Adriano - racconti e altro

Orizzonti di plastica

Capitolo tredicesimo

Il vetro rotto, qualche rampa di scale più in basso, gli spiegò cosa fosse successo. Innocenti doveva essere arrivato quasi all’ingresso, quando aveva visto l’auto lì fuori. E l’aveva riconosciuta, perché col suo lavoro chissà quante volte ci aveva già avuto a che fare. Preso dal panico, era salito di corsa sulle scale, si era fermano al primo pianerottolo, aveva spaccato un vetro nella fila di finestre che davano luce alle rampe e poi era scappato di lì. Guardando fuori, Sovrani vide un balzo di un paio di metri al massimo, niente di impossibile neppure per un impiegato.

Sì, la ricostruzione gli piaceva, suonava giusta. Carlo Sovrani sorrise, evitando le poche schegge di vetro finite all’interno. Non una fuga mimetica, non una fuga astuta, ma non ci si poteva aspettare di meglio, non da un incravattato di mezza età. E i vicini non avevano sentito nulla, ovvio, così come non avevano sentito i suoi spari, di sopra. Le pareti erano quasi tutte insonorizzate, in quel posto, e gli altri abitanti avevano un’età media molto vicina all’ospizio... no, era già tanto se si accorgevano di essere ancora vivi, figuriamoci di un vetro rotto.

Restava un dubbio: era solo o in compagnia?

Prima di scendere, Sovrani era salito al quinto piano, per bussare a casa Tarca. Gli aveva aperto una specie di mummia rinsecchita, con occhiali preistorici e un vestito blu a fiorellini che doveva aver visto l’incoronazione di Carlo Magno. Si era agitata, davanti a una guardia in manganello e mitra, ma poi aveva riconosciuto il vicino e si era calmata. «È uscito poco fa, saranno venti minuti, non so dove è andato, il ragazzo» gli aveva risposto la vecchia, quando Carlo aveva chiesto di Luca Tarca.

Probabilmente è insieme all’Innocenti, concluse Sovrani. Peggio per loro. Scese l’ultima rampa di scale, raggiunse l’ingresso e l’auto con la rosa celtica era ancora ferma lì davanti. Idioti. Potevano fare qualcosa di più mimetico, almeno si sarebbero risparmiati tutta quella fatica inutile. Ma la vita gli aveva già insegnato che non ci si poteva fidare di una giacca e una cravatta, così Sovrani scosse la testa e aprì la porta, calando su di loro torvo e incazzoso.

«Dentro non c’è più. È scappato» disse ai due che uscivano dall’auto, vedendolo arrivare. «Bisogna avvisare in caserma, che si preparino per le ricerche. Ma non andrà lontano.»

Andrea Andreoletti, il più magro dei due, alzò gli occhi al cielo e brontolò qualcosa che non pareva una preghiera canonica. Gianfranco Colombo, più robusto, guardò in faccia Sovrani e gli chiese se c’erano tracce di dove fosse fuggito.

«Sul retro, vi ha visti di sicuro mentre stavate qui davanti» rispose Sovrani. «Ma non ha molto dove andare. Segnalatelo alle fermate della metropolitana, bloccategli carte e abbonamenti vari e prima di mezzogiorno lo avremo preso. È un pirla di un impiegato, è già tanto se non si fa mettere sotto alla prima strada. Io intanto lo cercherò qui attorno.»

Si separarono. Colombo e Andreoletti tornarono in auto, a fare le chiamate del caso, mentre Sovrani partiva per la sua caccia personale. Al sonno non ci pensava più. Avrebbe trovato Innocenti, poco ma sicuro, lo avrebbe manganellato un po’ e poi dritto in caserma, giusto in tempo per il pranzo. No, non aveva dubbi. Un sorcio da ufficio non lo avrebbe mai fregato.

Il sorcio da ufficio, intanto, percorreva a passo veloce un tunnel assieme a Tarca. Avevano provato a correre, all’inizio, ma il loro corpo non si era dimostrato d’accordo. Dopo un centinaio di metri, si erano dovuti fermare con le mani sulla milza, le facce color melanzana e un ansimare che avrebbe fatto la gioia di ogni cardiologo in cerca di lavoro. Eliminata l’opzione corsa, proseguirono perciò a passo svelto, in tunnel di cui Fedele non conosceva neppure l’esistenza.

«Sei sicuro che si vada di qui?» aveva chiesto a Tarca, dopo un altro incrocio.

Tarca si era stretto nelle spalle. «Boh, può darsi. In teoria sì, ma poi lo vedremo. Non ci sono mai stato da queste parti, te l’ho già detto.»

Da allora, aveva preferito seguire e non chiedere. Per il momento la strada era deserta e sembrava in buone condizioni, per cui tutto andava bene. Al futuro ci avrebbe pensato poi. Il concetto di futuro, in ogni caso, era quanto di più lontano ci fosse dalla sua mente, almeno adesso. Quando era ancora bloccato nel condominio, Tarca gli aveva mostrato l’unica via di uscita che avessero: saltare da una delle finestre che davano luce alle scale, magari una delle più basse, e da lì correre verso il prossimo ingresso alle gallerie, che era subito dopo le case dietro la loro. Fedele aveva risposto ok, proviamo, e aveva spaccato un vetro con un calcio, nonostante Tarca insistesse per non lasciare tracce.

«Tanto ci seguiranno comunque, meglio andare in fretta» aveva detto Fedele, arrampicandosi per saltare di sotto. Soltanto allora si era accorto di cosa significasse uscire da quella finestra. C’erano almeno due metri, tra lui e l’asfalto, e sarebbe atterrato in una strada. Con tanto di auto. Una parte di lui sarebbe scesa, per arrendersi e consegnarsi; un’altra parte, invece, voleva continuare alla faccia di tutto e tutti, per non darla vinta a loro. Fu la parte che Fedele aveva seguito, lasciandosi cadere sulla strada più in basso. Per sua fortuna, aveva pescato un momento senza veicoli.

Tarca lo aveva raggiunto subito dopo, col colorito della luna in pieno giorno. «Di là» aveva indicato una stradina di fronte e di là erano corsi, sfiorando il muro del palazzo più vicino. Adesso si che le auto cominciavano ad arrivare e passavano a pochi centimetri da loro, toccandoli con l’aria e quasi anche con la lamiera dell’abitacolo. Fu brutto. Ansimavano, quando erano spuntati sul lato opposto del palazzo e avevano visto sulla sinistra l’ingresso alle gallerie. Si erano immersi, per lasciare quel mondo fatto di asfalto, auto e afa, tutte cose spiacevoli con la lettera a.

Da allora, Tarca lo aveva guidato in tunnel secondari, alcuni addirittura chiusi al traffico. «Sono dei passaggi di sicurezza, per la manutenzione» gli aveva spiegato, mentre procedevano di buon passo e sudati. «Di solito non ci dovrebbe essere nessuno, se non ci sono lavori da fare.»

