Adriano - racconti e altro

La leggenda della Morte

Capitolo IV

La morte simulata

XXXII – Non è bene simulare la morte1.

Un tempo fra gli studenti anziani nel collegio di Tréguier ce n’erano alcuni che potevano arrivare anche a ventidue o persino venticinque anni di età. Si trattava di giovani campagnoli, a cui era stato concesso di cominciare gli studi solamente sul tardi. Anche se erano destinati a una vita da preti, si dedicavano spesso a burle che avevano un forte sapore di zotico.

Un giorno giunse al piccolo seminario un ragazzino di aspetto gracile, il cui spirito non era molto più robusto del corpo. Come si dice dalle nostre parti, era briz-zod, ossia un po’ sempliciotto. I suoi genitori avevano pensato che sarebbe diventato un buon prete proprio in virtù della sua semplicità e si erano dissanguati dalle quattro vene per mandarlo in collegio.

Quel caro piccoletto non tardò a diventare la vittima designata di tutti i suoi compagni. Non c’era scherzo cattivo che non fosse rifilato a lui.

In quel periodo – ma non so se funzioni ancora così – gli studenti anziani avevano stanze in collegio che occupavano solo in due o tre. Per questo motivo le chiamavano camerette2.

Il nostro “innocente” aveva come compagni di stanza Jean Coz, di Pédernek, e Charles Glaouier, di Prat.

Una sera in cui Anton L’Hégaret - così si chiamava il briz-zod – si era attardato a pregare nella cappella, Charles Glaouier disse a Jean Coz: «Se ti va, ci faremo una bella risata ai danni dell’idiota».

«In che modo?»

«Disfa le tue lenzuola. Poi le appenderemo una alla testa e una ai piedi del mio letto, in modo da formare una “cappella bianca”. Io mi coricherò e quando entrerà L’Hégaret, tu gli annuncerai con le lacrime agli occhi che io sono morto. Tu sarai stanco per avermi vegliato fino a quel momento e lo inviterai a darti il cambio. Sai com’è docile, non ci sarà bisogno di supplicarlo. Uscendo, avrai cura di lasciare la porta socchiusa. Dirai ai colleghi delle camere vicine di sistemarsi assieme a te nel corridoio. Vi prometto una scena esilarante. Se dopo una notte come questa L’Hégaret accetterà di nuovo di vegliare un morto, giuro che mi mangerò le scarpe.»

«Bravo!» gridò Jean Coz. «Soltanto tu puoi avere una fantasia così straordinaria!»

Ecco che si mettono all’opera.

In un batter d’occhi, le lenzuola sono attaccate al soffitto. Una salvietta è disposta sul comodino. Il piatto su cui gli studenti hanno l’abitudine di mettere la propria saponetta è utilizzato come piattino per l’acqua benedetta. Si accendono ai lati alcuni mozziconi di candele. In breve tempo, tutto l’allestimento funebre è completato e sul letto Charles Glaouier, rigido, le mani giunte e gli occhi semichiusi, simula a meraviglia un cadavere.

Quando Anton L’Hégaret entrò, non fu solo un poco sorpreso di vedere Jean Coz in ginocchio in mezzo alla camera a recitare il De profundis.

«Che cos’è successo, adesso?» domandò.

«È successo che il nostro povero amico Charles ha reso l’anima a Dio,» rispose Jean Coz in un tono basso e lugubre.

«Charles Glaouier! Ma era così in forma fino a un momento fa.»

«La morte può cogliere così all’improvviso. Sono due ore che lo veglio. L’ho dovuto preparare, da solo. Sono distrutto dalle emozioni e dalla fatica. Tu sei, come me, un suo compagno di stanza. Ti sarei molto grato se prendessi il mio posto accanto alle sue spoglie mortali fino a che non verrò a darti il cambio, dopo essermi riposato un poco.»

«Vai, vai pure a riposarti,» mormorò “l’innocente”.

E si inginocchiò sul pavimento di mattoni, nel punto che Jean Coz aveva appena lasciato. Togliendosi di tasca il suo libro d’ore, cominciò a recitare tutte le preghiere utili per quelle circostanze. Di tanto in tanto si interrompeva per smoccolare una candela, per gettare un poco di acqua cosiddetta benedetta sul cadavere, ma anche per osservare timidamente il compagno che Dio aveva richiamato a sé. Perché quella era forse la prima volta che Anton il semplice si trovava faccia a faccia con un defunto.

Era così preoccupato di svolgere adeguatamente il suo dovere alla veglia funebre che non si accorse neppure dei bisbigli a pochi passi da lui, che venivano dallo spiraglio della porta.

Tutta la banda di studenti le cui stanze si trovavano lungo quel corridoio era là, gli occhi in agguato; non attendevano che la scena grottesca promessa da Jean Coz a nome di Charles Glaouier per farsi una bella risata.

Attesero a lungo.

Le ore notturne suonarono l’una dopo l’altra.

Riecheggiò la mezzanotte, quando giunse anche il suo turno.

Una impazienza mista a una certa paura cominciò a impadronirsi di tutti.

