Adriano - racconti e altro

Orizzonti di plastica

Capitolo dodicesimo

Mercoledì due luglio, Fedele Innocenti ritornò in azienda, senza sapere che la vedeva per l’ultima volta, almeno dall’interno. L’atmosfera era quella di sempre, che ricordava lui, e anche i colleghi gli sembravano quelli di sempre. Sala con la sua fastidiosa espansività, Mangiapane che saltellava tra le conversazioni, per fingersi parte di ognuna, Graziani che si vantava e cercava di tenersi al centro di tutto, Loschi che taceva, Tombini che svicolava negli angoli, per evitare le derisioni.

Tutto come sempre, tutto come lo aveva lasciato sabato mattina, prima dell’assenza per il lutto. Ma una cosa era cambiata, una cosa fondamentale: era cambiato lui.

Guardava dalla finestra del suo ufficio fresco, ordinato, e si chiedeva se era così che si sentissero ai giorni finali dell’Impero Romano, coi barbari alle porte. La città era luminosa e grigia, sotto il cielo bianco di umidità, e appariva solida come non mai, nelle sue forme precise e squadrate. Sembrava, ecco la chiave di volta. Sembrava. Fedele la studiava e si sentiva su un castello di carte, ad attendere che si alzasse il vento. Agì di conseguenza.

Quando l’ingegner Sala entrò nel suo ufficio, per invitarlo in mensa, Fedele Innocenti era occupato a copiare file di ogni genere dal computer al cellulare. Tutto il materiale a cui aveva lavorato, tutti i documenti raccolti negli anni, tutto ciò che aveva rappresentato la sua vita all’interno dell’azienda e altro ancora. Non sapeva bene perché lo stesse facendo, ma gli era sembrata la cosa giusta. Giulio Bianchi gli aveva promesso di schiacciarlo e avrebbe mantenuto la sua parola. Si preparava a levare le tende, dunque? Raccoglieva dati per la fuga? Fedele se lo era chiesto più di una volta, durante la mattinata, ma non era servito. Così aveva rinunciato alle domande e si era impegnato più a fondo a trasferire i file. C’era molto spazio sul cellulare, ma calava in fretta.

«Che stai combinando, Innocenti? Fai le pulizie di primavera?»

La voce nella schiena e la mano sulla spalla giunsero insieme. Il cuore di Fedele perse un battito, il senso di colpa innato si fuse con la paura della sorpresa e per poco non beffò la vendetta del suocero nel modo più imprevedibile: morendo di infarto. Ma l’attimo passò e lui riprese a respirare.

Era Sala, il solito, invadente collega Sala. Fedele si nascose dietro un sorriso imbarazzato, girandosi a guardarlo. «Metto un po’ di ordine sul pc» rispose. «Si era accumulata un sacco di roba, in questi anni, e non avevo mai sistemato niente. Pensavo che fosse il caso di rimediare, tutto qui.»

«Cos’è, ti è venuta la sindrome della massaia, adesso che sei solo?» Stilettata involontaria, condita da un sorrisetto ironico. Sempre caro, Ettore Sala. Fedele lasciò correre, stringendosi nelle spalle.

«Ma no, non so. È solo che non mi piace vedere tutta questa confusione, adesso...»

«Sì, sì, capisco. Il capo ti ha promesso una promozione e tu ti prepari a emigrare altrove.» E giù con un’altra pacca sulla schiena. «Ma cosa sono tutti quei file? Roba di lavoro o altro?»

«Roba di lavoro, niente di che. Vecchie scartoffie, storie di qualche anno fa. Ormai non servono più a niente, lo vedi anche tu. Un po’ di pulizia farà solo bene al computer.»

«Scartoffie? Vedo, vedo» rispose Sala, allungandosi a periscopio verso lo schermo. «E li sposti tutti sul cellulare? Come mai? Basta che li cancelli, se non servono più...»

«Beh, non so se sia il caso di cancellarli, sai com’è. Non ho una chiavetta sotto mano, così intanto li sposto qui, poi troverò un posto migliore. È solo una cosa provvisoria, niente di che...»

«Capisco, capisco... Allora ti promuovono proprio, eh? Dopo l’ultimo lavoro, in fondo...»

«Ma no, non lo so. Non è stato niente di che. È solo un po’ di ordine che faccio, tanto per tenermi occupato e stare meglio, te l’ho detto. Non è che devo andare da qualche parte, ecco.»

«Sì, sì, vedo.» E di nuovo che si allungava a scrutare lo schermo. Fedele gli avrebbe tagliato il collo molto volentieri, a quel fastidioso e invadente impiccione. Era figlio di uno struzzo oltre che essere uno stronzo? E cosa voleva poi da lui?

«Avevi bisogno di qualcosa?» gli chiese, per cambiare discorso.

«Oh, ero venuto a invitarti in mensa, sai com’è... l’orario è quello, ormai. Ma se sei così impegnato a trasferire documenti dell’azienda sul tuo cellulare, forse non è il caso che io ti disturbi.» Sorrise e la sua espressione divenne perfetta per un bersaglio delle freccette. Fedele provò l’impulso di usare un oggetto contundente molto pesante, per rimodellare quella dentatura regolare e bianca.

