Adriano - racconti e altro

La luce guida e la traversata notturna

Nella sua opera In Ghostly Japan (1899), che è una raccolta di commenti, storie e aneddoti più o meno legati a spettri, fantasmi e morti accidentali, Lafcadio Hearn ci riferiva un brandello di racconto a suo parere interessante, a cui avevano fatto riferimento alcuni giapponesi con cui stava parlando di lunghe nuotate notturne. Questa è la parte di dialogo in questione, così come ce la riporta Hearn:

“«Probabilmente qualcuno potrebbe,» rispose il vecchio. «Ci sono molti buoni nuotatori. Tutti nuotano, qui, anche i bambini piccoli. Ma quando un pescatore nuota in quel modo, è solo per salvare la propria vita.»

«Oppure per amore,» aggiunse la moglie. «Come la ragazza di Hashima.»

«Chi?» chiesi io.

«La figlia di un pescatore,» disse Otokichi. «Aveva un amante ad Ajiro, lontano diversi ri, ed era solita nuotare da lui di notte e poi nuotare indietro al mattino. Lui lasciava una luce accesa per guidarla, ma in una notte buia la luce fu trascurata, o forse spenta, lei perse la strada giusta e annegò. La storia è famosa a Izu.»

«Così,» dissi a me stesso, «in Estremo Oriente è la povera Ero che deve nuotare. E quale sarebbe mai stata in quelle circostanze l’opinione occidentale sul conto di Leandro?»”

Ecco quanto ci racconta Lafcadio Hearn su questa storia. Ben poco, ma l’essenziale c’è: una ragazza nuota di notte per raggiungere il ragazzo che ama, guidata da una luce che funge da faro; una volta, però, la luce si spegne per un qualche motivo e la ragazza annega, tentando ugualmente la traversata al buio. Il commento conclusivo dell’autore, poi, ci suggerisce che la storia non è così nuova, o almeno che ne esiste una simile anche in Occidente. In effetti ne esistono parecchie, sia in Occidente che in Oriente, come vedremo. Il commento ci dice anche che il nostro Lafcadio era troppo impegnato a voler fare il giapponese per documentarsi su quello che si poteva trovare in Occidente; se lo avesse fatto, forse si sarebbe accorto che anche in Europa può essere la donna a nuotare di notte, mentre l’uomo se ne sta ad aspettarla coi piedi al caldo.

Una testimonianza la troviamo nello Straparola, per esempio. Le piacevoli notti, pubblicato nel 1550 a Venezia, è una raccolta di fiabe e racconti popolari, inserita nella solita cornice narrativa resa famosa dal Boccaccio: un gruppo di persone si riunisce da qualche parte per un qualche motivo e tutti raccontano a turno una storia, per passare il tempo e/o divertire qualcuno. Nel caso dell’opera di Giovan Francesco Straparola, le storie sono raccontate di notte, come ci suggerisce già il titolo, ma per il resto cambia poco. Nella settima notte, la seconda favola raccontata (attenendoci alla definizione data dall’autore) è presentata con queste parole: “Malgherita Spolatina s’innamora di Teodoro Calogero, e nuotando se ne va a trovarlo; e scoperta da’ fratelli e ingannata dall’acceso lume, miseramente in mare s’annega.” Familiare? Direi di sì. Più di tre secoli prima del libro di Lafcadio Hearn, in Europa c’era già un’altra donna che nuotava di notte per raggiungere l’uomo amato. Ma vediamo in dettaglio la storia.

La vicenda si svolge nel mare di Ragusa, in Dalmazia. Di fronte a Ragusa c’è una isoletta chiamata l’Isola di mezzo, con tanto di castello, mentre nel braccio di mare tra la città e l’isola c’è uno “scoglietto”, su cui si trovano solo una chiesetta e una capanna malmessa. Teodoro Calogero abita sullo scoglietto, dove si occupa della chiesetta per espiare peccati non specificati; per procurarsi il cibo, va a mendicare a giorni alterni in città e sull’isola. Malgherita Spolatina vive sull’isola e un giorno vede il mendicante; si innamora di lui per qualche ragione e alla lunga decide di incontrarlo in privato, per dargli qualcosa di più della solita elemosina. Teodoro esita, ma alla fine si lascia convincere da Malgherita: quella notte metterà un lume acceso alla finestra, come da lei richiesto, e la ragazza lo raggiungerà a nuoto. Tutto si risolve per il meglio.

Lo schema si ripete più volte, fino a che alcuni pescatori notano uno strano pesce in mare. Lo seguono, scoprono che è una donna, spiano tutto ciò che accade e alla fine decidono che è meglio informare la famiglia di lei, per evitare uno scandalo ma anche perché, a nuotare così di notte in continuazione, c’era il rischio che la ragazza finisse davvero per affogare, prima o poi. I fratelli di Malgherita la prendono malissimo, soprattutto dopo aver osservato di persona che la storia non era solo una calunnia, come si sarebbero augurati loro, ma la nuda verità. La prendono così male che decidono di ammazzare la sorella, per salvare l’onore della famiglia e così via.

Una sera, mentre il fratello minore si reca da Teodoro e gli chiede ospitalità, raccontando di avere problemi con la giustizia e distraendolo poi con una lunga chiacchierata, gli altri fratelli preparano un lume appeso a una canna e si portano in barca nelle vicinanze dello scoglio. Giunta la notte, accendono il lume per attirare la sorella col solito segnale; quando lei si tuffa in mare come era abituata a fare alla visto del lume, i fratelli allontanano la barca remando in silenzio, spostandosi sempre più verso il mare aperto. Una volta lontani a sufficienza da ogni sponda, spengono il lume e se ne vanno. Malgherita, stanca per la lunga nuotata, non ha più punti di riferimento. È al buio, è in alto mare, è sola: affogherà di lì a breve.

Giorni dopo, il cadavere della ragazza sarà spinto a riva dalla corrente e Teodoro lo troverà. Dopo un primo momento in cui voule morire per accompagnarla, si consolerà in parte e la seppellirà accanto alla sua capanna. Lui trascorrerà il resto della vita a fare penitenza e i fratelli di lei vivranno felici e contenti, con l’onore della famiglia messo in salvo.

Rispetto alla poche righe in cui ci è presentata la storia giapponese, quella raccontata da Straparola ci fornisce anche una buona spiegazione per la scomparsa del lume che avrebbe dovuto guidare la nuotatrice: un terzo incomodo ha sabotato l’incontro dei due innamorati, provocando la tragedia finale. Teniamo a mente questo particolare, perché lo ritroveremo in altre varianti di questa vicenda, sotto altri cieli. Per il momento, abbiamo registrato che esiste un’altra storia in cui una donna nuota di notte, guidata dalla luce del suo uomo, o almeno del suo innamorato: la versione giapponese non è la sola. Il commento finale di Lafcadio Hearn, però, ci avverte che è più nota la storia a generi invertiti, ossia in cui un uomo nuota di notte, guidato dalla luce di una donna. Ed è così.

Ero e Leandro, i due nomi menzionati da Hearn, sono quelli dei protagonisti di una vicenda che ci porta nel mondo classico, risalente quantomeno alla Grecia di epoca ellenistica, anche se oggi la conosciamo soltanto grazie alle trascrizioni di epoca imperiale o ancora più tarde. Accenni a Ero e Leandro compaiono infatti in una delle Georgiche di Virgilio, ma è Ovidio il primo a fornirci una testimonianza più dettagliata dell’avventura dei due amanti. Fulgenzio, tra il V e il VI secolo, è una fonte più tarda di questo racconto, mentre è Museo, verso la fine del V secolo, a lasciarci un poemetto sempre su Ero e Leandro.

Una versione molto stringata è conservata anche nel libro primo del Mythographus Vaticanus, dove compare come “Historia Leandri et Herus”. Possiamo anche partire da questa versione, tanto per avere subito davanti gli elementi principali, senza perderci nei dettagli extra.

