Adriano - racconti e altro

La leggenda della Morte

Capitolo III

L’Ankou1

L’Ankou è il battistrada della morte (oberour ar maro).

L’ultimo morto dell’anno, in ogni parrocchia, diventa l’Ankou di quella parrocchia per l’anno successivo2.

Quando si sono verificati, nel corso dell’anno, più decessi del solito, si dice, parlando dell’Ankou in carica: «War ma fé, heman zo eun Anko drouk. (In fede mia, questo è un Ankou cattivo).

L’Ankou è descritto sia come un uomo molto alto e molto magro, capelli lunghi e bianchi, corpo nascosto nell’ombra di un largo cappello di feltro, sia come uno scheletro avvolto in un lenzuolo3, con la testa che gira costantemente in cima alla colonna vertebrale, come una banderuola attorno alla sua asta di ferro, per poter abbracciare con un solo colpo d’occhio tutta la regione che ha l’incarico di percorrere4.

In entrambi i casi, impugna una falce. È una falce diversa da quelle ordinarie, perché ha la lama girata all’indietro. In questo modo l’Ankou non la tira verso di sé, quando falcia; al contrario di quanto fanno i falciatori di fieno e i mietitori di grano, lui la lancia in avanti.

Il carro dell’Ankou (karrik o karriguel ann Ankou) è fatto più o meno come le carrette in cui si trasportavano in passato i morti5. È trainato di solito da due cavalli attaccati al timone. Quello davanti è magro, scheletrico e si regge a malapena sulle zampe. Quello di stanga è grasso, ha il pelo lustro ed è un buon cavallo da tiro6. L’Ankou sta in piedi nella carretta.

È scortato da due compagni, che procedono entrambi a piedi: uno conduce per le briglie il cavallo di testa, mentre l’altro ha la funzione di aprire le barriere nei campi o sulla strada e di aprire le porte delle case. È sempre lui a caricare sulla carretta i morti che l’Ankou ha falciato7.

Quando l’Ankou si mette in marcia per il suo percorso, si dice che la sua carretta sia piena di pietre, per scorrere più pesantemente e fare più rumore. Arrivato nei pressi della casa dove si trova il moribondo che deve raccogliere, l’Ankou svuota rapidamente la sua carretta, per fare posto al suo nuovo “carico”. Questa è l’origine del rumore di pietre e sassi che si può sentire così spesso negli alloggi dove si sta vegliando un moribondo, proprio nel momento del suo ultimo respiro.

(Maryvône Mainguy. - Port-Blanc.)

XXI - Il carro della morte.

Era una sera di giugno, nel periodo in cui si lasciano i cavalli fuori per tutta la notte. Un giovane uomo di Trézélan8 era andato a portare i propri nel prato. Mentre tornava indietro fischiettando nella notte chiara, perché c’era una grande luna, sentì procedere verso di lui, sul sentiero, una carretta il cui asse poco oliato faceva: Wik! Wik!

Non aveva dubbi che quella fosse karriguel ann Ankou9 (la carretta, o meglio la carriola della Morte).

«Alla buon’ora!» si disse. «Finalmente potrò vedere coi miei occhi questa carretta di cui si parla tanto.» E scavalcò il fossato per nascondersi in una macchia di noccioli, da dove avrebbe potuto vedere senza essere visto.

La carretta si avvicinava. Era tirata da tre cavalli bianchi attaccati al timone. Due uomini l’accompagnavano, tutti e due vestiti di nero e col capo coperto da un cappello di feltro dalla larga tesa10. Uno di loro conduceva per le briglie il cavallo di testa, mentre l’altro si teneva vicino, davanti al carro.

Quando il carro arrivò davanti alla macchia di noccioli dove si era nascosto il giovane, l’asse produsse un scricchiolio secco. «Fermati!» disse l’uomo in vettura a quello che conduceva i cavalli. Questi gridò «Ho!» e tutta la comitiva si fermò.

«La caviglia dell’asse si sta per rompere,» disse l’Ankou. «Vai a tagliare qualcosa con cui costruirne una nuova in quella macchia di noccioli che vedi qui vicino».

«Sono spacciato!» pensò il giovane, che in quel momento rimpiangeva davvero tanto la sua curiosità indiscreta. Ma non fu punito immediatamente, lì dove si trovava. Il carrettiere tagliò un ramo, lo lavorò un poco, lo infilò nell’asse e, fatto questo, i cavalli si rimisero in marcia.

Il giovane poté così tornare a casa sano e salvo, ma verso il mattino fu colto da una febbre sconosciuta e il giorno dopo lo seppellirono.

(Raccontata da Françoise Omnés di Bégard, meglio nota col nome di Fantic Jan ar Gac, cioè Françoise [figlia di] Jeanne Le Gac. - Settembre 1890.)

XXII - L’avventura di Gab Lucas

Gab Lucas era un lavoratore giornaliero a Rune-Riou. Ogni sera ritornava a Kerdrenkenn, dove abitava con sua moglie e i loro cinque figli nella casetta più miserabile di quel povero villaggio, perché per far campare la sua famiglia Gab Lucas non aveva che quei dieci soldi che ogni giorno guadagnava con grande fatica. Questo però non gli impediva di avere un carattere allegro e di essere un lavoratore in gamba. I padroni locali di Rune-Riou avevano tutti grande stima di lui: alla fine della settimana lo invitavano regolarmente a trascorrere con loro il sabato sera, quando bevevano flip11 e mangiavano caldarroste. Allo scoccare della decima ora si separavano: il fattore pagava a Gab lo stipendio per quella settimana e la moglie vi aggiungeva sempre qualche regaluccio per la sua famiglia di Kerdrenkenn.

Un sabato sera lei gli disse: «Gab, ho messo da parte per te un sacco di patate. Portatelo da parte mia a Madeleine Dénès, tua moglie.»

Gab Lucas ringraziò, si caricò in spalla il sacco e si incamminò, dopo aver augurato una buona serata a tutti.

Da Rune-Riou a Kerdrenkenn ci sono ben tre quarti di lega. All’inizio Gab marciava allegramente: la luna era luminosa e il buon flip che aveva bevuto gli scaldava lo stomaco. Fischiettava12 un motivetto bretone per tenersi compagnia, tutto contento per la gioia che avrebbe provato Madeleine Dénès vedendolo tornare con un bel sacco di patate. Il giorno dopo ne avrebbero fatta cuocere una pentola piena; aggiungendo un pezzo di lardo, ne avrebbero goduto tutti quanti.

Così andò per il primo quarto di lega.

Più o meno a quel punto, però, le virtù del flip furono dissipate dal fresco della notte e Gab si sentì tornare addosso tutta la fatica di quella giornata. Cominciò a sentire che il sacco di patate gli pesava parecchio sulle spalle e presto non ebbe più la forza o la voglia di fischiettare.

«Se almeno,» pensò, «potessi incontrare un qualche carrettiere! Ma non avrò certo questa fortuna.»

Si avvicinava a quel punto al calvario di Kerantour, dove sulla via principale si inserisce il piccolo sentiero di Nizilzi, che conduce all’omonima fattoria.

«Santo cielo,» si disse Gab, «adesso mi siederò un momento sui gradini della croce, per riprendere fiato.»

Posò il suo carico, vi si sedette accanto e, dopo aver dato un colpo all’acciarino, si accese la pipa. La campagna si stendeva silenziosa in lontananza.

D’un tratto i cani di Nizilzi cominciarono a ululare in tono lamentoso.

«Che cos’hanno da fare tanto chiasso?» pensò Gab Lucas.

Proprio allora, lungo il piccolo sentiero vuoto, sentì il rumore di una carretta. Gli assali male oliati cigolavano: Wig-awag! Wig-a-wag!

«Andiamo!» si disse Gab. «Ecco che il mio desiderio sta per essere esaudito. Saranno senza dubbio quelli della villa che vanno a caricare sabbia a Saint-Michel-en-Grève. Porteranno anche il mio sacco fino alla soglia di casa mia.»

Vide spuntare i cavalli, poi la carretta. Erano terribilmente magri e malmessi, quei cavalli. Non erano di sicuro quelli di Nizilzi, sempre così grassi e lustrati. Quanto alla carretta, aveva come fondo qualche asse mal combinata; due graticci traballanti le servivano da sponde. Un uomo di alta statura, un gran spilungone tanto magro quanto le sue bestie, conduceva questa pietosa comitiva. Un ampio cappello di feltro gli nascondeva l’intera figura. Gab non lo poté riconoscere, ma lo chiamò ugualmente.

«Compagno, non ci sarebbe un poco di posto nella tua carretta anche per questo sacco? Mi sta rompendo la schiena. Non vado lontano, solo fino a Kerdrenkenn!»

Il carrettiere passò senza rispondere.

«Non mi avrà capito,» si disse Gab. «Quella carretta orrenda fa tanto di quel rumore!»

