Adriano - racconti e altro

Kanna Kamuy visita il mondo umano

Una storia molto diffusa tra gli ainu in tutta l’isola di Hokkaidō era quella di Kanna Kamuy, il dio del tuono, che un giorno decide di scendere a fare due passi nel mondo umano e visita uno o più villaggi, curioso di scoprire come vivano gli uomini. Ne avevo già tradotta una versione in precedenza, ma mi pare opportuno recuperare il discorso fatto a quel tempo, per integrarlo alla luce di nuovi esempi e di nuove curiosità incontrate strada facendo, sia a riguardo di questo racconto che di certi dettagli contenuti. Vediamo dunque cosa si possa dire di nuovo su questo mito ainu.

Siamo nel campo dei kamuy yukar, ossia dei canti tradizionali ainu dove il protagonista è una qualche divinità, ossia un kamuy. Come caratteristiche fondamentali di questo tipo di narrazione, possiamo elencare innanzitutto la presenza di un kamuy come protagonista e voce narrante della storia, perché i fatti ci sono raccontati dalla sua prospettiva e in prima persona. La persona che canta un kamuy yukar si trova dunque a interpretare una divinità, spesso ma non necessariamente un qualche tipo di animale, e proprio da questo deriverebbe il nome del genere narrativo. La parola yukar è infatti analizzata di solito come i-u-kar, dove kar è il verbo “fare”, ma usato più nel senso dell’inglese to make che non di to do; aggiungendo i due prefissi i- e u- otteniamo un “fare cose a vicenda”, che nel linguaggio comune ha il senso di “imitare”1. Un kamuy yukar sarebbe dunque un “imitare una divinità”.

Altra caratteristica tipica di questo genere è il ricorso a quella che, nel linguaggio comune, sarebbe la prima persona plurale, al posto del singolare che sarebbe più come aspettarsi in una storia narrata dal protagonista. La divinità parla di se stessa, ma lo fa dandosi del “noi”, in pratica. Di solito, questa è interpretata come una caratteristica del cosiddetto “ainu classico”, distinto dallo “ainu colloquiale”, ma la possiamo anche vedere semplicemente come una specie di pluralis maiestatis e non complicarci troppo la vita, almeno in questa sede. Sul piano concreto, ciò significa che al posto di ku-, prefisso della prima persona singolare, il narratore usa i vari prefissi e suffissi per la prima persona plurale: ci-, a-, -an e -as2. Il resto lo possiamo lasciare ai linguisti.

I kamuy yukar sono accompagnati da un ritornello, detto sakehe, che raramente ha un significato chiaro e immediato, ma di solito allude in un qualche modo alla natura del protagonista. Può essere una dizione formulare che contraddistingue quel kamuy, oppure una onomatopea che ricorda un suono prodotto da quell’animale o da quel fenomeno meteo, o altro ancora. È comunque un indizio sulla identità della voce narrante, che sarà svelata soltanto nell’ultimo verso, che in genere è qualcosa del tipo “così raccontò il divino Tal-dei-Tali”. Il sakehe precede ogni verso del canto, quando si tratta di un ritornello breve, cioè una manciata di sillabe al massimo; quando è qualcosa di più lungo, invece, spesso è utilizzato in modo irregolare, introducendo solo un verso ogni tre, quattro, cinque o quello che è. A volte può cambiare nel corso della recitazione, per sottolineare un cambio di passo o di tono, ma più spesso rimane invariato dall’inizio alla fine.

I kamuy yukar non hanno un metro vero e proprio. I versi sono perlopiù di quattro o cinque sillabe, un buon numero raggiunge anche le sei, ma di tanto in tanto può spuntare un verso molto più lungo degli altri, per nessuna ragione apparente e senza alcuna regolarità nella struttura del canto. Strano ma non troppo, dato che al narratore era concessa una certa facoltà di improvvisare, ma senza esagerare: anche per questo abbiamo storie quasi uguali, ma che differiscono per alcuni versi o per certe immagini utilizzate, o anche perché sono in un altro dialetto ainu. Per esempio, in uno dei canti che esaminerò qui si parla di ape raoci/ suma raoci, ossia di un “arcobaleno di fuoco, arcobaleno di sassi”. In un’altra versione della stessa storia (qui non esaminata), per la stessa scena si parla invece di usat rayoci/ ape rayoci, ossia di “arcobaleno di tizzoni, arcobaleno di fuoco”3.

Il termine kamuy yukar, inoltre, è soltanto uno di quelli utilizzati per indicare questo particolare tipo di narrativa ainu; pur essendo diventato oggi il più famoso, nonché il più comune nei paesi occidentali, esistono anche nomi alternativi. Se kamuy yukar è termine tipico dell’area di Saru, in altre zone linguistico/culturali di Hokkaidō, come Samani e Urakawa, si parlava di tuytak, ad esempio, mentre nelle aree di Tokachi e Asahikawa il loro nome era oyna, così come a Sachalin. In lingua giapponese, infine, si può usare shin’yō (神謡), come nel titolo della famosa raccolta redatta da Chiri Yukie, lo Ainushin’yōshū (アイヌ神謡集). Per comodità e per chiarezza, continuiamo pure a usare kamuy yukar come termine generale per descrivere questo genere della letteratura orale ainu, ma ricordiamoci che può essere chiamato anche in altri modi.