“1 Sesto e Abido erano due città vicine, e separate dallo stretto scorrere di un braccio di mare: una di loro era celebre per Leandro, un giovane bellissimo, e l’altra per Ero, bellissima donna. 2 In quanto separati, l’amore infiammò gli abissi delle loro menti; così il giovane che non resisteva al fuoco cercava in ogni modo di stringere a sé la vergine, ma non trovando alcun accesso a Ero via terra, spinto allo stesso tempo dalla passione e dall’audacia, si gettò in mare e così nuotando raggiungeva ogni notte la ragazza, guidato dalla luce sistemata dalla ragazza nella torre sulla sponda opposta. 3 Una certa notte, però, quando un vento che soffiava più forte del solito spense la fiammella, vagando e non sapendo quale direzione tenere [Leandro] si smarrì e annegò. 4 Quando il giorno seguente Ero vide il suo corpo, buttato sulla riva dai flutti, spinta dal dolore si gettò dalla sommità. 5 Così, come divise con lui i piaceri del mondo, allo stesso modo sopportò con lui il danno di un’aspra morte.”

Altrove possiamo trovare versioni più dettagliate della loro storia, anche se il nucleo non cambia. Scopriamo così che Leandro è un ragazzo che abita nella città di Abido, su una sponda dell’Ellesponto; Ero è una giovane sacerdotessa di Afrodite che abita nella città di Sesto, sulla sponda opposta. Leandro vede Ero nel corso di una festa e si innamora di lei a prima vista. Dopo qualche esitazione iniziale, Ero accetta di ricambiare l’amore del ragazzo. Come e dove incontrarsi? A casa di lei, grossomodo. Così, ogni notte, Ero sta con la lanterna accesa alla finestra, che si trova su una torre, mentre Leandro attraversa a nuoto lo stretto dei Dardanelli, al buio, guidato dalla luce. Tutto va bene per un poco, fino a che una tempesta spegne il lume di Ero; rimasto al buio in mezzo al mare, Leandro tenta ugualmente di attraversare, ma perde l’orientamento e le forti correnti dello stretto fanno il resto. Il suo cadavere sarà poi rigettato sulla spiaggia: Ero lo vedrà e si ucciderà a propria volta, buttandosi dalla torre.

A parte il dettaglio di Ero sacerdotessa di Afrodite, giusto per aggiungere un poco di dramma e di fatalità alla vicenda, le differenze sono minime, come possiamo vedere. La storia in sé era parecchio famosa nell’antichità, a quanto pare: se si possono trovare riferimenti ai due amanti su alcune monete della città di Abido in epoca imperiale, Strabone ci riferisce che a Sesto si poteva ammirare una “torre di Ero”, segno che forse la città si era comportata in modo non molto diverso da quanto avrebbe fatto secoli dopo Verona, esibendo ai turisti il presunto “balcone di Giulietta”. Affreschi ispirati alla vicenda si possono trovare anche su alcune pareti di Pompei, o almeno alcuni affreschi sono stati interpretati come un riferimento alla storia dei due amanti. Dopo una pausa, sarà nel basso Medioevo che questo racconto comincerà a godere di un nuovo successo in quasi tutta Europa: ne troviamo riferimenti in Dante e Petrarca, mentre Chaucer lo reinterpreterà in una chiave allegorica, rendendolo adatto anche ai monasteri. Nei secoli successivi si proseguirà, con nuove letture sia nelle arti figurative che in musica. Ma questo non ci interessa.

Non è difficile ridurre all’osso il motivo di base di questa storia. Due innamorati, separati dall’acqua, si incontrano di notte: uno dei due illumina la strada all’altro, che compie la traversata. Per un qualche motivo, una volta la luce viene a mancare. La persona che deve attraversare l’acqua, nonostante le difficoltà extra, tenta ugualmente l’impresa al buio, ma fallisce e muore annegata. La persona superstite può uccidersi per il dolore, oppure no. Questo è lo scheletro della storia. A volte a nuotare è l’uomo, mentre la donna fa luce; a volte a nuotare è la donna, mentre l’uomo fa luce. Sia come sia, prima o poi capiterà un incidente che spegnerà la luce: può essere il fato (fiamma spenta accidentalmente) o può essere un terzo incomodo (fiamma spenta deliberatamente). Il risultato non cambia, anche se cambiano le ragioni alla base dell’incidente.

Questo motivo, che abbiamo visto sia in Giappone, sia nell’Italia del Cinquecento, sia anche nel mondo classico, è alla base anche di una serie di canzoni e ballate popolari, registrate in Francia e dintorni da George Doncieux e presentate in un capitolo del suo Le romancéro populaire de la France, pubblicato postumo nel 1904. A pagina 280 e seguenti, infatti, possiamo leggere il capitolo XXII, intitolato “Le flambeau d’amour”, dove troviamo una canzone che, a detta dell’autore, è diffusa soprattutto nella Francia del nord, nei territori che furono della langue d’oïl, mentre sembra essere più rara nel sud, per quanto ne esistano anche versioni piemontesi.

La storia è quella che conosciamo già. Una ragazza rinchiusa in una torre, un ragazzo innamorato che la vuole incontrare, una luce accesa alla finestra per guidarlo in piena notte, un soffio di vento spegne la luce, il ragazzo si perde in mare e affoga. Il suo cadavere sarà poi spinto a riva, la ragazza lo vedrà e si ucciderà per riunirsi all’amato. In alcune versioni, come quella piemontese. In altre ne soffre tanto, ma non si uccide.

Vari paesi europei riprenderanno questo tema, sviluppandolo in base ai gusti del periodo e della popolazione a cui ci si rivolgeva. Doncieux elenca diversi canzonieri popolari dove si possono reperire le versioni locali: in Spagna, nei Paesi Bassi, in Germania, in Danimarca, in Svezia e così via. A volte i protagonisti sono aristocratici, o addirittura figli di re, e a volte sono persone più o meno comuni, ma la situazione in cui si ritrovano è sempre la stessa. Non potendo incontrarsi in modo normale, uno dei due deve attraversare un braccio di mare o un fiume a nuoto, di notte, per raggiungere la persona amata. A un certo punto, la luce guida si spegne, per caso o per sabotaggio, e la persona che stava nuotando finisce affogata. L’altra persona spesso morirà di dolore, ma non sempre e non necessariamente.

Due versioni più insolite ci sono segnalate in Ucraina e in Slovenia. Nella versione ucraina, registrata da Tchoubinsky, un giovane cosacco vuole attraversare a nuoto un fiume, di notte, per raggiungere la sua amata. Le chiede di accendergli una candela e lei dichiara di essere pronta ad accenderne due, ma teme che in questo modo lo farà annegare. Il cosacco si tuffa e annega nel fiume. Nella versione slovena, un giovane attraversa a nuoto il Danubio. La luce c’è, ma è quella prodotta dal suo fucile, che brilla nella notte, mentre la ragazza è una passante che nota la luce e si ferma a guardare il fiume. Permangono anche qui gli elementi ben noti, ossia la nuotata notturna, la luce, il ragazzo e la ragazza, ma sembrano messi assieme a casaccio, non più seguendo una trama ben precisa. Sono quasi l’eco di una storia sentita altrove, di cui si ricordano gli ingredienti di base ma non si ha molto chiaro come dovrebbero essere combinati1.

Un riferimento all’India non può ovviamente mancare e infatti Doncieux accenna a una versione indiana di questa storia di nuotatori notturni: sarebbe una leggenda raccontata a Hir-Rānjha, nel Pendjab, dove si troverebbero anche le presunte tombe dei due amanti. A suo parere, questa sarebbe una dimostrazione che la vicenda è di origine greca e in epoca ellenistica sarebbe arrivata in India, lungo la strada aperta militarmente da Alessando Magno e percorsa anche da mercanti di ogni tipo. Di opinione diversa è Bœhme, che invece propende per due tradizioni parallele che affonderebbero le proprie radici in una fantomatica storia del più remoto passato indoeuropeo. Ipotesi interessante, certo, ma ci sarebbe anche da considerare quel piccolo dettaglio costituito dal Giappone.

Oltre alla storia a cui accennava Hearn, infatti, in Giappone esistono diverse varianti di questo racconto, tutte accuratamente riadattate aella regione in cui è raccontata, per farne una leggenda locale: tanto tempo fa c’era una coppia di innamorati che viveva da queste parti e così via. Forse sulla scia di Yanagita Kunio, che amava etichettare le fiabe raccolte in giro per il Giappone, divise per argomento e trama, abbiamo anche l’esempio di Ikeda Hiroko, che in un suo studio pubblicato nel 1971 sul folklore giapponese assegna alla storia dei due innamorati con nuotata notturna il titolo di “Taraibune no Momoyogayoi”2. Oltre all’esempio portato da Hearn a fine Ottocento, ne esistono dunque numerose altre versioni in Giappone. Tutte derivate da un ipotetico “originale” ellenistico vecchio di almeno due millenni?

