Adriano - racconti e altro

Orizzonti di plastica

Capitolo primo

Il giorno del suo destino, Fedele Innocenti si svegliò cinque minuti prima dell’odioso allarme del cellulare, come sempre. Più o meno verso l’una di notte, aveva trovato la strada del letto e vi si era lasciato cadere in uno strano dormiveglia. Doveva anche avere indossato il pigiama, ma di questo evento non conservava tracce nella memoria. Pazienza, non era importante. Era importante invece che si sentiva riposato come dopo un turno in miniera, ma ormai gli toccava prepararsi a una nuova, luminosa mattinata di lavoro. Al resto, tanti saluti.

C’era caldo. Per qualche assurda ragione, Eva aveva lasciato aperta la finestra del bagno e adesso, oltre a esserci caldo, c’era anche un simpatico odore di pneumatico bruciato. Fedele la chiuse con un brontolio poco amichevole, poi azionò il climatizzatore, per ripulire l’ambiente.

Mercoledì undici giugno. Possibile che alle sette del mattino facesse già così schifosamente caldo? Possibile, anzi era un dato di fatto. Non c’erano proprio più le mezze stagioni, brontolò mentre si lavava. Non c’erano proprio più le stagioni e basta, ecco! Al notiziario della sera prima, il ministro del tempo aveva promesso sole e caldo per tutta la settimana, il che era certo una buona notizia per i vacanzieri, ma lo era molto meno per i lavoratori. Tipo lui, per esempio.

Che schifo di clima!

Borbottava ancora, mentre ingurgitava un paio di brioches e un caffè al calor bianco. Eva lo guardò perplessa, poi si strinse nelle spalle e preparò la colazione anche per sé. Era sempre così, al mattino, espansivo come uno sturalavandini in febbraio.

«Stasera a che ora torni?» gli chiese.

«Solito. Se non ci saranno problemi, ovvio.»

Con quella eloquente risposta, Fedele tornò in camera, finì di prepararsi, salutò la moglie e uscì, per una nuova giornata in azienda.

Il condominio era deserto a quell’ora, ma in effetti era quasi sempre deserto. Nell’atrio incrociò di sfuggita quello del quarto piano, il poliziotto o roba simile, che probabilmente tornava ora dal turno, in divisa verde di ordinanza. Aveva la faccia sfatta, sotto il pesante monociglio, e dimostrava almeno una decina di anni in più rispetto ai suoi trenta. Ecco qualcuno che se la passa peggio, forse, pensò Fedele.

Non lo invidiò, ma lo dimenticò in fretta.

Attraversò a passo rapido il tunnel pedonale, verso la stazione della metropolitana. Lì sotto, l’aria era fresca e gradevole, con un profumo che non sapeva definire di preciso, ma gli faceva ricordare l’arbre magique nell’auto di suo padre, quando era bambino. Qualche centinaio di metri, una breve attesa, poi il treno se lo portò via, assieme ad altre cento facce senza nome, che da anni viaggiavano con lui, come una coreografia mobile ai suoi pensieri. Notiziari e musica coprivano ogni cosa.

E mentre il marito viaggiava verso il posto di lavoro, anche Eva cominciava la sua giornata.

Per prima cosa, spense il climatizzatore. Non lo sopportava. Ok in piena estate, ok alle ore più calde del giorno, ma di prima mattina no. Spalancò invece tutte le finestre, per aerare l’appartamento. Per quanto fosse possibile aerare un appartamento al terzo piano, in un quartiere residenziale fatto di condomini e palazzi, che lasciavano il mondo in ombra.

L’odore di pneumatico bruciato, a poco a poco, si affievoliva, per essere sostituito da un odore che Eva conosceva molto meglio: il sublime aroma delle uova marce. Non aveva mai capito di preciso da dove venisse, ma sapeva che, più o meno a quell’ora, ogni giorno riempiva l’aria del quartiere. E forse era meglio non farsi troppe domande. Odiava quell’aria appestata, ma odiava ancora di più il sapore artificiale dell’aria nelle case e nei luoghi pubblici. Si respirava plastica.