«Sto solo spostando temporaneamente un po’ di vecchio materiale, niente di che» gli rispose. «Ma è vero, è ora di fare una pausa e mangiare un po’. Tanto non è una cosa urgente e la posso fare anche più tardi. È solo un po’ di pulizia.»

«Ma si capisce» disse Sala, sempre sorridendo. «Andiamo in mensa, allora? Poi magari parleremo un po’, sono curioso dei tuoi progetti per la promozione.»

«Non è detto che ci siano promozioni» rispose Fedele, alzandosi e abbandonando il computer. «Ma andiamo, vediamo cosa ci sarà di buono da mangiare, oggi.»

Tra una chiacchiera e l’altra, andarono.

In mensa li accolse la solita fauna aziendale, tra il rumore di posate e pettegolezzi. In un angolino in disparte, sedeva il segretario Tombini, dividendo l’attenzione tra il piatto e la gente che gli passava accanto. Più in là, il tavolo degli architetti registrava ancora il posto vuoto, in attesa che Manovali fosse rimpiazzato da qualcuno. Il loro solito tavolo era affollato e alcuni li chiamavano gesticolando, ma l’ingegner Sala li evitò. Oggi non voleva compagnia, oggi gli serviva avere Innocenti tutto a sua disposizione, senza intrusi, per strizzarlo bene e ricavarne la celebre ciliegina sulla torta del dossier.

«Non ci mettiamo con gli altri?» chiese Fedele, mentre il collega lo accompagnava a un tavolino più isolato: un posto alla Tombini, per intenderci.

«No, meglio di no» rispose Sala, sorridendo. «Per una volta è meglio stare in pace, senza tutti quei pettegolezzi nelle orecchie. No, no, meglio stare tranquilli e chiacchierare un po’. Penso che anche a te farà piacere un po’ di calma, con tutto quello che hai passato.»

Fedele Innocenti sedette e non rispose. Il collega era strano, oggi, ma non gli interessava molto. Che facesse pure quello che voleva. La sua mente tornava sempre all’avvocato Bianchi, che confabulava con l’amministratore delegato Storti, e certo preparavano qualcosa di brutto per lui. Nel pomeriggio avrebbe continuato a raccogliere i documenti dal suo computer, per precauzione: cominciava a poco a poco a vederne un possibile uso, come forma di difesa. Ne avrebbe discusso con Tarca, semmai, e si sarebbe fatto consigliare da lui. Tarca doveva essere più esperto in queste cose.

Con la testa altrove, trascorse il pranzo a chiacchierare con Ettore Sala. Gli faceva domande strane, l’ingegnere, domande sul contenuto di quei file, sul suo lavoro per il capo, sull’azienda, sulla città e persino qualche domanda sulla sua famiglia ed Eva. Domande strane, che non erano da lui, di solito, ma su cui Fedele non si fermò a riflettere. Rispondeva e basta, stringendosi nelle spalle e sperando che quel pasto finisse in fretta. Fu proprio così che aggiunse gli ultimi mattoni al destino, che altri avevano costruito per lui. Con parole dette senza pensare, come spesso succede.

Da una cosa all’altra, si era trovato a raccontare anche l’episodio della stazione di Lambrate-Parco, l’incidente ferroviario che non era un incidente. Raccontò ciò che aveva visto sul posto e ciò che poi aveva trovato in televisione, come unica notizia ufficiale. Non coincidevano.

«E non capisco il perché» spiegò a Sala, mangiucchiando una cotoletta. «A me sembra più logico e corretto dire che c’è stato un incidente, invece di inventarsi una scusa di lavori di restauro. Eppure è così che hanno detto: restauri. No, non l’ho capito proprio.»

«Parlare di incidenti spaventa le persone, lo sai» rispose l’ingegner Sala, con prudenza. «E sarebbe poi pubblicità negativa, per i trasporti regionali. Causerebbe problemi pubblici. Meglio dire che ci sono riparazioni da fare alla stazione, così tutti sono più tranquilli. E in fondo è vero, no?»

Fedele si strinse nelle spalle. «Ma sì, lo capisco. È così che funzionano le cose, lo ha detto anche il mio vicino, Tarca, ma a me sembra sbagliato, sì. Credo che sarebbe giusto dire sempre tutto, invece di tenere nascosta la verità. Perché tanto, prima o poi, le cose escono e a quel punto sarà peggio.»

«Lo pensa anche il tuo vicino? Com’è che si chiama?»

«Luca Tarca, due piani sopra di me. Sì, lo pensa anche lui. Cioè, è stato lui che mi ha spiegato tutta la faccenda del nascondere le informazioni e raccontare solo la realtà che fa comodo. Che poi anche l’amministratore aveva fatto più o meno lo stesso discorso. Ottimismo a tutti i costi, diceva! Tacere i problemi, perché tacendo si risolve tutto. Ma io non la penso così.»

«Ah, questo mi sorprende. Pensavo che tu e l’amministratore foste sempre d’accordo su tutto...»

