del coniglio. Eccola qui di seguito.
Inaba fudoki – Il coniglio bianco
Se guardiamo le cronache di Inaba, in quella provincia c’è un distretto chiamato Takakusa. Per questo nome ci sono due spiegazioni. La prima spiegazione è che nella pianura l’erba era così alta, che fu chiamata “Erba alta”5. Il nome di questa pianura divenne poi il nome del distretto. La seconda è che era il distretto di “Erba di bambù”6. In questo luogo, un tempo, c’era una foresta di bambù. Per questo motivo sarebbe stato chiamato così. Poiché il bambù è chiamato erba alta, il suo nome sarebbe diventato Takakusa, “erba di bambù”.
Per spiegare la storia di questo bambù, tanto tempo fa in mezzo a questo bambù viveva un vecchio coniglio. Un giorno, improvvisamente, si formò una grande onda e questa piana di bambù fu sommersa dall’acqua. Quando l’onda si ritirò, tutto il bambù fu sradicato, crollò e fu trascinato via. Il coniglio si era aggrappato alla radice del bambù e in questo modo fu trasportato e depositato sull’isola di Oki. Dopo che il livello dell’acqua fu calato, pensò che sarebbe voluto tornare al suo posto d’origine, ma c’era il problema di dover attraversare il mare. A quel tempo, in quelle acque c’erano pesci chiamati wani.
Questo coniglio, parlando a un wani, disse: «La tua gente è davvero tanta?»
Il wani gli rispose: «La mia gente può ricoprire il mare.»
Il coniglio gli disse: «La mia gente è così tanta che possiamo coprire i prati di un monte. Prima contiamo il numero della tua gente. Raduna i wani da questa isola fino al luogo chiamato capo di Keta. Contando uno alla volta il numero dei wani, sapremo la grandezza di questo numero.»
Il wani, ingannato dal coniglio, radunò tutta la sua gente e si allinearono di schiena. A questo punto il coniglio, saltellando sopra la schiena dei wani, contava il loro numero e arrivò attraversando fino al capo di Taka7. A quel punto, pensando di essere già al sicuro dall’altra parte, parlò così ai wani: «Vi ho imbrogliati e sono arrivato qui dall’altra parte. In realtà non era per vedere quanto fosse grande il vostro gruppo.»
Mentre li dileggiava così, il wani che si trovava nell’acqua accanto a lui si arrabbiò, agguantò il coniglio e gli strappò il vestito8. Il senso di quanto detto è che strappò il pelo del coniglio e il coniglio si ritrovò così senza pelo.
Il dio Ōnamuchi ebbe pietà di questo e lo istruì dicendogli così: «Raccogli e spargi i fiori di mazzasorda, poi gettati a terra rotolandotici sopra.»
Quando fece quanto gli era stato raccomandato, si dice che gli sia spuntato molto pelo identico a come era prima. In riferimento al passare contando sulla schiena dei wani, si chiama “saltelli da coniglio” l’azione di leggere fino alla fine in modo superficiale.9
Come possiamo vedere, è fondamentalmente la stessa storia contenuta nel Kojiki, ma raccontata dal punto di vista del coniglio, anziché da quello delle divinità. Non abbiamo accenni al perché Ōnamuchi si trovasse da quelle parti, non ci sono riferimenti ai suoi fratelli e al simpatico scherzo che avevano giocato al coniglio, ma ci è spiegato come avesse fatto il coniglio a finire su quella isola e perché volesse tanto attraversare quel tratto di mare, a costo di usare i misteriosi wani come una sorta di ponte sui generis.
Il testo in cui è sopravvissuto questo frammento dello Inaba fudoki è il Chiribukuro, un dizionario compilato nel periodo Kamakura in undici libri. In questa opera si possono trovare frammenti anche di altri Fudoki, dato che i suoi compilatori avevano fatto spesso ricorso a storielle per spiegare l’origine di qualche espressione particolare: molte di queste storielle sembrano essere state tratte proprio dai Fudoki. Quanto siano precisi e affidabili questi frammenti, però, è un altro discorso. Il giapponese usato non è certo quello dell’ottavo secolo, ma è almeno di epoca medievale. Forse sono traduzioni o forse sono parafrasi più o meno libere, ma non sono certo una versione “pura” del testo. Siccome a noi qui non interessa l’aspetto filologico o letterario, ma solo il contenuto della storia in qualunque modo ci sia stata tramandata, possiamo accontentarci di quello che passa il convento e non preoccuparci troppo del resto.