Dopo aver visto cosa sia un kamuy yukar, possiamo anche prendere in esame cosa sia un kamuy, cioè il protagonista di questi canti. È una divinità, grossomodo, ma una divinità così come la intendevano gli ainu, non come la potremmo intendere in Occidente. Un kamuy poteva essere un animale, un vegetale, una forza della natura, un oggetto o altro ancora: era qualunque cosa potesse essere percepita come una ierofania, da un certo punto di vista. Un animale selvatico incontrato durante una battuta di caccia in montagna, un albero imponente, una roccia dalla forma strana, orche che sfilano via in mare aperto sulla linea dell’orizzonte; tutto questo può essere la manifestazione di un kamuy, perché schiude o suggerisce una realtà al di là di quella umana.

Kamuy era dunque ciò che poteva essere percepito come una manifestazione del sublime agli occhi di un popolo di cacciatori, pescatori e raccoglitori, che viveva su un’isola fatta di monti e di grandi foreste. Ciò che si poteva vedere e con cui si poteva interagire, però, non era il vero aspetto di un kamuy: era solo l’abito che indossava per mostrarsi nel mondo umano. L’orso era un kamuy, uno dei più importanti in assoluto, e quando si parla solo di kamuy, senza specificare le sue caratteristiche, di solito si intende proprio l’orso. L’animale orso, però, era solo l’involucro: era lo hayokpe, era l’armatura del kamuy. Il corpo animale era un travestimento necessario, perché gli uomini non lo avrebbero potuto vedere se si fosse mostrato al naturale. Nel mondo umano, un kamuy era invisibile e intangibile: soltanto l’abito che indossava lo rendeva visibile, facendolo apparire come un orso, un lupo, una volpe o qualunque altra cosa, a seconda del suo grado di importanza.

Perché gli animali non erano tutti uguali, proprio come non erano tutti uguali i kamuy. Gli animali di più alto livello erano quelli che fornivano la carne migliore, oppure erano i più stimati e ammirati dagli ainu. L’orso era ai vertici in entrambe le categorie, per cui era la figura divina di più alto rango nel mondo naturale. Il lupo era ammirato come grande cacciatore, quasi un maestro per gli ainu, che ogni tanto si degnava anche di lasciare loro una parte delle sue prede, cioè tutti quegli animali che il branco di lupi uccideva e mangiava solo in parte; per questo, fra gli animali di terra era al secondo posto quasi ovunque nella cultura ainu. L’orca era il kamuy marino più importante, perché sapeva cacciare le balene e ogni tanto le spingeva a riva, lasciandole spiaggiate come dono per gli ainu. Il gufo era importante, perché faceva la guardia ai villaggi cantando di notte. E così via.

In tutti questi casi, così come in molti altri, l’animale che si poteva vedere era solo l’armatura del kamuy. La divinità reale si trovava al suo interno e abitava in un piccolo spazio tra le orecchie, da cui poteva osservare il mondo. Qualcosa di simile, se non proprio di identico, avveniva anche per gli elementi naturali. Gli alberi erano case dentro cui i kamuy abitavano mentre si trovavano nel nostro mondo; il sole e la luna erano i veicoli con cui i kamuy viaggiavano nel cielo; il vento era un altro tipo di kamuy, con un corpo invisibile ma che si poteva sentire, perché il suo passaggio faceva muovere i rami e sfiorava la pelle degli umani4. Si potrebbe continuare, ma l’idea di base dovrebbe essere chiara, almeno a grandi linee.

Se nel mondo umano i kamuy si mostravano come animali, piante o elementi della natura, nel mondo da cui provenivano avevano un aspetto identico a quello degli umani e conducevano vite identiche a quelle umane. Avevano una casa, una famiglia, amici, organizzavano feste, bevevano tutti assieme, si scambiavano regali e così via. Dove fosse di preciso questo mondo divino, il kamuy mosir, era un altro paio di maniche e le opinioni non erano concordi. In alcune storie era descritto come un luogo nel cielo, o almeno molto in alto. In altre storie era un luogo sotterraneo ma all’aperto, un altro mondo che si poteva raggiungere scendendo in una caverna, per poi ritrovarsi in un paese normale, con un cielo sopra la testa e il sole o la luna a illuminarlo. Un mondo simile a volte a quello in cui andavano i morti, in effetti, e i morti stessi diventavano kamuy, da un certo punto di vista5.