Fedele sorrise stanco, mentre finiva la cotoletta e spazzolava le briciole di impanatura dal piatto. «Io non la metterei in questi termini, ma fa lo stesso. Il mio punto di vista non conta, se la realtà è quella che si racconta e non quella che esiste davvero. Basta il punto di vista della tv e siamo tutti a posto così. È solo che all’inizio non ci fai caso.»

«No no, invece il tuo punto di vista è molto interessante!» lo contraddisse Sala con entusiasmo. «Mi piacerebbe saperne di più. Perché non me lo racconti un po’, mentre mangiamo il dolce?»

Fedele Innocenti lo raccontò, Ettore Sala se lo annotò e, prima della fine del pomeriggio, il dossier era pronto e servito all’amministratore delegato, con tanto di registrazioni video e audio come prova concreta dell’infedeltà del dipendente Fedele Innocenti. Dall’ufficio dell’amministratore delegato, il dossier sarebbe poi passato alla caserma G. Miglio, destinatario Carlo Sovrani.

Con quell’ultimo passaggio, anche Innocenti era finito. Proprio come richiesto dal suocero.

Il diretto interessato lo avrebbe saputo solo il giorno dopo. Quel mercoledì si concluse tranquillo, in una pace uguale a mille altri giorni di ufficio. Fedele finì di copiare tutto il contenuto del computer sul suo cellulare, a miglior uso futuro, controllò l’orario, vide che ormai era quasi tempo di staccare e si preparò al ritorno a casa, dove non lo attendeva la cena. Guardò l’ufficio con nostalgia, quasi un grammo di rimpianto negli occhi, ma svanì al ricordo dell’avvocato Bianchi. Glielo aveva imposto lui quel lavoro, di lì a poco probabilmente se lo sarebbe ripreso.

Non era di rimpianti che aveva bisogno, adesso.

Quella sera, in cucina, mentre scaldava alimenti surgelati scelti a caso, Fedele pensò di telefonare a Tarca, ma non lo fece. Non era ancora il momento. Spostò invece il contenuto del cellulare su una chiavetta, giusto per sicurezza, e per ulteriore sicurezza ne fece una copia. Adesso si sentiva meglio e poteva anche mangiare il cibo insapore, appena tolto dal microonde. Sembrava di mangiare carta.

Quando passò in sala, il televisore spento gli ricordò che non lo accendeva più da qualche giorno, a parte lunedì, per cercare notizie sull’incidente. Non ne sentiva la mancanza. Era strano, fino a poco prima la voce della tv era il sottofondo naturale di ogni serata in casa: faceva parte del suo mondo, il dettaglio che non notavi ma che riempiva l’ambiente, come un quadro alla parete. Adesso, invece, il rettangolo di plastica appeso al muro rimaneva buio e silenzioso ed era meglio. Lo fissò con vago e distaccato disprezzo, abbandonandosi in poltrona, a rileggere i documenti.

Più o meno alla stessa ora, l’ingegner Sala celebrava il suo trionfo in un ristorante di lusso, assieme alla capocontabile Bastiani. Non era ancora definitivo, certo, non era ancora messo su carta, né era ufficializzato, ma il trionfo c’era lo stesso e a tempo di record. Gli era bastata una frase di Storti, nel tardo pomeriggio, quando gli aveva consegnato il dossier. Mentre congelava in quell’ufficio a zero gradi, l’amministratore delegato aveva alzato la testa a fissarlo.

«La aspetto il tredici all’inaugurazione, mi raccomando. Si vesta come si deve.»

Ettore Sala non aveva subito collegato, per cui la sua reazione era stata piuttosto deludente, non la più adatta al momento. «Come?» aveva boccheggiato, aggrottando la fronte.

«Domenica tredici luglio, a Cusano Milanino. Non se lo ricorda più?» Storti lo fissava cupo.

«Ah, il PalaGheddafi, certo!» esclamò Sala, sudando al gelo. «Ma certo che lo ricordo, è solo che al momento non ci pensavo proprio. Potrò partecipare, dunque?»

«Bah, è più presentabile di quell’altro là. Sarà assieme ai consiglieri, per cui veda di fare una bella figura, anche lei. È una cerimonia importante e ci teniamo. Capito?»

Aveva capito. Aveva capito molto bene. E se non era una promessa di promozione, beh, allora poco ci mancava, dal suo punto di vista. Per questo Sala aveva invitato la Bastiani al ristorante, in parte a festeggiare il suo trionfo personale, in parte per farle sapere che la stava raggiungendo, sulla scala sociale. Che il prossimo gradino sarebbe stato Innocenti, da calpestare per proseguire, era dettaglio di poco conto. Certo, sul piano personale un po’ gli dispiaceva, ma era un professionista e sapeva la differenza tra lavoro e sentimenti. Se per salire c’era qualcuno da calpestare, lo avrebbe fatto.