La vicenda del coniglio è semplice. Si trova su un’isola e vuole raggiungere la costa di fronte. Per farlo, si serve di animali acquatici, ingannandoli per utilizzarli come passerella vivente. Giunto sulla sponda opposta, il coniglio non resiste alla tentazione di sbeffeggiare gli animali acquatici. La punizione arriva subito: è scuoiato vivo da uno dei suddetti animali. Sarà poi guarito da un passante benevolo. Questo è l’essenziale, a cui possono essere aggiunti altri dettagli a volontà, per arricchire la storia e allungare il brodo, a discrezione del narratore. Piuttosto semplice, per l’appunto, e facile da innestare in qualunque cultura, con qualche piccolo ritocco. È proprio ciò che è successo, almeno in apparenza.
Nel Kojiki, come si diceva, questa storia è inserita come primo episodio della saga che porterà il giovane Ōnamuchi a diventare la più importante divinità del Giappone antico. Ōnamuchi, a volte scritto Ōnamochi, è soltanto uno dei nomi con cui questa divinità è conosciuta. Il più famoso è oggi Ōkuninushi, ma ne esistono diversi altri, ognuno dei quali sottolinea un aspetto diverso del suo ruolo. A volte indicato come discendente di Susanoo e a volte solo come suo genero, sarà comunque la divinità che dopo di lui avrà il dominio sulle isole giapponesi. È anche la divinità più importante della provincia di Izumo, dove era nota con l’epiteto di Ame no Shitatsukurashishi no Ōkami10, ossia il grande dio che ha costruito il luogo sotto il cielo. È il protagonista indiscusso dello Izumo fudoki, dove ci sono raccontati svariati aneddoti sul suo conto.
Sia come sia, all’inizio della sua carriera il nostro Ōnamuchi era soltanto l’umile sottoposto dei suoi ottanta fratelli11, costretto a trasportare i loro bagagli durante i viaggi. Un ruolo molto comune per l’eroe di innumerevoli fiabe raccontate in tutto il mondo. Come gli eroi di innumerevoli fiabe, sarà lui a trionfare su tutti i fratelli maggiori, grazie al suo buon cuore e alle sue altre qualità. Un primo esempio lo vediamo proprio in questo episodio.
C’è il classico animale in difficoltà, come in mille altre fiabe di tutto il mondo. I fratelli maggiori, che siano due od ottanta, lo maltrattano; il fratello minore lo soccorre, mostrando generosità e tanta misericordia, e ne sarà premiato. Qui l’animale è il coniglio. Soccorrendolo, Ōnamuchi ci mostra una caratteristica che sarà poi attribuita alla sua figura adulta di Ōkuninushi, ossia la capacità di guarire: fra i suoi vari titoli, ci sarà infatti anche quello di divinità della guarigione e dell’arte medica, una specie di Asclepio giapponese. Nei confronti del coniglio è praticata su piccola scala, ma è comunque il primo indizio che sarà lui i vincitore finale. È il coniglio stesso ad annunciarlo. Una volta recuperata la sua pelliccia, proclama che il prescelto dalla ragazza corteggiata e contesa sarà Ōnamuchi, non i suoi ottanta fratelli maggiori.
Questo è interessante a modo suo. Saranno proprio i matrimoni a determinare l’ascesa di Ōnamuchi: dapprima conquista la mano di Yagamihime, ma un matrimonio molto più importante sarà quello con Suseri, la figlia di Susanoo, al termine di una storia che ricorda molto l’episodio classico di Giasone e Medea, conservato e riproposto in innumerevoli fiabe: il padre della ragazza impone al pretendente prove più o meno impossibili, che lui riuscirà a superare grazie all’aiuto della ragazza stessa. Segno che in epoca arcaica anche in Giappone era la donna a conferire la regalità, come ci è testimoniato da miti e leggende raccontate tra Asia ed Europa? Forse, ma questa è un’altra storia e qui non ci riguarda.
Nel frammento dello Inaba fudoki, Ōnamuchi fa soltanto una comparsata alla fine della vicenda, per risanare il coniglio, ma non è dichiarato alcun collegamento con una saga più ampia. C’è il coniglio in difficoltà, c’è una divinità che passa di lì e lo aiuta, il coniglio guarisce e tutti vissero felici e contenti. Se nel Kojiki il protagonista era Ōnamuchi, nel Fudoki è il coniglio a essere l’eroe, mentre Ōnamuchi è giusto un aiutante occasionale. Più che comprensibile, a modo suo, dato che il coniglio era un “eroe” locale: nei pressi del capo di Keta, citato nel Kojiki, pare sorgesse anche un santuario dedicato al dio coniglio bianco, il “coniglio divino” a cui si accenna sempre in quel testo.