L’occasione era troppo buona per lasciarsela scappare. Gab Lucas si premurò di spegnere la pipa, la rimise in una tasca della sua giacca, afferrò il sacco di patate e inseguì di corsa la carretta, che andava ancora più veloce. Alla fine la raggiunse e vi scaricò sopra il suo sacco con un ouf! di sollievo.

Ma, come spiegarlo? Il sacco passò attraverso le vecchie assi e cadde a terra.

«Che razza di una carretta è questa?» si disse Gab. Raccolse il sacco, intenzionato a posarlo di nuovo sulla carretta, stavolta sistemandolo più avanti.

Ma il fondo della carretta sembrava non avere proprio alcuna solidità, perché il sacco vi passò attraverso, trascinandosi dietro anche Gab. Entrambi finirono a terra.

La strana processione proseguiva intanto per la propria strada. Il misterioso carrettiere non aveva neppure girato la testa.

Gab lasciò che si allontanasse. Quando furono spariti, si incamminò a propria volta verso Kerdrenkenn, dove arrivò mezzo morto di paura.

«Che cos’hai?» gli chiese Madeleine Dénès, vedendolo ridotto così.

Gab Lucas le raccontò la propria avventura. «È molto semplice,» gli rispose allora la moglie. «Hai incontrato Karrik ann Ankou

A Gab venne quasi la febbre.

Il giorno dopo sentì la campana suonare nella chiesa del paese. Il padrone di Nizilzi era morto la notte precedente verso le ore dieci, dieci e mezza.

(Raccontata da Marie-Yvonne Mainguy. - Port-Blanc.)

XXIII - La visione di Pierre Le Rûn

Ai tempi di cui vi parlo, i sarti di campagna non erano numerosi. Venivano spesso a cercarci da molto lontano. Inoltre, per essere sicuri di trovarci, bisognava avvisare con alcune settimane di anticipo.

Avevo promesso di andare a lavorare a Minihy, a tre leghe da casa mia, in una fattoria che si chiamava Rozvilienn.

Mi ero messo in viaggio una domenica pomeriggio, all’ora dei vespri, in modo da arrivare per cena a Rozvilienn. Mi avevano richiesto per tutta la settimana. Dovevo essere al lavoro per lunedì mattina.

«Ah! Sei tu, Pierre?» mi disse Catherine Hamon, la donna di casa, vedendomi entrare in cucina.

«Sono io, Catel. Ma non vedo qui Marco, tuo marito. Forse non è ancora tornato dal paese.»

«Eh! Neppure ci è andato. Ormai è una quindicina di giorni che è là coricato, senza alzarsi.»

Mi mostrò il letto chiuso, vicino all’atrio. Mi avvicinai e, inginocchiandomi sul pianale, scostai le tendine13.

Il vecchio Marco era lungo disteso, immobile. La sua figura era consumata dalla malattia. Pensai tra me e me: «Questo qui ha ormai un piede nella fossa». Gli mostrai comunque un volto sorridente e scherza un poco, come è abitudine in questi casi.

«Ehi, Marco! Che cosa fai lì, eh? Non è una posizione adatta a un uomo della tua età e del tuo carattere! Ti lasci stendere così, proprio tu, un uomo solido come una quercia!»

Mi rispose qualcosa che non capii; aveva un respiro così strozzato, una voce così debole, che il suono delle sue parole non mi arrivava neppure alle orecchie.

«Come lo hai trovato, Pierre?» mi chiese Catherine, quando mi sedetti a tavola assieme a tutta l’altra gente della fattoria.

«Eh,» le risposi, «non è certo messo bene, ma un corpo robusto come quello di Marco ha sempre una qualche risorsa.»

Non le dissi tutto quello che pensavo, non volevo spaventare Catel. Andandomi a coricare, riflettei: «Ormai è finito. Non supererà la settimana. In verità, caro il mio Pierre, non cucirai più braghe per il tuo vecchio cliente di Rozvilienn!»

Con questa riflessione malinconica mi avvolsi nelle coperte.

A Rozvilienn non mi trattavano da sarto, ma da ospite. Invece di farmi dormire in cucina o nella scuderia, come capitava spesso ai miei colleghi, loro mi riservavano sempre il posto più dello di tutta la casa. Era una grande camera che, ai tempi in cui Rozvilienn era stato un castello, aveva dovuto fungere da sala. Aveva una porta stretta, aperta nel pignone, che comunicava con la cucina e sulla corte c’era anche una finestra alta e larga, che si apriva dal pavimento fino quasi al soffitto. Perché aveva un pavimento, questa camera: un parquet di quercia, un po’ malandato, d’accordo, per scarsa manutenzione, ma che, coi resti dell’antica vernice, ancora visibile qui e là sulle pareti, non mancava di dare all’appartamento una certa aria di nobiltà. Il letto era a baldacchino e fronteggiava la finestra.

D’abitudine, quando era scoccata l’ora della «buonanotte», io mi fermavo un momento sulla soglia della camera e, prima di chiudere la porta, gridavo con un tono di importanza a tutta la gente di Rozvilienn ancora radunata in cucina: «Salutate il marchese di Pont-ar-veskenn (Punto a cucito), che se ne va a raggiungere la marchesa nel suo letto a baldacchino».

Questa spiritosaggine o altre dello stesso tipo li facevano sempre ridere a crepapelle.

Il mattino, a colazione, con tono cerimonioso mi chiedevano come fosse stata la mia notte e io raccontavo loro le storie più straordinarie. Avevo ricevuto una visita della Principessa dai capelli d’oro, oppure della Principessa dalla mano d’argento. Vedete anche voi a che tipo di sviluppi tutto questo portava. Vi assicuro che allora non c’era nessuno con la faccia triste.

Questa volta, però, come potete immaginare, non potevano esserci storie né di principesse, né di marchese. Avevo il cuore pesante al pensiero che, in una delle prossime sere, mi avrebbero svegliato per andare ad assistere il buon Marco durante i suoi ultimi momenti.

Era davvero una brava persona, questo Marco Hammon: servizievole, leale, compassionevole. Mi misi a ricordare tutte queste sue qualità, tra me e me, e mentre lo facevo mi addormentai.

Quanto a lungo durò il mio sonno, questo non lo saprei proprio dire. So solo che all’improvviso mi sembrò di sentire scricchiolare il legno stagionato del parquet, come se qualcuno stesse attraversando la camera.

Aprii gli occhi.

La luna era spuntata. Faceva chiaro come in pieno giorno.

Percorsi con lo sguardo tutto quanto. Non c’era nessuno!

Mi stavo avvolgendo di nuovo tra le mie coperte, quando credetti di sentire un soffio di aria fresca sulle mie spalle.

Guardai verso la finestra e vidi che era aperta. Pensai di aver dimenticato di chiuderla prima di coricarmi. Balzai giù dal letto, avevo già una mano su uno dei battenti, quando là, nel cortile, a due passi da me, vidi un uomo che camminava avanti e indietro, le mani dietro la schiena, col passo tranquillo di chi sta aspettando e che si muove un poco per ingannare la noia dell’attesa. Era grande, magro, la testa tenuta in ombra da un largo cappello.

In mezzo al cortile, accanto al pozzo, c’era un carro dalla struttura grossolana, trainato da due cavalli scheletrici la cui criniera era così lunga da arrivare fino a terra e aggrovigliarsi attorno alle loro zampe anteriori. I montanti erano a gabbia; tra le sbarre pendevano all’esterno delle gambe, delle braccia, vidi delle teste, delle teste umane, gialle, che facevano smorfie orribili!

Era fin troppo facile indovinare a quale macellaio appartenesse tutta quella carne.

Credetemi: a quel punto rimasi ad assistere allo spettacolo per molto meno tempo di quello che ci metto a descrivervelo.

Lasciando la finestra così come l’avevo trovata, tornai al mio letto a quattro zampe: avevo una paura orribile che l’uomo col grande cappello mi vedesse o mi sentisse.

Una volta a letto, mi seppellii completamente sotto le coperte, ma ebbi cura di lasciarmi all’altezza degli occhi una sorta di piccolo spiraglio, uno spioncino, da cui potevo continuare a vedere senza essere visto.

Per meno di una mezz’ora l’uomo dal grande cappello, passò e ripassò nella luce della finestra, proiettando ogni volta la sua ombra gigantesca sul pavimento della camera.

D’un tratto, dentro la stanza, io distinsi di nuovo quel rumore di passi che mi aveva svegliato in precedenza. Era qualcuno che passava per il vano della porta che dava accesso alla cucina.

Assomigliava abbastanza all’altro, all’uomo nel cortile, solo che era ancora più grande, ancora più magro. La sua testa non era proporzionata al corpo. Era piccola, piccola, e oscillava così forte in ogni direzione che ti aspettavi di continuo che si staccasse. I suoi occhi non erano occhi, ma due piccole candele bianche che bruciavano sul fondo di due grandi buchi neri. Non aveva naso. La sua bocca rideva di un sorriso che le arrivava alle orecchie.