I kamuy ainu avevano molto in comune coi kami giapponesi, oltre a un nome quasi uguale, ed è possibile, forse anche probabile, che siano derivati da una idea comune molto più antica, risalente alla preistoria dell’arcipelago e ai popoli che lo abitavano in quei tempi, molto prima che le etnie note in epoca storica si definissero così come le conosciamo oggi. Non abbiamo idea di come fosse di preciso il Giappone di cinque o diecimila anni fa, quanti popoli diversi vi abitassero e che rapporti esistessero tra loro, men che meno quali lingue parlassero, anche se le speculazioni non mancano. Ritrovamenti archeologici suggeriscono una certa continuità in alcune credenze che si trovano anche in epoca storica, volendo, per cui ipotesi di questo tipo non sono impossibili.

Osservando quanto è accaduto in altre parti del mondo, possiamo ipotizzare che alcune idee di carattere religioso fossero comuni in passato, magari anche solo perché vivevano più o meno tutti allo stesso modo. La percezione delle divinità poteva essere un tratto comune e potrebbe essere sopravvissuta in forma più o meno distorta e alterata nei kami giapponesi e nei kamuy ainu. O forse è solo una ipotesi priva di fondamento. La grande somiglianza tra figure del folklore dei due popoli, come kitsune e cironnup, la volpe giapponese e la volpe ainu, fa pensare più a un passato comune e condiviso che non a un prestito culturale più recente, giusto per citare un esempio.

Sia come sia, Kanna Kamuy, il tuono, è il protagonista e narratore delle storie che vedremo qui di seguito. Il suo nome significa semplicemente “divinità di sopra” ed era effettivamente immaginato abitare in cielo, da qualche parte, come è giusto che sia per un dio del tuono in qualunque cultura6. La parola kanna significa “sopra, in alto” ed è usata in contrapposizione con pokna, ossia “sotto, in basso”: kanna mosir è il mondo di sopra, abitato dai vivi, mentre pokna mosir è il mondo di sotto, abitato dai morti, e questa è la distinzione più importante nella cosmologia ainu.

Kanna Kamuy poteva essere immaginato in vari modi. Il tuono e la pioggia sono rappresentati di solito come un drago, almeno in Estremo Oriente: una immagine di origine cinese, che si è fatta strada anche nei paesi vicini, assieme alla cultura cinese stessa. Kanna Kamuy come drago era una idea molto forte tra gli ainu di Sachalin, mentre in Hokkaidō la troviamo affiancata da un’altra idea, forse più antica e originaria: il tuono come serpente, serpente fiammeggiante7. Nella mitologia ainu non esiste un racconto prometeico vero e proprio sull’origine del fuoco, come troviamo invece presso molte altre popolazioni8. Il fuoco era solo qualcosa portato dal fulmine e il fulmine era un aspetto del dio serpente primordiale, Kinasut Kamuy, che in origine scese dal cielo per seguire Ape Kamuy, la dea del fuoco di cui era innamorato. Da allora, fuoco e serpente procedono di pari passo, come vedremo anche nella seconda storia, dove Kanna Kamuy scatena una tempesta di fuoco per punire il villaggio che lo ha offeso.

Passiamo dunque ai nostri kamuy yukar. Protagonista è Kanna Kamuy, il tuono, che scende dal cielo per visitare il mondo ainu. Esistono tre versioni fondamentali di questa storia: nella prima, Kanna Kamuy visita un villaggio ainu, è accolto con rispetto e se ne va felice; nella seconda, visita un villaggio ainu, è accolto in malo modo, si arrabbia e distrugge tutto; nella terza, le prime due versioni sono combinate in sequenza, con la visita al villaggio buono seguita dalla visita al villaggio cattivo. Prenderemo un esempio di ognuna delle tre versioni e li esamineremo qui di seguito, giusto per dare un saggio di una storia estremamente popolare e diffusa in passato.

Partiamo con la prima versione, quella in cui Kanna Kamuy visita un villaggio ainu, la gente gli mostra rispetto e tutto si conclude per il meglio. Il ritornello è rittunna ed è recitato prima di ogni verso. Ho ritoccato un poco la traduzione che avevo fatto in precedenza, inserendola qui alternata col testo originale in lingua ainu, così da avere meglio sott’occhio la struttura del kamuy yukar.