Non ce n’erano, o almeno non in quella zona. Il tratto che percorrevano adesso era illuminato poco, poca era anche l’aria condizionata: non era fatto per i cittadini e si capiva, anche perché mancavano poster alle pareti, pubblicità e colori plasticosi. Cemento grezzo, macchiato di umidità: per diversi aspetti, assomigliava al tunnel in cui Eva lo aveva dipinto e l’idea non piacque a Fedele.

«Ma lo sai dove stiamo andando, vero?» chiese al compagno.

«Uhm... circa. Dovrebbe essere più o meno verso nordovest, ma non è importante, adesso.»

Fedele non ne fu confortato. «A me pare importante, invece. Pensavo che tu mi stesso portando da qualche parte, invece salta fuori che stiamo camminando a caso?»

«Beh, proprio a caso no. Adesso l’importante è uscire dalla città, alla direzione precisa penseremo poi. Semmai proverò a salire per orientarmi meglio, più avanti, ma intanto continuiamo di qui. È un settore che ho visto solo nelle mappe in Rete, ma più o meno ce lo dovrei aver presente.»

Fedele si strinse nelle spalle. A quel punto, poteva anche affidarsi al destino. Tanto, lui non aveva la minima idea di dove si trovassero ora, né di come uscire dalla città a piedi. In metropolitana certo, sarebbe stato molto facile, ma in metropolitana sarebbe anche stato in trappola: alla prima stazione lo avrebbero bloccato. Avrebbe seguito Tarca, sperando in bene.

Il tunnel di servizio incrociò un tunnel normale, che a quell’ora del giorno era quasi deserto. Videro un pensionato in lontananza, due donne che camminavano in un’altra direzione e stop: per il resto, la galleria era sgombra. La percorsero per qualche centinaio di metri, poi si infilarono in un altro dei tunnel di servizio. Alla terza svolta, Fedele aveva perso ogni parvenza di orientamento, incluse le sue illusioni di sapere dove si trovassero: non aveva mai visto neanche una delle gallerie pedonali in cui di tanto in tanto sbucavano. Sospirò, controllando le chiavette nella sua tasca.

«Tieni» disse, tendendone una a Tarca.

Luca lo guardò perplesso. «Cosa sarebbe?»

«I documenti che ti dicevo. Ne ho fatte due copie, una la tengo io e una la tieni tu. Per sicurezza, sai com’è. Se succede qualcosa a me, c’è la tua; se succede qualcosa a te, c’è la mia. E mettiamo tutto in Rete, alla prima occasione. D’accordo?»

Tarca non aveva apprezzato molto quel “se succede qualcosa a teâ€, ma il compagno aveva ragione e poi lui non era superstizioso, in condizioni normali. Prese la chiavetta e la infilò nel marsupio. «Se troviamo un punto per collegarci, la carico subito, così ci togliamo il pensiero. Ma ne sei sicuro?»

Fedele ci pensò un attimo, prima di rispondere. «Sì, ne sono sicuro. Ho dovuto fare una valanga di porcherie, in questi anni in azienda, ed è giusto che si sappia. Facciamo una bella pubblicità anche a loro, come regalo di addio. Anche questo significa uscire dal tunnel, no?» aggiunse con un sorriso.

Sorrise anche Tarca, senza rispondere. Le probabilità che qualunque italiano normale leggesse una riga di quei documenti erano pari a quelle di vincere l’oro olimpico nei cento metri piani: nessuno si collegava più alla Rete per informazioni, almeno non in quello che restava dell’Italia, e comunque nessuno ci avrebbe creduto. Ma perché rovinargli così la vendetta? Fedele sperava che in quel modo avrebbe diffuso ovunque i suoi documenti e in effetti era in parte vero, all’estero. Non lì. Ma chi lo sa, un sito straniero le poteva rilanciare; la minoranza etnica nonché etica degli italiani connessi le avrebbe trovate e lette; in un qualche modo, le notizie sarebbero girate. Forse. Col tempo.

La loro camminata a marce forzate, intanto, li portava in tunnel dove l’aria condizionata era sempre più rara e rarefatta. Il fresco naturale del sottosuolo era l’unica forma di difesa contro l’afa di luglio, ormai, e anche questo significava che la meta era vicina. Presto sarebbero dovuti uscire in superficie e Luca Tarca non ne era affatto entusiasta.

«Comincia a far caldo» osservò Fedele, guardandosi attorno. Si trovavano in una galleria pedonale, adesso, ma era deserta in entrambe le direzioni. Anche le pareti erano spoglie, i manifesti strappati o scarabocchiati. «Hai idea di dove siamo?»

«Vicini alla fine delle gallerie» rispose Tarca. «Preparati spiritualmente, perché tra poco si tornerà a vedere il sole. Credo.»

«Dobbiamo proseguire in superficie? Ma dove siamo?»

«Quasi fuori dal centro, nella cosiddetta periferia. O meglio, ci saremo quando torneremo di sopra.»

«Uhm.» Fedele si guardò attorno, a disagio. «Non mi sembra una buona idea, camminare di sopra. Le auto ci falceranno dopo due metri al massimo. In periferia, poi...»

«Che vuoi che ti dica? Le gallerie finiscono. Il centro è tutto coperto, certo, e anche i nuovi quartieri residenziali, ma prima o poi finiscono anche le gallerie. Non arrivano dappertutto. Anche questa è solo un collegamento tra due stazioni» aggiunse, indicando il tunnel che percorrevano.

«Ma non c’erano gallerie in tutta la città? Sopra le auto e sotto i pedoni, no? Era questo il motto.»

Luca Tarca sorrise. «Questo lo dice la tv. In realtà, come ti ho detto, funziona così solo in centro e nei nuovi quartieri, come quello del tuo capo. In tutto il resto della città, la periferia, i pedoni stanno ancora in superficie e fanno lo slalom tra le auto, come prima. Ma le tv non vanno mai a riprendere le zone esterne, per cui non c’è problema e possono raccontarci quello che vogliono.»

Fedele si morse un labbro. Già, ovvio, non ci aveva pensato. Non era mai neppure stato in periferia e perché mai ci sarebbe dovuto andare? Non era posto per la gente perbene, dicevano. «Tu invece ci sei stato spesso, in periferia?» chiese al compagno.

«Io? Mai messo piede. Ho visto video, foto e ascoltato storie in Rete, ma di persona ci andrò adesso per la prima volta. Però dicono che sia così. Staremo a vedere.»

«Ah, dicono...»

Fedele Innocenti non aggiunse altro. Arrivarono nei pressi di una stazione, Tarca lo guidò verso una stradina laterale, forse un altro di quei tunnel di servizio, e poi trovarono le scale. Scale normali, di cemento, niente che scorresse o che si muovesse. E faceva caldo, oltre a esserci una discreta puzza.