Che la stessa storia sia raccontata sia nel cosiddetto “ciclo di Izumo” del Kojiki, sia nel Fudoki della provincia di Inaba non è strano, proprio come non è stara la presenza di Ōnamuchi in entrambi i racconti. La provincia di Inaba si trovava infatti poco lontano da quella di Izumo e i contatti tra i due territori avranno sicuramente comportato anche lo scambio di leggende e altri elementi di folklore. Ōnamuchi, sotto uno qualunque dei suoi tanti nomi, era poi una divinità molto popolare ed è ragionevole che storie di ogni tipo tendessero a coagularsi attorno a lui, come spesso accade coi personaggi di spicco in ogni epoca e in ogni regione della Terra. Pensiamo solo a tutte le avventure attribuite nel corso dei secoli a re Artù e ai suoi cavalieri, oppure a personaggi storici come Alessandro Magno, protagonista di numerosi viaggi e avventure dall’epoca ellenistica fino a tutto il Medioevo. Nel caso di una divinità come Ōnamuchi, questo è ancora meno sorprendente.
Più interessante, semmai, è pensare al viaggio che ha compiuto la storia del coniglio. L’impresa di un animale terrestre bloccato su un’isola, che attraversa il mare camminando su un ponte di creature acquatiche, non è infatti originaria del Giappone, ma la troviamo anche in altri paesi del sudest asiatico. Ancora più in generale, possiamo dire che se ne trovano esempi lungo la costa occidentale del Pacifico, dalla Malesia fino allo stretto di Bering, sebbene di solito l’analisi si limiti agli esempi di area indocinese, quando si vuole cercare l’origine del coniglio di Inaba. Uno sguardo piuttosto limitato, a mio parere, ma così è la vita.
In Indonesia, giusto per citare un racconto meridionale, Schurhammer ci riportava una storia raccontata dagli indigeni nella zona di Haimaheira12 piuttosto interessante. Una scimmia, scaricata su un isolotto da un airone che non l’amava molto, non sa come fare per liberarsi dalla situazione assai sgradevole in cui si è andata a cacciare. Decide allora di ingannare i coccodrilli che infestano le acque in quella zona. Mostrando loro le numerose tracce che lei stessa ha lasciato sulla sabbia, la scimmia proclama che sull’isola ci sono tantissime scimmie e sfida i coccodrilli a una gara per determinare quale dei rispettivi popoli sia più numeroso. I coccodrilli si allineano dalla spiaggia dell’isola fino alla terraferma, seguendo il solito schema, e la scimmia cammina sopra di loro, contandoli a uno a uno. Giunta sulla sponda opposta, li sbeffeggia e scappa, vantandosi di averli ingannati.
In questa storia, a rimanere nuda non è la scimmia, ma toccherà all’airone, quando la scimmia si vendicherà strappandogli tutte le penne. Dettagli a parte, possiamo vedere che la trama è identica a quella dei due esempi giapponesi. Altri racconti dello stesso genere si trovano in Malesia, in India, a Ceylon e così via: a cambiare è solo il tipo di animale che deve attraversare il mare, ma il trucco a cui fa ricorso è sempre lo stesso. Anche le vittime sono quasi sempre le stesse, nei mari dei sud: i coccodrilli, che certo non mancano a quelle latitudini. Variazioni climatiche a parte, è facile capire perché l’attenzione si sia concentrata su questa zona, cercando l’origine della storia giapponese, tanto più se consideriamo le ipotesi sulla provenienza meridionale di una parte della popolazione del Giappone stesso.
L’origine meridionale della vicenda del coniglio di Inaba è un punto ripetuto fino alla nausea nel corso degli anni e vi è una generale concordia. Potrebbe essere arrivata in Giappone dall’India, assieme a svariati testi buddhisti, oppure potrebbe essere arrivata direttamente dai mari del sud, portata dagli ipotetici antenati di una parte dei giapponesi moderni. Anche parlando delle fanciulle cigno avevamo visto che India e dintorni erano una possibile area, da cui quel motivo sarebbe potuto arrivare in Giappone; che qualcosa di simile sia accaduto anche per la storia del coniglio (o altro animale) che attraversa il mare contando creature marine è altrettanto plausibile. Non è però l’unica possibilità. Proprio come nel caso delle fanciulle cigno, infatti, questo motivo esiste anche a settentrione, nell’estrema propaggine della Siberia.
La storia con cui si conclude la raccolta Myths and Legends of Alaska, pubblicata nel 1911 da Katharine Berry Judson, è stata intitolata “Tricks of the fox” dall’autrice ed è un racconto proveniente non dall’Alaska, nonostante il titolo del libro, ma dal popolo dei Koryak, che abitavano lì di fronte: vivevano in quel tratto di Siberia nordorientale compreso tra la penisola della Kamčatka e lo stretto di Bering, grossomodo. È una storia breve, ma piuttosto interessante, e ritengo valga la pena di riprodurla qui di seguito, così come è contenuta nella raccolta.