Nelle viscere della città, percorrendo avanti e indietro le gallerie, anche Carlo Sovrani era eccitato. I suoi sospetti si erano rivelati giusti, aveva fatto di nuovo centro, si era meritato un elogio anche dal suo superiore, mentre riceveva il dossier su Innocenti, e meglio di così non poteva andare. Domani li avrebbero arrestati, lui e quel finocchio di Tarca, due pericolosi sovversivi, amici di clandestini, che avevano avuto la sfrontatezza di sfidarlo nel suo stesso condominio. Uno di sopra e uno di sotto, come fette di pane. Lo avevano preso per un salame, lui? Adesso li avrebbe sistemati.

Sì, era un piacere lavorare per il bene comune e per la sicurezza della società. Aggiustò la medaglia, passando davanti al cancello chiuso di una stazione, e ripensò agli ordini ricevuti per il giorno dopo. Non ne era troppo soddisfatto, ma avrebbe obbedito. E poi, potevano sempre esserci problemi, un imprevisto o altro. In quel caso, sarebbe toccato a lui: promesso. Sorrise al pensiero.

Il giorno dopo, giovedì tre luglio, si sarebbe deciso tutto.

Fedele Innocenti lo capì subito, quando scese nell’atrio e vide l’auto che lo aspettava, parcheggiata lì davanti al condominio. Nella luce del mattino, il verde della rosa celtica sulle portiere luccicava come acqua di palude. La minaccia dell’avvocato Bianchi, ripetuta mille volte fino alla nausea, nel corso di anni, era stata infine mantenuta: adesso era rovinato, adesso era distrutto.

Indietreggiò dai vetri della facciata, sperando che non lo avessero visto. Probabilmente no, perché i vetri erano a specchio, ma in certi casi la prudenza non basta mai. Chi lo aveva denunciato? Bianchi in persona? O aveva chiesto all’amministratore? O c’erano stati altri giri strani, ordini e sottoordini, così comuni in azienda? Al momento, saperlo non era una priorità; la priorità era semmai quella di lasciare il condominio, senza essere arrestato. Perché una cosa era certa: in casa non ci poteva stare. Se non fosse uscito lui, sarebbero entrati loro. Ma uscire da dove? E come?

Senza staccare gli occhi dal portone, Fedele si infilò di nuovo in ascensore. Una breve pausa a casa, per recuperare le chiavette coi documenti e raccogliere le idee. Ne aveva bisogno, erano sparse un po’ ovunque e faticavano a connettere. Se la sentiva che sarebbe finita così, d’accordo, ma non così presto! Credeva di aver molto più tempo a disposizione, era anche preparato a fare la prima mossa, coi documenti trafugati e tutto il resto, invece lo avevano fregato. Imprudente, imprudente e stupido, perché doveva sapere bene come funzionavano queste cose, soprattutto lui.

Respirò a fondo due, tre volte. Doveva abbandonare subito l’appartamento, l’intero condominio se possibile, per non farsi bloccare lì dentro. Ma come uscire, con l’auto proprio davanti alla porta? E poi, se anche fosse uscito, dove poteva andare? Con un sospiro, telefonò a Tarca. Forse sapeva cosa fare in quella situazione, ma soprattutto doveva avvisarlo: se erano arrivati a lui, e per chissà quali strade, anche il suo vicino poteva essere in pericolo. Soprattutto dopo che Giulio Bianchi li aveva visti assieme per tutto il funerale; soprattutto se avevano fatto ricerche sul loro conto.

«Scendi in cantina e aspettami lì, arrivo subito» gli disse Tarca, dopo che Fedele gli ebbe spiegato in breve il problema. «E butta via il telefono.»

«Il telefono? Perché?» chiese Fedele, perplesso.

«Perché ha un GPS. Se scappi con quello in tasca, ti trova anche un cieco. Buttalo via e aspettami.»

Si sentì gelare. Ecco una cosa a cui non aveva pensato. Quante altre ce ne potevano essere? No, non era fatta per lui la vita del fuggiasco. Ma non voleva farsi prendere, non voleva darla vinta a Bianchi, né a Storti, né a chiunque ci fosse dietro. E poi, per quanto si sentisse depresso, avrebbe fatto molto volentieri a meno di morire, per il momento. Buttò il telefono e uscì.

Quando l’ascensore lo scaricò nelle cantine, ci mise qualche minuto a ricordare quale fosse la loro: lì non scendeva quasi mai, anzi non ci aveva più messo piede da almeno tre anni e le porte parevano tutte uguali. Cercò un poco, poi rinunciò, fermandosi accanto alle scale, nell’ombra, per aspettare Tarca. Sembro il mostro di un film horror, pensò con un sorriso. Ma c’era poco da sorridere: mostri veri erano davanti a casa sua, in giacca e cravatta, e lui era la preda. Perse almeno tre chili di ansia e preoccupazione, vedendo Tarca che scendeva la scala, silenzioso.

«Sono qui!» gli sussurrò da dietro.

Luca Tarca si portò prima una mano al petto, bloccato come uno stoccafisso, poi si girò adagio, con scarso entusiasmo. Si guardarono in faccia. «Mi hai fatto venire un colpo» sussurrò in risposta. «Ti ho detto di aspettarmi in cantina, non di farmi un agguato al buio.»

«Dovevo tenere d’occhio la scala, poteva scendere chiunque!»