Salirono con poco entusiasmo e si guardarono attorno con entusiasmo ancora minore. L’entusiasmo sarebbe stato molto più basso, se si fossero accorti che davanti alla stazione qualcuno li aveva visti, ma così non fu. Per questo, l’inserviente dei trasporti pubblici cittadini li seguì per qualche metro, si accertò che salissero le scale, poi tornò alla guardiola, accanto alla biglietteria. Controllò che le loro facce fossero le stesse dell’avviso: erano le stesse. Valutò se fermarli di persona, poi valutò l’entità del suo stipendio e i possibili rischi dell’azione diretta, quindi prese il telefono e chiamò la caserma. Ci pensassero loro, che erano pure armati; lui, il suo dovere di buon dipendente lo aveva fatto.

Tarca e Innocenti, ignari di tutto, guardavano per la prima volta dal vivo la periferia della città. Non si erano persi niente, fino ad allora. L’uscita dei sotterranei si apriva su una specie di piazzetta vuota e grigia, di asfalto consumato dal tempo. Qualche rifiuto si notava accanto ai muri, cartacce e lattine abbandonate. Poco più in là, una strada moderatamente trafficata, con stretti spazi ai lati, forse per i pedoni. Attorno, palazzi bigi e alti, dall’aria desolata. No, non proprio un’area turistica.

L’orologio diceva che era mezzogiorno e il clima lo confermava. Il caldo era una massa solida, una poltiglia polverosa che si appiccicava alla pelle e raschiava in gola. Il suolo mostrava ancora tracce di un rapido acquazzone estivo, chiazze più scure e umide che evaporavano in fretta e riempivano di altra melassa l’aria attorno a loro. Avevano dimenticato le mascherine e se ne pentirono subito.

«Muoviamoci da qui, che non si respira» disse Fedele, rauco. «Da che parte bisogna andare, ora?»

Tarca lo guardò imbarazzato. «Ehm... non saprei. Cerchiamo un cartello stradale, così mi oriento.»

Il silenzio che ne seguì durò molto a lungo. Per fortuna, ci pensarono le auto a riempirlo, passando accanto a loro come calabroni impazziti, mentre strisciavano rasente i muri, verso un incrocio o un qualunque altro posto in cui potessero esserci segnali. Non incrociarono nessuno a cui chiedere.

Camminarono a lungo, molto più di quanto avrebbero voluto, ma molto meno di quanto necessario per uscire dalla città. C’erano ancora in mezzo, anche se adesso era periferia e li chiudeva su ogni lato, in una gabbia di palazzi alti e spogli. E caldi. Da anni non soffrivano così tanto il caldo. Faceva caldo nella campagna attorno alla Rinascita, quando Fedele c’era stato, qualcosa come quindici secoli fa, ma era un caldo diverso, meno aggressivo. Cuoceva l’aria, alla Rinascita, ma qui cuoceva anche il suolo e cuocevano le pareti. E poi polvere, polvere ovunque, che si spalmava sulla pelle e intasava le narici. Parlarono poco, perché parlare significava mangiare aria.

Erano gli unici pedoni in quel mondo sbiadito.

Anche Carlo Sovrani impiegò molto più tempo di quanto avrebbe voluto, per raggiungere la fermata di S. Ambrogio, capolinea dei tunnel pedonali. E quando arrivò lui, i due ricercati erano lontani, in un punto qualunque della superficie. Sbuffando, borbottando e bestemmiando il traffico, interrogò il dipendente dei trasporti pubblici cittadini, quello che aveva dato l’allarme. Fu così che poté almeno verificare il suo sospetto: i fuggitivi erano due, all’Innocenti si era unito pure il Tarca, naturalmente. Avevano diramato le descrizioni di entrambi per sicurezza, perché tanto anche Tarca era un sospetto e un reato per trattenerlo lo avrebbero trovato comunque, ma soltanto adesso ebbe la conferma che c’entrava anche lui. Il vicino del piano di sotto e il vicino del piano di sopra: bella gente che c’era, nel condominio! E gli erano scappati sotto il naso.

Fermo all’uscita delle gallerie, nella piazzetta che verso mezzogiorno aveva accolto i fuggitivi e che adesso era tornata deserta, Carlo Sovrani si guardava attorno, le mani sui fianchi. Volevano uscire dalla città, questo era ovvio. Ma che strada avevano preso per uscire? Questo invece non era ovvio. Anzi, non ne aveva proprio idea. C’erano strade ovunque e mica le poteva frugare a una a una, no? Ci sarebbe morto di vecchiaia! L’inserviente li aveva solo visti uscire, ma non aveva controllato in che direzione fossero andati, dopo. Il solito civile incompetente! Sovrani aveva detto più volte che ci voleva almeno una guardia, nei punti in cui le gallerie finivano. Un presidio, per sicurezza.

Mai che lo avessero ascoltato, i suoi superiori. E adesso, eccolo là. Chi aveva ragione, eh? Ci fosse stata una guardia, adesso li avrebbero già presi entrambi. Invece niente, erano scappati e toccava a lui il lavoraccio di riprenderli. Guardò di nuovo la piazzetta, la strada che si riempiva di auto, non un testimone nei paraggi. Inspirò a fondo la pessima aria, la tossì fuori e si asciugò la fronte, mentre la camicia verde gli si chiazzava di sudore.

Aveva bisogno di rinforzi, già. Li avrebbe ottenuti. Considerato chi aveva effettuato la denuncia, li avrebbe ottenuti di sicuro. Tutti quelli che voleva. Gli avrebbero mandato pure elicotteri, se ci fosse stato bisogno. Con un ultimo sospiro, chiamò la caserma.

Fedele e Tarca, intanto, non sapevano di essere inseguiti, ma lo sospettavano. Anzi, ne erano certi, pure in assenza di prove provate. Due volte avevano intravisto un’auto di ronda, col suo bel simbolo della rosa celtica in evidenza, e due volte si erano appiccicati al muro, quasi volessero farsi passare per manifesti venuti male. Una stupidaggine che li rendeva solo più riconoscibili, ma erano troppo agitati e distrutti dal clima, per formulare pensieri lucidi. Fortunatamente per loro, in entrambi i casi l’auto era passata oltre, impegnata forse in altri giri. Per il resto, traffico normale.

«Mi aspettavo ci fossero più pattuglie» aveva detto Fedele, dopo la seconda auto. Erano ormai ore e ore che camminavano, o così gli sembrava, e in tutto quel tempo c’erano state solo due vetture. Lui, che si aspettava forse inseguimenti a sirene spiegate, elicotteri e altre scene da film americano, era un poco deluso. Credeva di valere di più.

Tarca si era stretto nelle spalle. «Siamo in periferia, qui, se ne vedono poche» aveva risposto. «Una pattuglia costa e la gente non se la può permettere. E se non paghi la tua quota di sicurezza, niente guardie e niente pattuglie. Semplice.»