Gli imbrogli di Volpe
Un giorno Volpe disse ai suoi figli: «Andrò a prendere qualche uovo». Andò nel bosco e vide il nido di Aquila sulla cima di un albero. Si infilò alcuni steli di erba nelle orecchie, colpì con questi il tronco dell’albero e disse ad Aquila: «Buttami giù un uovo. Se non lo farai, abbatterò l’albero con questi steli e lo spezzerò.»
Aquila si spaventò e gettò di sotto un uovo.
«Buttane un altro,» disse Volpe.
«Questo è sufficiente,» disse Aquila. «Non ne butterò giù un altro.»
Volpe disse: «Buttalo giù. Se abbatterò l’albero, me le prenderò tutte.»
Aquila si spaventò e buttò di sotto un altro uovo. Allora Volpe rise e disse: «Ti ho ingannato per bene. Come avrei fatto ad abbattere un albero intero con questi piccoli steli d’erba?»
Aquila si arrabbiò. Si buttò in picchiata su Volpe, lo afferrò coi suoi artigli, lo sollevò in alto nel cielo, volò lontano sul mare e poi lo gettò di sotto, sopra un’isola deserta.
Volpe si ritrovò su quell’isola. Viveva lì e pensava tra sé: «Dovrò davvero morire su questa isola?»
Volpe cominciò a cantare canzoni sciamaniche. Foche, trichechi e balene apparvero vicino all’isola. «Che cosa stai cantando?» chiesero a Volpe.
«Ecco cosa stavo cantando,» disse Volpe. «Ci sono più animali nelle acque del mare, oppure sulla terra asciutta?»
«Ovviamente ce ne sono di più nelle acque del mare,» così rispose il Popolo del Mare.
«Bene, allora guardiamo,» disse Volpe. «Mettetevi sulla superficie dell’acqua e formate un ponte galleggiante da quest’isola fino alla terraferma. Poi io farò una passeggiata sopra di voi e vi conterò tutti.»
Il Popolo del Mare emerse tutto sulla superficie delle acque e formò un ponte. Volpe corse sopra le loro schiene, fingendo di contarli tutti. Non appena però ebbe raggiunta la terraferma, saltò sulla spiaggia e se ne tornò a casa. Questo è tutto.
Ecco la storia raccontata dai Koryak. Non è probabilmente la versione originale, perché Katharine Berry Judson dichiara nell’introduzione di avere ritoccato un poco diverse storie, per renderle più adatte a un pubblico “civilizzato”: ciò significa che avrà rimosso ogni cosa da lei percepita come volgare e addolcito i passaggi più violenti. Le storie originali di cui si è servita in questa e altre raccolte provenivano da diversi etnologi e altri ricercatori dell’epoca; sono riuscito a localizzarne un buon numero, ma purtroppo non ancora quella che ci interessa in questa sede, così ho dovuto fare ricorso alla versione “ad usum Delphini”. L’originale deve essere in una qualche pubblicazione di Bogoras o di Jochelson, che si sono occupati dei popoli in quella zona di Siberia, ma ancora non ho trovato il volume o la rivista dove compare. Pazienza.
Sia come sia, il protagonista della storia è Volpe, chiaramente un trickster. Come accade al coniglio nel frammento dello Inaba fudoki, nonché alla scimmia nel racconto indonesiano, l’eroe si ritrova bloccato su un’isola per cause di forza maggiore e deve inventarsi un modo per tornare indietro, attraversando il mare. Tanto Volpe quanto il coniglio e la scimmia ricorrono allo stesso sistema. Si inventano una specie di sfida con creature marine, per vedere chi sia il gruppo più numeroso; le fanno allineare a pelo d’acqua con la scusa di contarle, corrono sopra di loro e arrivano così a destinazione. Volpe e la scimmia ne escono indenni, per un motivo o per l’altro; il coniglio, invece, li deride troppo presto e ci rimette la pelle. Finale a parte, la somiglianza tra le tre storie è notevole, a mio parere.
Il topos dell’imbroglione che non resiste alla tentazione di farsi beffe dell’ingannato, quando è ormai convinto di essersi messo al sicuro, è qualcosa che va ben al di là delle fiabe e delle storielle di animali buffi. Un esempio classico, ben noto a tutti, è quello di Odisseo che sbeffeggia Polifemo dopo essergli sfuggito, mentre si allontana in nave. Non solo si vanta di averlo ingannato, ma butta via anche il precedente trucco del nome falso, svelandogli la sua vera identità. Fratello spirituale del coniglio di Inaba, Odisseo non finirà scuoiato, ma in compenso si trasformerà in un bersaglio contro cui Poseidone, padre di Polifemo, scaglierà ogni possibile accidente, rendendo il suo viaggio ancora più miserabile di quanto già non fosse. Avrebbe fatto meglio a seguire l’esempio di Volpe e tenere il becco chiuso, ma è un altro discorso.