Mi sentivo gocce di sudore freddo spuntare dalle tempie e ruscellarmi giù lungo il petto, sulle cosce, sulle gambe e fino ai piedi. Quanto ai miei capelli, erano così dritti che credo che li avrei potuti usare come aghi anche il giorno dopo. Ah, non sono in molti a sapere come me cosa sia la paura!

Aspettate! Non è tutto.

L’uomo dalla testa smontata aveva sfiorato il mio letto, passando, ma se n’era subito allontanato per andarsi a sistemare alla finestra. Ora, in quel momento, una seconda persona entrò dalla cucina nella camera. Lo sentii arrivare prima ancora di vederlo, perché faceva un rumore terribile! Avresti detto che calzava zoccoli troppo grandi e troppo pesanti per i suoi piedi. Li trascinava sul pavimento, li urtava di continuo l’uno contro l’altro, inciampava, si raddrizzava, faceva insomma una tale baccano che, santo cielo!, convinto che era proprio con me che ce l’aveva e preferendo perfino la morte all’angoscia che mi divorava, gettai via le coperte e mi drizzai a sedere.

L’uomo con gli zoccoli si fermò immediatamente. Era a tre passi dal mio capezzale.

Lo riconobbi subito. Era Marco Hamon, il caro povero Marco.

Mi indirizzò uno sguardo disperato che mi ferì al cuore come il gelo di una coltellata. Poi, dopo aver emesso un lungo e triste sospiro14, mi voltò bruscamente la schiena.

Tutto svanì.

I battenti della finestra si chiusero con violenza.

Ancora per qualche minuto, nelle strade sassose, in lontananza, sotto la luna, risuonò il wig-a-wag del carro funebre.

Non era possibile alcun dubbio: l’Ankou si era preso Marco.

Non osai più restare da solo in quella camera. Mi rifugiai in cucina. Vi trovai Catel seduta presso il focolare, mezza addormentata, vicino a una candela di resina che rischiarava appena.

«Come sta Marco?» le chiesi.

Si sfregò gli occhi e mormorò: «Sono rimasta a vegliarlo. Credo che riposi. Non ha bisogno di niente.»

«Vediamo!» dissi.

Sporgemmo le nostre teste dentro il letto chiuso. Effettivamente, Marco Hamon non aveva bisogno di niente: era morto! Gli chiusi gli occhi, non senza avervi letto lo stesso sguardo disperato che mi aveva rivolto un attimo prima, passando per la mia stanza.

Sono sicuro che Marco Hamon, prima di andarsene, aveva chiesto di venirmi a trovare nel mio letto, «perché aveva qualcosa da dirmi». Ho commesso l’errore di spaventarlo, perché io stesso ero in preda al panico. È il più grande dei miei rimorsi.

Intanto tu puoi credermi, io che ho visto l’Ankou come vedo te adesso: è una cosa terribile morire.

(Raccontato da Pierre Le Rûn, sarto. - Penvénant, 1886.)

L’Ankou si serve di ossa umane per affilare la falce.

Qualche volta ne fa riparare il ferro a dei fabbri che, con la scusa di un lavoro urgente, non temono di tenere il fuoco acceso il sabato sera, anche dopo la mezzanotte.

Ma il fabbro che ha lavorato per l’Ankou non lavorerà più per nessun’altra persona, in seguito.

XXIV - La storia del fabbro.

Fanch ar Floc’h era fabbro a Ploumilliau. Siccome era un artigiano modello, riceveva sempre più lavoro di quanto ne potesse svolgere. È per questo che una certa vigilia di Natale disse alla moglie, dopo cena: «Dovrai andare da sola alla messa di mezzanotte assieme ai bambini. Io non riuscirò mai ad accompagnarti: ho ancora una coppia di ruote da ferrare, che ho promesso di consegnare domattina, di sicuro, e non appena avrò finito, in fede mia, sarà del mio letto che avrò soprattutto bisogno.»

A questo la moglie rispose: «Stai almeno attento che la campana dell’Elevazione non ti trovi ancora al lavoro».

«Oh!» rispose lui. «A quell’ora avrò già la testa sul cuscino».

Con questo tornò alla sua incudine, mentre la moglie preparava i bambini e si preparava lei stessa per raggiungere il paese, lontano più di una lega, per partecipare alla messa. Il tempo era chiaro e pungente, con un poco di brina. Quando il gruppo partì, Fanch augurò a tutti buon divertimento.

«Pregheremo per te,» disse la moglie, «ma tu ricordati di non superare l’ora santa».

«No, no. Stai pure tranquilla.»

Cominciò a battere il ferro con passione fischiettando una canzone, come era sua abitudine quando voleva impegnarsi a fondo col lavoro. Ma il tempo passa in fretta quando si lavora sodo e Fanch ar Floc’h non lo sentì scorrere. Bisogna anche riconoscere che il rumore del suo martello sull’incudine gli impedì di sentire il suono lontano delle campane di Natale, nonostante avesse lasciato aperto apposta uno dei lucernari della forgia. In ogni caso, l’ora dell’Elevazione era passata e lui lavorava ancora. Tutto ad un tratto la porta cigolò sui cardini.

Stupito, Fanch ar Floc’h si fermò, il martello sospeso in aria, e guardò chi stava entrando.

«Salve!» disse una voce stridula.

«Salve!» rispose Fanch.

E vide così il suo visitatore, ma senza riuscire a distinguere i suoi tratti, nascosti nell’ombra delle larga tesa di un cappello di feltro.

Era un uomo di alta statura, la schiena un poco ingobbita, vestito in modo antiquato, con una giacca dalle lunghe falde e brache legate al di sotto del ginocchio. Riprese a parlare dopo un momento di silenzio.

«Ho visto la luce accesa presso di voi e sono entrato, perché ho urgente bisogno dei vostri servizi».

«Accidenti!» disse Fanch. «Capitate male, perché devo ancora finire di ferrare questa ruota e da buon cristiano non voglio proprio che la campana dell’Elevazione mi sorprenda ancora al lavoro».

«Oh!,» disse l’uomo con uno strano sghignazzo. «Ormai è più di un quarto d’ora che la campana dell’Elevazione ha suonato».

«Non è possibile, per Dio!» gridò il fabbro, lasciando cadere il martello.

«Invece è così,» rispose lo straniero. «A questo punto, che lavoriate un poco di più o un poco di meno... D’altra parte non è che io vi devo chiedere di ritardare molto: si tratta solo di ribadire un chiodo.»

Parlando così, mostrò una larga falce, di cui fino a quel momento aveva tenuto nascosto il ferro dietro la schiena, lasciando scorgere soltanto il manico, che Fanch ar Floc’h aveva scambiato a prima vista per un bastone.

«Vedete,» continuò, «traballa un poco: lo riuscirete a fissare in un attimo, voi».

«Dio mio, sì! Se si tratta solo di questo, avete proprio ragione,» rispose Fanch.

L’uomo si esprimeva d’altronde con una voce imperiosa, che non accettava rifiuti. Posò lui stesso il ferro della falce sull’incudine.

«Eh! Ma è montato al contrario, il vostro attrezzo!» osservò il fabbro. «La lama è girata all’indietro! Chi è l’incapace che vi ha fatto uno scherzo del genere?»

«Non vi preoccupate di questo,» disse con severità l’uomo. «Ci sono errori ed errori. Lasciate questo così com’è e accontentatevi di fissarlo per bene.»

«Come volete voi,» mormorò Fanch ar Floc’h, a cui il tono del tizio non piaceva affatto. Nel giro di un attimo, ecco che ha montato un altro chiodo al posto di quello che mancava.

«Adesso vi pagherò,» disse l’uomo.

«Oh, non vale proprio la pena di pensarci, per così poco».

«Invece sì! Il vostro lavoro merita di essere ripagato. Non vi darò denaro, Fanch ar Floc’h, ma una cosa che vale molto più dell’argento e dell’oro: un buon consiglio. Andate a dormire, pensate alla vostra fine e, quando vostra moglie sarà rientrata, ditele di tornare in paese per cercarvi un prete. Il lavoro che avete fatto per me è stato l’ultimo lavoro della vostra vita. Kénavô! (arrivederci)»

L’uomo svanì di colpo. Fanch ar Floc’h si sentiva già le gambe venirgli a mancare sotto di lui: non aveva che la forza di raggiungere il letto, dove la moglie lo trovò sudare per l’angoscia della morte.

«Torna indietro e cercami un prete,» le disse lui.

Al canto del gallo rese l’anima al cielo, per aver forgiato la falce dell’Ankou15.

(Raccontata da Marie-Louise Daniel. - Ploumilliau.)