Per quanto non del tutto impossibile, pare almeno parecchio improbabile. Possiamo invece supporre che la storia sia arrivata dall’India, se seguiamo la teoria di Bœhme sulle due versioni parallele, ma anche questa ci rimanderebbe a un antico e ancora più ipotetico modello indoeuropeo, preistorico o giù di lì. Come sarebbe arrivato in Giappone, poi, è un altro paio di maniche, ma sono sicuro che con un poco di fantasia sarebbe possibile trovare una spiegazione, volendo. Se Littleton ha visto paralleli tra re Artù e Yamato Takeru ed è riuscito addirittura a pubblicare articoli in proposito senza scoppiare a ridere3, allora non c’è limite alla creatività umana.

Prima di addentrarci in possibili ricerche sull’origine o il significato della storia, ritengo utile prendere in considerazione un altro sfoggio di creatività mitologica: quello di Georges Dumézil, analizzando alcuni racconti caucasici che seguono uno schema molto simile, ma non identico, a quello della vicenda ellenistica di Ero e Leandro. Manca la nuotata e manca il movente amoroso, ma abbiamo la traversata al buio delle acque, abbiamo la donna alla finestra della torre e abbiamo la luce che guida l’uomo nella sua traversata. Abbiamo anche la tragedia finale, con la luce che una notte viene a mancare, l’uomo che fallisce la traversata e muore annegato. Se non siamo proprio nella stessa categoria di Ero e Leandro come atmosfera, siamo vicini a sufficienza da poter tentare un confronto, a mio parere.

All’interno del volume di Dumézil Romans de Schytie et d’alentour, troviamo anche un capitolo intitolato “La chauffante et l’éclairante”, che occupa le pagine 123-168 dell’edizione del 1978. Il punto di partenza è una fanciulla solare che a parere dello studioso francese sarebbe comune sia al mondo indiano de Mahābhārata, sia alle storie caucasiche dei Narti. In particolare, questa fanciulla occuperebbe un posto di rilievo tra le vicende di Soslan, uno degli eroi principali dei Narti, figura grossomodo solare egli stesso. Il grosso di queste vicende non ci interessa, almeno in questa sede, ma nelle ultime dieci pagine circa del capitolo si passa a discutere di alcune storie che, invece, ci riguardano molto da vicino. In queste storie, una misteriosa donna dotata di una parte del corpo luminosa sta in attesa alla finestra di una torre, pronta a guidare il marito quando rientra dalle sue scorrerie notturne. Per guidarlo, utilizza la luce emessa dal suo corpo, con cui rischiara la strada per attraversare il fiume che separa la torre dal resto del paese. Prima di preoccuparci del commento di Dumézil, vediamo un paio di storie.

La prima è il racconto pubblicato come numero 27 nella raccolta Nart Sagas, a cura di John Colarusso. È una storia raccontata dai circassi e presentata qui col titolo “Adif”. Adif è la protagonista e abita in una casa sulla cima di una collina, lungo il corso del fiume Yinjija. Suo marito Psapeta aveva l’abitudine di uscire per scorrerie varie. Quando tornava con un bottino di cavalli, di notte, Psapeta chiamava la moglie, che lo attendeva alla finestra. Lei sporgeva il suo gomito, così bianco da emanare luce, e con questa luce guidava il marito nell’attraversamento dello stretto ponte4 attraverso il fiume. Il ponte era sospeso sopra una profonda gola montana, attraverso cui il fiume Yinjija scorreva.

Un giorno, durante una discussione su chi dei due è più utile alla casa, Adif rinfaccia al marito l’aiuto che lei gli dava in occasione di tutte le sue scorrerie: se Psapeta è famoso come predone, dovrebbe solo ringraziare lei, invece di sminuirla. Senza il suo aiuto, l’uomo non se la saprebbe cavare. Ovviamente Psapeta si infuria e dichiara che la prossima volta se la sarebbe cavata da solo.

Nuova notte, nuova scorreria. Psapeta rientra col bottino, i cavalli rubati sono spaventati dal luogo che dovrebbero attraversare al buio e l’uomo si preoccupa. Chiama la moglie una volta, due, ma non riceve risposta. La terza volta, Adif sporge il braccio dalla finestra e il suo gomito magico illumina il passaggio sul ponte, come al solito.

Quando il marito è giunto a metà dell’attraversamento, però, la moglie si ricorda del litigio e delle parole che si erano scambiati. Ritira il braccio, la luce svanisce e l’oscurità improvvisa spaventa i cavalli, che cadono uno dopo l’altro dal ponte, trascinando con sé anche Psapeta. Adif ha un ripensamento, sporge di nuovo il braccio, ma la luce mostra un ponte deserto. Il cadavere del marito sarà ritrovato il giorno dopo e seppellito. Adif è in lutto: non voleva la morte del marito, ma solo punire quell’uomo che la sminuiva sempre. Ci sarà poi un lieto fine, perché un anno dopo Adif sposerà l’eroe Sawseruquo5 e si ritroverà finalmente in un matrimonio felice e soddisfacente, ma è un’altra storia e non ci interessa più.

Stessa raccolta, nuova storia. La numero 62, intitolata “Qaydukh of the Narts” e appartenente ai racconti dei Narti tramandati dagli abazi, ci presenta una nuova coppia: Qaydukh e il marito Psabida. Psabida viveva saccheggiando le tribù nemiche e rubando il loro bestiame: bovini, cavalli e pecore. Abitava lungo il fiume Injig e in quella direzione guidava tutto il bestiame rubato. Per attraversare il fiume, usava un ponte speciale fatto di lino, che si poteva usare soltanto di notte6. Psabida lo srotolava, attraversava il fiume col bestiame e poi arrotolava di nuovo il ponte. A guidarlo nella traversata al buio c’era l’anello di diamante di Qaydukh. Quando lei sporgeva la mano dalla finestra, l’anello illuminava il percorso e il marito poteva attraversare senza problemi.

Tutto andò bene per un po’, fino a quando Psabida cominciò a vantarsi un po’ troppo delle sue prodezze e del suo coraggio, proclamandosi il migliore di tutti. Stanca delle sue vanterie, Qaydukh gli parlò di Narti coraggiosi e prodi come Sosruquo7, grandi eroi che compivano grandi imprese senza vantarsene di continuo, a differenza di lui. Punto sul vivo, in breve si arriva al litigio, con Psabida che proclama l’inutilità della moglie e Qaydukh che gli fa presente l’importanza del suo ruolo: senza di lei a guidarlo nel buio, lui non riuscirebbe a riportare indietro il bestiame.

Psabida esce così di casa in piena notte, per dimostrare di potersela cavare anche senza la moglie. Indossa un mantello fatto da Qaydukh, scarpe fatte da Qaydukh, usando una sella fatta da Qaydukh e così via. Ma lui non ha bisogno della moglie, davvero. Psabida aveva anche un cavallo superintelligente, che lo guidava sempre nella direzione giusta. Quella notte è Psabida a scegliere la strada e ovviamente è quella sbagliata. Gli succedono varie brutte cose durante il viaggio, ma qui non ci interessano. Alla fine Psabida riesce a impadronirsi in un qualche modo di bestiame assortito e lo sospinge sulla strada del ritorno.

È tempo di attraversare il ponte. Qaydukh ha pietà del marito e sporge la mano con l’anello, illuminando il percorso, ma poi ci ripensa, teme di essere sgridata di nuovo e ritira la mano. Col buio, il bestiame si spaventa, si disperde, precipita dal ponte e trascina con sé Psabida, che affogherà nel fiume. Quando sporgerà di nuovo il braccio, poco dopo, Qaydukh vedrà il ponte deserto e nessuna traccia del marito. Psabida sarà ritrovato solo il giorno dopo: la moglie ne recupererà il cadavere e lo seppellirà.