Tornando alle differenze tra le storie di animali, possiamo vedere che sono dovute per lo più alla cultura che ha raccontato l’aneddoto, nonché al particolare ambiente in cui viveva. Tra i Koryak, l’animale trickster è la volpe: una scelta piuttosto comune, che troviamo presso molte altre popolazioni, tra cui la nostra. Non vale neppure la pena di citare Renard, eroe medievale di una serie di racconti di grande successo in Francia e altrove, che a propria volta ci rimette ogni tanto un poco di pelliccia, quando esagera e ne combina una di troppo di fronte all’animale sbagliato. Una volpe, inoltre, è molto più in linea con la fauna artica di quanto non lo potrebbero mai essere una scimmia o un coniglio. In caso di dubbi, ci basta guardare gli ainu di Hokkaidō e Sachalin, dove la volpe è un imbroglione ricorrente, il coniglio/lepre è occasionale e la scimmia è assente.
Oltre a essere trickster, però, Volpe ha anche poteri sciamanici, perché è proprio con un canto sciamanico che attira gli animali marini. Anche questo è perfettamente normale, dato che la Siberia nordorientale è considerata la patria del “vero” sciamanesimo, almeno a parere di Mircea Eliade: che alcuni animali possiedano poteri sciamanici non presenta alcuna stranezza per quelle culture. Le creature marine, infine, sono quelle tipiche di un ambiente artico: foche, trichechi e balene. I coccodrilli dei mari del sud non sarebbero sopravvissuti a lungo in quelle acque gelide.
Di contro, il coniglio è un animale che, nel folklore giapponese, può anche avere ruoli da trickster, ma non è un trickster di particolare successo: in più di una storia si dimostra meno scaltro di quanto si considerasse. Lo vediamo anche nel nostro caso: si fa beffe degli animali marini e l’ultimo di questi lo scuoia vivo. Da un certo punto di vista. Da un altro punto di vista, invece, gli toglie solo il vestito. Nel Kojiki, infatti, ciò che viene tolto al coniglio è indicato come 衣服, l’abito, mentre lo Inaba fudoki parla direttamente di kimono, il cui significato letterale è “cosa che si indossa”. Siamo dunque di nuovo nello stesso mondo che avevamo visto parlando delle fanciulle cigno: la pelle degli animali è una veste, sotto la quale si nasconde una forma che può anche essere umana.
Se le fanciulle cigno si toglievano spontaneamente il vestito da cigno, il nostro coniglio ne è spogliato con violenza, ma alla fine tutti e due si ritrovano nudi e inermi, vulnerabili e incapaci di difendersi da cattivi incontri. Per inserirsi di nuovo nel mondo da cui provengono, tanto la fanciulla cigno quanto il coniglio avranno bisogno di recuperare la propria veste animale: fino a che ne sono sprovvisti, sono bloccati in una sorta di limbo, dove soffrono e sono alla mercé del primo che passa. Nel Kojiki, i primi che passano sono gli ottanta fratelli di Ōnamuchi e per il coniglio le cose si mettono ancora peggio. Se prima aveva solo perso il vestito, dopo l’incontro con quelle persone di dubbia reputazione si trova anche ferito e piagato.
Non parlerò oltre di questo tema, già affrontato altrove. Più interessante è semmai l’identità degli animali acquatici che compaiono nella storia del coniglio. Sia il Kojiki che lo Inaba fudoki ci parlano di wani, ma in entrambi i casi lo fanno in un modo che ci spiega ben poco. I caratteri usati nel Kojiki per scrivere la parola “wani” sono 和迩, che descrivono la sua pronuncia, sì, ma non ci dicono alcunché sul suo significato. Nel frammento dello Inaba fudoki, poi, troviamo i katakana, a conferma del fatto che il linguaggio usato è medievale. Abbiamo però un inciso, che specifica come fossero considerati i wani da chiunque abbia trascritto il testo, perché ci dice che 水ノ中ニワニト云フ魚アリケリ, ossia “dentro l’acqua c’erano pesci chiamati wani”.
Il Chiribukuro, testo in cui si trova questa citazione dello Inaba fudoki, risale al periodo Kamakura. Siccome nei testi dell’ottavo secolo la parola “wani” non è mai accompagnata da un qualche tipo di inciso esplicativo, possiamo ipotizzare che si tratti di un’aggiunta fatta da chiunque abbia citato quel passo del Fudoki ai tempi in cui il Chiribukuro fu redatto, mentre nell’ottavo secolo si dava per scontato che l’aspetto di un wani fosse noto. Un altro inciso di questo tipo, per spiegare un fatto che era forse chiaro ai giapponesi dell’antichità ma meno immediato a quelli di epoca medievale, lo troviamo quando il wani strappa il “vestito” al coniglio: in questo caso, il narratore ci specifica che a essere stato strappato è il pelo dell’animale, non un abito indossato. Questa è comunque solo una mia ipotesi, sia chiaro.