L’Ankou ha due fornitori principali, che sono:

  1. La Peste (ar Vossenn);
  2. La Carestia (ar Gernès, ossia l’Alto Costo).

In passato ne aveva anche un terzo: la Gabella (ann Deok holen, la tassa del sale). Ma questa, la duchessa Anna l’ha eliminata dal mondo.

XXV - La duchessa Anna e la Gabella.

La duchessa Anna abitava nel castello di Korrec a Kerfot16. Un giorno il marito le disse: «La riunione degli Stati si svolgerà a breve e io ci dovr andare».

«Stai attento a quello che farai là. Soprattutto, non imporre nuove tasse alla Bretagna.»

«No, no».

Partì, assistette agli stati e poi se ne tornò a casa nel suo maniero.

«Allora?» gli chiese la duchessa.

«Eh,» rispose lui. «Ho dovuto acconsentire all’imposizione della gabella».

«Ah!»

Senza aggiungere altro, la duchessa andò in cucina e disse qualche parola nell’orecchio della domestica che stava cucinando il cibo per il pasto del suo padrone.

Poco dopo, la serva portò il piatto ancora caldo. Il marito della duchessa vi immerse il cucchiaio.

«Puah!» gridò subito dopo. «Si è dimenticata di metterci il sale!»

«Eh!» rispose la duchessa con un tono . «Che importanza ha?»

«Questo piatto è disgustoso, ti dico!»

«Bisognerà dunque che tu lo mangi così come è. Devi dare il buon esempio al nostro popolo. Tu lo hai privato del sale. Adesso fanne senza anche tu.»

«Ma io voglio il sale nel mio cibo!»

«Allora abolisci la gabella».

«Ma non posso! Ho giurato che avrei aiutato a farla rispettare finché vivrò.»

«Finché vivrai?»

«Certo».

«Oh! Beh, allora non sarà per molto tempo!» rispose la duchessa Anna e, prendendo dalla tavola un coltello dalla lama ben affilata, trapassò il cuore del marito. Ordinò poi a uno dei suoi domestici di andare ad annunciare ovunque che la gabella era morta.

I nobili protestarono. «Vostro marito aveva giurato di mantenere la gabella finché fosse vissuto,» dissero.

«Sì,» rispose la duchessa Anna. «Adesso però è morto e assieme a lui noi seppelliremo anche la gabella».

Da allora in poi, in effetti, nessuno ha più sentito parlare di questo flagello del mondo.

(Raccontato da Anna Drutot. - Pédernee, 1888.)

La Peste (ar Vossenn) è zoppa. Questo non le impedisce di viaggiare veloce come il vento. Solo, non è capace di saltare i fiumi. Non ha altro modo per superarli che farsi trasportare sulla schiena da qualche brav’uomo troppo gentile.

XXVI - L’uomo che si portò la peste sulle spalle.

Un vecchio di Plestin la incontrò una sera sulla riva del Douron. Era seduta sull’argine e guardava l’acqua scorrere. Veniva da Lammeur, che aveva spopolato, e adesso era in viaggio verso il paese di Lannion.

«Ehi, vecchio!» gridò lei. «Sareste così gentile da prendermi sulle spalle per farmi attraversare l’acqua? Ve ne ricompenserei molto bene.»

Il vecchio, che non la conosceva, accettò.

Dopo essersela caricata sulle spalle, entrò nel fiume. Più avanzava, però, e più la sentiva diventare un peso gravoso che premeva su di lui.

Alla fine, spossato, anche perché la corrente era molto forte, l’uomo disse: «Santo cielo, cara signora, vi scaricherò qui dove siamo. Non ci tengo proprio ad annegare per voi.»

«Per cortesia, non fatelo. Riportatemi piuttosto nel punto dove mi avete presa.»

«Così sia».

E riprese il cammino senza troppa fatica: il suo fardello si alleggeriva a mano a mano che si avvicinava alla sponda precedente.

Il paese di Lannion fu così salvato dalla peste. Se però il vecchio avesse lasciato cadere la cattiva groac’h (fata) nel bel mezzo del fiume, come aveva avuto intenzione di fare, allora il mondo intero si sarebbe liberato di lei per sempre17.

(Raccontato da mio padre, N.M. Le Braz.)

A Plogoff, nel Cap-Sizun, si racconta in questo modo l’arrivo della peste.

Un naviglio passava al largo, coperto da grandi vele scure. Quando fu giunto di fronte alla valle di Parkou-Bruk, lo si vide innalzare una lunga fumata bianca, simile al fantasma di una donna. Questa venne verso la costa, attraversando l’aria, senza toccare l’acqua. Era la Peste. In un solo giorno riuscì a devastare tutto il paese in un raggio di tre leghe.

(Raccontato da Gaïd Alain. - Plogoff.)

Quanto alla Carestia (ar Gernès), durerà purtroppo più a lungo del dolore.

XXVII - La Morte invitata a pranzo.

Questo avvenne ai tempi in cui i ricchi non erano troppo orgogliosi e sapevano usare le proprie ricchezze per concedere qualche volta un poco di allegria anche al mondo povero.

In verità, accadde proprio molto tempo fa.

Laou ar Braz era il più grande proprietario terriero che ci fosse a Pleyber-Christ. Quando da lui si uccideva un maiale o una vacca, era sempre un sabato. Il giorno seguente, domenica, Laou si recava in paese alla messa mattutina. Finita la messa, il segretario del sindaco faceva la sua predica dall’alto dei gradini del cimitero, leggendo alle persone riunite sulla piazza le nuove leggi, oppure annunciava, in nome del notaio, le vendite che avrebbero avuto luogo durante la settimana.

«Tocca a me!» gridava Laou, quando il segretario del sindaco aveva finito con le sue scartoffie. E, come si dice, “saliva sulla croce”18.

«Allora!» diceva lui. «Il più grande maiale di Kéresper è stato appena ucciso con una coltellata. Vi invito alla festa del sanguinaccio (ar gwadigennou). Grandi e piccini, giovani e vecchi, paesani e giornalieri, venite tutti! La casa è grande; se la casa non basta, c’è il fienile; se anche il fienile non basta, c’è l’area di battitura.»

Voi credetemi pure: quando Laou ar Braz si presentava sulla croce, c’era sempre una folla ad ascoltarlo. C’era sempre chi raccoglieva le parole dalla sua bocca. I gradini del calvario erano sotto assedio.

Dunque era una domenica, all’uscita dalla messa, quando Laou lanciò all’alligrapp (allo “arraffa chi potrà”) il suo invito annuale.

«Venite tutti!» ripeteva. «Venite tutti!»

A vedere le teste ammassate attorno a lui, l’avresti descritta come una vera montagna di mele, grosse mele rosse, tanta era la gioia che brillava sui loro visi.

«Non dimenticatevi, è per martedì prossimo!» insisteva Laou.

E tutti gli facevano eco: «Per martedì prossimo!»

I morti erano là, sottoterra. La gente calpestava le loro tombe19. In quel momento, però, chi se ne preoccupava?

Quando la folla cominciò a disperdersi, una vocina gracile, una vocina rotta chiamò Laou ar Braz.

«Mé iellou ivé? (Ci verrò anch’io?)»

«Che io sia dannato!» gridò Laou. «Poiché ho invitato tutti, significa che non ci sono persone escluse.»

La felice prospettiva di un grande pranzo a Kéresper spinse molta gente a ubriacarsi quella domenica e non poche altre si ubriacarono di nuovo il lunedì, per festeggiare meglio, il giorno seguente, la morte del “principe”20.

La mattina del martedì ci fu una interminabile processione diretta verso Kéresper. Chi se lo poteva permettere percorreva la strada su carri con le panche; i mendicanti si incamminavano per i sentieri laterali sulle loro stampelle.

Erano già tutti seduti a tavola di fronte a un piatto pieno, quando si presentò un invitato tardivo. Aveva l’aria di un miserabile. Il suo camiciotto di tela vecchia, tutto a brandelli, era incollato alla sua pelle e puzzava di marcio.

Laour ar Braz lo raggiunse e gli fece trovare un posto.

L’uomo si sedette, ma non toccava che con la punta dei denti le pietanze che gli servivano. Si ostinava a tenere la testa bassa e, malgrado gli sforzi dei suoi vicini per avviare una conversazione con lui, non aprì mai la bocca per tutto il pranzo. Nessuno lo conosceva. Alcuni dei “bacucchi” trovarono in lui l’aspetto di qualcuno che avevano conosciuto in gioventù ma che ormai era morto da molto tempo.

Il pranzo finì. Le donne uscirono per spettegolare tra loro, gli uomini per accendersi una “pipa”. Tutti erano contenti.