Uno degli studenti disse a mezza voce: «Glaouier non si muove proprio. Non sarà che adesso è morto per davvero!...»

Fu il segnale per un fuggifuggi generale. Rimasero soltanto i più risoluti.

«Entriamo! Dobbiamo sapere!» disse Jean Coz. «Può essere che Glaouier abbia deciso di beffarci tutti, non soltanto Anton L’Hégaret. Dev’essere per forza così.»

Fecero irruzione nella camera.

Dopo i primi passi, però, gli “apprendisti preti” rimasero inchiodati sul posto per lo spavento.

Il viso di Glaouier era giallo come cera. I suoi occhi erano distorti e fissi. Il soffio dell’Ankou aveva sbiadito il suo sguardo. L’anima, per fuggire, aveva schiuso le labbra. Fra i denti bianchi non si vedeva altro che un buco spalancato, un vuoto nero e sinistro.

«Lo sciagurato!» gridarono con una sola voce gli studenti. «È morto, è morto davvero!»

«Jean Coz non ve lo aveva detto?» chiese tranquillamente l’idiota3.

(Raccontato da Catherine Carvenee. - Port-Blanc.)

XXXIII – Chi scherza con la morte trova a chi parlare.

Liza Roztrenn, del maniero di Kervénou, era la più allegra ragazza di campagna che ci fosse in tutta la parrocchia di Faouët4, nonché nelle parrocchie circostanti.

Da qualche mese era fidanzata con Loll5 ar Briz, un giovane di Plourivo, che la veniva a trovare una volta alla settimana, la domenica.

Liza Roztrenn aveva un carattere allegro e piacevole. Loll l’amava di un amore troppo serio, a suo parere; lei poi glielo rimproverava spesso e non c’era scherzo che non si divertisse a giocargli.

A Kervénou c’era una servetta che era almeno tanto burlona quanto Liza. Aiutava spesso la sua capa a burlarsi del povero Loll. Quando questi arrivava al maniero, la domenica mattina, capitava di rado che Liza fosse là ad accoglierlo. La servetta s’incaricava così di spiegare al ragazzo l’assenza della sua fidanzata e gli rifilava a questo riguardo le storie più inverosimili. Liza si andava semplicemente a nascondere nel granaio, oppure dietro i mucchi di paglia nel cortile. Spuntava poi fuori di colpo, nel momento in cui, deluso, Loll si preparava a riprendere la strada per Plourivo. Le due scervellate scoppiavano allora a ridere a crepapelle. Lo stesso Loll non tardava a ridere di sé, rimproverando però la sua innamorata di sprecare in modo tanto infantile quel tempo che avrebbero fatto meglio a spendere parlando di dolci cose.

Ma Liza era incorreggibile.

Un sabato sera disse alla servetta con cui dormiva: «Quale allegro scherzo potremmo fare domani a Loll ar Briz?»

«Signora!» rispose la servetta. «Bisognerebbe inventarsi qualcosa di nuovo, perché le nostre vecchie trovate le abbiamo ormai consumate quasi tutte.»

«Quello che penso anch’io. Ascolta, Annie (era il nome della servetta), mi è venuta una idea. Vorrei vedere se Loll mi ama davvero tanto quanto dice lui. Quando arriverà domani e ti chiederà dove sono, rispondigli con una faccia tutta triste: “Ahimè, se n’è andata a Dio! Non la rivedrete mai più in questo mondo”.»

«Farai la morta, Liza?»

«Precisamente.»

«Dicono che porta sfortuna.»

«Bah! Uno scherzetto innocente... Soltanto per giudicare se Loll soffrirà davvero credendomi perduta.»

«Così sia,» rispose Annie.

Trascorsero una buona metà della notte a organizzare il complotto.

Il sole del giorno seguente si levò. Le nostre due folli se n’erano andate alla messa mattutina, come era loro abitudine, da quando Loll ar Braz era stato ammesso a corteggiare Liza. In questo modo lui poteva anche trascorrere il tempo della grande messa in compagnia della sua promessa sposa, mentre il resto del personale della fattoria andava in paese per assistere alla cerimonia. Al secondo suono delle campane6 gli anziani genitori, i domestici, i porcai, tutti quanti si incamminavano verso Faouët. Non restavano al maniero che Liza e la servetta. Era il momento che Loll sceglieva per fare la sua comparsa.

Non appena le due giovani si videro rimaste sole, quella domenica, si impegnarono a mettere in esecuzione il progetto meditato la notte precedente. Liza Roztrenn si sistemò lunga distesa sulla tavola della cucina, la testa posata sulla pagnotta che si trovava, come era abitudine, sul lato in alto, accanto alla finestra, e che era avvolta in un tovagliolo fresco, preso dall’armadio quella stessa mattina.

Sul corpo di Liza, la servetta gettò un drappo di lino.

Andò poi a sedersi sulla stretta panca che corre lungo le pareti nella maggior parte delle fattorie bretoni.

Il terzo colpo della grande messa stava scoccando. La vibrazione delle campane si attardava ancora, quando Loll ar Briz apparve nel riquadro della porta aperta.