In giapponese moderno, la parola wani indica un coccodrillo o variazioni sul tema. Il carattere che oggi è utilizzato per scrivere la parola wani è 鰐, che in cinese indicava il coccodrillo. I cinesi dell’epoca conoscevano i coccodrilli: li avevano incontrati nei loro viaggi verso sud, che fossero a scopo commerciale o esplorativo. È normale che avessero una parola per indicarli. Siccome nel Giappone dell’ottavo secolo non c’erano coccodrilli e nessun giapponese dell’epoca ne aveva mai visto uno (a quanto ne sappiamo noi), è probabile che si immaginassero qualcosa di diverso da un coccodrillo vero13, quando parlavano di wani. Una creatura acquatica? Senza dubbio. Sul suo aspetto, però, non abbiamo certezze.
Sappiamo che un altro significato di wani, in giapponese, è “squalo”, almeno nel dialetto parlato nella zona di Izumo: qualunque vocabolario giapponese ce lo segnala, anche se compare solo al secondo o al terzo posto. Nello Izumo fudoki, in effetti, si parla spesso di wani e queste creature sono protagoniste di miti e leggende, ma sono anche indicate come animali che si possono trovare nelle acque attorno alla costa. Se incontrare uno squalo nel tratto di mare tra il Giappone e la Corea è realistico, trovare un coccodrillo vivo e vegeto è parecchio più difficile, a maggior ragione nell’ottavo secolo, quando non potevano neppure essere fuggiti da un qualche zoo nei paraggi.
Il wani è dunque uno squalo, nell’area di Izumo? Forse, ma forse non proprio. In giapponese, la parola con cui si indica uno squalo è same. Lo Izumo fudoki ci dice che lungo alcune coste era possibile trovare wani, mentre in altri tratti di mare si potevano trovare same. Un wani non era dunque identico a uno squalo generico: era probabilmente uno squalo di una specie particolare e ben distinta dalle altre. Guardando solo al distretto di Shimane14, nella provincia di Izumo, possiamo vedere che il Fudoki ci indica delfini e wani tra la fauna che si può trovare nelle acque meridionali del mare interno, mentre la lista della fauna presente nel mare settentrionale si apre con tonno, pesce palla e same. I due termini indicavano dunque due animali differenti, nonostante wani dovrebbe essere un termine dialettale di quella zona per indicare uno squalo.
Lo squalo era un animale che aveva un qualche significato nella preistoria del Giappone, soprattutto nelle attuali prefetture di Shimane e Tottori, che includono le antiche province di Izumo e Inaba, da cui proviene la storia del coniglio alle prese coi wani. Qui sono stati ritrovati diversi artefatti decorati con immagini anche piuttosto realistiche di squali, risalenti per lo più all’epoca Yayoi, ossia il periodo in cui in Giappone fu introdotta l’agricoltura. Reperti più antichi, del tardo Jōmon, sono stati ritrovati nella prefettura di Nagano. Questo ce lo dice l’archeologia. Che significato potesse avere lo squalo per i giapponesi della preistoria, però, è un altro paio di maniche e possiamo solo formulare ipotesi. Era in ogni caso un pesce rilevante a sufficienza da essere utilizzato come decorazione su oggetti di vario tipo.
A Izumo abbiamo dunque antichi manufatti con immagini di squali, proprio nel territorio dove la parola wani era utilizzata per indicare un qualche tipo di squalo e i wani sono frequenti in leggende e miti. Potrebbe essere una pura coincidenza, ovvio. Potrebbe però avere anche un significato più profondo, se consideriamo le storie che ci sono state tramandate da quell’antica provincia. Storie in cui i wani possono anche interagire coi kami del posto, ossia con le divinità, sia che questi animali misteriosi fossero immaginati come squali comuni, sia che fossero divinità essi stessi.
Il wani è protagonista di numerose leggende e numerosi miti, sia a Izumo che in altre province del Giappone dell’ottavo secolo15. In alcune storie è divinizzato, in altre è capace di trasformarsi e in generale non si comporta esattamente come un animale normale, a qualunque specie potrebbe appartenere. Nel Kojiki, infine, proprio al termine del primo libro, quando Toyotamahime, figlia della divinità marina Watatsumi, assume il proprio aspetto naturale durante il parto, il testo ci specifica che si trasforma in un wani, usando di nuovo i caratteri con valore fonetico che abbiamo già visto, ossia 和迩. In questa occasione sono anche accompagnati dal carattere 魚, ossia “pesce”. L’animale in questione è dunque presentato come 和迩魚, che può essere letto come “pesce wani”.