Laou si sistemò presso la porta del fienile dove si era svolto il festino, per ricevere il trugaré, il “grazie”, di ciascuno. Molta gente farfugliava e balbettava. Laou si sfregava le mani. Amava quando la gente usciva da casa sua piena fino a scoppiare.

«Bene!» si disse. «Stasera, nei fossi dei sentieri attorno a Kéresper, ci saranno pisciate grosse come ruscelli.»

Era incantato da se stesso, dai suoi cuochi, dalle sue botti di sidro e dai suoi ospiti.

A un tratto si accorse che c’era ancora qualcuno seduto a tavola. Era l’uomo col camiciotto di vecchia tela.

«Non ti affrettare,» disse Laou avvicinandosi a lui. «Sei stato l’ultimo ad arrivare; è giusto che tu sia anche l’ultimo ad andartene. Ma,» aggiunse, «rischi di addormentarti davanti a un piatto e un bicchiere pieni.»

L’uomo aveva in effetti respinto il suo piatto e il suo bicchiere21.

Sentendo le parole di Laou, sollevò lentamente la testa. E Laou vide che quella testa era una testa di morto.

L’uomo si alzò in piedi, scosse gli stracci che si erano sparpagliati a terra e Laou vide che a ogni straccio era appeso un pezzo di carne putrida. L’odore che ne veniva, unito alla paura, gli serrò la gola.

Laou trattenne il fiato per non respirare quel putridume e domandò allo scheletro: «Chi sei e cosa vuoi da me?»

Lo scheletro, le cui ossa si vedevano adesso a nudo come i rami di un albero che ha perso tutte le sue foglie, si avvicinò a Laou e, posandogli una mano scarnificata sulla spalla, gli disse: «Trugaré, Laou! Quando al cimitero ti ho domandato se potevo venire anch’io, tu mi hai risposto che non c’era persona di troppo. Hai pensato un po’ troppo tardi di informarti su chi io fossi. Sono io quello che chiamano l’Ankou. Siccome tu sei stato gentile con me, invitandomi allo stesso titolo degli altri, ho voluto darti a mia volta una prova di amicizia, avvertendoti che ti restano solo otto giorni per sistemare tutti i tuoi affari. Tra otto giorni io ripasserò di qui in vettura e avrò il compito di portarti con me, che tu sia pronto o meno. A martedì prossimo, dunque! Il pranzo che ti offrirò io potrebbe non essere come il tuo, ma la compagnia sarà ancora più numerosa.»

Con queste parole l’Ankou svanì.

Laou ar Braz trascorse la settimana a dividere tutti i suoi beni tra i suoi figli; la domenica, alla fine della messa, si confessò; il lunedì si fece portare la comunione dal vicario parrocchiale di Pleyber-Christ e i suoi due accoliti; morì il martedì sera.

La sua generosità gli aveva permesso di morire bene.

Che sia così per ognuno di noi!

(Raccontato da Le Coat. - Quimper, 1891.)

La strada della morte.

Una volta, per le fattorie che si trovavano in piena campagna, per raggiungere il paese non c’erano che sentieri stretti e malmessi chiamati garenne.

Era lungo questi che la gente andava a messa, la domenica, e sempre per questi che i morti andavano al cimitero.

In inverno, quando questi sentieri erano dissestati dalla pioggia, si passava per i campi attorno per evitare le parti peggiori.

Così, molti sentieri costeggiavano le vecchie strade nella campagna bretone e sembravano svolgere assieme a loro un doppio lavoro. Così, apparvero tante scalette coi gradini di pietra incastrati nelle scarpate per permettere o facilitare il passaggio.

Più tardi si costruirono strade migliori e le antiche furono abbandonate dai vivi. Ma i morti, ossia i convogli funebri, continuarono a percorrerle22. Si credeva di commettere un sacrilegio portando un uomo alla sua ultima dimora lungo una strada diversa da quella che prima di lui avevano percorso suo padre, suo nonno, suo bisnonno, suo trisnonno e tutti gli altri, da tempi immemorabili.

Quei sentieri, percorsi ormai soltanto per le sepolture, ricevettero il nome di strade della morte (hent ar Maro).

Disgrazia colga i proprietari che hanno la pessima idea di voler vietare, sulle proprie terre, l’accesso a una di queste vie sacre23.

Nella penisola di Crozon la strada della morte si chiama hent corf: la strada dei cadaveri. Secondo la tradizione lì è vietato correre, gridare o commettere atti sconvenienti24.

Avevo da poco preso come fattoria il podere di Kerlann ne Penhars, circa una trentina di anni fa. Fra i terreni che appartenevano al podere, ce n’era uno che era soltanto paludi e buche. Una vecchia strada carrabile lo attraversava. Lo feci murare per impedire alle mie bestie di andarsi a infilare in quel suolo pericoloso. Ai due ingressi feci sistemare delle barriere fisse (marc’h-cleut).

Un mattino, mentre ero nei campi, ricevetti una bella sorpresa nel trovare un corteo funebre fermo davanti a una di queste barriere.

Corsi subito da quella parte.

«Che volete?» chiesi all’uomo che guidava il carro funebre.

«Passare, santo cielo! Con quale diritto hai bloccato la strada della morte

«Disgraziato, se provi a infilarti in questo prato con la tua carretta, sono sicuro che non la tirerai mai più fuori di lì.»

«Ma è per questa via che i nostri morti sono sempre andati al cimitero; è per questa via che passeranno ancora, che ti piaccia o no!»

Non era il momento migliore per infilarmi in una discussione simile. Feci spostare la barriera, ben deciso a rimetterla a posto subito dopo e a vietare d’ora in poi, con tanto di cartello, il passaggio per questo campo così pericoloso.

Quando però la sera ne parlai con mia moglie e coi vicini, tutti mi risposero con una sola voce: «Che idee! Bloccare la strada della morte! Non avremo più una sola notte di riposo in questa casa! I morti a cui tu avrai impedito di passare per una strada consacrata a loro verranno ad aggredirci nei nostri letti, ci butteranno a terra e ce ne faranno di tutti i colori! Non pensarci nemmeno a commettere una simile empietà!»

Mi dovetti arrendere. Le barriere fisse sparirono definitivamente. Le ho rimpiazzate con muretti di pietra secca, facili da demolire e ricostruire.»

(Raccontato da René Alain. - Quimper, 1887.)

I morti sembrano controllare loro stessi che le loro strade rimangano sempre libere.

Un coltivatore di Argol, una sera, era andato a portare del letame in uno dei suoi campi attraversati da una strada della morte e lasciò la carretta sganciata all’ingresso del passaggio, dicendosi che l’avrebbe scaricata il giorno seguente. Rientrò a casa, cenò e andò a letto. Dormiva già da un poco, quando di colpo si senti scrollare rudemente da una mano troppo dura per essere quella della moglie.

«Eh? Che cosa c’è?» disse lui, svegliandosi all’improvviso.

Si sporse tra le imposte del letto chiuso e non vide nessuno, ma una voce che non era certo quella di un essere vivente gli disse con tono minaccioso: «Alzati e vai subito a sgomberare la “strada del cadavere”, oppure il primo viaggio che farà la carretta sarà per portare te sottoterra.»

Non se lo fece ripetere due volte.

(Comunicato da Pierre Le Goff.)

Avviene soprattutto lungo queste piccole strade malmesse, chiamate strade della morte, di incontrare la carretta dell’Ankou.

XXVIII - Sul passaggio dell’Ankou.

Una domenica sera che mi ero attardato in paese, rientrato all’alloggio trovai mia moglie e la serva mezze morte di paura. Avevano un’aria così sconvolta che ne fui spaventato io stesso. Evidentemente era successa una qualche disgrazia, in mia assenza. Stavo allevando in quel periodo un puledro magnifico: il mio primo pensiero fu che si fosse rotto una zampa.

Vedendo che le donne se ne stavano là senza aprire bocca, come due ebeti, io gridai: «Ma allora, parlate! Che cosa è successo?»

Mia moglie si decise finalmente ad aprire bocca: «Non hai incontrato qualcosa lungo la strada?» mi disse con una voce ansimante.

«No, niente. Perché?»

«Non hai visto uscire una carretta dalla strada della morte

«No, davvero.»

«Neanche noi, noi non l’abbiamo vista, ma in compenso ti assicuro che l’abbiamo sentita! Era laggiù, sulla salita. Gesù, Dio, che rumore! I suoi cavalli sbuffavano con una tale forza, che sembrava di sentire il fracasso di un vento di burrasca. Il cigolio dell’asse spaccava i timpani. A un certo punto il tiro di cavalli si è messo a pestare gli zoccoli sul posto, come se non riuscisse a salire il pendio. Ah! Davano certi colpi con gli zoccoli sulla terra! Risuonavano come un martello su una incudine. Il rumore è durato cinque o sei minuti, poi, all’improvviso, tutto ha taciuto. La domestica Maria e io, noi ci guardavamo con stupore durante tutto questo baccano. Non osavamo muoverci, né l’una né l’altra. Non so come abbiamo fatto a non impazzire.»

