Kenas Unarpe, la zia della piana alberata
Kenas-kor Unarpe è un curioso personaggio del folklore ainu. Una prima curiosità è che troviamo già nel suo nome un certo grado di indecisione, dato che a volte sembra sovrapporsi o confondersi con Kenas Unarpe. Ammesso che siano effettivamente due personaggi diversi: le fonti a nostra disposizione non sono così chiare a riguardo, a cominciare dalle storie raccontate dagli ainu stessi.
Tradurre il nome non è certo difficile. Kenas è una pianura coperta di alberi; a volte può avere il terreno un poco umido e molliccio, soprattutto se attraversata da corsi d’acqua, ma non al livello di una palude vera e propria. Una foresta paludosa sarebbe semmai nitat, ed effettivamente esiste anche una Nitat Unarpe, come vedremo poi. Unarpe significa “zia”, ma può essere usato anche come termine generico per indicare una qualunque donna adulta, senza legami di parentela. Il verbo kor, infine, è il verbo “avere”: all’interno dei nomi, esprime una idea di supervisione e controllo. Kotan-kor Kamuy, per esempio, è il nome di un gufo ed è “la divinità che sorveglia il villaggio”; Kenas-kor Unarpe è dunque la “zia che controlla la piana alberata”. Kenas Unarpe, invece, è solo la “zia della piana alberata”. Questo per quanto riguarda il significato della parola.
Che cosa è e cosa fa questa zia della piana alberata? Kubodera Itsuhiko, nel suo dizionario Ainu-Giapponese, ci fornisce la seguente definizione di kenash-kor-unarpe1 (questa è la grafia utilizzata da lui): “Si chiama così un uccello simile a un grosso gufo2. Questo uccello prepara appositamente cataste di rami secchi in campagna. Se qualche ragazzo si lascia ingannare e li usa per accendere un fuoco, si dice che nel cuore della notte sarà colpito da grida spaventose e sfidato a una tenzone dialettica. Inoltre, si dice che possa anche trasformarsi in un cane bianco. È un uccello malvagio di malaugurio.” Subito sotto, troviamo anche la parola kenash-unarpe, tradotta con un laconico yamauba (山姥) e nessuna spiegazione supplementare.
Kubodera, dunque, sembra considerare Kenas-kor Unarpe e Kenas Unarpe come due cose diverse: la prima creatura è un uccello malefico dotato di poteri magici, mentre la seconda sarebbe l’equivalente ainu di un “mostro” femminile molto noto nel folklore giapponese. La Yamanba o Yamauba, a seconda dell’epoca e del dialetto, era una donna dei monti con la simpatica abitudine di prendere di mira viaggiatori solitari, in genere per divorarli. Era anche una infinità di altre cose, la Yamanba: spesso negativa ma a volte positiva, spesso malvagia ma a volte capace di aiutare, di solito brutta ma a volte attraente, e così via. È una figura estremamente complessa nel folklore giapponese e in lei sembrano combinarsi elementi diversi, che risalgono a tradizioni diverse, forse a epoche diverse: trattarla in modo esauriente andrebbe ben oltre lo spazio a disposizione3. Qui mi limito solo ai suoi tratti che potrebbero accomunarla alla Kenas Unarpe così come compare nelle storie ainu. Era una donna soprannaturale ed era spesso letale: questo può bastare.
Neil Munro accenna brevemente a Kenas Unarpe nel suo Ainu Creed and Cult. Alle pagine 113-114 della edzione del 1996, ci riferisce infatti di uno spirito maligno che abiterebbe le zone paludose e che a volte assumerebbe l’aspetto di Has-inau-uk Kamuy, spirito guardiano dei cacciatori. Quando prendeva di mira un cacciatore, Kenas Unarpe (detta anche Nitat Unarpe) si presentava come una donna con lunghe trecce a coprirle il volto. La sua funzione sarebbe stata quella di ingannare il cacciatore, illudendolo di aver colpito la sua preda, la quale poi fuggiva illesa. Munro prosegue aggiungendo che Kenas Unarpe era un vampiro e succhiava il sangue dalle ferite degli uomini, oppure dai cacciatori che si addormentavano nella foresta. Tutto ciò la fa assomigliare a una piccola Yamanba, con qualche potere simile a quelli attribuiti a Kenas-kor Unarpe. Ma proseguiamo.
Se la suddivisione di Kubodera sembrerebbe chiara e priva di problemi, Munro ci ha complicato un poco le cose, ma il peggio deve ancora arrivare. Prendiamo infatti in considerazione direttamente i racconti ainu, invece di quanto ci dicono i ricercatori. Kayano Shigeru, che era ainu egli stesso e divenne anche deputato nel parlamento giapponese, dedicò una parte della propria vita alla raccolta e alla conservazione di quanto rimaneva della cultura ainu. Una parte di questa sua attività consisteva nel trascrivere il maggior numero possibile di storie raccontate dalle vecchie del suo paese, ossia Nibutani e dintorni, nella zona di Biratori, nella regione linguistica e culturale del fiume Saru. Una di queste storie ha proprio Kenas Unarpe come antagonista.