La musica la accompagnò, mentre si dedicava ai soliti, noiosi compiti quotidiani. Spolverò, spazzò, risistemò i letti, cambiò asciugamani e così via, canticchiando e stonando qui e là. Il canto non era il suo forte e lei lo sapeva, per cui lo praticava soltanto quando restava sola in casa. Per sua fortuna, ciò accadeva piuttosto spesso. Al resto, provvedevano le pareti insonorizzate.

Spazzando in corridoio, sfiorò la porta dello studio del marito, ma non la aprì. Non c’era mai entrata, per un tacito accordo tra loro. Senza figli e con posto in esubero, si erano riservati una stanza a testa, un anfratto di privacy precluso anche al coniuge. Lei non toccava lo studio di Fedele e Fedele non toccava il suo studio. Per quanto ne sapeva, era un patto che avevano sempre rispettato ed era anche uno dei motivi per cui il loro matrimonio reggeva ancora bene, con tutta probabilità.

Era stato molto diverso, all’inizio. Lei aveva appena cominciato l’università, lui era disperso già da qualche anno nel limbo post-laurea, un labirinto nebbioso in cui minacciava di perdersi per sempre. Non la aveva impressionata più di tanto, all’inizio. Anzi, si era proprio dimenticata di lui: aveva già allora la presenza di un pesce rosso e non era esattamente un bel ragazzo, anche se dimostrava meno anni di quanti ne avesse in realtà. Di sicuro, non colpiva l’occhio.

Eppure era andata a finire così. Fedele l’aveva contagiata a poco a poco, come la malaria, o forse si era solo abituata a lui, a vederselo attorno, a parlargli. Proprio parlandogli, aveva scoperto che era a modo suo molto interessante, anche se privo di carisma e con una personalità di ricotta. Ma dietro il suo apparente vuoto, Eva aveva scorto qualcosa di più: Fedele le era sembrato l’uomo che la poteva capire ed essere sempre accanto a lei, nelle sue battaglie. La ascoltava, a differenza degli altri, aveva idee proprie e non temeva di mostrarle e difenderle. Allora, quando l’aveva conosciuto.

A dieci anni di distanza dal loro matrimonio, doveva ammettere che forse non aveva visto giusto, o almeno lo aveva sopravvalutato parecchio, ma questo era un altro paio di maniche. E adesso eccola lì, a risistemare l’appartamento in cui vivevano. Un bell’appartamento, per carità, ma un po’ troppo vuoto per i suoi gusti. Soprattutto, avrebbe voluto che Fedele la appoggiasse ancora, adesso che lei aveva cominciato davvero a combattere. Invece, lui neppure lo sapeva. Anche le sue idee parevano dissolte nell’aria, evaporate a poco a poco. Non parlava di nulla: sedeva e basta, guardando la tv.

Era stato proprio il matrimonio a cambiarlo e lei non aveva mai capito il perché. Supponeva però che suo padre c’entrasse qualcosa. Il benemerito avvocato Giulio Bianchi non era proprio contento del fidanzato che la figlia si era trovata: troppo vecchio e troppo spiantato per i suoi gusti, con la faccia di chi non avrebbe combinato niente di buono nella vita. Le aveva detto più volte, e in toni espliciti, di cambiarlo con qualcosa di meglio. Lei non lo aveva ascoltato. Così, alla fine, si era dato da fare lui stesso. Aveva preso da parte Fedele, erano andati in qualche posto assieme e al ritorno il futuro genero era stato assunto nell’azienda in cui lavorava tuttora.

Cosa si fossero detti o cosa fosse successo in quel viaggio, per Eva Bianchi era un mistero. Nessuno dei due gliene aveva mai parlato. Fedele aveva ottenuto un lavoro stabile, aveva abbandonato quel limbo in cui si trovava e due anni dopo si erano sposati, proprio nel periodo dell’Expo a Milano.

Da allora, però, era anche diventato un’altra persona.

Aveva provato a chiedergli qualcosa, subito dopo il matrimonio, ma lui si era quasi trasformato in un porcospino umano. Niente da fare, sembrava proprio un terreno minato. Non vi aveva accennato piĂą. Intanto, la vita continuava e il solco tra loro si allargava, in silenzio, come in silenzio accade la maggior parte delle cose, ogni giorno.