Fedele Innocenti lo aveva guardato perplesso. Non ci aveva pensato. Per lui, era normale pagare il contributo, solo una voce tra i prelievi dal suo contro corrente, a fine mese. Anzi, lo era stato, fino a quando non aveva ottenuto l’esenzione fiscale. Da allora, la quota di sicurezza era sparita anche dal suo estratto conto mensile. Nella sua memoria, invece, non c’era mai stata.

«Beh, meglio per noi, in questo caso.»

«Già» aveva detto Tarca. «Ma vedrai che arriveranno. Dipende da quanto ha voglia di pagare il tuo capo per prenderti. Il tuo capo o tuo suocero» aveva aggiunto, ripensandoci.

Erano tornati al silenzio. In una piazzetta con tanto di panchina scarabocchiata e in parte rotta, dove macchie sospette sull’asfalto facevano pensare ad attività sgradevoli, si erano fermati a riposare. Le case attorno potevano essere vuote e forse lo erano: una finestra aveva assi di legno a chiuderla, le altre erano sigillate dalle imposte. Imposte! Da quanto non ne vedeva, Fedele? Ogni tanto, una casa in stile simil-d’epoca ne aveva, ma erano molto più belle ed eleganti di quei pezzi di legno squamati, che si trovava attorno. Lo mettevano a disagio.

Tarca invece si era seduto come se niente fosse, asciugandosi la fronte con la manica della maglietta, e aveva tolto di tasca un affare di plastica. Un telefono? No, ci assomigliava, ma non era un telefono. Fedele gli aveva chiesto notizie su quell’oggetto e su cosa stesse facendo lui.

«Un palmare, vecchiotto ma efficace» gli aveva risposto. «Anche se il posto fa schifo, sembra che ci sia campo. Inserirò subito le tue informazioni, così non ci pensiamo più.»

«Ma non è che poi ci trovano, così? Hai detto che non dovevo portare il cellulare, perché...»

«Non ci sono GPS, qui» lo interruppe Tarca, accennando al suo palmare. «E poi, stai certo che non mi collego direttamente. Uso alcuni proxy per deviare il segnale. Devo farlo sempre, anche a casa, o i filtri governativi mi bloccano tutto. Ci sono abituato, fidati. Non mi intercettano.»

«Uhm...» Fedele non si sentiva particolarmente incline a fidarsi, ma fu costretto. E poi, qualunque cosa fosse un proxy, aveva un nome serio e professionale, che trasmetteva sicurezza. Si strinse nelle spalle e osservò il compagno inserire la chiavetta e copiare la montagna di documenti. Non fu una cosa rapida, tanto che alla fine sedette anche lui sulla panchina sghemba, aspettando.

Non c’era nessuno e questo cominciava a innervosirlo. D’accordo, non era mai stato in periferia, ma gli sembrava assurdo non vedere neanche un cane. Secondo Tarca, ci abitava un sacco di gente, ma quel sacco di gente doveva essere tutto rintanato in casa, oppure sparito chissà dove. O forse adesso è al lavoro, pirla, si disse. Non ci aveva più pensato, ma in effetti era un giovedì lavorativo. Gli altri erano di sicuro impegnati in ufficio, in negozio o dovunque lavorassero. Solo lui era stato cacciato e inseguito in lungo e in largo dalle guardie. Sorrise, stanco.

«Bene, caricato tutto» disse Tarca, strappandolo alle sue riflessioni. «Direi che è il caso di andare.»

«Tutti i documenti? E dove li hai messi?»

«In un sito, per adesso. Un deposito, mettiamola così. Ma ho mandato qualche messaggio e saranno poi gli altri a pensarci, per diffonderli. Non è che abbiamo tutto questo tempo, noi.»

Fedele guardò il cielo, bianco-grigiastro. «Che ore saranno?» chiese.

«Ora di muoversi. A parte questo, metà pomeriggio abbondante.»

Metà pomeriggio e ancora non sappiamo dove stiamo andando, né da dove si esca dalla città. Se si esce, dalla città. Fedele scacciò quel pensiero paranoico. Non erano messi bene, ma prima o poi era sicuro che sarebbero usciti. Forse. Presumibilmente. Si asciugò la fronte con la camicia chiazzata. A inizio giornata era stata azzurrina, adesso aveva tinte più cupe in varie zone della sua superficie. La giacca l’aveva abbandonata strada facendo e anche la cravatta aveva seguito lo stesso destino. Del vecchio impiegato non gli restava nulla, se non il fisico fuori forma e la pettinatura quasi regolare, a tratti assente per la scomparsa dei capelli stessi.

Ripartirono, sospirando, e fu un bene. Quindici minuti dopo, nella piazzetta arrivò Carlo Sovrani, in auto. In teoria, la piazzetta era riservata ai pedoni, una delle pochissime isole pedonali nel raggio di chilometri, ma lui ci arrivò lo stesso in auto. Dopotutto poteva. Dalla caserma gli avevano segnalato che da lì era partita una connessione alla Rete, da un dispositivo mobile registrato a Luca Tarca.

Tardi. Era arrivato di nuovo tardi. Poteva quasi sentire l’odore di quei due, le tracce che avevano di certo lasciato sulla panchina, o sull’asfalto della piazzetta. Forse di cinque minuti, forse di mezz’ora, ma li aveva mancati anche quella volta. Guardò nei dintorni se ci fossero segni, senza sperarci più di tanto, e non trovò nulla. Ma potevano essere ancora vicini.

Chiamò la caserma Miglio, segnalò che non li aveva trovati e che sarebbe ripartito per setacciare i dintorni. Suggerì inoltre che anche le altre pattuglie si concentrassero nella zona. Chiudendo, distese la schiena e rientrò in auto, nell’aria condizionata all’aroma di pesco. Si avvicinava. Quei due sorci erano veloci a scappare, ma lui si avvicinava. E presto li avrebbe presi.

Anche i due sorci cominciavano a temerlo, mentre il luminoso pomeriggio di quasi estate volgeva al tramonto. L’avvicinarsi del tramonto era suggerito più che altro dai brontolii di stomaco, ancora a digiuno dopo la colazione, perché la luce in cielo era sempre la stessa, bianchiccia e diffusa. Dopo la pausa nella piazzetta, avevano avuto la sensazione che il traffico aumentasse, nelle vie. Di certo era aumentata la stazza dei veicoli e questo faceva pensare che, forse, si avvicinavano ai margini di quell’infinita area urbana. O nei pressi. O giù di lì.

«Secondo me, tra un po’ ci siamo» aveva fatto in tempo a dire Tarca, con un vago sorriso, quando la prima sirena glielo aveva troncato senza pietà. Si erano accucciati dietro un cassonetto verde, giusto ai piedi di due condomini immensi, e da lì avevano visto passare lenta un’auto con un simbolo dello stesso colore verde sulla portiera. Una rosa celtica, sole alpino.