«Questo è vero» gli concesse Tarca. «Hai buttato il cellulare, come ti avevo detto?»

«Sì, grazie, non ci avevo pensato» rispose Fedele. «Ma adesso che facciamo? Non posso uscire!»

«Sicuro che siano qui per te?»

«E per chi dovrebbero essere? Bianchi me l’ha giurata, sai anche tu com’è quell’uomo. E poi ne so fin troppo di come funzionano queste cose. Sono qui per me, forse me li ha mandati Storti.»

«Che sarebbe il tuo capo, no? Ok, spiegami tutto, così magari ci capisco qualcosa anch’io.»

Fedele glielo spiegò, nel modo più rapido possibile. Riassunto veloce dei suoi precedenti in azienda, l’incarico di Manovali, le discussioni con Bianchi, il modus operandi dell’amministratore, persino il suo dialogo in mensa con Sala, che adesso gli appariva sotto un’altra luce. Alla fine, Tarca si ritirò nell’ombra del sottoscala, alquanto preoccupato.

«Hai parlato anche di me» disse, sfregandosi la faccia con entrambe le mani.

«Mi spiace, non volevo. Cioè, non pensavo che Sala...»

«Vabbè, ormai è andata così» lo interruppe Tarca. «E poi sarebbero comunque venuti anche da me, dopo averti preso. Credo di essere già sulla loro lista nera, con tutte le volte che mi hanno avvisato, per violazioni dei filtri governativi.» Sbuffò.

«E adesso?» chiese Fedele, continuando a lanciare sguardi alla scala. Prima o poi sarebbero scesi di lì uomini in giacca e cravatta verde, oppure guardie in camicia verde, e allora sarebbe stata la fine.

«Dovremmo scappare, ma non è che io ne sappia molto più di te, in queste cose.»

«Con tutti i discorsi che facevi, ti credevo più esperto in fughe e affini. Non so, magari hai qualche contatto, amici che possono nasconderci per un po’, suggerirci una via per uscire dalla città o...»

Tarca sorrise imbarazzato. «Ehm, credo che tu abbia sbagliato qualcosa. Tutto quello che faccio, lo faccio davanti al computer. Di persona, in carne e ossa, non ho mai neanche suonato un citofono per poi scappare. So in teoria da dove si potrebbe passare, ma sono posti che conosco solo al pc.»

Fedele Innocenti lo guardò meglio. Alto un po’ più di lui, magro ben più di lui, i capelli corti come sempre spettinati, sguardo un po’ vuoto da lenti a contatto, maglietta nera stinta dai troppi lavaggi, jeans chiari dai risvolti sfilacciati. Voleva davvero affidare la sua salvezza a uno così? A uno che la città la conosceva solo dalle mappe satellitari, ma che di persona aveva visto meno di lui? Fu con un vago timore che si rispose. Sì, si sarebbe affidato a lui. Perché non aveva più nulla da perdere, certo, ma anche perché era stato proprio lui, Tarca, ad aprirgli gli occhi. Lui e la morte di Eva. E comunque non aveva alternavite: o la minestra o la finestra.

Si strinse nelle spalle e sospirò. «Allora fammi strada e andiamo. Magari un colpo di fortuna ci farà uscire vivi da qui. E poi avrò un lavoro per te.»

«Un lavoro? Sinceramente non mi pare il momento migliore, ma sentiamo.»

«I documenti che ho scaricato, ce li ho qui in una chiavetta. Qualunque cosa accada, voglio che tu li metta tutti in rete. Sei tu che te ne intendi di queste cose, ma trova un posto in cui tutti li possano vedere. Sarà il mio regalo di addio, per loro» concluse con un sorriso smorto.

Tarca sembrò ancora più allarmato. «Ma... così non si limiteranno a farci sparire dalla circolazione, se ci beccano. Per una cosa del genere...»

«’Fanculo. Cosa abbiamo da perdere, ormai? Forse non servirà a nulla, sì, ma se anche solo un’altra persona li leggerà e aprirà gli occhi, come ho fatto io, allora ne sarà valsa la pena.»

Luca Tarca non sapeva cosa rispondergli. Adesso sì che si sentiva l’apprendista stregone: lo aveva spinto fuori dal tunnel, come desiderava Eva, ma era finito troppo fuori, almeno per i suoi gusti. Era bello ed era giusto opporsi alla situazione attuale, ma c’erano limiti a ciò che anche lui era pronto a fare. Questo era decisamente troppo audace per un uomo abituato a brontolare davanti allo schermo di un computer e lamentarsi del proprio paese nei forum e nelle bacheche straniere, senza muovere un dito in concreto. Ecco cosa gli chiedeva di fare: agire in prima persona.

Guardò il sottoscala buio in cui erano nascosti a parlare. Guardò Fedele Innocenti, fermo davanti a lui, nel suo completo da ufficio, con giacca e cravatta ancora in ordine e la faccia di qualcuno che è precipitato all’inferno e non ha ancora capito bene come. Pensò all’auto parcheggiata davanti al loro condominio, distante dieci o quindici metri da dove erano nascosti. Pensò ai suoi genitori, che come ogni altro giorno avrebbero mangiato, respirato e vissuto sotto lo schermo educativo della tv, che li modellava e rimbambiva a proprio uso e consumo. Pensò a se stesso, che giocava da anni a fingersi rivoluzionario sovversivo, seduto al computer.