Nello uwepeker4 tradotto in giapponese da Kayano Shigeru come “Lo scoiattolo e il mostro della pianura” (リスと平原の化け物), quello che in giapponese è tradotto come bakemono, ossia mostro, in lingua ainu è indicato come kenas unarpe. L’aspetto con cui si presenta al protagonista della storia è quello di una donna affascinante, di alta statura, con lunghi capelli neri che le arrivano ai fianchi. Quando il protagonista la uccide, però, Kenas Unarpe assume l’aspetto di un grosso uccello nero, che è la sua vera forma. Siamo così a metà strada tra le due definizioni date da Kubodera, in apparenza: da un lato una donna, Kenas Unarpe, e dall’altro un uccello con poteri di metamorfosi, Kenas-kor Unarpe. Sono effettivamente due figure distinte, oppure sono in realtà una figura unica, che Kubodera ha scisso in due per una qualche sua ragione? La testimonianza di Munro sembra suggerire identità, parlando di una donna dai capelli lunghi e con capacità illusorie.
Prima di guardare più in dettaglio la storia, leggiamo cosa scrive Kayano su Kenas Unarpe nel suo commento finale. “Kenas Unarpe (la vecchia mostruosa che vive nella pianura5), altrimenti detta Nitat Unarpe (la vecchia mostruosa della palude6), si trova nelle pianure o negli acquitrini, ha capelli lunghi e sciolti e fa spesso la sua comparsa nel ruolo del cattivo che si invaghisce di uomini”. Prosegue poi specificando che è solo un mostro immaginario, non un personaggio reale, ma mi sembra un punto chiaro a sufficienza.
Nel folklore degli ainu che vivevano nella zona di Biratori, dunque, Kenas Unarpe era un mostro che infestava le pianure, oppure le aree paludose e acquitrinose; in questo secondo caso, era nota come Nitat Unarpe, ma la sola differenza è lo habitat che le è attribuito nel nome, non la sua caratterizzazione generale. Questo mostro è attratto dagli uomini e usa il suo aspetto di bella donna come esca, per catturarli. Cosa avvenga dopo, ci è spiegato nella storia: una volta catturato un uomo, lo ucciderà per portare via la sua anima. Perché lo fa? Ne parleremo poi. Questa descrizione, però, l’avvicina al personaggio presentato da Munro.
Kubodera non specifica la provenienza geografica delle sue informazioni, né per quanto riguarda Kenas-kor Unarpe, né per quanto riguarda Kenas Unarpe. Sarebbe stato utile saperlo, dato che il folklore ainu è tutt’altro che uniforme, proprio come tutt’altro che uniforme era la cultura ainu in generale. Gli ainu non hanno mai avuto una qualche forma di governo centrale, almeno in epoca storica; così come la loro lingua presentava numerosi dialetti, con differenze che esistevano a volte anche da un villaggio all’altro, lo stesso accadeva per le loro storie, le credenze e le tradizioni in generale. Gli elementi di base erano comuni, ma ogni località li declinava a modo proprio7. Kenas Unarpe sembra proprio essere una dimostrazione di queste mille differenze locali.
Esaminiamo in dettaglio la storia registrata da Kayano Shigeru nell’area di Biratori. La narratrice era un’anziana di nome Kurokawa Teshime e la storia è stata registrata il 4 febbraio del quarantesimo anno dell’era Shōwa (1965). Il protagonista è un giovane che vive lungo lo Ishikawa. Un giorno, durante una battuta di caccia, trova un cucciolo di orso, in apparenza senza genitori. Decide di portarlo con sé al villaggio. Il padre lo rimprovera, perché ha fatto una cosa sbagliata8, ma il giovane persiste e prepara ugualmente una gabbia, in cui alleverà il cucciolo. Come è facile immaginare, le cose andranno male. Il cucciolo cresce rapidamente, troppo rapidamente, e il giovane si sente costantemente osservato. Ancora, però, tutto sembra a posto.
Una notte sente una voce umana nei pressi della gabbia. Sbirciando dalla finestra, al chiaro di luna, il giovane vede che c’è una donna misteriosa, dai capelli lunghi fino ai fianchi. Sta parlando con l’orso, ringraziandolo di qualcosa. Quando poi l’orso si trasforma in uno scoiattolo, esce dalla gabbia e corre attorno alla donna, il giovane capisce che quella è Kenas Unarpe. Come se non bastasse, la donna dà un ordine molto chiaro allo scoiattolo: tu ucciderai il giovane e io mi prenderò la sua anima, per portarla con me nel paese dei kamuy e farne il mio sposo.