Eva finì di spazzare, distese la schiena in un crescendo di schiocchi e fece il giro dell’appartamento, per chiudere tutte le finestre. L’aria si era già cambiata a sufficienza: ancora un poco e poi avrebbe dovuto indossare la mascherina anche dentro casa. Peggiorava ogni giorno, quel clima.

Tempo di aprire la seconda fase della giornata: la spesa. Eva si tappò in bagno per un tempo che le parve ragionevolmente lungo, si lavò, si cambiò, controllò in cucina cosa mancasse e con un sospiro poco entusiasta uscì di casa, per avventurarsi nel magico mondo della città al mattino.

Tappa obbligata: la stazione della metro, da raggiungersi esclusivamente tramite i tunnel pedonali di collegamento, ribattezzati da lei “piedopolitana”. Si sentiva sempre un verme, a strisciare laggiù, tra le viscere della città, ma non aveva alternative. La vita si era spostata in basso, per chi non poteva o non voleva viaggiare in auto. Sopra i veicoli, sotto gli umani: se volevi trasgredire, lo facevi a tuo rischio e pericolo, soprattutto adesso che i marciapiedi erano stati tolti quasi ovunque, per allargare le strade. Eva si rassegnò come sempre a camminare nell’aria condizionata del tunnel, luci artificiali sopra la testa e suolo gommoso sotto i piedi. Poca gente in giro, a quell’ora.

Casalinghe e pensionati, questa la folla sul binario della stazione, ad attendere il treno. Quasi tutti li conosceva di vista, ormai, ma quasi nessuno la salutava. Lei tentava a volte di accennare un gesto, un buongiorno, ma il silenzio che riceveva in cambio le strangolava ogni istinto sociale. Così attese in silenzio in un angolo, guardando la mappa verde delle fermate, senza vederla davvero.

Stazione A, stazione B, scale mobili per il centro commerciale, spesa, scale mobili per i binari, poi stazione B e di nuovo stazione A: la sua brillante mattinata di shopping per la casa. Le sole parole che avesse scambiato erano state con la cassiera, al momento di pagare. No, decisamente non era il suo mondo, ma era il solo mondo che avesse a disposizione. Quindi, si adattava.

Aveva pur sempre modi per sfogarsi, altrove.

La seconda fase si chiuse col ritorno nell’appartamento e il sacro rito della distribuzione di cibarie e prodotti per la casa, ognuno sistemato al proprio posto, con attenzione. Non che contasse molto, il loro ordine: li avrebbe potuti spargere a caso e non sarebbe cambiato nulla, perché tanto erano il suo regno personale e Fedele non avrebbe certo brontolato. Le piaceva però avere tutto a posto.

Eva si stiracchiò di nuovo la schiena, guardandosi attorno. Finito anche questo e ancora non erano le dodici. Fedele non sarebbe tornato prima delle sette di sera, la giornata le si spalancava di fronte in un’infinità di tempo vuoto e tranquillo. Proprio come piaceva a lei. Pranzò in fretta, giusto due bocconi scaldati alla meglio, poi tornò a chiudersi in bagno.

Adesso cominciava la parte interessante.

Quando uscì, indossava abiti leggeri e larghi, molto ventilati, e il viso e le braccia luccicavano di un qualche prodotto dall’odore parecchio intenso, forse una crema o forse altra roba. Chissà cosa ne avrebbe detto Fedele, a vederla così! Ma lui non l’aveva mai vista così, neppure lo sospettava. E poi, quello che faceva nel tempo libero non era certo affare di suo marito, così come lei non metteva mai il becco nelle cose che lui faceva, nel suo tempo libero. Non erano molte, in effetti.

Sul pianerottolo, ignorò l’ascensore a cui il reddito le dava diritto e scese leggera le scale, col passo di un bambino l’ultimo giorno di scuola. Nell’atrio c’era Luca Tarca, il loro vicino del quinto piano, con un giornale sottobraccio e i pantaloni di una vecchia tuta. Si salutarono.

«Anche oggi al lavoro?» le chiese lui, sorridendo.