«D’accordo» rispose alla fine. «Prima usciamo da qui, troviamo un rifugio temporaneo, da qualche parte, e poi ci penserò io. Ammesso che ce la facciamo.»

«Bene. Allora usciamo, prima che entrino loro» disse Fedele. «Da che parte? Guidami tu, perché io non so proprio dove andare.»

«Uhm. L’uscita del garage è fuori discussione, dà sulla strada qui davanti e gli finiremmo in bocca. Una volta c’era un ingresso sul retro, nel condominio. Dava proprio sulla strada opposta, rispetto all’ingresso principale. Una porticina, niente di che. Ma adesso che hanno tolto i marciapiedi e nelle strade ci passano solo auto, quell’ingresso è stato bloccato. Quindi...»

«Possiamo passarci lo stesso? Forzando la porta, magari...»

«No. Ma se ami il rischio, c’è un’altra soluzione.»

«E cioè?»

«Seguimi. Ma non ti piacerà.»

Lo seguì e non gli piacque, ma lo fece lo stesso. Perché quando salirono le scale della cantina, alla porta di ingresso c’era qualcuno che suonava. C’erano due qualcuno che suonavano, profili contro il vetro che Fedele avrebbe riconosciuto ovunque. In giacca e cravatta verde, con l’aria di impiegati di banca, oppure di agenti delle assicurazioni. E sapeva chi stessero cercando. Lui.

Cercassero pure a vuoto. A Bianchi questa soddisfazione non l’avrebbe mai data. Fallito? Va bene, ma allora avrebbe fallito alla grande, portando con sé tutti quelli che poteva. Pur nel terrore e nella disperazione, Fedele Innocenti ritrovò qualcosa che non sentiva più ormai dai tempi dell’università e della prima disoccupazione: libertà, assieme all’impulso di distruggere. Eva non c’era più, c’erano solo lui e Tarca. Avevano forse qualcosa da perdere? Quasi rise, mentre il vicino lo guidava su per la prima rampa di scale. All’ingresso, suonarono di nuovo.

Dopo il terzo tentativo, i due distinti signori in giacca e cravatta verde si guardarono l’un l’altro. Lì all’aperto, anche sotto la tettoia, cominciava già a fare troppo caldo per i loro gusti e l’aria puzzava. Il loro incarico era di fermare il dipendente Fedele Innocenti, quando fosse uscito di casa per andare in ufficio, ma il suo orario solito era passato ormai da trentadue minuti e ancora non si vedeva, né li avevano avvisati di eventuali cambiamenti, come assenze per malattia o altro.

Gianfranco Colombo allentò un poco la cravatta, fissò infastidito il citofono, si asciugò la fronte e si girò verso il collega Andreoletti. «Uè, e adesso che si fa? Ci facciamo aprire dal portinaio? Il pirla non vuol mica uscire, secondo me l’ha fiutata.»

Andrea Andreoletti sospirò, con la faccia stanca di chi è costretto a sopportare da una vita un nome idiota, per colpa dei propri genitori. «Non è mica quello che li denuncia sempre? E allora va bè, per forza che l’ha fiutata. Non son mica stati furbi a mandarci noi.»

Suonò una quarta volta, giusto per scrupolo, ma nessuno rispose. O l’Innocenti era già scappato, o li aveva visti e se ne stava rintanato in casa, come un paguro.

«Telefonagli, che sentiamo almeno se è in casa» disse Andreoletti al collega. «Anche se figurati se ci risponde, quello lì. Sarà già arrivato a Lodi, a forza di correre, quel coniglio.»

Gianfranco Colombo telefonò, con la fronte ormai coperta di sudore, ma fu inutile. Uno squillo, due, tre, dieci e nessuno rispondeva. Scattò la segreteria telefonica, a comunicare che il cliente non era al momento raggiungibile. «E lo so anch’io» le rispose Colombo, spegnendo. «E adesso?»

L’aria attorno a loro profumava di polvere e tubi di scappamento. Non avevano mascherine, perché non era previsto che dovessero restare troppo all’aperto: giusto il tempo di scendere dall’auto, alla vista di Innocenti, intercettarlo e farlo salire con loro, come avevano fatto con Manovali, solo una settimana prima. Questo era il programma: parcheggiare, aspettare, uscire, farlo salire e poi via.

Peccato che niente stesse andando secondo il programma.

Andrea Andreoletti inarcò la schiena per stenderla, sempre fissando cupo il citofono. Quel lavoro gli piaceva quando poteva stare al chiuso, al fresco e magari seduto. Ecco perché lo aveva scelto, a parte le agevolazioni fiscali e l’alto stipendio. Quando invece gli toccava fare compiti da poliziotto, come appostarsi sotto casa di qualcuno o aspettare davanti a un portone, allora non gli piaceva più. Adesso, l’entusiasmo per il suo lavoro segnava una marea bassissima.