***

Aynu kotan
Un paese9 umano
Ci=nukar rusuy
Volevo vedere,
Tanpe kusu
Per questo motivo
Punkar sinta
Al veicolo10 in vimini
A=yaykosina
Io mi legai,
A=yaykoyupu
Io strinsi me stesso.
Hoyupu=an wa
Così corsi via,
Arpa=an awa
Andavo e poi
Kotan kor kur soyke ta arpa=an na
Andai davanti al [posto del] capo villaggio,
Ki p ne kusu,
E a quel punto
Puyar or wa hehewpa=an na
Dalla finestra sbirciai.
Kotan kor kur iruyke kor an
Il capo villaggio affilava qualcosa.
Korka asinuma anakne aynu kotan a=nukar rusuy kusu arpa=an pe ne sekor yaynu=an wa kusu, hoyupu=an wa
«Tuttavia, è perché volevo vedere un paese umano che io venni qui.» Pensando questo io corsi via.
Aynu kotan ta arpa=an awa
Andai al villaggio umano e allora,
Nepenepo iranmakaka
Che meraviglia!
Pirka cise
Di belle case
Poronno an wa
Ce n’erano tante,
As ru konna
E stavano allineate
Mewnatara
In modo incantevole.
A=erayap kor
Quando fui soddisfatto,
Hosipi=an na
Tornai indietro
Suy kotan kor kur soyke ta ek=an ruwe ne
E venni di nuovo davanti al [posto del] capo villaggio.
Inkar=an awa
Quando guardai,
Tu menoko an wa
C’erano due donne.
Sine menoko
Una donna
Itese kor an
Stava tessendo,
Sine menoko
Una donna
Kemeyki kor an
Stava cucendo.
Ki akusu kotan kor kur
Allora il capo villaggio
Ene hawean hi
Parlò in questo modo:
Menokoutar
«Donne,
Kamuy payokay noyne humas na oripak ki yan
Dal rumore, sembra che una divinità stia passando: siate reverenti!»
Sekor kotan kor kur hawean awa etoko ta sapaha uk wa
Così disse il capo villaggio, ma ancor prima avevano scoperto il capo
Kar pe makoraye
E accantonato il loro lavoro.
Oripak ki wa okay ruwe a=nukar na
Vidi così che agivano con reverenza.
Nepenepo uitaknu ruwe sekor yaynu=an wa a=erayap kor hosipi =an ruwe ne na
«Sono davvero obbedienti!» pensai e, soddisfatto di questo, me ne tornai indietro.
Sekor kanna kamuy isoytak ruwe ne.
Così parlò Kanna Kamuy.

Poco da dire su questa storia. Il kamuy scende a visitare il paese degli uomini, apprezza la reverenza che gli dimostrano e se ne torna a casa soddisfatto. Non è specificato che rapporto esista tra il capo villaggio e le due donne al lavoro nella sua casa, perché il testo ainu parla genericamente di menoko, parola proveniente dal giapponese arcaico che significa “donna”. Se in giapponese arcaico indicava una donna di giovane età, una ragazza (女の子), in lingua ainu è usato per indicare una donna in generale, senza informazioni sulla sua età o il suo stato civile. Potrebbero essere le figlie del capo o sue parenti di altro tipo. Di certo non sono le mogli, o almeno non entrambe. Sebbene la poligamia fosse tollerata tra gli ainu, una eventuale seconda moglie aveva una casa a parte e non viveva certo assieme alla moglie principale nella casa principale.

Le cose si fanno molto più interessanti col secondo esempio, dove invece il kamuy in visita non è trattato con reverenza e non è accolto bene. Anche in questo secondo caso, il ritornello è rittunna ed è ripetuto prima di ogni verso, fino quasi alla fine, quando il tono cambia di colpo e il ritornello scompare. Segnalerò in nota il punto esatto in cui il ritornello smette di essere usato.

***

Ainu mosir
Il mondo11 degli umani
Ci=nukan rusuy
Volevo vedere.
Sineantota
Un giorno
Sisirmuka12
Sul fiume Saru
Pet turasi
Diretto alla sorgente
Paye=as aike
Mentre io andavo,
Susu nitay
Una foresta di salici
Hosaociwe
Passava via da una parte,
Kene nitay
Una foresta di ontani
Homakociwe
Passava via dall’altra parte.
Paye=as aine
Io andavo, finché
Poro kotan an
Un grande villaggio trovai.
Kotan noski ta
Al centro del villaggio
Mosir koraci
Come un'isola
Poro cise an
C’era una grande casa.
Kotan kor kur
Del capo villaggio
Cise ne ruwe ne
Era certo la casa.
Kotan kor kur
Del capo villaggio
Poho anakne
Il figlio
Iruyke kor an
Affilava qualcosa;
Matnepoho
Sua figlia
Itese kor an
Tesseva qualcosa.
Kotan kor kur
Il capo villaggio
Ene itaki
Così parlò:
Kamuy apkas na
«C'è una divinità che cammina:
Oripak, sekor
Siate reverenti,» così
Hawean a korka
Aveva parlato, eppure
Ne poho
Quel suo figlio
Ene itaki
Così parlò:
Kamuy anakne
«La divinità
Somo iruyke
Non affila alcunché.»
Ene itaki
Così disse
Ene iki kor
E a quel punto
Turus wakka
Acqua sporca
Sinis ikotor
Verso il bordo del cielo
Esisuye
Gettò con uno scossone.
Ne matnepoho
Quella sua figlia
Pet otta ran wa
Scese al fiume,
Kina teynere
Inzuppò dell'erba13
Sinis ikotor
E verso il bordo del cielo
Esisuye
La gettò con uno scossone.
Kanna kamuy
Del dio del tuono
Paroho ne yakka
Tanto la bocca
Sikihi ne yakka
Quanto gli occhi
Turus wakka
Di acqua sporca
Oma ruwe ne
Si riempirono.
Orowano
Allora
Iruska katpa
Divenni furioso.
Iruska pe ne kusu14
Poiché ero furioso,
Orowano
A quel punto
Ape raoci
Un arcobaleno di fuoco,
Suma raoci
Un arcobaleno di pietre
A=rararanke
Feci precipitare.
Ne kotan
Quel villaggio
A=eraokere
Distrussi completamente:
Ruwe ne
Così è andata.
Sekor an
Così dice
Kamuy yukar ne wa
La storia della divinità.