«Come sempre! C’è molto da fare, lo sai» gli rispose. «Anzi, perché non vieni anche tu, una volta? Ti piacerebbe, ci scommetto, invece di star sempre infognato in casa.»

Tarca storse le labbra, scuotendo la testa. «Non direi proprio. Sono un tipo sedentario, lo sai.»

Lo sapeva. Eva gli augurò buona giornata e infilò di nuovo le scale verso la piedopolitana, stavolta con un entusiasmo ben maggiore rispetto alla spedizione per fare spesa. D’altro canto, era una storia diversa, adesso. Prima il dovere, poi il piacere.

E mentre Eva Bianchi si dirigeva verso la stazione della metropolitana, in un altro punto della cittĂ  il fedele marito si preparava alla pausa pranzo, assieme ai colleghi.

La mattinata in ufficio era scivolata via tranquilla, in un mare di niente, con brevi sussulti di vaghe attività. Il suo attuale ruolo era generico a sufficienza da permettergli di delegare il peggio ai diretti subalterni e svicolare le maggiori responsabilità, cosa che quel mercoledì fece di continuo e senza vergogna. Era una delle tecniche che aveva imparato, nei suoi dodici anni di lavoro lì. Il pensiero che il suo destino potesse compiersi proprio in un giorno simile non lo aveva neppure sfiorato.

Accadde invece al ritorno dalla pausa pranzo.

La pausa in sé era passata piuttosto bene. Al tavolo col suo miglior collaboratore, l’ingegner Ettore Sala, e il gruppetto di giovani e giovanili che orbitavano attorno al suo settore, si era dedicato con gioia al miglior passatempo dell’impiegato: il pettegolezzo casuale, con derisione annessa. C’era stato il classico momento di silenzio, quando era passato accanto a loro un frammento dei vertici societari, diretto alla sala riservata: i consiglieri Teodori, Maneschi e Frombola, con assistenti varie. Spariti loro, le consuete chiacchiere erano ricominciate.

«Non c’è l’amministratore, oggi» aveva commentato Sala, poco dopo.

«Sarà in una qualche missione» aveva risposta Fedele, stringendosi nelle spalle. Gli altri lo avevano guardato, senza commentare, e avevano lasciato cadere l’argomento. Non era prudente parlare così dell’amministratore, con Innocenti nei paraggi. Conoscevano il suo ruolo.

Dopo il pranzo, c’era stata la pausa caffè, completamento naturale del precedente. A tenere banco, lì, era stato l’architetto Alberto Graziani, che si era lanciato in una prova di rara tecnica oratoria, con una tazzina fumante in mano. Con dovizia di particolari e gesticolando per sottolineare al meglio gli aspetti più significativi del discorso, Graziani stava descrivendo ai colleghi la nuova segretaria del padre, il consigliere Cesare Graziani, soffermandosi spesso su quelle doti che l’avrebbero resa una preziosa collaboratrice per l’augusto genitore. Un discorso di elevato tenore intellettuale, insomma.

Proprio nel mezzo di una spiegazione complessa, che costrinse il Graziani junior ad appoggiare la tazzina e procedere con entrambe le mani, per non rovesciarsi addosso il caffè ormai freddo, scese dal ventiduesimo piano la banda degli architetti al completo, per recuperare il collega assente.

«Ma dai, fallo finire» intervenne l’ingegner Sala, sempre molto interessato a questi discorsi.

L’architetto Baiocchi lo fulminò. «Poi lo finisci tu il lavoro.» Lo fissò come qualcosa che è rimasto appiccicato sotto a una scarpa e non si riesce bene a capire cosa sia, né come ci sia finito.

Sala si strinse nelle spalle, con un sorrisetto odioso, e non aggiunse altro.

«Vabbè, mi sa che mi tocca andare...» commentò Graziani, consegnandosi ai colleghi Manovali e Ruopolo, che lo affiancarono come i carabinieri di una volta. L’architetto Baiocchi guidava muto la colonna. Lasciarono in silenzio la sala caffè, ripartendo verso il nido d’aquila degli architetti, su al ventiduesimo piano. Pareva che lavorassero a qualcosa di lungo e faticoso, prossimo alla scadenza, e non apprezzavano molto le pause caffè di quarantadue minuti, che Alberto Graziani si concedeva di continuo. Ma il padre era nel consiglio di amministrazione e non potevano dirgli nulla.