Il ragazzo non approva. Afferra l’arco e una freccia avvelenata, incocca e scaglia, colpendo la donna. Quando esce a controllare, al posto del cadavere della donna c’è un grosso uccello nero, morto, mentre lo scoiattolo è di nuovo in gabbia e ha l’aspetto di un orso. Non sapendo che altro fare, per il momento il giovane se ne torna a letto. Il mattino seguente, il padre trova il cadavere di uccello. Il giovane gli racconta ogni cosa e a quel punto sono radunati gli anziani del villaggio, per discutere di cosa fare con l’orso che non è un orso. Non si arriva ad alcuna conclusione, così il giovane decide di andare a caccia in montagna, per cambiare aria e rinfrescarsi le idee.
Risalendo il fiume Yupet, si imbatte in un capanno da caccia, al cui interno trova soltanto una ragazza e la testa di un orso. È una testa enorme, come non ne aveva mai viste. I due giovani chiacchierano, la ragazza gli spiega che è lì assieme ai suoi due fratelli; dopo aver catturato quell’orso enorme, sono scesi a chiamare il padre, per organizzare una cerimonia appropriata di congedo. Mangiano, poi il giovane comincia a raccontare storie per intrattenere lo spirito dell’orso, in attesa della cerimonia vera e propria. Questo prosegue fino a notte inoltrata, quando una rediviva Kenas Unarpe lo raggiunge: il giovane afferra un tizzone dal focolare e la bastona a morte. Di nuovo il cadavere si trasforma in un grosso uccello nero.
Trascinata la carcassa fuori dal capanno, il giovane si ferma davanti a un albero di sambuco, rivolge una preghiera al kamuy che lo abita, poi ricava una lancia da uno dei suoi rami e la usa per infilzare l’uccello nero. Pregando che non torni più indietro, il giovane rientra nel capanno, racconta altre storie all’orso e alla fine si addormenta. In sogno, vede entrare un giovane di aspetto divino, che si presenta come il kamuy del sambuco che aveva usato in precedenza e comincia a spiegargli tutto quanto, come accade molto spesso nelle storie ainu. Siamo così informati che l’uccello nero era il vero aspetto di Kenas Unarpe, la quale si era innamorata del giovane e lo voleva uccidere, per poterne potare l’anima nella sua terra d’origine e farne il proprio sposo. Lo scoiattolo era un altro mostro suo alleato, che la stava aiutando nel suo progetto.
Quando il giovane aveva ucciso Kenas Unarpe per la prima volta, non era stato sufficiente per liberarsi di lei, ma stavolta è morta davvero, perché lui, il dio del sambuco, lo ha aiutato a ucciderla. Adesso si attende dunque una ricompensa per il servizio svolto, ossia molti inau e sake in abbondanza. Detto questo, il dio del sambuco esce dalla porta, il sogno si conclude e il giovane si risveglia nel capanno di caccia. Girandosi dall’altra parte, si riaddormenta e arriva un secondo sogno: stavolta gli appare l’orso a cui ha recitato storie per buona parte della sera. Questo gli spiega di avere ricevuto più volte inau e sake dal padre del giovane, in passato: di conseguenza, per gratitudine aveva tenuto d’occhio la loro famiglia, proteggendoli di tanto in tanto.
All’arrivo di Kenas Unarpe, era intervenuto di persona, facendosi uccidere dalla freccia dei due fratelli cacciatori, per poter attendere in quel capanno il suo arrivo. Come già il dio del sambuco, anche l’orso aveva collaborato di nascosto col giovane, aiutandolo nel suo confronto col mostro che lo perseguitava. Adesso che la minaccia era svanita definitivamente, si aspettava di essere ricambiato con inau e sake, come al solito. Aggiunge poi alcune raccomandazioni per sistemare per il meglio la sua vita, ma queste le possiamo tralasciare. Per quanto ci riguarda, infatti, la storia si conclude qui. Ci sarà poi il solito lieto fine, con matrimonio, tanti figli, abbondanza e tutti vissero felici e contenti, ma Kenas Unarpe non comparirà più, per cui lo possiamo trascurare.
Cosa ci insegna dunque questa storia? Contiene diversi elementi molto interessanti del folklore ainu, ma pensiamo prima di tutto a Kenas Unarpe, perché è di questo personaggio che ci stiamo occupando. La storia ci conferma che il suo aspetto al naturale è quello di un uccello di grandi dimensioni, proprio come Kubodera ci diceva a proposito di Kenas-kor Unarpe; l’aspetto con cui si presenta alle sue vittime, però, è quella di una donna attraente, dai lunghi capelli sciolti, dettaglio che l’avvicina maggiormente alla Kenas Unarpe indicata da Kubodera come una versione ainu della Yamanba giapponese. In generale, è anche vicina al personaggio di Munro. Sembra dunque che gli ainu della zona di Biratori mescolassero davvero queste due figure, ammesso che le conoscessero entrambe e che fossero due figure separate.