«Buongiorno e gioia a te, Annie; dove si trova Liza, la tua signora?»

«Sono malvagio giorno e tristezza che dovresti annunciare, Loll ar Briz,» rispose Annie la birichina, con un tono lamentoso.

«Cosa è successo, dunque, che mi parli in questo modo?»

«È successo che la mia signora non sarà tua moglie, Loll ar Briz.»

«Stai forse dicendo con questo che io non sono più di suo gusto? O forse, dopo la scorsa domenica, è arrivato un qualche nuovo spasimante che mi ha rimpiazzato

«Liza Roztrenn non sarà né vostra moglie, né di qualche altro uomo. Liza Roztrenn adesso è con Dio!»

«Morta! Liza! Stai attenta, Annie. Non è bello fare scherzi di questo genere.»

«Ma guarda allora il tavolo qui accanto! Solleva il lenzuolo e guarda cosa c’è lì sotto!»

Il giovane contadino divenne tutto pallido. Di questo la servetta si divertì parecchio, dentro di sé.

Raggiunse il lenzuolo, lo sollevò e indietreggiò spaventato.

«Ahimè! È fin troppo vero,» gridò.

«Loll,» disse Annie, cercando di rimanere seria, «non hai mai sentito dire che degli amanti hanno resuscitato le innamorate morte, pregandole in ginocchio e dando loro un bacio? Se tu provassi questo rimedio...»

«Disgraziata! Osi ancora scherzare?»

«Prova, ti dico, e non arrabbiarti. Ecco, ti aiuto io.»

Si alzò dalla panca sui cui era seduta, ma non fece neppure in tempo ad avvicinarsi alla tavola che già si ritrovò a indietreggiare.

Liza Roztrenn aveva davvero sul collo il colore della morte. I suoi occhi dilatati non avevano più alcuno sguardo.

«Non è possibile! Non è possibile!» urlò per tre volte la povera Annie. «Presto, Loll ar Briz, vieni ad aiutarmi... mettiamola là, sulla sua sedia... vi giuro che è viva... non può essere morta!»

Sì, Liza Roztrenn era morta, ma proprio morta. Gli sforzi riuniti di Loll ar Brix e Annie servirono solo a tormentare un cadavere.

Il giorno seguente seppellirono nel cimitero di Faouët l’allegra ereditiera di Kervénou.

È probabile che il suo fidanzato si sia consolato, alla lunga, ma la servetta ne uscì pazza.

(Raccontato da Jean-Marie Toulouzan7, spaccapietre. - Port-Blanc.)

NOTE

1 - Non sembra che questa credenza sia così diffusa in Irlanda. Nei Contes et Légendes d’Irlande, pp. 170-173, una vecchia simula la morte per ricavarne qualche guadagno e non gliene viene alcun danno.
2 - E. Renan, che fu studente in quel piccolo collegio di Tréguier e che ne ha conservato un pio ricordo, disegna questo ritratto dei giovani che lo popolavano verso il 1830 (Souvenirs d’enfance et de jeunesse, p. 136): “I miei condiscepoli erano per la maggior parte giovani contadini dei dintorni di Tréguier, vigorosi, ben messi, coraggiosi e, come molti degli individui che si trovano a un livello inferiore di civilizzazione, portati a una sorta di affettazione virile, una stima esagerata della forza fisica, un certo disprezzo per le femmine e per ciò che considerano femmineo. Quasi tutti si preparavano a diventare preti... Il latino aveva effetti strani su quelle nature così forti. Erano come mastodonti che si dedicavano a studi classici.”
3 - È forse traducendo questa leggenda che ho maggiormente avvertito l’impossibilità quasi assoluta di trasmettere nella frase francese una parte dell’orrore tragico che gocciola da ogni parola del racconto bretone. Catherine Carvennee ha una voce melodiosa e lenta. Ci raccontava gli avvenimenti con un tono tranquillo, come se si trattasse di qualcosa di molto ordinario. Mentre scrivevo, in balia delle sue parole, esaminavo con la coda dell’occhio le altre narratrici che erano là e attendevano il proprio turno. Erano pallide, pallide di terrore. Raramente ho visto su volti umani una simile espressione di angoscia. Ebbene, io no ho fatto altro che tradurre parola per parola il racconto di Catherine Carvennee: come è possibile che il meglio sia evaporato? È colpa mia, senza dubbio. Recito qui un atto di coscienza confessando le mie colpe, sia per questa storia che per tutte le altre.
4 - Fra Pontrieux e Châtelaudren, nella Côtes-du-Nord.
5 - Diminutivo di Olivier.
6 - Ci sono tre suonate, intervallate di mezz’ora, per la grande messa.
7 - Ho lavorato alla chiesa di Faouët, nel periodo in cui gli eventi si svolsero, aggiunse Jean-Marie Toulouzan. Non ho mai conosciuto i personaggi della storia, ma certi operai originari del paese, che lavoravano nel mio stesso cantiere, avevano spesso occasione di incontrare la povera pazza. Mendicava il suo pane di casa in casa. Cominciava a ridere d’improvviso e un instante dopo singhiozzava da ferirti l’anima.