Nella stessa scena, raccontata anche nel Nihonshoki, il carattere usato è invece 鰐, che in cinese e in giapponese moderno indica il coccodrillo. Va anche detto, però, che il Nihonshoki era scritto in cinese, non in giapponese, ed era destinato prima di tutto ai popoli continentali: che si utilizzasse una figura nota ai cinesi per descrivere un mostro marino giapponese, dunque, sarebbe ragionevole. Non mi sembra il caso di darvi troppa importanza e inserirla tra le prove certe per dimostrare che il wani era senza dubbio un coccodrillo, come pretende di fare Donald Philippi nella sua traduzione del Kojiki. Il wani era stato presentato ai cinesi come un coccodrillo in questo particolare episodio16, ma non significa necessariamente che anche nelle storie giapponesi fosse immaginato con questo aspetto. Le azioni che compie in diverse storie dell’epoca lo rendono semmai piuttosto improbabile.
In un frammento dello Iki fudoki, citato all’interno del Man’yōshū Chūshaku, ossia un commentario al Man’yōshū, raccolta di poesie compilata verso la metà dell’ottavo secolo, troviamo un kumawani che dà la caccia a una balena. La provincia di Iki corrispondeva all’omonima isola, che si trova nei dintorni di Nagasaki, in Kyūshū. Ecco il testo.
Iki fudoki – Villaggio di Isafushi
Si dice nello Iki fudoki. Il villaggio di Isafushi è nella parte occidentale del distretto. Un tempo, mentre un kumawani dava la caccia a una balena, la balena continuò a fuggire per poi nascondersi sfinita. Per questo si chiama Isafushi. Il wani e la balena, assieme, si trasformarono in rocce. La distanza tra le due è di circa un ri. La gente del posto chiama “isa” la balena17.
Questo è l’aneddoto, da cui prende il nome la località. Cosa potesse essere di preciso un kumawani è dubbio. Se guardiamo ai caratteri con cui è scritto, ossia 熊鰐, lo dovremmo definire come un orso (熊) coccodrillo (鰐). Peggio ancora, nel commentario il primo carattere era scritto 鮨, che significa sushi e non avrebbe il minimo senso nel contesto18, ma in altri testi si parla di uno yahirokumawani, scritto 八尋熊鰐, ed è dunque possibile ricostruire quale dovesse essere la forma originale del nome. Considerato che yahiro è composto dal numero otto (ya) e da un’unità di misura per la lunghezza (hiro), un yahirokumawani era un kumawani molto lungo, di grandi dimensioni.
Cos’è un kumawani? In base alla storia, non può essere che un qualche tipo di orca, dato che anche in Giappone le orche erano famose proprio per dare la caccia alle balene. Potremmo forse farci una idea di come fosse immaginata questa creatura, se riuscissimo a localizzare la roccia in cui sarebbe stata trasformata, ammesso che esista ancora e non si sia danneggiata nel corso dei secoli. Dato che non mi risulta che questa operazione sia stata eseguita, almeno finora, dovremo tenerci la curiosità e procedere soltanto con ipotesi più o meno fantasiose sul suo aspetto.
In un frammento di un altro Fudoki, inoltre, compare addirittura una grande divinità chiamata Amatsuwani (天津鰐), ossia “wani celeste”, ed è protagonista di un mito alquanto curioso, di cui mi occuperò in un’altra occasione. Questo Amatsuwani si trasforma in aquila e vola a posarsi sulla vetta di un monte: non proprio il genere di comportamento per cui coccodrilli e squali sono famosi, almeno per quanto ne so io. D’altro canto, che un wani risalga un monte è un comportamento più comune, almeno nei miti e nelle leggende trascritte nell’ottavo secolo. In genere lo fa nuotando, ma a volte sembra preferire la strada panoramica e farsi una svolazzata in santa pace.
Ha dunque davvero senso continuare a cercare un corrispettivo del fantomatico wani tra gli animali del mondo reale? Ipotizziamo pure che il punto di partenza sia stata l’immagine più o meno distorta ed esagerata di una vera creatura marina: anche il Kraken delle leggende scandinave ha come punto di partenza una specie di polpo, dopotutto, mentre per il Leviatano biblico è ipotizzato un cetaceo o altro. Questo però non significa che il Kraken si possa paragonare a un polpo reale: è una figura immaginaria, con caratteristiche e comportamenti immaginari. Allo stesso modo, anche il wani che troviamo in miti e leggende non è che la distorsione immaginaria di una qualche creatura marina. Che i giapponesi del passato siano partiti da uno squalo, un coccodrillo, un’orca o altro ancora, può essere interessante come argomento di discussione, ma non cambia il fatto che il wani descritto nelle storie antiche fosse ormai diventato un “mostro marino”, a mio parere.