Dopo tre giorni di lutto, per caso passa di lì proprio Sosruquo, sulla sponda opposta del fiume. Vede la donna in lacrime presso la tomba, si preoccupa e attraversa il fiume col suo cavallo. Saluta con cortesia Qaydukh, parlano per un poco, poi lei si mostra sorpresa che lui sia riuscito ad attraversare il fiume da solo, in quel modo: soltanto uno dei Narti lo avrebbe potuto fare. Sosruquo sminuisce il tutto, dichiarando che non è stato lui ad attraversare il fiume, ma il cavallo: il merito va all’animale, che ha fatto tutto il lavoro. Sorpresa dalla modestia dell’uomo, così diversa dall’arroganza del suo ex marito, decide di metterlo alla prova un altro paio di volte. Sosruquo supera con successo i test e alla fine si sposa con Qaydukh e tutti vissero felici e contenti.

Un ultimo esempio sempre dalla stessa raccolta. È la storia numero 80 ed è intitolata “The Light-Giving Little Finger”, appartenente ai racconti dei Narti tramandati dagli abkhazi. Qui i due protagonisti sono Sasruquo e la moglie, che è sorella degli Ayirg ma per il resto è lasciata anonima. Sasruquo usciva regolarmente a combattere, cacciare e così via, in cerca di gloria. Al ritorno, la moglie lo aiutava ad attraversare le nebbia e l’oscurità, guidandolo verso casa con la luce emessa dal mignolo della mano che lasciava sporgere dalla finestra. Sasruquo era consapevole dell’aiuto dato dalla moglie, ma non lo giudicava meritevole di lodi.

Un giorno, durante una discussione tra uomini, Sasruquo è deriso da tutti perché la moglie lo aiuta con la sua manina, come una madre che guida un bambino piccolo. Umiliato in pubblico, l’uomo reagisce nel solo modo concepibile per la sua società: tornato a casa, ordina alla moglie di non aiutarlo più, così potrà dimostrare tutto il proprio valore. La moglie capisce che il marito si comporta così a causa delle provocazioni altrui e cerca di convincerlo a lasciare perdere, ma non ci riesce. Sasruquo giura sulla sua spada che ucciderà la moglie e poi se stesso, se lei lo aiuterà di nuovo, quindi esce per andare a sfidare un gruppo di giganti.

L’avventura di Sasruquo dura un tempo imprecisato, tra battaglie coi giganti e cavalli recuperati. La moglie continua a tormentarsi, non sapendo che fare, fino a che decide di sporgere il dito dalla finestra, nel caso il marito sia nelle vicinanze. In quel momento, Sasruquo era arrivato al ponte di pietra che doveva attraversare per rientrare a casa. Aveva faticato a lungo per raccogliere i cavalli spaventati dalle tenebre e li aveva legati tutti assieme, trascinandoli sul ponte quasi a forza. La luce improvvisa li spaventa di nuovo, i cavalli precipitano dal ponte trascinando Sasruquo con sé, perché era legato assieme a loro. Il fiume sottostante è pure in piena.

Di fronte al disastro, la moglie corre fuori di casa, in cerca del marito. A parte due cavalli, tutti gli altri sembrano essere stati inghiottiti dalle acque, così la donna si lascia cadere di sotto, disperata, e muore sfracellandosi su una roccia. Inutilmente, perché Sasruquo è riuscito a sopravvivere alla sua caduta nel fiume.

Quest’ultima versione è parecchio particolare, perché la donna è presentata come una sorella degli dèi della caccia e la trama si intreccia in parte con la trama di una ballata molto famosa in Caucaso, che ha come protagonisti la dea della caccia Dali8 e il cacciatore sospeso nel vuoto9, ma il motivo di base rimane abbastanza chiaro. Potremmo citare altri esempi, ma non mi sembra necessario: a parte qualche dettaglio secondario, non aggiungerebbero alcunché di nuovo a quanto possiamo già vedere sulla base dei racconti presentati fin qui.

In Caucaso, la storia dei due amanti è stata adattata alla cultura locale con un taglio piuttosto curioso. Abbiamo la solita coppia, abbiamo la traversata notturna, abbiamo la luce con cui la donna guida il proprio uomo attraverso le acque, abbiamo la notte in cui la luce viene a mancare e abbiamo la tragedia finale, con la morte di almeno uno dei due personaggi. Cambiano parecchio i moventi, questo è vero. Di romanticismo ne rimane ben poco, sostituito da razzie, combattimenti, sbruffonate e tutto ciò che poteva piacere ai popoli che si raccontavano la storia, ma le modifiche non sono sufficienti a nascondere la struttura di base del racconto.

Nel già citato capitolo all’interno di Romans de Scythie et d’alentour, Dumézil prende in esame anche una versione di questa ultima storia, interpretando la donna dal dito luminoso come una evoluzione locale della figura che ha seguito lungo tutto il capitolo, ossia la donna lucente a due facce, che da un lato sposa Soslan (la versione “buona”) e dall’altro ne causa la morte (la versione “cattiva”). Questa doppia donna luminosa, che in altre storie è effettivamente divisa in due personaggi distinti ma imparentati, si sarebbe qui fusa in un personaggio solo.

Più in generale, l’idea da cui parte Dumézil è quella di ricercare all’interno del folklore e delle storie degli osseti l’immagine della figlia del sole come donna luminosa, parallela a quella che si trova nel Mahābhārata. Questa donna luminosa è da lui localizzata in un racconto osseta in cui Soslan, uno dei principali eroi dei Narti, si sottopone alle solite prove per sposare Acyrūxs, la figlia del sole. Fin qui, tutto bene. Nel corso dell’esame di altre storie dei Narti, sia ossete che raccontate dai popoli nei dintorni, si imbatte anche in alcune donne che avevano solo una piccola parte del corpo luminosa, invece di essere luminose per intero. Queste donne usavano la parte luminosa per fungere da “fari” e guidare i mariti attraverso un passaggio difficile durante la notte. Dumézil sembra volerle interpretare come una versione “compatta” della figlia del sole, con la capacità di sprigionare luce concentrata in un unico punto. Per dettagli e per l’intero ragionamento dietro a questa sua interpretazione rimando al capitolo già citato.

È una possibilità, certo, e non ne discuto. È però strano che Dumézil non voglia prendere neppure vagamente in considerazione l’esistenza di una massa enorme di storie dove una donna guida con una luce il suo uomo attraverso il buio, che offrivano un collegamento molto più semplice e diretto con le analoghe versioni dei Narti. Forse non erano abbastanza mitologiche per i suoi gusti o forse per lui l’intera vicenda della donna-faro, da Ero in poi, è una variante concentrata della figlia del sole. Il che è piuttosto curioso a modo suo, perché il motivo di base della storia offre suggestioni notevoli, senza dubbio, nessuna delle quali richiede però la presenza di un sole o di una sua figlia dalla luminosità “concentrata”.

Sia come sia, lasciando per un attimo da parte il possibile significato della storia o le interpretazioni che se ne possono dare, la presenza di una variazione sul tema di Ero e Leandro in Caucaso mi pare il risultato di una “localizzazione” del racconto ellenistico. Può non essere arrivato direttamente dalla Grecia, anche se quella è di certo la strada più semplice. La vicenda di Ero e Leandro è ambientata sullo stretto dei Dardanelli, a due passi dal mar Nero, un luogo che i mercanti greci hanno percorso fin dall’epoca classica e forse ancora prima, se contiamo anche i micenei che li precedettero in Grecia. Che la leggenda greca sia stata portata sulle coste orientali del mar Nero, ai piedi del Caucaso, sembra molto probabile; non mancavano certo empori greci in quella zona, come è attestato anche dall’archeologia. Che i popoli del Caucaso abbiano adattato la storia ai propri gusti, poi, è ancora meno strano. Qualcosa di simile lo abbiamo già visto parlando di ciclopi, con gli osseti che hanno reinterpretato “Polifemo” alla luce del proprio folklore, trasformandolo in un Waig10. Che due innamorati siano diventati un predone e la moglie, dopotutto, è accettabile.

Torniamo adesso a pensare al possibile significato della storia, o almeno a possibili interpretazioni, più o meno ragionevoli. Dumézil, come abbiamo visto, collegava la sua versione caucasica al tema della doppia figlia del sole, in una forma amica e in una forma nemica del protagonista. Ci può stare, se vogliamo, ma non mi sembra la strada più diretta, anche se capisco che era la più utile per sostenere l’idea che aveva in testa. Guardiamo intanto il materiale a nostra disposizione.