Kubodera distingue Kenas-kor Unarpe e Kenas Unarpe, d’accordo, ma non è detto che fosse così per tutti gli ainu. Come abbiamo già detto, quella ainu non era una cultura uniforme, ma presentava differenze anche notevoli da una comunità all’altra, almeno nei dettagli. Kenas Unarpe, che a volte era chiamata anche Nitat Unarpe, per gli ainu della zona di Biratori era un uccello nero, magico, che si trasformava in donna per attirare i giovani. Anche la Kenas-kor Unarpe descritta da Kubodera manifestava una predilezione per i giovani, ma interagiva con loro in maniera molto diversa: li sfidava a una sorta di contesa dialettica.
Questo può apparire parecchio strano, non ne discuto, ma è meno surreale di quanto potremmo pensare noi. Il tipo di contesa dialettica a cui si riferisce Kubodera era chiamata caranke ed era il sistema preferito per risolvere i conflitti tra gli ainu, sia all’interno di un villaggio sia tra villaggi vicini. La natura verbale di questa sfida è chiara fin dalla parola stessa, perché la prima parte di caranke è car, che significa “bocca”. Si parlava. Ci si radunava e i contendenti parlavano l’uno contro l’altro, ininterrottamente, fino a che una delle due parti non rimaneva a corto di parole: a quel punto era sconfitta e la sua mozione bocciata, di qualunque cosa si trattasse. Esempi di questa sfida compaiono anche in alcune storie ainu raccolte da Kayano Shigeru.
L’eloquenza era una dote molto valutata tra gli ainu, anche perché molti dei loro rituali religiosi non avevano una forma fissa e le formule da recitare erano improvvisate, a seconda del contesto. Tre doti considerate di grande importanza nella società ainu erano siretok, pawetok e rametok, ossia bellezza, eloquenza e coraggio: erano considerate necessarie tutte e tre per poter essere scelti come capi del proprio villaggio. Erano le caratteristiche del loro uomo ideale, dopotutto. Che un mostro decidesse di sfidare un umano in un duello di eloquenza, dunque, non presentava alcunché di strano per gli ainu. Anche diverse tribù nordamericane sarebbero state d’accordo.
Un altro elemento interessante è il tipo di uccello che dovrebbe corrispondere alla vera forma di Kenas Unarpe. Nella storia registrata presso Biratori si parla solo di un grosso uccello nero, senza specificare altro. Kubodera, invece, parlando di Kenas-kor Unarpe ci dice che si tratta di un uccello simile ad ahunrasanpe, parola ainu che indica un tipo di gufo cornuto. Un gufo che, peraltro, non godeva di una buona pubblicità nel folklore ainu. Se alcune specie di gufo erano molto rispettate e in almeno un caso erano insignite del titolo di kotan-kor kamuy, ossia divinità che protegge il villaggio, il gufo cornuto era invece considerato un pessimo cliente, la cui comparsa era di cattivo auspicio. Una storia molto particolare ci racconta anche di come questo gufo un tempo avrebbe causato una carestia tra gli ainu, con quello che ai suoi occhi era solo uno “scherzo innocente”. Che sia stato scelto proprio questo animale come base per il personaggio di Kenas-kor Unarpe non è dunque sorprendente. Il generico uccello nero, descritto nella zona di Biratori, potrebbe invece essere più o meno qualunque tipo di volatile, per quanto ne sappiamo noi: non avrebbe dunque molto senso stare a speculare sulla sua possibile identità.
Nella storia registrata da Kayano Shigeru, Kenas Unarpe è uccisa definitivamente soltanto quando è colpita con un legno particolare: il sambuco (sokoni). Kubodera non ci ha indicato sistemi per uccidere questi personaggi soprannaturali, ma il ricorso a un particolare tipo di erba o di legno è normale e in linea col folklore ainu. Nei kamuy yukar trascritti da Chiri Yukie nello Ainu Shin’yōshū, per esempio, l’eroe culturale Okikirmui usa spesso arco e frecce di artemisia, per colpire e sconfiggere i kamuy che minacciano l’ordine sociale. Alcune piante erano considerate sacre più o meno dappertutto tra gli ainu, mentre altre variavano a seconda della regione. Nel territorio di Biratori, come possiamo leggere qui, il sambuco godeva di parecchio prestigio: era considerato l’albero più antico e in quanto tale era capace di sconfiggere ogni spirito malvagio. È la storia stessa ad affermalo, dopotutto, e chi siamo noi per contraddirla?