«Molto folli, di sicuro! Avevate proprio bisogno di ridurvi così per un carretto di passaggio?»

«Oh, non era una carretta come le altre! Dopotutto non ci sono che le carrette di sepoltura che osano percorrere quella strada e nessuno è morto in questa zona.»

«E dunque?»

«Scrolla le spalle finché ti pare. Te lo dico io, io, che Carr ann Ankou è in giro dalle nostre parti. Non tarderemo molto a scoprire chi è la persona che è venuto a cercare.»

Lasciai parlare mia moglie e uscii subito per andare a dare una occhiata alle stalle.

Quando fui tornato, trovai in cucina uno dei nostri vicini più prossimi. Aveva l’aria sofferta; lo avevo raggiunto per chiederli il motivo, quando mia moglie mi disse: «Spero che non ti prenderai più gioco di me, René. Ecco Jean-Marie che è venuto ad annunciarci che sua figlia primogenita è morta all’improvviso e mi prega di andare a vegliare il suo cadavere.»

Ovviamente io non ebbi niente da ribattere.

(Raccontato da René Alain. - Quimper, 1887.)

XXIX - La strada sbarrata.

Tre giovani, i tre fratelli Guissouarn del villaggio di Enès, in Callac, rientravano in una serata d’inverno in una fattoria molto lontana da loro. Per tornare, dovevano seguire per un certo tratto l’antica via regale da Guingamp a Carhaix. Il tempo era asciutto e la luna luminosa, ma il vento dell’est soffiava con violenza.

I nostri ragazzi, rallegrati dal sidro, cantavano a pieni polmoni, divertendosi a far risuonare le loro voci più in alto del vento.

D’un tratto videro qualcosa di nero al bordo del fosso. Era un vecchio tronco di quercia, che la tempesta aveva sradicato dalla scarpata.

Yvon Guissouarn, il più giovane dei tre fratelli, che aveva un animo predisposto ai dispetti, si immaginò una bella bravata.

«Sapete?» disse. «Andiamo a trascinare quell’albero di traverso in mezzo alla strada e, davvero, se dopo di noi arriva qualche barrocciaio, dovrà proprio scendere dalla sua vettura per spostare l’albero, se vorrà passare.»

«Sì, questo gli farà tirare qualche bella bestemmia!» accettarono gli altri.

Ed eccoli a trascinare il tronco di quercia in mezzo alla strada. Poi, tutti contenti di aver fatto un così bel lavoro, raggiunsero il loro alloggio. Non si coricarono però nella casa: per essere più a portata di mano per prendersi cura degli animali, tutti e tre avevano i letti nella scuderia25 assieme ai cavalli. Siccome erano rimasti alzati fino a tardi e avevano accumulato molta fatica nella loro giornata di lavoro, non passò molto tempo prima che si fossero addormentati. Proprio nel più profondo del loro primo sonno, però, furono svegliati di soprassalto. Qualcosa batteva rumorosamente alla porta della stalla.

«Che cosa succede?» domandarono, scendendo dalle loro brande.

Chiunque stesse bussando si limitò a picchiare di nuovo, senza rispondere.

Il maggiore dei Guissouarn corse allora alla porta e la spalancò: non vide che la notte chiara, non udì che il forte respiro del vento. Cercò di chiudere di nuovo la porta, ma non ci riuscì. Neppure quando i suoi fratelli unirono le proprie forze alla sua riuscirono a chiuderla. Fu allora che la paura li colse, facendoli tremare, e dissero con tono supplichevole: «In nome di Dio, parlate! Chi siete? Di cosa avete bisogno?»

Nessuno si mostrò, ma una voce sorda si fece sentire, dicendo: «Chi io sia, lo scoprirete a vostre spese, se l’albero che voi avete messo in mezzo alla strada non sarà riportato contro la scarpata. Subito! Ecco di cosa ho bisogno. Venite.»

Andarono così come erano, ossia mezzi nudi, e in seguito avrebbero dichiarato di non aver neppure sentito il freddo, tanto erano terrorizzati in quel momento. Quando ebbero raggiunto il tronco dell’albero, videro che una strana carretta, bassa sulle ruote, tirata da cavalli senza finimenti, aspettava di poter passare. Credetemi pure, hanno fatto bene in fretta a riportare l’albero abbattuto là dove lo avevano trovato. E l’Ankou, perché era lui, toccò i suoi animali, dicendo: «Poiché avete sbarrato la strada, voi mi avete fatto perdere un’ora: è un’ora che ognuno di voi mi dovrà rendere. Se voi non aveste obbedito subito al mio ordine, voi mi avreste dovuto tanti anni della vostra vita quanti sono stati i minuti che l’albero è rimasto in mezzo alla mia strada.»

(Raccontato da un muratore di Callac.)

Le case nuove e la Morte.

Non bisogna mai entrare per la prima volta in una casa che abbiamo appena fatto costruire, senza farsi precedere da un qualunque animale domestico: cane, gatto, pollo, quello che è.

Quando una nuova casa è in costruzione, prima ancora che abbiate messo piede sul gradino della soglia l’Ankou vi si è già venuto a sedere, per spiare la prima persona della famiglia che entrerà26. Non c’è che un modo per evitarlo: offrirgli come tributo la vita di qualche animale. Può anche bastare un uovo, purché sia stato covato. Nel paese di Quimperlé, si sacrifica un gallo e si bagnano le fondamenta col suo sangue.

XXX - L’Ankou nella casa nuova.

Fulupic an Toër, un conciatetti di paglia, di Plouzélambre, terminava una sera di coprire una casa nuova che un piccolo fattore della comunità aveva fatto edificare con l’intenzione di venirvi ad abitare per il successivo giorno di S. Michele.

A lavoro concluso, Fulupic scese dalla scala e la tolse, per chiuderla all’interno della casa assieme al resto dei suoi attrezzi, come era solito fare ogni sera quando era tempo di tornare al proprio alloggio. Aprendo la porta per questo motivo, però, stavolta fu sorpreso di trovare un’ombra al suo interno, nel corridoio che separa la cucina dalla zona di deposito27.

«Piou zo azé (Chi è là)?» chiese, non senza un brivido lungo la schiena, perché era certo che, per tutta la giornata, non si era fatta vedere anima viva nei dintorni.

L’ombra non si mosse, né rispose, così lui domandò di nuovo: «Piou zo azé

Ancora silenzio da parte dello sconosciuto.

«Dio santo,» si disse Fulupic, «Ecco una tizio che non sembra avere molta voglia di fare conversazione. Non dovrebbe però essersi infilato qui dentro per rubare, perché non vedo proprio cosa potrebbe trovare di interessante in un posto dove ci sono solo il tetto e le pareti. Glielo chiederò una terza volta; se continuerà a fare il muto, peggio per lui, perché gli infilerò la mia scala nella pancia: questo magari gli farà aprire la bocca, una buona volta.»

E così Fulupic ripeté per la terza volta: «Piou zo azé

E questa, in effetti, fu la volta buona, perché l’uomo misterioso sollevò la testa, che aveva fino a quel momento tenuto ostinatamente chinata sul petto, e disse con una voce cavernosa: «Da vestr ha mestr an holl, pa leuz c’hoant da glewed (Il tuo padrone e il padrone di tutti, dato che lo desideri sapere).»

La curiosità di Fulupic fu più che soddisfatta. Sul viso dell’uomo, al posto degli occhi e del naso c’erano buchi vuoti e la mascella inferiore pendeva. Il conciatetti non si preoccupò di ricevere altre spiegazioni. Scaricò la scala lì dove si trovava e scappò a gambe levate: aveva riconosciuto l’Ankou.

(Raccontato da Jobenn Daniel. - Ploumilliau.)

XXXI - La ballata dell’Ankou28.