Abbiamo una donna che funge da faro. Che sia tramite una normale candela, una parte del corpo, un oggetto magico o altro, la donna diffonde un raggio di luce nella notte, per tracciare la strada al suo uomo. In termini concreti, non possiamo che descriverla come un faro, tanto più che la luce serve a indicare la giusta via attraverso le acque. Perché c’è sempre acqua da attraversare, che sia un fiume o un braccio di mare, a nuoto o su un ponte pericoloso. La traversata è possibile solo quando la donna indica il percorso con la sua luce; quando la luce viene a mancare, il risultato è fallimento e morte. Questo vale in ogni caso, sia quando si tratta di un incontro amoroso, sia quando si tratta di rientrare da una razzia. Questo ultimo caso lo abbiamo incontrato soltanto in Caucaso, mentre tutto il resto del mondo che conosce questa vicenda sembra applicarla solo al contesto amoroso, ma includiamo pure le varianti più anomale: anche se l’ambientazione è un poco diversa, il motivo di base rimane sempre lo stesso.

Per quanto mi sforzi, non riesco a vedere molto che sia solare, in tutto questo. Posso vedere un faro, un falò su una collina, una luce di segnalazione di altro tipo, ma sempre e comunque qualcosa di notturno. La donna solare potrà anche avere l’intero corpo che emana luce: è comprensibile ed è appropriato al personaggio. Nelle storie che abbiamo preso in esame, però, la luce della donna non è una sorta di aura che l’avvolge, ma è un fascio concentrato. È un raggio che fende l’oscurità. Più che al sole, tutto questo mi fa pensare semmai alla luna o al massimo alla stella polare, visto che ci troviamo nell’emisfero boreale, almeno con gli esempi presi in esame.

Il legame con la luna diventa più plausibile se prendiamo in esame anche la mitologia greca, ossia quella del paese da cui proviene la più antica versione della storia in nostro possesso, quella di Ero e Leandro. Non proprio Grecia ma Ellesponto, d’accordo, ma il nome stesso ci dice che l’Ellesponto era percepito come un mare ellenico, cioè greco, per cui la mitologia greca mi sembra un punto buono come un altro per cominciare un abbozzo di ipotesi interpretativa. Non certo una chiave di lettura finale e indiscutibile, sia chiaro, ma solo una proposta di interpretazione. Quando ci sono di mezzo miti e folklore in generale, è sempre meglio fermarsi alle ipotesi, dato che non potremo mai sapere per certo quale fosse il significato di una storia per il popolo che la raccontò per primo in illo tempore. Possiamo solo muoverci tra interpretazioni, quindi i nostri risultati possono solo essere ipotesi; più o meno plausibili e verosimili, ma sempre ipotesi.

La luna, dunque. Nella mitologia greca, le divinità femminili che possono essere associate alla luna, e che sono state effettivamente associate alla luna in un modo o nell’altro, non scarseggiano di sicuro. Quasi tutte le dee greche presentano qualche tratto che può essere considerato lunare, in almeno una storia in cui compaiono. Niente di strano in questo: luna e donna appartengono allo stesso campo semantico nel linguaggio del mito, che segue prima di tutto le regole dell’analogia. Ci limiteremo dunque alle dee che hanno un legame più forte e continuato con la luna, non solo una parentela alla lontana. E la prima di tutte è di certo Ecate.

Ecate era la dea tripla, a volte a tre facce, a volte a tre teste, a volte con tre corpi. Era la dea dei crocicchi, che presiedeva ai trivi, con un volto che guardava verso ognuna delle tre strade11. Era anche la dea che percorreva la notte impugnando una fiaccola, con cui illuminava il proprio cammino. E già qui siamo nei paraggi della donna alla finestra della torre, che illumina la strada attraverso le tenebre della notte, usando la luce che porta con sé o che sprigiona da sé. Un fascio di luce. Un raggio di luce. Ma Ecate era anche una dea che aveva potere sul trimundio: aveva potere sulla terra, sul mare deserto e sul cielo stellato. Zeus stesso la confermò in questo ruolo, dopo essere diventato il signore degli dèi; così ci racconta Esiodo, quantomeno.

Ecate era “la lontana”, perché questo significa il suo nome: hekatēbeletēs, il lungisaettante, era epiteto di Apollo nell’Iliade. E cosa c’è di più lontano della luna, che ancora adesso è usato in espressioni colloquiali per indicare qualcosa di remoto e irraggiungibile? Nonostante questa lontananza, però, Ecate era vicina sotto altri aspetti. Era invocata come aiuto alle partorienti in difficoltà, che poteva sì aiutare, ma anche danneggiare, a seconda del suo umore o dei riti usati per invocarla. Era famosa per i suoi amori con divinità marine, come Tritone, di cui si parla anche in uno scolio all’Odissea; era era ritenuta madre di Scilla, il mostro marino che faceva coppia con Cariddi sempre nell’Odissea. Ecate era infine la signora delle anime dei morti, che percorreva le strade notturne con un seguito di defunti e cani: qualcosa di molto simile alla caccia selvaggia che riempirà le leggende medievali diffuse sulle Alpi, in Francia e in Germania.

L’inno omerico a Demetra ci racconta che Ecate era anche collegata a un’altra portatrice di fiaccola: Demetra stessa. Dopo il rapimento della figlia Persefone, Demetra avrebbe percorso per nove giorni la terra, senza mangiare, sorreggendo due fiaccole, in cerca della figlia scomparsa. Fu proprio Ecate a darle per prima informazioni sull’accaduto: sentì la voce, ma non vide il rapitore. Così le due dee si recarono assieme da Elio, il sole che tutto vede, e da lui seppero l’identità del rapitore; il colpevole era Ade, come è ben noto.

O almeno, questo è il nome con cui ci è presentato nella mitologia classica e nelle storie pubbliche. Con le vicende di Demetra, però, entriamo in una parte della religione greca che contiene parecchie sacche di dubbio e incertezza: sono i culti misterici, i più noti dei quali erano proprio quelli che si celebravano a Eleusi ogni anno, in onore di Demetra, Persefone e altre figure divine su cui abbiamo solo allusioni. Una di queste figure misteriose (in più di un senso) era il bambino la cui nascita era in apparenza invocata nel corso dei riti eleusini, ma anche sulla precisa identità dello sposo è lecito avere qualche dubbio. Era l’Ade che conosciamo noi, oppure era quel Dioniso, noto anche come Zeus sotterraneo, celebrato in altri misteri che si intersecavano spesso con quelli eleusini?

Il discorso è complesso e non ci interessa più di tanto in questa sede. Per approfondire, si può partire dalle due monografie di Kerényi dedicate per l’appunto a Dioniso e ad Eleusi e proseguire con le relative bibliografie. Il materiale non manca. In questa sede, però, ci interessa un’altra figura luminosa, che si intreccia a propria volta con Dioniso e in apparenza con Demetra. È Arianna, la leggendaria figlia di Minosse, che avrebbe aiutato Teseo a superare la prova del labirinto, come ci racconta la storia che dovrebbe essere nota a chiunque sia nato e cresciuto in Europa.

Arianna, il cui nome è più un epiteto che un nome vero e proprio: è Ariadnē, ossia ariagnē, la “purissima”12; un altro nome con cui la conosciamo è Aridēla, ossia la “chiarissima, visibilissima”. Arianna, che era figlia di Pasifae, ossia quella che è “visibile a tutti” o che “splende per tutti”, Pasiphae, e aveva una sorella di nome Fedra, la “splendente, raggiante”. Una famiglia di donne luminose, insomma. Possiamo aggiungere il nome del Minotauro, il fratellastro di Arianna, che ci chiarisce anche a quale tipo di luminaria celeste ci dobbiamo riferire. Se Minotauro, ossia “toro di Minosse”, era solo un epiteto, il nome di questo personaggio è indicato come Asterios o Asteriōn13: in entrambi, la natura stellare (astēr) del cosiddetto mostro non potrebbe essere più chiara, tanto più che l’aggettivo asterios significa “stellato”.

Se abbiamo bisogno di ulteriori prove, li troviamo in reperti greci. In alcune pitture vascolari, il Minotauro è raffigurato con un corpo chiazzato di stelle, dandoci così una interpretazione molto diretta del suo nome proprio. Monete coniate a Cnosso e risalenti al V secolo a.C. e dintorni, poi, riportano su una faccia un simbolo a meandro, mentre sull’altra può comparire un toro, oppure una testa di donna. Il cuore del meandro è vuoto, di solito, ma su alcune monete troviamo una falce di luna, proprio nel posto in cui, secondo la leggenda eroica, Teseo avrebbe combattuto contro il Minotauro: al centro del labirinto.