«Ce l’ha con noi?» aveva chiesto Fedele, senza voler davvero conoscere la risposta.

«Vediamo» aveva risposto Tarca, chiudendo invece gli occhi e contraendosi come un lombrico.

Questo non aveva aumentato l’ottimismo di Fedele Innocenti. L’auto aveva tirato dritto, con sirena e lampeggiante in funzione, ma il ritmo con cui procedeva era molto brutto. Sembrava proprio che stesse cercando qualcuno, quasi a passo d’uomo e rasente i bordi della strada. Aspettarono che fosse sparita in mezzo al traffico, prima di alzarsi dal nascondiglio fetido.

«Stava cercando noi» disse Fedele, gli occhi sempre verso il punto in cui l’auto era scomparsa.

«Beh, non è detto. Succedono spesso cose brutte, da queste parti, e forse non cercavano noi.» Ma la voce di Tarca era convincente come una cambiale falsa. Si mordeva un labbro. «Intanto andiamo.»

Andarono. E qualche minuto dopo, ecco un’altra sirena. Non c’erano cassonetti, stavolta, non c’era neanche un cartellone pubblicitario per nascondersi. C’era però il portone di un condominio e verso quel possibile rifugio corsero, sudati e soffocati dall’aria, storditi dai clacson e dalle auto che a ogni passaggio li sfioravano. Fedele non aveva mai apprezzato tanto le gallerie pedonali, come durante quel pomeriggio all’esterno, tra veicoli, strade e spazzatura in mezzo ai piedi.

Tarca raggiunse per primo il portone, lo caricò come un toro moribondo e cadde dall’altra parte, per aver calcolato male lo slancio e non essersi accorto che il portone era solo accostato. Né si sarebbe potuto chiudere, con la maniglia sfondata e la serratura smontata per metà. Fedele lo seguì e per un pelo non lo calpestò. Si appoggiò al portone, respirando come un asmatico in crisi.

«E adesso?» chiese all’aria.

L’aria lì dentro era lievemente meno polverosa, ma puzzava un po’ di più. L’odore di spazzatura al sole era sostituito da un gradevole aroma di liquidi di scarto organici. Tarca si rialzò disgustato, si pulì alla meglio le mani sui pantaloni e fissò la penombra attorno a loro. E adesso?

La sirena aumentò di volume, poi si attenuò pian piano, mentre passava oltre. Avevano scampato il peggio anche stavolta, ma era chiaro che non potevano continuare così. Era altrettanto chiaro che, in un qualche modo a lui ignoto, li avevano localizzati. L’arrivo di una terza sirena lo sottolineò.

«Come hanno fatto a trovarci?» chiese Fedele Innocenti, rivolto adesso al suo compagno di sventura.

«Non lo so.» Tarca scosse la testa. «Che ci abbia visto qualcuno?»

«Noi non abbiamo visto nessuno» replicò Fedele, non a torto.

«Sì, ok, ma non so, magari dalla finestra... da qualche condominio... qualcuno in auto... boh.»

«Non è che ci hanno localizzati con quel tuo coso, lì, quando ti sei collegato?»

«Impossibile» tagliò corto Tarca. «Ci sto attento a queste cose, era schermato benissimo. No, deve essere stato qualcuno che ci ha visto per strada e ha dato l’allarme. Aspettiamo un po’ e vediamo se cambiano zona. Uscire adesso è un suicidio.»

Mentre lo diceva, ecco una quarta sirena, uguale alle altre. Si avvicinò pian piano, suonò quasi nei loro timpani per secondi infiniti e poi passò oltre, allontanandosi pian piano. La differenza era che stavolta arrivava dalla direzione opposta, rispetto alle precedenti. Non un buon segno. Poteva anche significare che stavano isolando quella zona. Possibile, solo per loro due?

«Mi sembra assurdo, tutto questo casino per prendere noi! Mica abbiamo ucciso qualcuno» brontolò Tarca, guardando la porta a disagio. Se almeno ci fosse stato qualcosa per bloccarla...

«Dipende dai punti di vista» rispose Fedele, con voce piatta. «Per Bianchi, io ho ucciso qualcuno. E può permettersi tutte le guardie che vuole, se si mette in testa qualcosa.»

Tarca preferì non aggiungere altro. Aspettarono in silenzio per cinque, forse dieci minuti, e l’aria a poco a poco li soffocava. Faceva caldo anche lì, come faceva caldo in ogni punto della città che non avesse climatizzatori e aria condizionata, ma in quella specie di atrio malmesso si aggiungeva anche il disgusto di un odore sempre più intenso di orina. E di altre cose, a cui preferivano non dare nome.

«Un posticino accogliente» disse Fedele, guardandosi attorno. Gli occhi si erano ormai abituati al buio, ma non è che ci fosse molto da vedere. Più che un atrio, era una specie di tunnel di una decina di metri, non troppo largo, che si apriva davanti a loro su un cortiletto interno. Sulla desta c’era una ex porta, che probabilmente conduceva alle scale. Oltre il cortiletto, si vedevano altri passaggi come quello in cui si trovavano ora. Erano tutti bui.

Una volta doveva esserci una luce, ma adesso dal soffitto pendeva solo un filo, senza lampadine. A destra, proprio accanto alla porta da cui erano entrati, una fila di cassette per la posta testimoniava la presenza di qualche abitante in quell’edificio, anche se il silenzio e la puzza parevano smentirla. Un relitto di bicicletta senza ruote era appoggiato un poco più avanti, in mezzo ad altri scatoloni e sacchetti di plastica bianchicci. La puzza probabilmente proveniva da chiazze scure lungo il muro, i posti dove inquilini o passanti trovavano alternative più rapide ai bagni.

«Mica male, qui» commentò, storcendo la bocca.

Tarca gli gettò un’occhiata, poi tornò a fissare il portone. «Proviamo ad aprire? Non si sentono più sirene, magari sono passati oltre. Potrebbe essere il momento per allontanarci e cambiare zona.»

Fedele si strinse nelle spalle. «Proviamo pure.»

Tarca aprì la porta con cautela, sbirciò fuori con cautela e la richiuse con terrore. A una ventina di metri da loro, sulla destra, c’era una larga figura in piedi, di schiena. Una figura con camicia verde a chiazze di sudore, manganello in vita e mitra in spalla. Una figura che incrociava quasi tutti i giorni lungo le scale. Sovrani, la guardia del piano di sotto. Tarca si appoggiò al portone, con gli occhi di un gatto che non ha fatto in tempo a spostarsi, quando è arrivata l’auto.

«Merda» commentò, fissando il suolo. «Sono qui fuori.»

«Come sono qui fuori?» chiese Fedele Innocenti, sottovoce.

«Il nostro vicino, Sovrani. È qui. E se c’è lui, ci saranno anche i suoi colleghi, nei dintorni.»