«Bah, il divertimento è finito» disse l’ingegner Sala, posando la sua tazzina vuota.

«Già, sarà meglio tornare in ufficio» rispose Fedele.

«Hai visto però che faccia, il Manovali? Non si sarà mica bruciato, nè?» commentò Sala, fissando le schiene degli architetti che sparivano nel corridoio.

«Avrà sbagliato a farsi la lampada, quel pirla» disse il geometra Domenico Mangiapane, con un sogghigno. Fedele lo trovava inquietante, con quella fronte bassa e gli occhi distanziati, da pesce.

«Ah, begli architetti che abbiamo! E te fai costruire una casa a uno che non sa neanche abbronzarsi, bella roba che è!» Risero tutti, al commento di Sala. Poi, anche l’ultimo brandello di pausa finì.

A poco a poco si dispersero. Sala e Innocenti procedevano assieme, come assieme lavoravano, nei casi in cui lavoravano. Fedele sbirciò con la coda dell’occhio il collega, che salutava tutti e da tutti era salutato. Lui, non lo salutava nessuno. E il perché lo si capiva a prima vista.

Trentacinque anni, sempre elegante, una montagna con la faccia plastificata da attore di Hollywood e non un filo di grasso, per ora. Ecco l’ingegner Ettore Sala. Fedele sapeva che ogni sera, di ritorno dal lavoro, si faceva un paio di ore in palestra, tanto per tenersi in allenamento. Sala raccontava di aver giocato a basket a un buon livello, ai tempi della scuola. Non era difficile credergli.

Perché tutti guardassero lui e ignorassero invece quel fantasma formaggino di Innocenti, anche un bambino di tre anni lo avrebbe indovinato, senza bisogno di conoscere i meccanismi dell’azienda.

Si diceva poi che l’ingegner Sala avesse anche una relazione con il capocontabile, la Bastiani, una cinquantenne che ne dimostrava circa trenta di meno, grazie a un’alimentazione sana, un esercizio fisico regolare, una scorta di prodotti chimici e un ottimo chirurgo. Praticamente, aveva scoperto la sua personale fonte dell’eterna giovinezza.

Ma a Fedele quei discorsi non interessavano. Per lui, Ettore Sala era un invadente e fidato collega rompiscatole, col brutto vizio di dare pacche sulla schiena e una risata che urtava i nervi. Però non gli aveva mai causato problemi in ufficio e l’importante era questo.

Non importante quanto ciò che trovò al ritorno, nel suddetto ufficio.

Sedendosi alla scrivania, Fedele gettò uno sguardo svogliato e distratto allo schermo del computer. Sapeva che lo avrebbe trovato identico a come l’aveva lasciato, e invece si sbagliava. In basso, sulla destra, un’icona lampeggiante lo avvisava di un nuovo messaggio. Insolito, specie a quell’ora. Con una vaga curiosità, cliccò l’icona e a quel punto non fu più solo insolito. Fu vitale.

Convocazione dell’amministratore delegato. Urgente.

Fedele Innocenti si fermò per un istante, a domandarsi perché avesse deciso di contattarlo così, con un messaggio sul computer, invece di una telefonata, ma erano dettagli secondari. Ciò che contava davvero era la convocazione dell’amministratore delegato, Fabrizio Storti, e quello che gli avrebbe potuto chiedere. Cose non belle ma redditizie, con ogni probabilità. Cose che non poteva comunque rifiutare, in ogni caso, belle o non belle.

Lesse e rispose in fretta: presente.

Convocato nel suo ufficio per giovedì dodici giugno, alle ore quattordici. Non specificava altro, ma non ce n’era bisogno. L’amministratore Storti chiedeva e tutti eseguivano, nei secoli dei secoli. Ed era anche più vero per Innocenti. Se doveva il suo ingresso in azienda al suocero, il ben poco amato avvocato Bianchi, Fedele doveva la sua attuale posizione all’amministratore Storti. Erano loro i due uomini del suo destino e a loro doveva obbedienza, che gli piacesse o meno. Per ora, gli stava bene. Per il futuro, ci avrebbe pensato poi.