«Questo qui non viene mica più fuori, dai» disse a Colombo, girandosi verso di lui. «È inutile che ce ne stiamo qui ad aspettare. O è scappato o si è tappato dentro. Chiama in ufficio, avvisa che noi la nostra parte l’abbiamo fatta e di’ che ci mandino una guardia a tirarlo fuori.»

Gianfranco Colombo lo guardò, guardò il portone, guardò il telefono e sì, in effetti aveva ragione. A differenza del collega, lui era più entusiasta del lavoro, ci credeva moderatamente: era quasi sempre lui a farsi avanti per parlare coi bersagli, aveva un aspetto migliore e un tono più rassicurante. Però stavolta doveva dar ragione ad Andrea. Era inutile restare lì. Entrare non potevano, perché non era il loro compito, e aspettare non serviva a niente. Serviva solo ad aumentare le chiazze di sudore sulla camicia, che dopo dieci minuti era già pronta per la tintoria. Che fastidio!

«Va bè, torniamo in auto, intanto. Li chiamo, avviso che la missione è andata male e che ci mandino una guardia. Noi però resteremo qui in caso di bisogno, fino a nuovi ordini.»

Andrea sospirò, roteando gli occhi. Più di così non si poteva ottenere, dal Colombo. «Va bè, almeno entriamo, nè. Che qui fuori si suda da schifo e mi prude pure la gola, con quest’aria.»

A passo mesto, rientrarono sconfitti, abbandonandosi al fresco dell’abitacolo. Colombo chiamò in ufficio e spiegò la situazione, l’ufficio brontolò e mugugnò, ma alla fine dovette mandarla giù. Se le buone non erano servite, si passava alle cattive. E peggio per l’Innocenti.

Carlo Sovrani non fu felice di essere sbrandato alle nove del mattino. Soprattutto perché aveva fatto il turno di notte, quel giorno, e adesso aveva in programma di dormire fino alle tre del pomeriggio, come minimo. Invece, il telefono che doveva tenere sempre acceso per ragioni di lavoro lo scagliò fuori dal letto a un orario assurdo, con la faccia consumata dalle pieghe del cuscino e il cervello che faticava a connettere. Per qualche motivo, era convinto che fosse sera e aveva voglia di arrosto. Poi si lavò con acqua ghiacciata, rumoreggiò a denti stretti e si senti vivo.

Vivo, infelice e pronto a condividere cristianamente la propria infelicità con gli altri. A cominciare dalla vittima: Fedele Innocenti, il suo caro vicino.

Questo lo mise in parte di buon umore, o almeno bendisposto verso l’incarico che gli rifilavano alle nove del mattino, dopo una notte a camminare per la città. A quanto pare, avevano fallito, Innocenti aveva evitato l’arresto e adesso toccava a lui, come promesso. Sorrise, allacciando gli anfibi. Lisciò la camicia verde allo specchio, prese manganello e mitra, provò in fretta uno sguardo feroce, che gli avrebbe facilitato la cattura del criminale e partì di buon passo, chiudendo bene la porta blindata di ingresso e dimenticando in casa le chiavi. In seguito, avrebbe bestemmiato parecchio per questo, ma adesso la sua priorità era un’altra: proteggere la sicurezza della città.

Scese le due rampe di scale e caricò la porta di Innocenti, bussando come un ariete. Nessun segno di vita. Bussò di nuovo, ancora più forte, e ancora gli rispose il silenzio. Tutto da previsione, ma lui si atteneva alla procedura. Bussare tre volte, prima di fare irruzione. Dopo il terzo tentativo, irruppe.

Sfondare una porta blindata sarebbe stata un’impresa anche per lui, ma non ce ne fu bisogno. Aveva un passepartout valido per tutti gli appartamenti del condominio, gentile omaggio del proprietario, a cui Sovrani aveva chiesto con cortesia e col manganello sotto braccio. «Ne ho bisogno per sicurezza, nel caso ci sia necessità di soccorrere un vicino in pericolo.» Il proprietario in realtà era soltanto un prestanome, che abitava al primo piano: degli altri inquilini non gliene poteva fregare di meno e non era stato un problema dare alla guardia il lasciapassare. Nessuno lo avrebbe mai saputo, in fondo.

Così, Carlo Sovrani lo usava adesso per la prima volta, con successo. La porta blindata di Innocenti si aprì, Sovrani entrò e l’appartamento era vuoto. Non solo vuoto: aveva anche l’odore di una casa abbandonata, o di una stanza di albergo. La cosa non gli piacque, anche se non era imprevista. Nella sala, gettato sul divano, vide un cellulare. Lo raccolse: dal numero di chiamate senza risposta, era di sicuro di Innocenti. Scappato senza telefono, mossa astuta, più astuta di quanto si sarebbe aspettato da lui. Sovrani sorrise, infilandolo in tasca.