Rimasero l’uno davanti all’altro a fissarsi i piedi, terrorizzati, e probabilmente ci sarebbero rimasti a lungo, forse fino a che non ci avesse pensato Sovrani, col manganello, a riportarli sulla terra, se non avessero sentito la voce, che li colse di sorpresa e li terrorizzò ancora più del resto.

«Venite da questa parte, cretini» disse.

Quando Fedele trovò il coraggio di guardare chi fosse il nuovo arrivato, scoprì che a volte l’assurdo è molto più plausibile del reale. Perché davanti a loro, nell’ombra, c’era il segretario Tombini.

Fuori, nello stretto spazio tra muro e strada, riservato ai pedoni coraggiosi, Carlo Sovrani studiava il paesaggio attorno a sé. Una pattuglia segnalava di aver avvistato due persone a piedi, in quella zona, ma le aveva perse subito. Ecco cosa si otteneva, a lasciar fare il lavoro agli altri. Lui non li avrebbe persi, ma lui in quel momento stava spulciando il quartiere per conto suo e con le sue gambe, invece di passare bello comodo nel fresco di un’auto. Non era certo così che li trovavi, quei sorci.

Odiava lavorare di giorno e all’aperto, ma odiava ancora di più che due ricercati, pericoli potenziali per la città, fossero in giro a fare quello che ne avevano voglia. Cose poco oneste, di sicuro. Aveva il dovere di trovarli e arrestarli; poteva anche sopportare un po’ di sudore e fastidio, per farlo. Con un grugnito si aggiustò pantaloni e mutande. Non era più abituato a camminare così tanto, e non era più abituato a sudare così tanto, ma pazienza. Più tardi, avrebbe notificato in caserma che le divise di ordinanza non erano adatte ai servizi di pattuglia all’aperto. Anche quello era suo dovere.

Niente, non un pedone nei paraggi. Dopo la piazzetta, aveva incrociato solo una vecchia che tornava a casa dalla spesa, sbuffando con due borse di plastica. No, non aveva visto nessuno. No, era appena uscita dal negozio e là dentro non c’era nessuno come quei due nella foto. Mi scusi, sa, ma le borse pesano. L’aveva lasciata andare, quella vecchia inutile, e aveva ripreso la sua ronda. Era sicuro che i due fossero ancora lì, soltanto non sapeva dove fossero. Se solo il Tarca avesse fatto altre cazzate, si fosse collegato col suo affare portatile... ma niente, gli toccava cercarli alla vecchia maniera.

Peccato solo che la vecchia maniera fosse così faticosa.

Ma dove sono finiti tutti?, si chiese, guardandosi attorno. Ricordava una periferia più animata, dalle ultime volte in cui c’era stato di pattuglia. Non molto, certo, ma non il mortorio di adesso. Eppure lì attorno non si vedeva nessuno, solo auto e auto, quasi tutte di passaggio. Non aveva senso.

Carlo Sovrani percorse lentamente la strada, col braccio sinistro che strusciava contro i muri stinti e chiazzati di umidità. Tentava ogni porta, nella speranza di trovarne una aperta. In teoria, aveva tutto il diritto e tutta l’autorità di farle aprire lui stesso, o anche di sfondarle, ma quella la teneva proprio come ultima soluzione. Una porta già aperta andava bene, perché in quel caso i due sorci potevano essersi infilati lì dentro, ma una porta chiusa era troppo faticosa. Per adesso.

Quando raggiunse il palazzo in cui Tarca e Innocenti si erano rintanati, il portone cedette al minimo contatto della sua mano. Serratura distrutta, segno molto sospetto. Peccato che fosse distrutta da un bel po’ di tempo, a giudicare da come si presentava, altrimenti potevano essere stati quei due. Con il mitra pronto, spinse da parte il battente e gli si spalancò davanti il buio di quel sottoportico. Un buio molto puzzolente, c’era da dire. Proprio adatto a due sorci. Sovrani entrò, togliendo la sicura.

Niente. Nel sottoportico c’erano scatoloni, buste di plastica, una bicicletta a pezzi, immondizia e un assortimento quasi completo di ciarpame, ma nessuna persona. Il cortiletto più avanti, però, aveva un buon numero di altre uscite. Doveva esaminarle tutte? Pensò alle dimensioni del palazzo, pensò a tutta la schifezza che vi avrebbe trovato, pensò anche che i suoi inquilini potevano non mostrarsi molto cordiali con una guardia sola. Sempre che ci fossero, gli inquilini.

Fece un passo indietro e contattò una pattuglia. Meglio aspettare i rinforzi, poteva essere molto più igienico per lui. E quando la prima auto fu arrivata, iniziarono a setacciare.

I due sorci, ormai, non erano più lì. Quando Sovrani cominciò la perquisizione dell’edificio, Fedele e Tarca sedevano in una specie di scantinato, passabilmente fresco e piuttosto buio, qualche strada più in là. O almeno, credevano che fosse qualche strada più in là, ma per quel che ne sapevano loro, poteva anche trovarsi sulla luna o nei dintorni. Tombini li aveva guidati a un’altra uscita del cortile interno, erano sbucati in un vicoletto lurido, poi avevano scavalcato con non poca fatica un muretto che separava due case, per finire in un altro vicolo lurido. Di nuovo a camminare, nel caldo.

Dopo la quarta svolta, avevano rinunciato alla speranza di capire dove stessero andando e si erano affidati a Tombini, con un atto eroico di coraggio. Avevano scavalcato un altro muro, poi Tombini aveva scostato una rete metallica sgangherata ed eccoli in un altro cortiletto in penombra. «Di qui» li aveva guidati il segretario, giù per una scaletta ripida e umida. Alla fine, li aveva scaricati in una specie di scantinato, lo stesso dove si trovavano ancora.

C’era un vago odore di vino vecchio, nell’aria, ma c’erano soprattutto ragnatele, polvere e tubi che si intrecciavano sopra di loro, attaccati al soffitto. «Possiamo fidarci di questo qui?» aveva chiesto Tarca, parlando al compagno di sventura. Fedele Innocenti si era stretto nelle spalle. Non aveva più senso preoccuparsene, visto che non avevano più alternative. Ormai erano finiti lì, tanto valeva che sperassero in bene. E poi, Tombini era un enigma, punto e basta.

Tarca non lo aveva apprezzato molto, soprattutto perché il segretario gli aveva spento e sequestrato il palmare, brontolando qualcosa sui giovani incompetenti. Considerati i presenti, il giovane doveva essere lui, Luca Tarca. «Non sono incompetente» aveva bofonchiato sottovoce. Tombini lo aveva guardato come il somaro della classe, poi li aveva guidati a quello scantinato. Ed era sparito.

Vissero un attimo di panico, quando la porta si riaprì, gettando nella stanza un fascio di luce bianca.

«Scusate, dovevo sistemare di sopra» disse Tombini, entrando. «Adesso possiamo parlare, somari.»