Arianna e il resto della famiglia erano divinità luminose, a modo loro. Appartenevano alla notte, come figure lunari o stellari, ed erano legate al labirinto, qualunque cosa fosse di preciso questo labirinto. Ancora più indietro nel tempo, su una tavoletta del XIV secolo a.C. trovata a Cnosso, possiamo leggere un testo in lineare B di notevole interesse: pasi teoi meri / dapuritojo potinija meri. In entrambi i casi, la parola meri è accompagnata dal geroglifico di un’anfora. La traduzione è piuttosto semplice: “A tutti gli dèi, miele; Alla signora del labirinto, miele”. È la registrazione di una offerta per divinità del luogo. Un’anfora di miele era stata offerta a tutti gli dèi; un’anfora di miele era stata offerta alla sola “Signora del labirinto”.

Il miele era un dono perfettamente normale per le divinità del mondo greco: prima dell’ambrosia, era proprio il miele a essere considerato il loro cibo. Quanto a una fantomatica “Signora del labirinto” adorata a Cnosso, la successiva mitologia greca ci fornisce un solo personaggio a cui si potrebbe attribuire quel titolo: Arianna, che permise a Teseo di entrare e soprattutto uscire dal labirinto. Ovviamente, non è detto che questa Signora del labirinto coincida per forza con quella che, secoli dopo, sarebbe stata chiamata Arianna; è una possibilità, ma una possibilità che presenta una propria logica interna, quantomeno.

La storia del filo la conosciamo tutti. Ne esiste però una versione più interessante, ricordata anche da Plutarco nella sua biografia di Teseo. Al posto del filo, Arianna avrebbe dato a Teseo la sua corona luminosa, per rischiarargli il percorso attraverso il labirinto. La corona di Arianna ha una storia a propria volta molto interessante. L’aveva ricevuta come dono da Dioniso, secondo le versioni più diffuse, e in seguito un catasterismo l’avrebbe portata a diventare una costellazione, quella che noi oggi conosciamo come Corona Borealis. La corona di Arianna, dono di Dioniso, che rischiarò la strada attraverso il labirinto per Teseo, è adesso una costellazione che illumina la notte nel cielo settentrionale; proprio come Arianna e il resto della famiglia illuminavano la notte forse già nella religione della Creta minoica, qualunque nome avessero i personaggi in quell’epoca remota. Forse il lineare A potrebbe darci qualche risposta, ma ancora non è stato decodificato, purtroppo. Non ci resta che attendere sviluppi futuri.

Pensiamo al labirinto, adesso. Sulle monete cretesi di epoca classica era raffigurato come meandro, ma la figura del meandro compariva già sulle pareti dei palazzi cretesi di epoca minoica ed era stato notato da Arthur Evans. Niente di strano, dato che nel XIV secolo a.C. a Cnosso si offrivano doni a una misteriosa signora del labirinto, una dea importante a sufficienza da meritarsi la stessa quantità di miele offerta a tutti gli altri dèi messi assieme. La società cretese poteva essere cambiata, a quel punto, ma non era così diversa da avere dimenticato il labirinto e la sua signora.

L’interpretazione classica del labirinto lo vede come rappresentazione del mondo dei morti, dove tutti possono entrare, ma soltanto chi è stato prescelto dalla sua signora potrà trovare la via per uscire di nuovo e ritornare al mondo dei vivi. Il labirinto era una spirale, di cui il meandro è il suo corrispettivo ad angolo. La danza del labirinto, che secondo Plutarco sarebbe stata inventata da Teseo per commemorare l’impresa compiuta a Cnosso, consisteva in un movimento a spirale, sempre più stretto, fino a concludersi con una piroetta su se stessi, per ripetere la spirale in direzione opposta. Al centro del labirinto, come al centro della danza, stava il Minotauro. La morte. O qualcosa di simile a sufficienza.

Era in origine un rito iniziatico, accompagnato da un mito che ne spiegava le ragioni. Nella versione greca a noi nota, è ormai diventato un episodio della leggenda eroica di Teseo, il fondatore putativo di Atene14, mentre Plutarco ce ne presenta anche varianti evemerizzate fino all’estremo, dove il Minotauro è diventato un normale guerriero umano di nome Tauro, generale di Minosse, contro cui Teseo deve battersi per dimostrare il proprio valore. Per quanto mutata, però, la storia conservava ancora una notevole dose di prova iniziatica, che si concluderà con Teseo vincitore e incoronato re di Atene, al posto del padre. Non troppo diversa da molte fiabe successive, dove però l’eroe finisce di solito per diventare re nel paese della moglie. Che un certo tipo di labirinto fosse legato alla danza, però, ce lo diceva già Omero, parlando del luogo di danze costruito da Dedalo per Arianna. Il celebre artigiano Dedalo, lo stesso che nella leggenda eroica costruì il labirinto per imprigionarvi il Minotauro. Luogo di danze, prigione o paese dei morti?

Non che ci sia poi una grande differenza tra queste tre dimensioni. Sono numerose le culture in cui i morti danzano, sia nell’aldilà che nel loro ritorno sulla terra. Danzano in cerchio, soprattutto, e la spirale è un cerchio fluido, che si restringe e si espande, a seconda della direzione in cui i danzatori si muovono. Il paese dei morti è anche un luogo dove si entra per non uscire più, come la peggiore di tutte le prigioni. È a due passi dal Tartaro, dove i Titani ribelli resteranno rinchiusi per l’eternità. A volte l’aldilà è il Tartaro stesso, in epoche più tarde. E questo ci porta alla figura che comparirà poi come marito di Arianna, dopo l’abbandono di Teseo: Dioniso, eroe di altre celebri discese nel regno dei morti.

La storia “ufficiale” è nota a tutti. Dopo la fuga da Creta, Teseo abbandona Arianna su una qualche isola, tradendola così dopo che lei lo aveva aiutato a combattere il Minotauro. I dettagli variano a seconda della versione, ma l’essenziale è questo. Dopo l’abbandono di Teseo, Arianna sarebbe stata soccorsa da Dioniso, che l’avrebbe resa la propria consorte. Storia famosa a sufficienza da meritarsi raffigurazioni vascolari fin dall’antichità, in una qualunque delle varianti in cui ci è nota.

Dioniso però aveva già avuto contatti con Arianna, secondo le storie in cui le regala la corona luminosa. Seguendo queste varianti, dunque, l’abbandono di Teseo non sarebbe stato tanto un tradimento, quanto la ritirata precipitosa di un amante, quando il legittimo consorte arriva a casa: Arianna sarebbe stata già la donna di Dioniso e quella con Teseo si poteva descrivere al massimo come una breve scappatella15. Chiunque fosse Dioniso.

L’immagine che ci è nota è quella del dio del vino. Dioniso lo era, senza dubbio, ma era anche molto di più. I frammenti orfici lo ponevano come il sesto e ultimo signore degli dèi, successore del padre Zeus sul trono di Olimpo. Definizioni di Dioniso come “Zeus sotterraneo” le troviamo anche altrove, come accennavo in precedenza. Più interessante, sul fronte della religione romana troviamo una triade alquanto particolare, formata da Ceres, Liber e Libera. Agli inizi del V secolo a.C. fu anche dedicato loro un tempio sull’Aventino, forse come controparte di altre e più celebri triadi della religione romana: quella arcaica formata da Giove, Marte e Quirino, tanto cara a Dumézil, oppure la successiva triade capitolina formata da Giove, Giunone e Minerva. Ma chi erano Ceres, Liber e Libera?

Su Ceres non può esistere il minimo dubbio: è Cerere, l’equivalente romano di Demetra, dea delle messi. I cereali devono il proprio nome a lei, dopotutto. Liber è Dioniso, che anche alle Grandi Dionisie di Atene era invocato con l’epiteto di Eleuthereus, “liberatore”. Sulla identità di Libera, invece, ci sono due possibili interpretazioni. Ammesso e non concesso che siano davvero due personaggi distinti, ovvio. Se di solito oggi è identificata con Persefone, la Kore, figlia di Demetra, è anche vero che autori latini come Ovidio16 e Igino ci dicono che Libera era Arianna, sposa di Dioniso. Ci troviamo così alle prese con uno strano intreccio. Da un lato abbiamo Demetra e Persefone, ma l’uomo accanto a Persefone è Dioniso, invece di Ade. Dall’altra abbiamo Dioniso e Arianna, ma assieme a loro c’è Demetra, che non dovrebbe avere collegamenti diretti con gli altri due, almeno nella mitologia più nota17.