Vecchi e giovani, seguite il mio consiglio.
Mettervi in guardia è il mio proposito;
Perché la morte s’avvicina ogni giorno,
Tanto per l’uno quanto per l’altro.
«Chi sei tu?» disse Adamo.
«A vederti fai spavento.
Terribilmente sei magro e disfatto;
Non c’è un grammo di carne sulle tue ossa!»
«Sono io, l’Ankou, compagno!
(Sono io) che pianterò la mia lancia nel tuo cuore;
Io, che renderò il tuo sangue tanto freddo
Quanto il ferro o la pietra!»
«Sono ricco in questo mondo;
Di beni ne ho a profusione;
Se tu mi vorrai risparmiare,
Te ne darò tanti quanti ne vorrai.»
«Se volessi ascoltare le genti,
Accetterei da loro un tributo;
(fosse anche) solo un mezzo denaro per persona,
Sarei coperto di ricchezze!
Ma neppure uno spillo accetterò mai,
E a nessuno farò mai grazia,
Perché né a Gesù né alla Vergine
Ho voluto fare grazia.
Un tempo i padri antichi29
Più di cent’anni restavano sulla breccia.
Eppure, vedi, sono morti,
Alla fine, dopo parecchio!
Monsignor san Giovanni, amico di Dio;
Suo padre Giacobbe, che pure lo fu;
Mosè, puro e sovrano;
Tutti li ho toccati con la mia verga.
Né papi né cardinali risparmierò;
Di re (non ne risparmierò) neppure uno;
Non un re, non una regina;
Né i loro principi, le loro principesse.
(Non risparmierò) arcivescovi, vescovi o preti;
Né nobili, gentiluomini o borghesi;
Né artigiani né mercanti;
Né ugualmente la manovalanza.
Ci sono giovani in tutto il mondo,
Che si credono forti e agili;
Se io li dovessi incontrare
Mi sfiderebbero alla lotta.
Ma non ti ingannare, amico!
Sono il tuo compagno più vicino,
Quello che è al tuo fianco notte e giorno,
Attendendo solo l’ordine di Dio.
Attendo solo l’ordine del Padre Eterno!
Povero peccatore, ti vengo a chiamare.
Sono io, l’Ankou, di cui nessuno si libera!
Che viaggia invisibile attraverso il mondo!
Dall’alto di Ménez, con un solo colpo di fucile,
Ne uccido cinquemila in un cumulo30

(Cantata da Laur ar Junter. - Port-Blanc, agosto 1891.)