«Non è che potremmo anche mangiare, se non è di troppo disturbo?» chiese Tarca. Lo stomaco gli stava intonando l’inno alla gioia, in un arrangiamento senza cantanti lirici. Quelli sarebbero arrivati nel giro di un paio di ore, probabilmente. Sempre che pure loro non si fossero fermati in un autogrill a fare il pieno di calorie.

Il segretario li guardò con un sorrisetto ironico. «Siete proprio una bella coppia di imbranati, anche voi. Mi sorprende che siate ancora vivi, pirla come siete.»

«Grazie, facciamo del nostro meglio» rispose Fedele. «Sono sorpreso anch’io di trovarla qui, però.»

«Oh, avete scoperto il mio segreto, niente di che» disse Tombini. «Qui sopra c’è un ospizio; più che altro una specie di ospizio, ecco. Quando ho tempo, vengo a dare una mano: lo avrebbero già chiuso da un pezzo, altrimenti. Diciamo che è la mia attività di volontariato, tanto per sentirmi anch’io una persona buona, quando capita. Un passatempo.»

«Allora anche quando l’avevo vista in treno, quel giorno...»

«Stavo venendo qui, esatto. Ma non mi piace farlo sapere in giro, vedete. Può essere poco salutare, soprattutto in azienda. Credo che lo abbiate scoperto anche voi, ormai» aggiunse, sorridendo.

Fedele lo guardò meglio e sì, in effetti era proprio vestito male, come quel giorno in treno, quando si erano incrociati nel vagone. Quel giorno... quando? Tre settimane fa? Quattro? In un’altra vita, di sicuro, una vita in cui c’era Eva e lui pensava ancora a salire in azienda, per liberarsi del suocero.

«Ma perché questo volontariato? Cioè, capisco che è a fin di bene e capisco che è una buona azione, ma... non capisco» disse, scuotendo la testa. Tombini lo guardava sorridendo, spaventapasseri con una camicia vecchia e larga, pantaloni scuri e sciupati e scarpe del secolo scorso. Aveva ripescato in un angolo una sedia di legno, un po’ sfondata, e si era accomodato. Tarca, dopo qualche dubbio, si era seduto a gambe incrociate sul pavimento. Alla fine, anche Fedele lo imitò.

«Diciamo che è un modo per espiare le mie colpe» rispose Tombini, dopo una lunga pausa. «Questo mondo l’ho creato anch’io, dopotutto. Ho collaborato con loro, con Storti e gli altri, e il risultato lo vedete voi stessi. Ai tempi dell’Expo me ne sono accorto e ho cercato di cambiare rotta, ma ormai il mio gruppo era in minoranza ed è finita così. Adesso sono il Tombino, in azienda, mentre Storti è il sommo amministratore delegato, lode al suo nome.» Il sorriso era amaro, molto amaro.

«E adesso fa volontariato in un ospizio per poveri, di periferia» intervenne Tarca. «Molto edificante, ma al momento le lezioni di storia non sono il primo dei miei interessi. Dove ci ha portati? Perché ci ha portati qui? Come ci ha trovati? E soprattutto, come possiamo andarcene da questa città?»

Tombini lo guardò con più di una punta di derisione. «Ragazzo mio, capisco che te le stia facendo sotto, ma vedi di restare a cuccia» gli rispose. «Tanto per cominciare, adesso siete nello scantinato dell’ospizio, credevo che lo aveste già capito. Se il posto non ti piace, la porta è lì» e indicò l’uscita alle sue spalle. «Secondo, vi ho portati qui per non farvi beccare. Tu non mi sei mai stato simpatico in azienda» disse, indicando stavolta Innocenti, «perché eri lo zerbino di Storti. Adesso pero Storti ti vuol far sparire e allora io ti aiuto. A quello stronzo non la darò mai vinta. Terzo, vi ho trovati come vi hanno trovati le guardie: quando ti sei collegato con questo» e si tolse il palmare di tasca, «ti ha localizzato anche mio nonno in carriola. Impara a usare i computer, prima di giocare a fare l’hacker, bambinone.» Tarca arrossì, chinando la testa. Fedele lo fissò, ma non disse nulla.

«Hai fatto un bel lavoro con quei documenti, per carità» continuò Tombini. «Gli ho già dato una controllata e aiuterò anch’io a diffonderli, per quel che serve. Nessuno li leggerà mai in Italia e non interesseranno a nessuno, qui, ma è pur sempre un dispetto a Storti e io ci sto. La prossima volta che ti colleghi, però, usa programmi che ti schermino davvero e che servano davvero a reindirizzare il traffico. Programmi seri e hardware serio, non la porcheria che trovi in ogni forum.»

«Hanno sempre funzionato bene» disse Tarca, imbronciato.

«Non ti hanno mai cercato seriamente, piuttosto. Infatti, oggi vi hanno localizzati subito. Ascolta, io traffico col computer da prima che tu nascessi e so cosa puoi e non puoi farci. So anche con quali programmi puoi e non puoi fare certe cose. Prima che ve ne andiate, te lo sistemerò io, ma adesso è meglio che rimanga spento e nella mia tasca. Credimi. Farai meno danni.»

Tarca non gli credeva più di tanto, ma non aveva niente da ribattere. Niente di dignitoso, almeno. In un’altra vita, la vita nel condominio, era convinto di cavarsela bene col computer e di essere bravo a non farsi scoprire. Credeva anche di potersi arrangiare sempre, in qualche modo. Quel giovedì nelle vie della città aveva macinato in farina le sue convinzioni e adesso gliele impastava attorno. Guardò Fedele, seduto accanto a lui in camicia sporca e faccia arrossata dall’aria, sbottonato fin quasi allo sterno, e pensò che era un miracolo se due come loro erano arrivati fino a lì.

Lo pensava anche Fedele, in silenzio, mentre la sua opinione di Tombini si capovolgeva. Prima, per lui era il vecchio inutile dell’azienda, la sputacchiera pubblica a disposizione di ogni dipendente; lo deridevano e si sentivano superiori a lui. Adesso, lui si sentiva solo una merda.

«Come possiamo uscire dalla città?» gli chiese. «Ci stavamo provando da soli, ma ci siamo persi e adesso non abbiamo proprio idea di dove siamo.»

Il segretario Tombini sospirò. «Siete due piattole, voi! Vi lascerò una mappa e vi segnerò la strada per uscire. Non camperete un giorno, fuori città, ma quelli sono affari vostri. Se sei furbo, è meglio che punti verso la Rinascita, dove lavorava tua moglie. Sapranno dirti dove andare, poi.»