Come si può vedere, le due storie sono pressoché identiche nella prima parte. Nella seconda troviamo una descrizione del viaggio, mentre mancano gli accenni al mezzo di trasporto che avevamo invece nella prima, ma sono dettagli cosmetici. Per il resto, Kanna Kamuy arriva al villaggio, vede la casa del capo e vi trova gente al lavoro. Il capo villaggio raccomanda agli altri occupanti della casa di mostrare rispetto e comportarsi bene, perché c’è una divinità di passaggio. E qui tutto cambia.

Se nella prima storia l’ordine del capo villaggio è non solo obbedito, ma anticipato, nella seconda è ignorato: i suoi figli fanno l’esatto contrario e offendono il kamuy prima a parole, poi con le azioni. La punizione che ne seguirà è semplicemente inevitabile ed è accompagnata dalla scomparsa del sakehe, ossia il ritornello che in precedenza aveva introdotto ogni verso della canzone. In fondo, non è più tempo di canticchiare pacificamente, ma di distribuire una sana e robusta dose di castigo divino. Che, curiosamente, assume la forma di una pioggia di fuoco e di sassi.

Sul fuoco niente da dire, perché è associato al serpente e al fulmine, almeno nella cultura ainu. I sassi sembrano un poco più strani, perché anche in altre varianti della storia è usato solo il fuoco per distruggere il villaggio, ma questo canto parla di suma, sassi, e noi lo dobbiamo accettare così come è, convincente o meno che sia. Non un grande problema, in ogni caso. Più interessante è semmai il discorso dell’arcobaleno.

L’arcobaleno aveva un ruolo abbastanza curioso nel folklore ainu, reso ancora più curioso dal fatto che una idea molto simile sia stata registrata anche in un altro continente, con cui gli ainu non hanno avuto contatti, almeno non in epoca storica. Cosa potrebbe essere avvenuto nella più lontana preistoria, invece, è un altro paio di maniche e non abbiamo modo di conoscerlo. Sia come sia, per gli ainu non bisognava mai additare l’arcobaleno. Rayoci e=yaka kor, e=tekehe munin: così la mettevano. Se additi l’arcobaleno, la tua mano marcirà. Perché? Ancora non sono riuscito a trovare una spiegazione, ma non escludo che da qualche parte sia stata trascritta da un qualche ricercatore, in una qualche epoca, magari anche solo per sbaglio, e forse un giorno riuscirò anche a scoprire dove. Per adesso, mi terrò il dubbio, sapendo che non sono stato l’unico a non trovare la risposta.

Sotto altri cieli, nella seconda metà dell’Ottocento, James Moony si imbatteva infatti in una superstizione quasi identica, mentre registrava le tradizioni e il folklore superstiti di alcune tribù di nativi nordamericani: i Cherokee in primo luogo, a cui è dedicato il grosso del suo lavoro, ma le informazioni non sono limitate a loro. Come possiamo leggere in Myths of the Cherokee, un testo già citato parlando del mito della figlia del sole, Mooney scrive quanto segue in una nota a un racconto.

“Rainbow - The conception of the rainbow as the beautiful dress of the Thunder god occurs also among the South Sea islanders. In Mangaia it is the girdle of the god Tangaroa, which he loosens and allows to hang down until the end reaches to the earth whenever he wishes to descend (Gill, Myths and Songs of the South Pacific, p. 44). For some unexplained reason the dread of pointing at the rainbow, on penalty of having the finger wither or become misshapen, is found among most of the tribes even to the Pacific coast. The author first heard of it from a Puyallup boy of Puget sound, Washington.”

La prima parte è interessante, ma qui non ci riguarda. Ci riguarda invece la seconda parte. Presso la maggior parte delle tribù, anche sulla costa del Pacifico, esiste il timore di puntare il dito verso l’arcobaleno, un’azione per la quale si rischia di ritrovarsi col dito avvizzito o deformato. La storia a cui si riferisce questa nota è la numero otto nella sezione dei miti cosmogonici del libro già citato: il titolo con cui Mooney l’ha inserita nella raccolta è “The Moon and the Thunders”. Qui possiamo infatti leggere che “One must not point at the rainbow, or one’s finger will swell at the lower joint”: non bisogna puntare il dito verso l’arcobaleno, altrimenti la nocca inferiore di quel dito si gonfierà.