Nel suo Ainu Creed and Cult, anche Neil Munro ci conferma che il legno di sambuco era utilizzato spesso per realizzare sia inau, sia altri oggetti a cui era attribuito il potere di scacciare gli spiriti maligni. Inau di questo tipo erano chiamati wen inau, non perché fossero malvagi (wen), ma perché malvagi erano i kamuy per i quali erano intagliati. Anche Munro sottolinea l’antichità attribuita a questo tipo di legno, che sarebbe stato chiamato anche Mosir kiyanne kamuy in certe invocazioni, ossia divinità (kamuy) più vecchia (kiyanne) al mondo (mosir): come ci è specificato anche nella storia riferita da Kayano Shigeru, dunque, la sua efficacia contro gli spiriti malvagi deriverebbe proprio dalla sua antichità. E forse dall’odore, potremmo aggiungere: odori intensi scacciavano il male, secondo gli ainu, ed era normale usare oggetti fetidi come “repellenti soprannaturali”9.
Un particolare interessante è che, all’interno del racconto, il kamuy del sambuco chiami “kami” (nella traduzione giapponese) la lancia fabbricata e utilizzata dal protagonista umano. Usando un ramo dell’albero, il ragazzo non avrebbe fabbricato una semplice arma o anche solo uno inau: avrebbe fabbricato un kamuy vero e proprio. È curioso, certo, ma non è né un errore, né qualcosa di strano. Il già citato Neil Murno, all’interno del suo parimenti già citato Ainu Creed and Cult, nel quarto capitolo parla anche della possibilità di fabbricare oggetti-kamuy, cioè oggetti che racchiudono una quantità di energia elevata a sufficienza da diventare “piccoli” kamuy essi stessi. Sono oggetti collegati a un kamuy particolare, da cui attingono le forze, e sono in genere fabbricati e utilizzati per scopi ben specifici.
Questi oggetti erano colloquialmente chiamati tekekar kamuy, ossia “kamuy fatti a mano”, ma il loro nome corretto sarebbe aynu monka enupur kamuy, secondo Munro10. Sia come sia, la versione che ci interessa era chiamata sutu inau kamuy ed era fabbricata per “combattere” contro particolari spiriti maligni, che causavano disgrazie agli ainu: erano soprattutto malattie e variazioni sul tema11. All’interno della storia, il protagonista ricorre al legno di sambuco per fabbricarsi un’arma con cui uccidere Kenas Unarpe. Il kamuy legato a quell’albero, che gli apparirà poi in sogno, si riferirà all’oggetto definendolo “kami”, nella traduzione giapponese. Vista la sua efficacia nel combattere Kenas Unarpe, mi sembra chiaro che siamo di fronte a quello che Munro indicava come sutu inau kamuy. Tutto normale, dato che Munro ricavò il grosso delle proprie informazioni proprio dagli ainu della regione di Saru, dove si trovava anche Biratori.
Kenas Unarpe è dunque uccisa con un talismano fatto di legno di sambuco e poi il suo cadavere è gettato via. Questo è sufficiente ad assicurarsi che rimanga morta. In altre storie, invece, troviamo che il protagonista deve ricorrere a riti più elaborati per far restare morto il cattivo di turno. Pratica abbastanza diffusa, presente tanto nei racconti degli ainu di Hokkaidō quanto in quelli degli ainu di Sachalin, era ad esempio la distruzione e dispersione del corpo usato dal kamuy. Una volta ucciso il cattivo di turno, il protagonista ne faceva a pezzi il cadavere, per poi sparpagliarlo ai quattro venti. A volte, oltre a essere sminuzzato, era anche bruciato. Tutto questo sarebbe servito a impedire che potesse tornare in una qualche forma.
Una idea analoga potrebbe emergere anche in alcuni episodi della mitologia giapponese, come la curiosa scena di Susanoo che, dopo aver ucciso Yamata no Orochi, comincia a sminuzzarne con cura il cadavere. Se da un lato tutto ciò è funzionale al ritrovamento di Ame no Murakumo no Tsurugi, la spada divina che diventerà uno dei tre tesori imperiali giapponesi, dall’altra ci lascia un poco perplessi, perché nessuna versione ci fornisce una qualche spiegazione sulla scelta di Susanoo di infierire così sul corpo del nemico già morto. Interpretata alla luce di questa credenza ainu, in base alla quale il cadavere di un kamuy malvagio doveva essere fatto a pezzi e disperso, tutto acquisirebbe un suo senso.