Aprì una dopo l’altra tutte le porte dell’appartamento, con un calcio. Alcune erano solo accostate e non ci sarebbe stato bisogno di aprirle a calci, ma lui lo fece lo stesso. Si stava incazzando e la cosa non era bella. Sperava di trovarlo tremante da qualche parte, in giacca e cravatta, pronto per essere arrestato da lui e poi manganellarlo un po’, per sicurezza. Invece quel vecchio e schifoso sorcio da ufficio gli era scappato. Aveva osato scappare a Carlo Sovrani, proprio sotto al suo naso.

In cucina scaraventò a terra piatti e bicchieri, mentre frugava. Sbatté con disgusto il frigo pieno di surgelati. Ruppe casualmente lo sportello del microonde, con una manganellata. In sala, sgomberò i mobili da varie suppellettili inutili, mentre la sua rabbia cresceva. Entrò nella camera da letto, vuotò gli armadi, calpestò vestiti e altro, rovesciò cassetti e capovolse il materasso matrimoniale con un grugnito di fatica. Niente, niente neppure lì. Non si era rintanato sotto al letto, né dentro l’armadio. Per sfizio, spaccò i vetri delle fotografie su un comodino.

Con un calcio, entrò in quella che era la stanza privata di Innocenti. Una montagna di cianfrusaglie e ciarpame, che Sovrani smanganellò con gusto. Un tavolino coperto di miniature dipinte a mano, in una riproduzione di un campo di battaglia medievale: a pezzi. Un impianto stereo molto costoso, col corredo di diversi cd di musica classica e jazz: sfondato lo stereo e spezzati i cd. Una libreria piena di polvere, con titoli assurdi: rovesciati a terra e pestati. Un mobile con sportelli in vetro, riempito di altre statuette e miniature, sempre dipinte a mano: in pezzi pure quello.

Ma ancora nessuna traccia del criminale.

Abbandonò la stanza in un cumulo di rottami e passò alla porta accanto. Quella era chiusa a chiave. Sovrani guardò soddisfatto la porta marrone, respirando a fondo. Ottimo segno, poteva anche essere nascosto lì dentro, il verme. Provò con un calcio violento, ma la porta resse. Il sorriso di Sovrani si allargò. Flettendo le gambe, caricò tutto il peso del corpo e giù di spallata, una volta, due. La porta non resse più e si spalancò con violenza, ruotando su un cardine ormai distrutto.

Ma non c’era Innocenti.

Carlo Sovrani guardò perplesso la stanza, mentre entrava adagio. Quadri, solo inutili e schifosissimi quadri da ogni parte. I muri ne traboccavano. Per curiosità li osservò meglio, nel caso fossero quadri di valore, ma invece niente, erano solo croste di un dilettante. L’architetto che era in lui si ribellò, di fronte a certi edifici raffigurati in quegli scarabocchi. Perché chiudere a chiave una stanza piena di immondizia? Non aveva senso. Anzi, un senso lo aveva, forse: farlo arrabbiare e fargli perdere altro tempo, mentre quel criminale di Innocenti fuggiva beato.

Se l’obbiettivo era questo, lo aveva centrato in pieno.

Il monociglio di Sovrani si attorcigliò, a mano a mano che la bassa fronte si incupiva e si chiudeva su se stessa, avvicinando sempre più il nero dei capelli corti al nero del monociglio folto. Adesso sì che ne aveva abbastanza, di quello schifoso impiegato. Non solo lo aveva preso in giro per anni nel suo stesso condominio, un piano sotto di lui, ma adesso gli era scappato e lo aveva lasciato a perder tempo coi quadri. Contemplò il manganello, poi lo risistemò in vita. Per quello ci voleva altro.

Imbracciò il mitra, tolse la sicura e cominciò a incidere sulle tele e sulle pareti il proprio giudizio di critico d’arte, a lettere di piombo. Via quella porcheria, via quei disegni senza senso, quei paesaggi assurdi e quelle caricature offensive dei monumenti cittadini. Addirittura una rosa camuna con una vaga forma di svastica, c’era! Se quello non era vilipendio della bandiera, non lo era niente. No, un quadro del genere meritava solo morte e distruzione. Sovrani vi si impegnò a fondo.

Il giorno dopo, avrebbe ricevuto una fattura dalla Opus Mei, la società che faceva capo a don Fausto e che, attraverso prestanome e società collaterali, era proprietaria di quello e altri edifici: lo caricava delle spese per la riparazione di una porta e di cinque muri, gravemente danneggiati da un’arma da fuoco di grosso calibro, ma il giorno dopo era il giorno dopo. Adesso, per Carlo Sovrani c’era soltanto l’offesa di quei dipinti, da lavare con l’unico detergente che conoscesse.

Lo fece. Quando uscì dalla stanza, dei quadri di Eva non era rimasto che un ammasso di cornici sul pavimento, tele a brandelli e un cavalletto ribaltato e frantumato. Siccome gli bruciava ancora un po’ e ormai non rimaneva altro, Sovrani abbatté con una raffica anche l’ampio televisore appeso a una parete della sala. Tanto, Innocenti non ne avrebbe più avuto bisogno.

Con un grugnito, e senza curarsi di chiudere la porta di ingresso, Carlo Sovrani cominciò la caccia.