Perché? Mooney non lo sa e noi neppure, ma abbiamo trovato una superstizione simile anche tra gli ainu: per gli ainu la mano marcisce, d’accordo, ma resta il fatto che puntare il dito contro l’arcobaleno porterà conseguenze negative per la mano che si è macchiata di questo crimine. Questo è vero sia per le tribù del Nordamerica, sia per gli ainu di Hokkaidō. Che entrambe le superstizioni siano fondate su una stessa logica o uno stesso tipo di pensiero? Può darsi, ma il problema è che noi non sappiamo che idea abbia dato origine a questo strano tabù. Cosa c’era di tanto terribile nel puntare il dito verso l’arcobaleno, da spaventare sia gli ainu nel nord del Giappone, sia tribù che abitavano nei più diversi ambienti dell’America del Nord? Forse un giorno lo scopriremo, ma quel giorno non è certo oggi.

Torniamo ai nostri kamuy yukar. La terza versione è fondamentalmente una fusione delle due precedenti, come già si diceva. Dapprima Kanna Kamuy visita il villaggio rispettoso e se ne va tutto soddisfatto, poi visita il villaggio irriverente e lo distrugge con una pioggia di fuoco. In alcune versioni è anche tirata in ballo la più celebre coppia di eroi della tradizione ainu: Okikurmi e Samayunkur15. Come da tradizione, Okikurmi è quello che fa la cosa giusta: è il capo del villaggio rispettoso e i suoi ordini sono ascoltati. Samayunkur, invece, è quello che ha buone intenzioni ma fallisce sempre, per un motivo o per l’altro: a lui tocca il ruolo di capo del villaggio irrispettoso, che ordina agli altri di comportarsi bene, ma gli altri non lo ascoltano e si attirano la punizione divina.

Un esempio di questa terza versione fu registrato all’inizio degli anni ‘30 da Kubodera e inserito nella sua raccolta Ainujojishi: Shin’yō, seiden no kenkyū. Donald Philippi lo ha tradotto in inglese (probabilmente dal giapponese) nella sua raccolta Songs of Gods, Songs of Humans, dove lo possiamo trovare alle pagine 149-153 sotto il titolo di “Song of the Thunder God”. Non mi pare il caso di tradurlo di nuovo, dato che una versione in lingua occidentale esiste già ed è facile da recuperare; considerato poi che è una fusione dei due canti precedenti, non aggiungerebbe molto altro a quanto abbiamo già visto. Cambiano alcuni dettagli, d’accordo, ma niente che meriti una nuova traduzione in questa sede, a mio parere. Accontentiamoci di un riassunto.

Kanna Kamuy vuole scendere a visitare il paese umano. Fa un giro piuttosto largo, passando prima dal paese dei repunkur, la gente dell’alto mare, per poi raggiungere il paese degli yaunkur, la gente della terra. Se il secondo termine si riferisce agli ainu, almeno nelle storie tradizionali, il primo è un poco più incerto e indicava forse la popolazione delle altre isole settentrionali, come Sachalin e le Curili, con cui gli ainu del passato avevano rapporti non sempre e non necessariamente amichevoli. Non si sta parlando in ogni caso dei giapponesi, perché i giapponesi sono sisam16. Nel suo viaggio risale il fiume Sisirmuka (il fiume Saru) e ammira il paesaggio, tutto compiaciuto per la sua bellezza.

Arriva al primo villaggio, più o meno a metà del corso del fiume. Il capo villaggio è Okikurmi, il quale si affaccia alla finestra, chiama tutti gli abitanti e ordina loro di essere rispettosi, perché c’è un kamuy di passaggio. Tutti gli obbediscono. Kanna Kamuy è compiaciuto del loro comportamento devoto e se ne va soddisfatto, riprendendo il suo viaggio lungo il fiume.

Arriva al secondo villaggio, molto più a monte. Il capo è Samaiunkur e anche lui si affaccia alla finestra, ordinando agli abitanti di essere rispettosi, ma le cose non vanno bene. Una donna esce di casa per vuotare un secchio di acqua sporca, con parole di disprezzo nei confronti di una divinità che non deve cucinare o lavorare. Una seconda donna esce di casa con una manciata di erba, la immerge in acqua e la scuote in faccia alla divinità, commentando che la presenza di un kamuy non le impedirà di intrecciare tappeti. Il resto si può immaginare.

Kanna Kamuy la prende malissimo. Si arrabbia e fa scaturire una pioggia di scintille dal suo veicolo, accompagnata da un forte rombo. Il villaggio è inghiottito dalle fiamme e incenerito. Tornando verso il cielo, Kanna Kamuy si accorge che ci sono due superstiti: le donne che gli avevano mancato di rispetto. Per castigarle, a una attacca una foglia di pioppo sui genitali, mentre all’altra attacca una foglia di quercia nello stesso posto. Per qualche motivo, la prima donna è quella che ha ricevuto la punizione più grave, mentre la seconda ha ricevuto la punizione meno grave. O così dichiara Kanna Kamuy, quantomeno.