Nelle storie registrate da Kayano Shigeru nella zona di Biratori, però, si ricorre a un altro tipo di punizione per i kamuy malvagi: il loro cadavere è gettato via, abbandonato nel bosco, e non riceve alcun tipo di rituale funebre. Anche quando si tratta di un animale come l’orso, che ha una grande importanza sia alimentare che spirituale nella vita degli ainu, il suo cadavere è abbandonato. Dovrà decomporsi per terra, nel sottobosco, senza diventare cibo. La punizione inflitta a Kenas Unarpe non è poi così diversa, anche se il suo corpo di uccello nero non costituiva probabilmente una preda appetitosa in ogni caso, a differenza di un orso. Se le storie specificano che abbandonare il cadavere è una punizione, non ci spiegano però in quale modo dovrebbe essere una punizione, ma non è poi così difficile da ricavare.
Per gli ainu, così come per molti altri popoli, la discriminante principale per accedere al paese dei morti era l’aver ricevuto una corretta sepoltura. Se la tua morte era accompagnata da tutti i riti funebri richiesti, allora potevi procedere senza problemi verso l’aldilà. Senza riti funebri, però, le porte dell’altro mondo restavano chiuse per te. Fin qui, tutto a posto: è una idea comune a molti altri popoli, come dicevamo, anche in Europa. Gettare via il corpo di un kamuy malvagio, come se fosse immondizia, significa negargli i riti che lo dovevano accompagnare verso l’altro mondo e questo sarebbe di certo una punizione. C’è poi un’aggravante.
Il corpo fisico di un kamuy è l’abito che indossa per scendere nel mondo umano e interagire con le persone. Questo corpo fisico ha di solito l’aspetto di un qualche animale o di un vegetale, a seconda del tipo di kamuy. Esistono anche casi a parte, come i kamuy del fuoco, dell’acqua, del sole, della luna e così via, che non assumono certo l’aspetto di un animale, ma questo è un altro discorso. Il punto è che il corpo con cui un kamuy si manifesta nel mondo umano non è il suo vero aspetto, ma solo uno strumento che gli permette di interagire con noi: senza quel corpo, sarebbe invisibile. Nel loro mondo d’origine, il paese dei kamuy, i kamuy sono in tutto e per tutto identici agli esseri umani, sia come aspetto fisico che come stile di vita. Identici agli ainu, quantomeno, dato che la società dei kamuy era modellate sulla società ainu.
Quando un uomo muore, l’essenza di quell’uomo, il suo ramat, abbandona il corpo fisico e, dopo aver ricevuto i corretti rituali funebri, procede verso l’altro mondo. Questo altro mondo è il paese degli antenati, sinrit, che spesso coincide anche col paese dei kamuy. Quando un kamuy è ucciso, come succede regolarmente nelle battute di caccia, il suo corpo fisico rimane agli ainu, i quali lo ricambiano con offerte di inau e sake, più altri atti rituali, che funzionano come riti funebri e accompagnano l’essenza del kamuy nel suo viaggio di ritorno verso il paese d’origine. Questo è quanto avviene normalmente.
Nel caso di un kamuy malvagio, però, non solo gli ainu non gli offrono inau e sake, né eseguono altri riti funebri per lui; come ulteriore gesto di disprezzo, il suo corpo è rifiutato. Che sia fatto a pezzi e disperso ai quattro venti, oppure lasciato a marcire in mezzo al bosco, il risultato è lo stesso, proprio come il messaggio di base è lo stesso: noi non ti vogliamo, noi rifiutiamo i tuoi doni e non ti accompagneremo nel tuo viaggio di ritorno. Negando i riti funebri al kamuy malvagio, gli ainu gli negano la possibilità stessa di un ritorno: dovrà così restare imprigionato nel suo corpo e patire in prima persona tutto ciò che patirà il corpo. In un kamuy yukar, l’eroe Okikirmui punisce una volpe malvagia seppellendo la sua testa nel gabinetto: non proprio un bel posto dove essere imprigionati a tempo indeterminato, direi, soprattutto perché gli odori intensi (specie se sgradevoli) avevano il potere di scacciare i kamuy, che li detestavano.
Kenas Unarpe è dunque punita con l’abbandono del suo cadavere. Perché si sia meritata questo tipo di punizione è molto chiaro: ha cercato di uccidere un ragazzo, per portare via la sua anima. E qui ci troviamo di fronte a un elemento che accomuna tutte le versioni di Kenas Unarpe viste fin qui: la sua attrazione per i ragazzi. Kubodera, parlando di Kenas-kor Unarpe, ci dice che i suoi bersagli erano i giovani, anche se non specifica quale sorte li attendesse in caso di sconfitta nella contesa dialettica. Nel caso di Kenas Unarpe, poi, la sua laconica traduzione con “Yamanba” è sufficiente a raccontarci molto sul conto di quella creatura. Nel folklore giapponese, la Yamanba era una donna dei monti, come dice il nome stesso: una creatura selvatica, in genere rappresentata come molto alta e coi capelli molto lunghi, che in numerose fiabe si scaglia contro gli uomini che hanno la disgrazia di imbattersi in lei. La Kenas Unarpe della storia di Kayano Shigeru, infine, dichiara esplicitamente di voler prendere l’anima del ragazzo per farne il proprio sposo nell’aldilà.