NOTE

1 - L’Ankou è la morte personificata. Secondo una comunicazione di George Henderson, professore di celtico all’Università di Glasgow, An t-Aog “La Morte” è talvolta personificata in Scozia nello stesso modo dell’Ankou.
2 - A Guémené-sur-Scorff e a Berné è il primo morto a diventare l’Ankaw. Si dice a Guémené che l’Ankaw dell’anno strangola quelli che muoiono dopo di lui (J. Loth, Annales de Bretagne, t. IX, p.462).
In J. Mahé, Antiquités du Morbihan, p. 114, l’Ankou è lo spettro precursore della morte. Un operaio cadde dal tetto che stava riparando e a chi gli domandava la causa dell’incidente disse: «Non ho commesso alcuna imprudenza; è il mio ankou che mi ha buttato giù». Nelle Lettres Morbihannaises, l’Ankou rappresenta una idea molto vaga. «La piccola meteora vista (di notte) non può essere che l’anima errante dell’ultimo morto della casa o del villaggio; una volta segnalata, riapparirà le notti successive, a volte sotto forma di faina o gatto, sgusciando furtiva in un granaio, a volte come gufo immobile sul bordo di un tetto, oppure di cavallo smarrito che galoppa e nitrisce attorno a un paesino costernato» (Lettres Morbihannaises, Lycée Armoricain, t. XIII, 1829, p. 48). Cfr. Y. Le Diberder, Annales de Bretagne, t. XXVII, pp. 418-419.
3Questa è la concezione che M. Le Rouzie ha notato a Carnac (Carnac, p. 136).
4 - Possiamo vedere nella chiesa di Ploumilliau una curiosa rappresentazione di quest’ultimo tipo. È una statuetta in legno una volta colorata, ma che il tempo ha coperto di uno spesso strato di polvere. Ricorda in un certo modo gli “scorticati” che ornano bizzarramente la maggior parte degli studi di storia naturale, ma il ventre è incavato in un buco spalancato. Questo “Ankou” è stato il terrore della mia infanzia. La sua vicinanza disturbava sempre le mie giovani preghiere. Ricordo di aver visto donne anziane inginocchiarsi davanti a lui. in paese lo hanno soprannominato Ervoanik Plouillo, Yves de Ploumilliau (col diminutivo ironico). Non si va mai a Ploumilliau senza fargli visita. Riceve più o meno lo stesso trattamento di san Yves della Verità (vedi cap. V). Ecco in seguito a quale circostanza. La storia è simpatica e merita di essere raccontata, non fosse altro che per mostrare come siano ancora vive nella Bassa Bretagna le superstizioni sulla morte.
A Ploumilliau c’è un funzionario, persona eccellente in generale, che ha il torto agli occhi di molti abitanti dei dintorni di ostentare un disprezzo troppo forte per le credenze o, se preferite, le superstizioni care alla gente. Queste persone sono naturalmente piuttosto scontente di lui. una di queste, in particolare, prova per lui un vero e proprio odio. Chiamiamola Janik e il funzionario M.K.. Capirete facilmente perché evito di usare i nomi reali. Accade così che, pensando che M.K. non si convertirà mai, Janik ha cominciato a desiderare la sua morte. I nostri compaesani della Bassa Bretagna non sono teneri coi miscredenti. Per raggiungere questo obiettivo, Janik va a trovare l’Ankou. Gli dedica delle novene e lo supplica, nelle preghiere appropriate, di sopprimere un uomo che è uno scandalo per la parrocchia. Quindi resta in attesa, fiduciosa. Passa un mese, poi, due, poi tre. M.K. continua a stare benissimo. Cosa fa dunque la falce del terribile mietitore? Si è smussata? Ha perso tutta la forza? Janik si spazientisce, si fa inquieta. Non è possibile che l’Ankou non abbia sentito la sua preghiera. Se non l’ha già esaudita, significa che è diventato troppo vecchio e ha bisogno di essere ringiovanito. Durante quel lungo tempo inginocchiata davanti all’immagine misteriosa, Janik non ha potuto non accorgersi che ha un misero aspetto. Il peso del tempo si è accumulato su di lei. È tutta grigia. Bisogna restituirle il suo colore.
Janik fa aggiogare il carro con le panche, parte per Lannion e si procura un imbianchino.
Nel pomeriggio dei giorni della settimana, le chiese dei borghi bretoni sono generalmente deserte. Al massimo c’è qualche vecchia molto pia e senza impegni, che sgrana il suo rosario in un angolo. Ma lei è tutta immersa nella sua devozione, orecchio e anima chiusi a tutto ciò che non sia la sua preghiera. L’imbianchino arriva, appoggia la scala al sesto interno dell’androne, riveste Ervoanik con una mano di calce multicolore e se ne va, senza neppure essere visto. Janik si sfrega le mani. La sua vendetta è ormai assicurata. Pensateci! Un Ankou tutto nuovo!
Arriva la domenica. La grande messa è affollata. Il vicario parrocchiale M. comincia la sua predica. Che vento di distrazione soffia tra i suoi fedeli? Continuano tutto il tempo a girare la testa, parlottano tra loro; qualcosa di insolito è successo di sicuro, sul fondo della chiesa; il vicario M. va a guardare e non è meno sorpreso dei suoi parrocchiano nello scoprire che l’Ankou ha fatto una pelle nuova.
Conclusione: siccome il vicario M. non ama che qualcuno tocchi le statue della chiesa senza il suo permesso, sia anche per restaurarle, e siccome, d’altra parte, non aveva potuto non scoprire cosa fosse successo e non volendo incoraggiare progetti così poco evangelici, non potendo punire Janik doveva almeno castigare Ervoanik, suo complice innocente esiliandolo dall’androne dove troneggiava sinistro e relegandolo al secondo piano della torre, in una sorta di ospizio per santi infermi o disoccupati, che a Ploumilliau è chiamato la “camera del lino”. Qui si depositano in attesa della vendita le matasse di lino pettinato che le buone anime portano ogni domenica come offerta alla grande messa. La camera ha poi cambiato destinazione. Quando ero bambino, era già usata per stivare le statue danneggiate o fuori moda. Mi ci sono intrufolato molto spesso seguendo le orme del campanaro. Ritrovo ancora viva sul fondo della mia memoria l’impressione di strano terrore che mi incuteva questa gente di legno, con la sua immobilità, il suo silenzio e la fissità inquietante degli occhi. Chi vuole ormai fare visita a Ervoanik Plouillo deve andarlo a cercare in questo luogo d’esilio (cfr. Le Fureteur breton, t. VIII (1912), p. 31). - Ahimè! Purtroppo oggi (1921) devo aggiungere che non c’è neppure più. Volendole rivedere di recente, ho scoperto che se ne sono “sbarazzati” già da diversi anni, come di un oggetto privo di interesse, vendendolo per una piccola cifra a uno dei miei vecchi condiscepoli, grande collezionista di “antichità”, che si era dovuto ricoverare nella propria villa di Saint-Effram, a cinque o sei chilometri da Ploumilliau. Che ne è stato in seguito? La morte del suo compratore, avvenuta nel frattempo, lo ha condannato a un esilio ancora più lontano?oppure, da un decadimento all’altro, ha alla fine trovato anche lui, a propria volta, quel termine di tutto che lui rappresentava? Tutte domande che sono costretto a lasciare senza risposta.
5 - Cfr. Luzel, Revue de Bretagne et de Vendée, t. C, 1861, p. 434.
6 - A Carnac si dice che siano due buoi o un cavallo bizzoso (Le Rouzic, Carnac, p. 136). La carrozze della morte è conosciuta in Irlanda; a Kilcurry è chiamata dead coach o deaf coach; è nera, trainata da quattro cavalli senza testa, condotta da un cocchiere senza testa; non fa alcun rumore. La strada che segue è ben determinata e la si può tracciare su una mappa: parte dalla chiesa e fa un giro completo prima di ritornarvi. Questa carrozza è un presagio di morte, ma non per la persona che la incontra (Brian J. Jones e W. B. Yeats, Traditions and superstitions collected out of Kilcurry, co. Louth, Folklore, t. X, pp. 119, 122. Cfr. Cr. Croker, Fairy legends, p. 250).
In Cornovaglia, al contrario, chi la incontra morirà molto presto. A Penzance è una carrozza di stile antiquato, trainata da due cavalli senza testa, di cui si sente il rumore a mezzanotte (Miss Courtney, Cornish Folklore, The Folklore Journal, t. V, p. 107). Per la credenza popolare, i cavalli e il cocchiere hanno sì una testa umana, ma la testa è invisibile; se la vedessimo, potremmo riconoscere le persone le cui anime fanno così penitenza (W. Bottrell, Traditions and hearthside stories, seconda serie, p. 66).
In Irlanda, la vista durante la notte di una vettura che avanza senza essere tirata da cavalli è una premonizione di sfortuna (Folklore, t. IV, p. 352).
7 - “Si parla di Cariquel Ancou (la carriola della morte). È coperta da un drappo bianco, gli scheletri la conducono; si sente il rumore delle sue ruote quando qualcuno sta per morire” (Cambrys, Voyage dans le Finistère, t. I, p. 72). A Carnac, prima delle tempeste si sente il rumore di una carriola malmessa. È il rumore della carriola che era servita ai chouans per trasportare il cadavere di un soldato repubblicano (Le Rouzic, Carnac, p. 89).
8 - Vicino a Bégard (Côtes-du-Nord).
9 - Si dice sia kar (carretta), sia karric (piccola carretta), sia infine karriguel (carriola) per indicare il carro della Morte.
10 - Vedi in precedenza. Un pescatore di Bono ritornando al porto vide uscire dall’acqua la testa di un uomo coperta da un grande cappello piatto di feltro.
11 - Una specie di grog al sidro.
12 - Non va bene fischiettare in strada, di notte. Un uomo che aveva questa abitudine sentì dietro di sé qualcuno che fischiettava meglio di lui. Era il diavolo. Non c’è che il diavolo a fischiettare di notte (P.Y. Sébillot, Contes et légendes du pays de Gouarec, Revue de Bretagne, de Vendée et d’Anjou, t. XVIII, p. 66).
13 - Nel paese di Tréguier i letti chiusi hanno delle tendine al posto delle ante.
14 - In bretone si dice, con una parola espressiva: eun huannadenn.
15 - Cfr. A. Le Braz, Vieilles histoires du pays breton, pp. 223-243.
16 - Non c’è antica dimora signorile nella Bassa Bretagna che non abbia fama di essere stata il castello della “duchessa Anna”.
17 - Cfr. R. F. Le Men, Traditions et superstitions de la Basse-Bretagne (Revue celtique, I, pp. 427 e seguenti); A. Le Braz, Les saints bretons d’après la tradition populaire (Annales de Bretagne, t. XII, pp. 87-88).
18 - In Bassa Bretagna, il cimitero circonda di solito la chiesa e nel cimitero si allestisce un calvario di legno o più spesso di granito, orientato verso la piazza del paese. Il suo piedistallo, che in certi posti ha anche la forma di una sedia, serve quasi sempre da tribuna politica. È da lassù che gli oratori profani si rivolgono al popolo. “Salire sulla croce” è sinonimo di arringare.
19 - In Irlanda, se una donna sposata cammina su delle tombe, suo figlio avrà un piede storto (lady Wilde, Ancient legends, p. 205). Se si inciampa contro una tomba e si cade a terra, si morirà entro la fine dell’anno (ibid., p.83).
20 - È il soprannome del maiale nella Bassa Bretagna.
21 - Nella maggior parte delle storie irlandesi si può sottolineare che i revenant rifiutano di mangiare o di bere (Curtin, Tales of the fairies, p. 128; G. Dottin, Contes et légendes d’Irlande, p. 26).
22 - Cfr. O. Perrin e A. Bouet, Galerie bretonne, t. III, pp. 158-159.
23 - Non mancano luoghi in Bassa Bretagna dove esiste ancora questo tipo di servitù di passaggio. Le strade della morte furono spesso registrate anche al catasto. È così che un campo, a Trégrom, cantone di Plouaret, Côtes-du-Nord, è indicato col nome di Pare Hent an Haon. Hent an Haon, che oggi si dovrebbe leggere Hent ar C’hanw, significa “la strada del lutto” e uno di questi sentieri attraversava evidentemente il campo chiamato così.
24 - In Irlanda la strada che bisogna percorrere per le sepolture non è una qualunque. Nel Connaught non bisogna andare a una sepoltura seguendo un percorso diretto (Deeney, Peasant lore from Gaelic Ireland, p. 77; cfr. Haddon, A batch of Irish folklore; Folklore, t. IV, p. 357). Nella contea di Wicklow, a Castlemacadam, il convoglio funebre deve attraversare il fiume (G.H. Kinahan, Notes on Irish folklore; The Folklore record, t. IV, p. 119). Il motivo è, senza dubbio, la diffusa credenza che gli spiriti malvagi non possono attraversare l’acqua.
25 - Nella Bassa Bretagna, stalla e scuderia si chiamano crèche.
26 - In Scozia, si crede che la costruzione di una casa comporterà entro breve la morte del proprietario (Walter Gregor, Revue des traditions populaires, t. VI, p. 173; cfr. Goodrich-Freer, More folklore from the Hebrides, Folklore, t. XIII, p. 52). Nel Morbihan, si crede che siano quelli che vanno ad abitare nella casa nuova a rischiare di morire entro l’anno. Per evitare questo fato, bisogna che la casa sia prima abitata da una persona sola, meglio se celibe (F. Marquer, Traditions et superstitions du Morbihan, Revue des traditions populaires, t. XI, p. 660).
Non si ricostruisce una casa dove qualcuno è stato bruciato (Curtin, Tales of the fairies, p. 113).
27 - Parola per parola, il pezzo-di-sopra dal pezzo-di-sotto (ar penncrec’h hag ar penn-traou). La maggior parte di queste case bretoni non ha che un pianterreno diviso in due parti: una che serve da abitazione e l’altra da deposito o anche da stalla.
28 - Cfr. Annales de Bretagne, t. V, pp. 458-461.
29 - I patriarchi.
30 - Confrontate la creazione della Morte nel mistero bretone della Creazione del mondo.
DIO PADRE
«Creerò la Morte, che sarà supremamente impietosa. Ucciderà Adamo, Eva la sua sposa, e tutti gli uomini, discesi da loro, che partecipando della loro natura avranno vita.
Morte crudele, ti ordino in questo momento di alzarti e metterti in marcia attraverso il mondo intero. Tu li ucciderai tutti, senza pietà; andrai nel cuore dei loro palazzi a cercare i re.
Obbedirai al primo comandamento. Né vecchio né giovane ti potranno sfuggire. Viaggerai di notte come di giorno. Che urlino o che piangano, non lasciarti intenerire.
Avrai un corpo che sarà leggero e rapido, capace di percorrere il mondo in un batter d’occhi. Camminerai sul mare così come sulla terra. Mai si sarà vista creatura così crudele o insensibile.
Avrai frecce che sibileranno con violenza. Dove entrerai tu, porterai lo spavento.

LA MORTE
Mio Dio, mio creatore, ti ringrazio di avermi messo al mondo e di avermi chiamato La Morte. Sul mare e sulla terra di certo camminerò. Mai, quanto a me, concederò la grazia a qualcuno.
Poiché mi date potere sulla vita di ognuno, quando scoccherà la loro ora, non servirà a nulla fare storie...»
(Estratto di un manoscritto proveniente dalla biblioteca di M. Luzel.)
La Morte è, del resto, come appostata dietro a ogni pagina di questo mistero. Appena creata, si presenta davanti ad Adamo per minacciarlo, si siede vicino a Eva quando lei partorisce, assiste al furore di Caino e cammina insomma attraverso tutto il dramma col suo spettro orrendo, il suo ritornello sinistro: Ia, me é ar Maro! (Sì, sono io la Morte) Sull’Ankou nel teatro celtico, vedere A. Le Braz (Histoire du théàtre celtique, pp. 105-107, 296, 416-417).