Perché avere una foglia di pioppo attaccata ai genitali dovrebbe essere più grave che avere una foglia di quercia? Buona domanda, ma non saprei dare una risposta adeguata. Gli alberi avevano diversi gradi di importanza nel folklore ainu: alcuni erano sempre buoni, altri sempre cattivi, altri ancora potevano essere entrambe le cose, a seconda dei casi e dell’uso che se ne faceva. La quercia era considerata uno degli alberi più antichi e questo la rendeva sacra, da un certo punto di vista: era comunque un albero di potere. È forse per questo che avere una sua foglia appiccicata sui genitali è considerato da Kanna Kamuy meno negativo che avere una foglia di pioppo? Potrebbe anche essere così, ma è soltanto una mia ipotesi estremamente vaga17.

Foglie a parte, l’episodio nel suo complesso potrebbe essere interpretato come un’allusione a un qualche antico tabù relativo ai temporali, volendo. L’intera storia è di fatto la cronaca di ciò che accade, o che può accadere, durante un temporale. Kanna Kamuy che lascia il suo paese nel cielo per scendere a visitare il mondo umano, in concreto, è quanto accade ogni volta che si verifica un temporale. Il suo veicolo, chiamato sinta, è accompagnato da un rombo, che in questa circostanza non può che essere il tuono, il rittunna che accompagna tutta la storia come ritornello. Nel terzo canto, è anche specificato che le scintille di fuoco scaturiscono dal suo veicolo, accompagnate da un rumore particolarmente forte: il fulmine e il relativo tuono. Queste scintille precipitano sul villaggio e lo consumano in una grande conflagrazione. I sassi che piovono nel secondo canto rimangono ancora un problema, perché sembrano una eruzione vulcanica, ma portiamo pazienza.

Come bisogna comportarsi quando Kanna Kamuy scende a visitare il mondo umano, ossia quando arriva un temporale? Le storie che abbiamo preso in esame ci suggeriscono che fosse necessario interrompere tutte le attività che si stavano svolgendo, o almeno le attività di un certo tipo. Nei primi due canti si tratta di tessitura e affilatura. I personaggi rispettosi sospendono entrambi i lavori; i personaggi irrispettosi, invece, non solo non interrompono il lavoro in corso, ma rivolgono parole ingiuriose ai kamuy e gettano acqua sporca verso il cielo. A prima vista, tutto ciò sembrerebbe davvero indicare che esistesse un tabù di questo tipo, con lavori e gesti che erano vietati durante un temporale.

Sfregare assieme pietra e metallo può provocare scintille ed era un sistema usato spesso per accendere un fuoco, in passato. Un acciarino consisteva proprio in questo, dopotutto: un pezzo di ferro e una superficie dura contro cui grattarlo. Affilare una lama non è proprio identico, ma simile a sufficienza da poter ricordare il processo di accensione del fuoco. Se il fuoco è associato al tuono, è plausibile che potesse esistere un tempo un qualche divieto di svolgere attività che consistevano o potevano ricordare l’accensione di un fuoco, nel momento in cui il portatore del fuoco era a spasso.

Anche un divieto di svolgere attività che potessero sporcare l’acqua sarebbe comprensibile, proprio come è comprensibile un divieto di gettare acqua sporca fuori casa, durante un temporale. Versare o schizzare acqua sporca verso il cielo o verso il suolo, mentre acqua pura scendeva dal cielo al suolo, potrebbe essere stato considerato una specie di sacrilegio, in quanto scimmiottavaano la pioggia naturale e pura, che cadeva dal cielo sulla terra. Gettare acqua sporca verso un kamuy che porta acqua pulita, poi, è indiscutibilmente un gesto offensivo, anche a prescindere da ogni altra considerazione simbolica. Messi assieme, il produrre scintille con l’affilatura di una lama e lo schizzare acqua verso il cielo o il suolo potrebbero essere visti come una parodia del temporale e del lavoro di Kanna Kamuy.

Tutto questo è possibile, oppure è solo una ipotesi campata in aria? Ha certo una sua logica interna, ma non è detto che fosse proprio questa l’idea dietro la storia di Kanna Kamuy che visita il villaggio e si arrabbia con chi gli manca di rispetto. Se consideriamo però che molte storie ainu, che siano kamuy yukar o uwepeker, presentano una qualche forma di morale o almeno consigli su quale sia il modo giusto di comportarsi, secondo i metri della società ainu dell’epoca, è ragionevole pensare che anche questa storia fosse nata con l’intenzione di insegnare e tramandare il corretto atteggiamento da tenere durante un temporale. O almeno è una possibile lettura per questo racconto, un tempo tanto diffuso e popolare.

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NOTE

1 - In modo simile, il verbo yaykar, interpretabile come “fare, costruire (kar) se stessi (yay)”, è usato normalmente col significato di “trasformarsi”.

2 - Nel caso della prima persona plurale, i prefissi sono usati coi verbi transitivi e i suffissi con quelli intransitivi. C’è poi una ulteriore distinzione tra “noi inclusivo” e “noi esclusivo” a giustificare il profluvio di alternative, ma non ci interessa in questa sede.