Il resto della giornata lo trascorse in uno stato alterato di coscienza. Da una parte si chiedeva quale incarico gli avrebbe rifilato l’amministratore, dall’altra pensava a quali ricompense avrebbe avuto. Con tutta probabilità, le seconde erano direttamente proporzionali alla sgradevolezza del primo. Visti i precedenti, non aveva da stare tranquillo, insomma. Quel messaggio avrebbe segnato il suo destino, appunto, ma Fedele non sapeva ancora come, né quanto.

Non fu quello il solo evento imprevisto della giornata. Nel tardo pomeriggio, sulla metropolitana che lo riportava verso casa, Fedele Innocenti era perso nel suo mondo mentale, che quel mercoledì era composto principalmente da inquietudine: non un bel progresso, rispetto allo stress del giorno prima, ma pur sempre un cambiamento. Non sapevi mai cosa aspettarti, quando l’amministratore ti convocava, suonando il suo olifante.

Una stazione, un’altra stazione. Il treno procedeva in un gioco di luce e tenebra, nell’intestino della città, mentre il vagone cullava i viaggiatori in un abbraccio fresco e al profumo di mandarino, un po’ fuori stagione per giugno, ma piacevole lo stesso. Gli schermi sparavano musica e pubblicità, tra un breve sketch comico e l’altro. Niente traccia di notiziari, quel pomeriggio, e a Fedele andava bene così: non aveva voglia di pensare e ascoltare, chiedeva solo di spegnere il cervello per un po’.

Alla fermata successiva, quando ormai ne mancavano poche all’arrivo, fu sorpreso nel veder salire il segretario Tombini, in abiti dimessi e sciupati. Ne fu ancora più sorpreso, perché in azienda non si era presentato proprio, quel giorno. Per qualche istante, l’amministratore sparì dalla sua mente.

La sorpresa fu reciproca. Tombini alzò la testa, vide il collega Innocenti nel vagone, sobbalzò e gli rivolse lo sguardo che di solito i conigli riservano ai fari delle auto, poco prima di esserne travolti. Con una smorfia che non poteva essere scambiata per un sorriso, gli rivolse un sussurrato salve, per poi seppellirsi nel sedile più lontano.

Fedele ricambiò il saluto, un po’ perplesso. Che ci faceva lì, il Tombino? Aveva marinato l’ufficio ed era andato a divertirsi? Improbabile, per come era conciato, ma Fedele annotò con cura nella sua memoria quell’evento, per rivenderlo il giorno dopo ai colleghi. Chissà cosa ne avrebbero detto...

Il segretario Tombini, per conto suo, non sembrava proprio intenzionato a familiarizzare con lui o a dire qualcosa più del primo “salve”. Sedeva stretto stretto, con le mani premute tra le gambe secche, e fissava il nulla fuori dal finestrino. Fedele lo studiò, sperando di raccogliere altri aneddoti.

Era un tipo strano, il segretario Tombini. Per cominciare, era una specie di spaventapasseri vecchio e smunto, come se lo avessero dimenticato per anni in mezzo a un campo, a prendersi pioggia, neve e quant’altro possa scendere dal cielo. Poco più alto della media, magro come qualcuno che di solito appare nei documentari sul Biafra, con la pelle leggermente olivastra e piuttosto rugosa, doveva avere sessant’anni o poco più, ma li portava molto male, anche se gli occhi di stupore eterno gliene toglievano qualcuno, a patto di guardare solo quelli e ignorare il resto.

Un individuo indefinibile, per Fedele Innocenti. Sul lavoro, tutti lo deridevano, per il cognome che portava, e lui non si ribellava mai. Sorrideva e chinava il capo, mite agnello sacrificale dell’azienda. In effetti, Fedele non ricordava neppure quale fosse il nome. Mario? Marco? Qualcosa del genere, forse, ma non ne era sicuro. Non lo usavano mai. Il segretario era semplicemente il Tombino, o il Tomba, o varianti sul tema. E gli estranei lo chiamavano per ruolo, ossia segretario.