Se consideriamo però i due nomi di Arianna in Grecia, ossia i già citati Ariadnē e Aridela, troviamo una dea che è allo stesso tempo “purissima” ed “chiarissima”. Ora, l’epiteto di estremamente pura o variazioni sul tema è di solito associato alla signora dei morti, in Grecia: una dea ctonia, dunque. L’epiteto di chiarissima o luminosissima, invece, rimanda a una dimensione uranica, tipicamente lunare. Da un lato potremmo dunque avere Persefone, la regina dei morti; dall’altro ci troviamo quantomeno nella dimensione della Corona Borealis, se non della luna stessa. Quella che ci è nota oggi come Arianna era forse il corrispettivo di Persefone nella Creta minoica?

Dioniso ha una origine cretese, qualunque fosse il suo nome e la sua identità all’epoca. Più storie ci raccontano che Dioniso giunse in Attica portando il dono della vite, che era coltivata a Creta molto prima che lo fosse in Grecia. Il nome di Dioniso è attestato anche su due tavolette frammentarie in lineare B trovate a Pilo e dintorni, dove possiamo leggere un “Diwonusojo”, ossia “di Dioniso”, oltre a un riferimento a qualcosa chiamato “wonowatisi”, forse da collegarsi a oinos, “vino”18.

Dioniso, lo Zeus sotterraneo, era anche quello che andava a riprendersi la legittima sposa Arianna, togliendola a Teseo. Possiamo almeno ipotizzare che questa sia la versione eroica di un più antico mito di origine cretese, forse anche di epoca minoica. Un mito in cui Arianna, signora del labirinto, era moglie di Dioniso. La coppia Persefone e Ades potrebbe essere una reinterpretazione greca di una più antica coppia formata da Arianna e Dioniso. Senza dimenticare che esiste anche una storia secondo cui Teseo sarebbe sceso nell’Ade assieme all’amico Piritoo, nel tentativo fallito di rapire Persefone. Aveva la mania di rapire donne difficili da gestire, il nostro eroe.

Sia come sia, abbiamo qui una dea/donna luminosa, che usa i propri poteri luminosi19 per aiutare un uomo a compiere una impresa; in seguito è ripudiata da quell’uomo, ma si consola con un nuovo arrivato, di rango decisamente superiore all’uomo precedente. Siamo abbastanza vicini alle storie raccontate nel Caucaso. Mancano le acque, è vero, ma a questo si potrebbe obiettare che la storia si svolge su un’isola e l’abbandono su un’altra isola, cioè luoghi circondati dal mare. Meglio ancora, il meandro che negli ultimi millenni è stato usato come simbolo del labirinto ha una origine molto più antica: risale al Paleolitico Superiore, quando era usato come simbolo dell’acqua.

Come ci segnala Marija Gimbutas nel terzo capitolo del suo Il linguaggio della dea, i più antichi esempi di meandro sono stati ritrovati in statuette preistoriche che rappresentavano anatre e altri uccelli marini, oppure una figura femminile con una faccia o una maschera da uccello: quella che Gimbutas chiamava genericamente Dea, oppure Dea Uccello e che, a suo parere, sarebbe stata collegata al ciclo di morte e rinascita, forse come custode20. Nel Neolitico, il meandro aveva spesso al centro una testa di serpente, altro animale che nel linguaggio analogico del mito è associato alle acque21, mentre nell’Età del Rame era un segno tracciato di frequente su contenitori di terracotta per trasportare o conservare l’acqua.

Se il labirinto cretese era da identificare effettivamente con il paese dei morti, allora il collegamento con le acque diventa piuttosto semplice. Sono innumerevoli i popoli che immaginano l’aldilà e il mondo dei vivi separati da un qualche tipo di acqua. Può essere un fiume da attraversare con un nocchiero, oppure su un ponte dalle caratteristiche innaturali (di lama, di vetro, sottilissimo o altro ancora), o può essere un mare, al di là del quale si trova l’isola beata dei morti. Il labirinto era il passaggio attraverso cui si raggiungeva la morte, proprio al suo centro. Poteva essere chiamata Minotauro o con qualunque altro nome, ma era la realtà che attendeva al centro del meandro, quella figura lasciata spesso in bianco nelle monete cretesi. Quando non era lasciata in bianco, aveva il volto della luna.

Come nei miti di svariati popoli si devono attraversare le acque per raggiungere l’aldilà, così nella versione cretese si doveva attraversare il labirinto per giungere faccia a faccia con la morte, o con quello che si trovava al suo centro. Il labirinto sostituiva dunque le acque ed era indicato con lo stesso simbolo usato per le acque: il meandro. La signora del labirinto, dea o luna, donna o altro, era in possesso della chiave per attraversare il labirinto: solo col suo permesso si poteva superare la prova e tornare indietro vivi. Il suo consenso era espresso aprendo il passaggio a chi voleva o doveva affrontare la prova: era un filo, oppure la luce che proveniva dalla signora stessa. Perché la signora del labirinto era estremamente luminosa, figlia di colei che splende per tutti. Ed era la luna, o intimamente connessa con la luna, come del resto è normale per la donna nel linguaggio analogico del mito. Anche il toro era poi connesso alla luna, perché le sue corna ne rappresentavano la falce.

È questo l’antico modello da cui sarebbero derivate la storia ellenistica di Ero e Leandro, più tutte le varianti successive disperse per l’Europa e oltre? Forse, o forse è solo un creativo miscuglio di vari indizi e suggestioni. È solo una ipotesi interpretativa, non certo una verità indiscutibile. Le versioni caucasiche della storia si prestano piuttosto bene a una chiave di lettura di questo tipo, forse perché il Caucaso è davvero quella sorta di ghiacciaia dove miti e storie si conservano a lunghissimo termine, come amavano descriverlo Dumézil e alcuni suoi discepoli. In Caucaso, la donna attende in una torre, separata da un fiume la cui traversata al buio è possibile solo grazie alla luce che lei stessa emana.

In due storie, alla luce si unisce un ponte fatto di lino, non certo il materiale usato più spesso per costruire infrastrutture di questo tipo. Un ponte di lino, che si può utilizzare soltanto durante la notte e che si può attraversare con successo soltanto quando la luce della donna rischiara il passaggio. Se non si tratta proprio di camminare su un raggio di luce lunare, siamo vicini a sufficienza come tipo di immagine. Siamo anche vicini a sufficienza al ponte pericoloso che separa la terra dei vivi da quella dei morti in così tante culture. È una figura che sembra essere sopravvissuta a lungo anche nell’immaginario europeo, se è vero che la ritroviamo nel dodicesimo secolo ancora viva e vegeta nei poemi cavallereschi di Chrétien de Troyes. È il temuto Ponte della Spada, che Lancillotto deve attraversare nel Cavaliere della carretta per raggiungere la fortezza di Meleagant, dove Ginevra è prigioniera in una terra da cui nessuno ha mai fatto ritorno. Se uno solo riuscirà ad attraversalo e a tornare poi indietro, tutti i prigionieri saranno liberi.

Riassumendo, si potrebbe immaginare un modello primordiale di storia, dove un uomo è chiamato a compiere una katabasis, una discesa nel regno dei morti, attraversando le acque guidato dalla luce della Signora che si trova al di là delle acque. Una sorta di prova iniziatica, collegata a un mito i cui dettagli precisi si sono persi nei millenni. Se la donna luminosa approva la tua azione, puoi superare la prova ed essere iniziato, rinascendo come nuovo membro della comunità. Se però non ottieni la sua approvazione, la luce verrà a mancare, fallirai il passaggio e non troverai posto nella società: sarai morti, almeno socialmente. Forse Propp approverebbe una ricostruzione fantasiosa di questo tipo, dato che era suo parere che molte storie popolari traessero la propria origine dal ricordo di antichi riti d’iniziazione.