3 - La differenza tra raoci e rayoci, ossia “arcobaleno”, può essere dialettale, oppure dovuta a una scelta stilistica di chi ha trascritto la parola: può capitare che una “y” intervocalica sia omessa, se considerata eufonica. Batchelor inseriva raochi (usando la sua grafia) nel suo dizionario, traducendola come arcobaleno, ma in generale sembra essere più frequente l’uso della forma rayoci. Il significato non cambia in ogni caso.

4 - E in certe storie poteva fecondare le donne che si esponevano al suo soffio, come accadeva a quelle che abitavano sull’isola delle donne e avevano una certa caratteristica anatomica che le rendeva letali per gli uomini.

5 - Alcune invocazioni funebri raccolte da Kindaichi e Kubodera, ad esempio, si rivolgono ai defunti chiedendo loro protezione e aiuto, perché adesso sono diventati kamuy. In tutte le storie dove un kamuy si innamora di un uomo o di una donna, poi, la prima cosa che cerca di fare è di causare la morte della persona amata, così potranno vivere assieme nell’altro mondo.

6 - E il tuono in lingua ainu è chiamato kamuyhum, ossia “suono (hum) della divinità (kamuy)”. In lingua giapponese, il tuono è kaminari, parola che ha lo stesso significato e la stessa struttura.

7 - Ricordiamo che il drago cinese è sì collegato al tuono e alla tempesta, ma è sopratutto un animale d’acqua, che porta la pioggia e controlla i fiumi.

8 - Fra le tribù nordamericane, ad esempio, sono legione le storie di un animale che, da solo o in collaborazione con altri animali, ruba il fuoco a una figura soprannaturale per portarlo sulla terra e metterlo a disposizione di tutti.

9 - La parola kotan, che significa “villaggio”, ha una valenza simile a quella dell’italiano “paese”: può indicare sia un insediamento di piccole dimensioni, sia una regione molto più vasta, come un’intera nazione. Considerato che la storia si occupa solo di un singolo villaggio, senza dire una parola sul resto, scelgo di interpretare kotan nel suo senso più ristretto e di uso più comune.

10 - Sinta è un tipo di culla ainu, ma lo troviamo anche usato per indicare un veicolo non ben precisato su cui i kamuy potevano viaggiare tra cielo e terra, quando volevano. Nei tentativi recenti di resuscitare la lingua ainu, la parola sinta è stata usata a volte come traduzione di “aereo”.

11 - Qui si utilizza la parola mosir, invece del kotan che avevamo visto nel primo canto. Il significato dei due termini si sovrappone, in certi punti, ma non è identico: mosir può essere usato anche per indicare un villaggio, volendo, ma lo troviamo usato più spesso per riferirsi a realtà di dimensioni maggiori. Mosir può essere un’isola, un territorio o anche un mondo in generale; la contrapposizione tra il kamuy mosir, il paese delle divinità, e lo aynu mosir, il paese degli umani, ha un ruolo importante nella cosmologia ainu e nelle storie raccontate.

12 - Tecnicamente, Sisirmuka non è il nome del fiume Saru reale, ma della sua versione “fantastica” che compare nelle storie raccontate in questa zona di Hokkaidō. Per non complicare troppo le cose, ho usato qui il nome del fiume vero.

13 - Kina è il nome ainu di un’erba dalle foglie larghe, usata anche per tessere e intrecciare tappeti e stuoie. La parola può essere usata anche per indicare il tappeto o la stuoia fatta con questo tipo di erba. Non è chiaro in quale dei due modi la parola kina sia utilizzata in questo caso: potrebbe essere ciò che la ragazza stava tessendo, oppure la materia prima che stava lavorando, a seconda di come funzionasse il processo di lavorazione.

14 - Questo è l’ultimo verso a cominciare col ritornello: nei successivi non lo troviamo più.

15 - O uno qualunque degli altri modi in cui il loro nome è scritto: Okikurumi, Okikirmui, Samayekur, Samayunguru e così via. La forma cambia da una zona all’altra di Hokkaidō, ma i personaggi restano sempre quelli e in linea di massima sono riconoscibili senza troppi problemi. Quando compaiono assieme, hanno spesso un ruolo simile a quello di Prometeo ed Epimeteo, ossia il fratello furbo e il fratello scemo, entrambi soprannaturali e almeno in parte divinità. Quando Samayunkur compare da solo in una storia, invece, di solito è un eroe competente ed efficace, sopratutto tra gli ainu di Sachalin.

16 - La parola rep indica il mare aperto, più o meno quello che in giapponese è chiamato oki (沖), ed è diverso da atuy, il mare nei pressi della costa, dove gli ainu pescavano. La parola ya indica la terra in generale, ma anche le colline e alture simili; la troviamo nel verbo yan, che indica un movimento dal mare verso la costa e che può essere tradotto come “approdare” o variazioni su tema, a seconda del contesto. I giapponesi erano sisam, probabilmente perché erano quelli “davvero (si) vicini (sam)”, anche se questa potrebbe essere solo una etimologia popolare.

17 - Oppure potrebbero essere la versione ainu delle celebri foglie di fico che altre due persone, punite da una divinità a cui avevano disobbedito, avrebbero utilizzato per coprirsi i genitali.