L’idea non entusiasmava molto Fedele. Prima aveva fatto arrestare Manovali, uno dei loro, e poi era morta Eva, che era sua moglie ma anche una di loro. L’aria poteva non essere delle migliori, in quel luogo. Ma Tombini aveva ragione: senza un punto di partenza non se la sarebbero cavata, loro due, e la Rinascita era un punto di partenza. Una fattoria, separata dalla città, in mezzo al nulla e ai resti abbandonati di speculazioni edili. Non lo avrebbero accolto a braccia aperte, ma forse gli avrebbero almeno dato qualche indicazione su dove fuggire. E poi, non aveva alternative.

«Ok, credo che sia una buona idea» rispose infine. «Potremmo però riposarci un poco qui, prima di ripartire? È tutto il giorno che cammino e sono un po’ a pezzi...»

Tombini sorrise. «Posso immaginare. Riposatevi pure qui, per adesso. Vi porterò da mangiare e da bere e aspetterete la notte, prima di uscire. Sarà più sicuro, per voi, e avrete meno possibilità di farvi beccare subito dalle guardie, come due polli. Se ne avete bisogno, in fondo al corridoio qui fuori c’è una specie di bagno.» Si alzò, sospirando. «A più tardi.»

Uscì. Ritornò dopo una mezz’oretta, portando acqua e cibo, come promesso. Fedele e Tarca non si fecero pregare, anche se i piatti non erano proprio quelli che preparava la moglie o la mamma: dopo una giornata così, avrebbero mangiato anche una suola di scarpa, chiedendo il bis. Riuscirono anche a dormire un poco, sul pavimento: non un sonno comodo e non un sonno piacevole, ma un rapido blackout dei sensi, parentesi di buio senza sogni, per scollegare il cervello dal giovedì più faticoso che avessero mai vissuto, almeno negli ultimi dieci anni e oltre.

E mentre mangiavano e riposavano, a qualche strada di distanza da loro Carlo Sovrani e colleghi si allontanavano di malumore da un edificio, per riprendere la caccia ai due. La perquisizione non era andata bene, in quel condominio popolare c’erano solo pezzenti, sporcizia e tre extracomunitari in un appartamento. Avevano arrestato e caricato in auto gli stranieri, perché erano di certo irregolari e comunque meritavano un controllo, avevano interrogato gli italiani e nessuno sapeva nulla. Nessuno aveva visto o sentito nulla. E così, un altro fallimenti per Sovrani, che si faceva sempre più cupo in volto, sotto il suo monociglio. Adesso non si sarebbe accontentato di qualche manganellata, dopo l’arresto; adesso li avrebbe sistemati per bene, come meritavano.

Se solo li avesse trovati.

Ma dovevano ancora essere nei paraggi, di sicuro. Ormai era quasi il tramonto e quelle due piattole non avevano né il coraggio, né le capacità per fuggire al buio, in un luogo sconosciuto. Bastava solo scoprire dove si fossero rintanati. Chi a piedi e chi in auto, ricominciarono a cercare.

Era quasi mezzanotte, quando Tombini scese nello scantinato a svegliare i begli addormentati. Li trovò rannicchiati in un angolo di pavimento e fu sorpreso di vedere che dormivano davvero. Strano, per due pantofolai come loro! Addormentarsi senza un materasso sotto il sedere... ma la stanchezza fa miracoli ed era meglio che si abituassero a dire addio alle comodità. Il futuro non gliene riservava molte, se fossero sopravvissuti alle guardie e a tutto il resto.

«Io adesso torno a casa» disse, riportandoli alla coscienza con qualche calcio leggero. «Ora vi lascio la mappa, il palmare e vi spiegherò da che parte girare appena usciti di qui, per non tornare subito verso il centro. Pirla come siete, finireste così. E adesso in piedi, che se no perdo l’ultimo treno.»

Si alzarono di malavoglia e le loro ossa brontolarono. Non avevano apprezzato molto il pavimento, specie quelle di Fedele; lui diede loro tutta la sua comprensione, ma le fece alzare lo stesso. Tarca raccolse il palmare e la mappa, con un «grazie» a volume molto basso. Non aveva digerito granché d le osservazioni sulla sua competenza, ma preferì non brontolare e non fare storie. Dopotutto, il vecchio aveva ragione e li aveva pure aiutati.

«È sicuro di non correre rischi?» chiese Fedele al segretario. Faticava parecchio a far coincidere le due immagini di Tombini, quella in ufficio e quella che vedeva adesso: sembravano appartenere a due galassie diverse e forse era proprio così. Il Tombini d’ufficio era quello del mondo di plastica, in cui lui stesso aveva speso quasi tutta la sua vita di adulto; il Tombini dell’ospizio era quello reale. Forse. O almeno, Fedele decide di crederlo, in quel momento.

«Sono anni che tiro avanti così e non saranno certi due imbranati come voi a darmi problemi» gli rispose il segretario. «E adesso muovetevi, che devo andare anch’io.»

Si mossero. Tombini li guidò fuori da quell’edificio e di nuovo sulla strada. «Da quella parte» disse, indicando un’estremità della stretta via, ormai deserta. «E seguite la mia mappa.»

«Grazie di tutto» disse Fedele. «E mi saluti il capo» aggiunse, con un mezzo sorriso.

«Non mancherò» rispose Tombini, con un ghigno.

Poi ognuno andò per la propria strada, nella notte umida della periferia. Il segretario si incamminò verso la stazione, per tornare a casa; Innocenti e Tarca si incamminarono e basta, sperando di uscire prima o poi da quella città. C’era un odore strano e indefinibile nell’aria, forse di bruciato o forse di qualche prodotto chimico, oppure entrambe le cose. C’era soprattutto silenzio, con rumori lontani di auto e veicoli vari. Lì, non c’era nessuno, a parte loro due che camminavano.

«Non si vedono stelle» mormorò Tarca, alzando la testa.

Non si vedevano davvero. Troppe luci in città, troppo appannato il cielo. A Fedele non sembrò un buon presagio, ma non disse nulla. Pensava a molti anni prima, a quando era giovane, ai cieli della sua giovinezza e alle stelle che una volta guardava. Forse le avrebbe ritrovate, fuori dalla città, se ci fosse mai arrivato. O forse no, anche quelle erano perse per sempre. Tarca pensava alle notizie che non conosceva, a tutto ciò che era avvenuto quel giorno e di cui lui non si era documentato. Doveva chiedere a Tombini, già, ma si era dimenticato. Peggio per lui. Più avanti, magari fuori città, forse avrebbe trovato il coraggio di collegarsi col palmare, ma adesso era troppo rischioso. Così si strinse nelle spalle e tirò dritto. Camminavano in silenzio, mentre il mondo girava per i fatti suoi.

E mentre il mondo girava per i fatti suoi, sotto altri cieli si preparavano eventi che l’Italia neppure si poteva immaginare, perché nessuno le aveva mai detto nulla di quanto stesse accadendo nel resto del mondo. E dopotutto, all’Italia non era mai interessato: stava bene così. E a poco a poco, nei vari fusi orari, cominciò anche quel venerdì 4 luglio.