Il tema del matrimonio nella morte, o della morte come matrimonio, compare spesso nelle storie ainu. Alla base, troviamo una relazione tra due piani diversi: kamuy e umano, in genere. Di solito, è il kamuy a prendere di mira un essere umano di cui si è innamorato o da cui è attratto: un kamuy maschio punterà una ragazza umana, mentre un kamuy femmina punterà un ragazzo umano. In ogni caso, lo sviluppo è lo stesso. Il kamuy cercherà di isolare la sua preda dal resto della società, anche a costo di uccidere chi le si avvicina troppo; alla fine, causerà la morte dell’essere umano, perché è solo nell’aldilà che la loro relazione si potrà compiere. Nell’aldilà o nel paese dei kamuy, ammesso che esista davvero una differenza tra i due luoghi.
È proprio quanto accade nella storia registrata da Kayano Shigeru. Kenas Unarpe si invaghisce di un ragazzo e decide di farlo morire, per portare la sua anima nel paese dei kamuy, dove potrà diventare suo marito, o almeno il suo paredro. È un motivo che ritroviamo in molte altre storie, tra quelle registrate nella zona di Biratori, e tutte sono accompagnate da una morale: quella relazione deve essere impedita, perché innaturale. Umani con umani, kamuy con kamuy: combinazioni di altro genere portano solo a disastri. Anche nel suo commento alla fine della storia, come abbiamo visto in precedenza, Kayano ci conferma che una caratteristica tipica di Kenas Unarpe è quella di infatuarsi di un qualche ragazzo. Sembra dunque incarnare una sorta di femme fatale, almeno in questa zona, anche se il suo fascino è soltanto una illusione.
Sempre in questa storia, la vediamo in azione accompagnata da una sorta di aiutante magico: uno scoiattolo, mutaforme proprio come lei. Non sembra che questo animale sia abitualmente in società con Kenas Unarpe, ma una loro collaborazione non appare comunque troppo strana, almeno agli occhi di un ainu. Sempre nella zona di Biratori, come minimo, lo scoiattolo non godeva di una fama molto positiva e compariva nelle storie in ruoli perlopiù negativi. Già il nome che possiede in questa zona, tusunike, non promette bene: tusu indica poteri sciamanici e in Hokkaidō accompagna spesso qualche manifestazione magica, non necessariamente positiva, almeno nelle storie12.
Lo stesso Kayano Shigeru, commentando il racconto, ci riferisce una superstizione che era diffusa ai tempi della sua infanzia: se uno scoiattolo ti orina sulla testa, ti porterà sfortuna. Per questo tutti (o almeno lui e gli altri bambini) stavano bene attenti quando passavano sotto i rami degli alberi, per controllare che lì sopra non ci fosse uno scoiattolo pronto a “sparare”. Purtroppo non ci fornisce altri dettagli su questa curiosa superstizione e preferisco non azzardare ipotesi sulla sua origine. Sia come sia, gli scoiattolo godevano di una brutta fama nel folklore ainu, almeno in alcune zone del loro territorio: niente di così strano se uno di loro decide di collaborare con un’altra figura negativa, all’interno di una qualche storia.
Nel complesso, dunque, se Kubodera distingueva una Kenas-kor Unarpe e una Kenas Unarpe, la prima descritta come un uccello mutaforme che prendeva di mira i ragazzi, la seconda come una versione ainu della Yamanba giapponese, ossia una donna soprannaturale che non si faceva alcun problema a divorare umani di passaggio, queste due figure erano unificate in una sola Kenas Unarpe nel folklore degli ainu originari della zona di Biratori. Per loro, Kenas Unarpe era un uccello capace di cambiare forma, che si trasformava in una donna attraente per andare a caccia di ragazzi, da uccidere e portare nell’altro mondo. Queste sono le testimonianze dirette forniteci da uno studente di folklore ainu, nato e vissuto in Hokkaidō, e da un ainu che aveva dedicato la seconda parte della propria vita alla raccolta e alla conservazione della cultura del suo popolo.