Potrebbe esserci qualcosa di vero in questa fantasia? Difficile dirlo. Ha una sua logica interna e mette assieme i pezzi della storia, ma mancano esempi concreti nel mondo reale di rituali iniziatici simili a questo nello specifico. Di rituali ne esistevano in abbondanza e ognuno traeva la propria forma dai miti raccontati dalla cultura che lo praticava. Se un rituale di questo tipo sia mai stato praticato realmente, però, non ci è dato saperlo, almeno a quanto mi risulta. È appunto una ipotesi, fantasiosa ma niente di più.

Se le varianti caucasiche si possono adattare a una interpretazione di questo tipo, la storia di Ero e Leandro presenta divergenze maggiori: è quasi una edizione più atletica del celebre motivo di Romeo e Giulietta. Se consideriamo però la tendenza a razionalizzare che in Grecia era arriva almeno al livello della narrativa “ufficiale”, non è così impossibile che un arcaico mito cretese, già decaduto a leggenda eroica ai tempi dei poemi omerici, fosse stato ridotto a una questione di amanti con problemi a incontrarsi in epoca ellenistica, del tutto desacralizzato. C’è anche un dettaglio curioso: la storia è ambientata proprio nella zona in cui i greci collocavano le Simplegadi, le rocce mobili che per gli argonauti, così come in mille fiabe e storie popolari, segnavano il confine tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti22. Pura coincidenza? Forse, o forse chissà. Dubito che lo sapremo mai per certo.

Resta l’enigma di come abbia fatto questa storia ad arrivare fino in Giappone, dove Lafcadio Hearn ne incontrava una versione negli ultimi anni dell’Ottocento. Una versione, peraltro, in cui è la donna a nuotare di notte, invece dell’uomo. Solo nelle Piacevoli notti di Straparola ne abbiamo incontrato un equivalente europeo. Per caso? O perché questa storia italiana è riuscita in un qualche modo ad arrivare fino in Giappone? Estremamente improbabile che sia andata così, ma almeno teoricamente possibile, se osserviamo le date.

I primi missionari cristiani arrivarono in Giappone nel 1549, giusto l’anno prima che a Venezia fosse pubblicata la raccolta di Straparola. In uno dei viaggi successivi un membro dell’equipaggio, missionario o meno, potrebbe anche averne avuta una copia in tasca, fresca fresca di stampa: molto inverosimile, ovvio, ma non del tutto impossibile, cronologia alla mano. Non la ritengo una ipotesi realistica e non ci punterei un solo centesimo, sia chiaro, ma non la posso escludere del tutto, perché è una coincidenza parecchio curiosa che, proprio quando si apriva una (breve) stagione di contatti diretti col Giappone, sia stata pubblicata in una delle principali città marittime e mercantili europee una storia così simile a una leggenda trovata tre secoli dopo sulle isole giapponesi. Ma è forse meglio vederla solo come una coincidenza, in assenza di una qualche prova che abbia almeno una parvenza di solidità.

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NOTE

1 - Per ulteriori dettagli e una breve traduzione dei testi di queste due ballate, rimando al già citato Le romancéro populaire de la France, di Georges Doncieux, pagine 289-290 dell’edizione del 1904.

2 - たらい舟の百夜通い, ossia “cento traversate notturne in barca”, dove taraibune indica una barchetta rotonda usata un tempo lungo le coste dai pescatori giapponesi, più o meno simile al coracle delle isole britanniche.

3 - Lo ha fatto davvero. C. Scott Littleton, “Yamato-takeru: An ‘Arthurian’ Hero in Japanese Tradition”, Asian Folklore Studies, Vol. 54, No. 2 (1995), pp. 259-274, a cui possiamo aggiungere il precedente C. Scott Littleton, “Some Possible Arthurian Themes in Japanese Mythology and Folklore”, Journal of Folklore Research, Vol. 20, No. 1 (May, 1983), pp. 67-81. Preferisco astenermi dai commenti.

4 - Un ponte fatto di lino, per la precisione.

5 - È il nome con cui i circassi indicavano il Soslan degli osseti, uno dei più grandi eroi della zona.

6 - Il motivo non è spiegato. Funziona così e basta.

7 - Il nome abazo di Soslan, ovviamente.

8 - Almeno nella versione georgiana; in altre regioni, il nome della dea cambia.

9 - Nella ballata è la dea ad assistere alla caduta fatale del cacciatore, che lei stessa ha causato per punire l’uomo di una violazione commessa contro di lei.

10 - E c’è poi tutto il discorso sulla presenza di un “fratello” di Prometeo nel folklore della Georgia e di altri popoli caucasici, a ricordarci gli indiscutibili contatti nell’antichità tra Grecia e Caucaso, ma per questo rimando a Prométhée ou le Cuacase, di Georges Charachidze, “discepolo” di Dumézil.

11 - Ecate era presente nelle strade greche come una statua trimorfa, oppure un palo su cui erano attaccate tre maschere di legno. Ogni faccia era sempre e comunque rivolta verso una delle tre strade, indipendentemente dal materiale di cui erano fatte.

12 - Il prefisso ari- ha valore di superlativo, qui applicato all’aggettivo hagnos, “puro”, usato ovviamente al femminile, hagnē. Il nome di Arianna, in greco, compare sia come Ariadnē che come Ariagnē, a seconda degli autori.

13 - Il primo, Asterios, ci è indicato da Apollodoro nel terzo libro della sua Biblioteca, mentre il secondo, Asteriōn, ci è fornito da Pausania nel secondo libro della sua famosa periegesi, parlando del tempio di Artemide Soteira che Teseo avrebbe fatto erigere nell’agorà di Trezene, al ritorno dalla sua battaglia a Creta contro Asterione.

14 - Putativo perché la fondazione di Atene era attribuita a Cecrope, ma gli ateniesi dell’epoca classica vedevano Teseo come l’eroe che aveva fondato Atene in un senso forse meno letterale, ma più simbolico. Era Teseo a essere visto come antenato di tutti gli ateniesi, anche nelle battute con cui gli altri greci li irridevano di tanto in tanto.

15 - E il libro undicesimo dell’Odissea ci informa che Dioniso invocò l’intervento di Artemide contro Arianna, rea di averlo tradito: quell’Artemide che era molto veloce con arco e frecce, quando c’era da punire una donna che aveva fatto troppo “amicizia” con un uomo. In un’altra prospettiva, l’intervento di Artemide potrebbe rappresentare la morte simbolica della donna prima del matrimonio, da cui poi rinascerà come moglie: i riti nuziali della Grecia antica presentavano diverse affinità coi funerali, dopotutto. Ma non complichiamo troppo le cose.

16 - Nel terzo libro dei Fasti, Ovidio ci racconta un episodio in cui Liber/Dioniso cambiò il nome di Arianna, chiamandola Libera per sottolineare come lei adesso gli appartenesse.

17 - Il collegamento esiste nel culto romano, come già detto: nei Liberalia di marzo, Liber e Libera comparivano come “valletti” di Ceres, qualunque fosse la loro corrispondenza con personaggi dei miti greci. Ovidio li presenta come Dioniso e Arianna, Igino concorda con lui usando quasi gli stessi termini, ma c’è sempre spazio per qualche dubbio.

18 - O almeno così suggeriva Jaan Puhvel nel suo Eleuther and Oinoatis: Dionysiac Data from Mycenean Greece.

19 - La corona luminosa di Arianna, che in alcune versioni guiderà Teseo fuori dal labirinto al posto del filo.

20 - E da questa ipotetica divinità preistorica deriverebbero le figure femminili in forma di uccello, che compaiono in diverse mitologie europee in epoca storica. Sue discendenti alla lontana sarebbero dunque le valchirie scandinave, che si manifestavano come corvi e che trasportavano le anime nell’aldilà, ma anche le sirene greche, uccelli dalla testa di donna che banchettavano coi cadaveri dei marinai e apparivano nel corteo di Persefone, regina dei morti, e ovviamente la Morrigan celtica, dea corvo dal triplice aspetto che annunciava la morte.

21 - E a molto altro, tra cui la donna, la vegetazione e la vita eterna.

22 - E proprio come in migliaia di fiabe e storie di altro genere, la nave Argo riesce sì ad attraversare le rocce mobili, ma “ferendosi al tallone”: le rocce si chiudono quando non è ancora passata del tutto e mozzano un frammento della sua poppa, così come staccheranno un pezzetto di tallone a innumerevoli eroi sotto altri cieli, oppure un ciuffo di peli dalla coda del loro cavallo.