I wani sulla cui schiena cammina il nostro coniglio di Inaba, dunque, sono esseri marini di un qualche tipo. Li possiamo immaginare come squali, se vogliamo, oppure come coccodrilli o altro ancora, a seconda dei gusti. L’importante è che abbiano una schiena, su cui il nostro coniglio può saltellare mentre li conta, fino ad arrivare alla sponda opposta. Ed essere poi brutalmente aggredito, per avere avuto la cattiva idea di sbeffeggiare troppo presto le vittime della sua truffa. Il che può anche contenere una morale, se così vogliamo, ma è un altro discorso.
Scaricabile in formato:
EPUB
NOTE
1 - Lo condivide con Susanoo, è vero, ma il mito ci insegna che lo Izumo Taisha (il grande santuario di Izumo) fu costruito espressa>mente per Ōkuninushi, come compenso per la cessione del paese alle divinità celesti.
2 - Oppure Këta, se vogliamo conservare la fonetica giapponese dell’ottavo secolo.
3 - I verbi utilizzati per descrivere l’azione di parlare rendono molto chiari i rapporti tra i due personaggi. Ōnamuchi è il superiore, che si rivolge dall’alto del suo rango a un umile sottoposto.
4 - Un Fudoki (『風土記』) era un testo in cui si elencavano tutti i distretti e i villaggi da cui era composta una provincia, assieme a prodotti del territorio, caratteristiche naturali, storie e leggende della regione, ma soprattutto un resoconto sull’origine dei nomi locali. Che fossero villaggi, distretti, monti o altro, era secondario: il governo centrale voleva conoscere l’origine del nome che quel particolare luogo possedeva. I Fudoki sono quindi una miniera di aneddoti e storielle più o meno mitologiche, diffuse a livello popolare nelle varie regioni dell’antico Giappone.
5 - Takakusa (高草), cioè erba (kusa, 草) alta (taka, 高).
6 - Takakusa (竹草), cioè erba (kusa, 草) di bambù (takë in giapponese arcaico, che diventa taka quando è usato come prima parte di un composto, 竹). Ricordiamo che il bambù è un’erba, dopotutto. Che le parole takë e taka, ossia “bambù” e “alto”, condividano una comune radice, è ipotesi proposta da diversi filologi giapponesi. Non s>o dirvi quanto sia fondata, ma è almeno una possibilità.
7 - O capo dei bambù, visto che Taka significa bambù. Forse è sempre quello che in precedenza era stato chiamato “capo di Keta”.
8 - La pelle del coniglio è qui trattata come un vestito e indicata col termine kimono.
9 - Chiribukuro (『塵袋』), 第十.
10 - 天の下所造らしし大神.
11 - Ma teniamo presente che il numero otto e i suoi derivati non vanno sempre presi alla lettera. Per i giapponesi, quel numero indicava una grande quantità in generale: i fratelli di Ōnamuchi sono detti yaso, ossia “ottanta”, ma questo significa solo che erano molti. Allo stesso modo, le isole dell’arcipelago giapponese sono tradizionalmente otto oppure ottanta, mentre le divinità sono otto milioni.
12 - Questo almeno era il nome indicato all’epoca in cui la storia fu registrata. Non sono aggiornato sui successivi sviluppi della toponomastica indonesiana, né per quella né per altre regioni.
13 - Pensiamo solo a come certi artisti medievali italiani raffiguravano un leone: come un cane con la parrucca.
14 - Da non confondere con l’attuale prefettura di Shimane, che è invece un territorio molto più ampio, al cui interno si trova l’antica provincia di Izumo.
15 - E precedenti, con tutta probabilità. Anche se i Fudoki sono stati compilati nei primi decenni dell’ottavo secolo, le storie e le leggende contenute appartenevano alla tradizione orale delle rispettive province e possono dunque essere molto più antiche della loro prima trascrizione. Quanto più antiche, però, non ci è dato saperlo con esattezza.
16 - In un’altra variante dell’episodio, invece, Toyotamahime si trasforma in un drago anziché in un wani, o almeno in qualcosa che l’autore del Nihonshoki ha tradotto in cinese come “drago”. Essendo figlia del personaggio che in altre storie è presentato come il re drago, residente nel palazzo subacqueo del dragone (il celebre Ryūgū), che il suo vero aspetto fosse un drago è molto più ragionevole rispetto a ogni altra interpretazione, in questo caso.
17 - Da qui il nome del villaggio: Isafushi, ossia “Balena acquattata”.
18 - Anche se ci suggerisce che il copista fosse piuttosto affamato, in quel momento, tanto da confondere un carattere con un altro.