Quale di queste forme era la più antica? Kenas Unarpe era nata come uccello capace di trasformarsi in donna, per poi scindersi in due figure separate, un uccello mutaforme e una donna soprannaturale? Oppure sono nate distinte e si sono fuse col passare del tempo? Se la prima ipotesi sembra più probabile, alla luce della quasi identità dei nomi, i dati disponibili non ci permettono di affermarlo con assoluta certezza. Resta poi quel dettaglio curioso della trasformazione in cane bianco, che Kubodera attribuisce a Kenas-kor Unarpe, ma di cui non abbiamo trovato traccia in una qualche storia. Se era in origine una specie di donna-uccello, figura non particolarmente insolita nel folklore mondiale13, come si inserisce la sua capacità di diventare un cane? Domande destinate forse a rimanere senza risposta, a meno che ulteriori informazioni non siano nascoste in qualche appunto di un ricercatore, oppure in una storia ainu dispersa in chissà quale raccolta.
NOTE
1 - Kubodera traduce in giapponese il suo nome così: 木原の小母. Precede la breve spiegazione che io riporto.
2 - Come gufo, Kubodera usa la parola ainu ahunrasanpe, che di solito si riferisce al gufo cornuto. Ad accompagnarla c’è la parola giapponese mimizuku, a conferma che si sta parlando proprio di quel gufo le cui piume della testa sembrano formare un buffo paio di orecchie o di corna, a seconda dei punti di vista.
3 - A modo suo, è piuttosto simile alla Baba Yaga russa, specie nella sua ambivalenza e nella sua identità come donna dei confini, con un piede nel paese dei morti e uno in quello dei vivi. È inutile dire che, specie in epoche recenti, la figura della Yamanba è stata riciclata per sostenere ideologie di ogni tipo, dal taglio più o meno femminista.
4 - Uno uwepeker era fondamentalmente un tipo di fiaba, di solito raccontata in prima persona.
5 - In giapponese è 平原にすむ化け物婆: così Kayano Shigeru traduce il nome ainu Kenas Unarpe.
6 - In giapponese, 湿地の化け物婆.
7 - A titolo di esempio, se tutti gli ainu condividevano la superstizione secondo cui l’anima poteva uscire per un poco dal corpo in caso di sorpresa, i dettagli potevano variare da una zona all’altra. Nella regione di Horobetsu (il nome ainu è Poropet), un ainu manifestava la propria sorpresa tappandosi solo il naso, per trattenere la propria anima; a Biratori e dintorni, invece, si copriva naso e bocca con entrambe le mani, sempre per la stessa ragione, in un gesto non molto diverso dal cinematografico «Oh mio Dio!» usato anche in Occidente.
8 - Unu sat pewrep somo aresu p ne: questo era un precetto degli ainu, praticamente un proverbio. Un cucciolo (di orso) senza madre è qualcosa da non allevare. Se catturare e allevare nella propria casa un cucciolo di orso era una pratica normale, alla base della cerimonia dello Iyomante, era consentito scegliere soltanto cuccioli la cui madre era stata uccisa, di solito dallo stesso cacciatore che poi avrebbe allevato il cucciolo in casa. Scegliere un cucciolo che vagava da solo, senza sapere dove fosse la madre o cosa le fosse accaduto, era un’azione sbagliata, almeno secondo la morale ainu.
9 - In un’altra storia registrata da Kayano Shigeru, per esempio, troviamo un gruppetto di ainu che va in cerca di vecchie mutande usate e non lavate, perché considerate un toccasana per liberarsi da un certo spirito malvagio.
10 - Altri nomi, assieme a una trattazione più estesa di questi inau e variazioni sul tema, la troviamo in uno studio di Kubodera intitolato “沙流アイヌのイナウに就いて”.
11 - La parola sutu, che possiamo trovare anche come situ, indicava una specie di bastone e in effetti la struttura base del sutu inau kamuy era un bastone, modificato a seconda delle necessità. Chiri Mashiho ipotizzava che fosse stato sviluppato a partire da una normale arma, diventandone una versione per nemici soprannaturali.
12 - Il discorso era diverso per gli ainu di Sachalin, dove gli sciamani, tusuku, avevano più spesso ruoli positivi e in diverse storie comparivano proprio come gli eroi chiamati a combattere il mostro di turno. Fra gli ainu di Hokkaidō, almeno in epoca recente, le attività sciamaniche erano in apparenza dominio esclusivo delle donne e guardate a volte con un poco di sospetto dagli uomini.
13 - Dobbiamo ricordare le sirene della classicità greca, uccelli con la testa di donna che attiravano i marinai col loro canto, per divorarne i cadaveri quando le navi si erano fracassate sugli scogli? E una presunta “Dea uccello” era ben nota anche nel neolitico europeo e mediterraneo, almeno a giudicare dai reperti sopravvissuti. Collegata in apparenza al ciclo di morte e rinascita, stilizzata spesso sui monumenti funebri, dove poteva essere ridotta a una semplice faccia da civetta, poteva forse essere una remota parente europea della Kenas Unarpe ainu?