Che ci faceva da quelle parti alle sette di sera, di mercoledì, vestito da pezzente? Sì, glielo avrebbe potuto chiedere, in fondo era una normale preoccupazione da collega, ma in fondo degli affari del Tombino gli importava tanto quanto del reddito pro capite del Burundi. Facesse quello che voleva, a Fedele non interessava proprio. Così si strinse nelle spalle e fissò anche lui fuori dal finestrino.

Alla sua stazione, Innocenti dedicò solo un cenno di saluto al segretario Tombini, prima di scendere e incamminarsi verso casa, nel fresco tunnel illuminato a giorno. Il segretario lo guardò allontanarsi senza una parola. Quando il collega non fu più in vista, Maurizio Tombini si rilassò. Andata! Così adesso era sicuro che nessuno gli avrebbe più chiesto cosa ci facesse lì. Era meglio che certe notizie non girassero troppo in azienda, per igiene personale. E poi, non gli era simpatico quell’Innocenti, il fedele zerbino dell’amministratore delegato.

Tombini si strinse nelle spalle. Non era mai stato un ammiratore dell’attuale dirigenza, in azienda, e di conseguenza non ne era mai stato amato. Proprio per questo prendevano in giro lui, il Tombino, e non il consigliere Peti, che pure aveva un cognome ben più idiota. Ma ormai ci era abituato e non se la prendeva. Ridessero pure tutti, gli idioti! Prima o poi sarebbe cambiato anche per loro, il vento. Come era successo a lui, dieci anni prima.

In fondo, si era rovinato la carriera con l’Expo 2015 di Milano, un banchetto nel quale Maurizio Tombini aveva scelto la banda sbagliata. Da una parte lui, giovane segretario, appoggiato dagli altri della corrente idealista; dalla parte opposta, il consigliere Fabrizio Storti, sorretto dai vecchi e dagli sponsor più ricchi. Risultato ovvio, non c’era mai stata una vera lotta. Lo avevano schiacciato.

Adesso, più calmo e più saggio, Tombini poteva riconoscere il suo errore. Ma era giovane, ai tempi, una testa calda, e credeva di essere il migliore di tutti. Così si era fatto fuori da solo, in un affare dove qualunque yesman ritardato avrebbe munto uno zero in più sul conto corrente. Bastava tacere e obbedire, ma lui no, lui aveva voluto fare di testa propria e dare lezioni ai superiori.

Gli altri erano levitati verso i vertici societari, al seguito dell’allora consigliere Storti, mentre lui era rimasto a raccogliere bossoli nelle retrovie. Ma non per questo portava rancore. Era ancora convinto di essere nel giusto, perché era ancora convinto che la piramide di Lambrate, incubo in calcestruzzo armato, plastica e vetro, fosse un’inutile porcheria e non il sommo capolavoro che tutto il mondo ci avrebbe invidiato. L’avrebbe fatta esplodere volentieri, la piramide, coi suoi centri commerciali, gli enormi parcheggi, gli alberghi a cinque stelle sempre vuoti. Il panorama ci avrebbe solo guadagnato e anche la sicurezza della zona.

Peccato che fosse l’unico a pensarla così. Il segretario Tombini l’aveva presa con filosofia, oppure l’aveva preso in quel posto, a seconda dei punti di vista. Il risultato era lo stesso. E così, l’uomo che un tempo aveva sognato addirittura la presidenza, ammuffiva in un ruolo del tutto inutile, poco più di un ficus benjamina in cravatta. E col vantaggio di poter essere deriso da tutti, impunemente.

Bah, pensò Tombini, stringendosi nelle spalle. Sempre meglio che pulire il culo ogni giorno a quel porco dell’amministratore. Meglio la nobile solitudine, che la sottomissione dello scudiero. Con un sorriso mesto, si lasciò condurre verso la meta, cullato dall’aria condizionata e dagli schermi tv implacabili, che allagavano il vagone.

Quando fu arrivato al suo condominio ed ebbe salutato il solito Tarca, che probabilmente aveva una seconda casa nell’atrio del palazzo, Fedele Innocenti si era già dimenticato di Tombini. Nella testa, c’era spazio per una sola cosa: la convocazione dall’amministratore delegato.

Cosa poi ne sarebbe seguito, era tutto da vedere.