Adriano - racconti e altro

Orizzonti di plastica

Epilogo

Partirono, nelle prime ore del pomeriggio, sotto un caldo che rimbecilliva. Il mondo era immobile attorno a loro, massa pesante e vischiosa, in cui farsi largo a spallate. Indossavano ancora le tute da lavoro, che gli avevano dato quelli della Rinascita, assieme ad altri oggetti. I cappelli di paglia che portavano in testa, per esempio, o le mascherine per filtrare l’aria e renderla quasi respirabile

Fedele Innocenti si era caricato in spalla un vecchio zaino, coi loro vestiti normali, un po’ di cibo a lunga conservazione, come biscotti e crackers, e due bottiglie termiche di acqua. Pesava parecchio e gli disegnava una chiazza quasi geometrica sulla schiena, per certi aspetti simile a quelle che a volte ti mostrano gli psicologi, chiedendoti cosa ci vedi. Tarca, accanto a lui, ci vedeva un viaggio senza speranze, da cui non sarebbero mai tornati. Ci vedeva anche il mitra di Sovrani.

Avevano tagliato per i campi e contavano di continuare così il più a lungo possibile. Le strade erano troppo pericolose per loro, molto meglio tenersi al riparo tra le mille cianfrusaglie edili e industriali, che infestavano la terra di nessuno tra una città e l’altra. Almeno, ogni tanto incrociavano un pezzo di ombra, in cui tirare il fiato e asciugare la fronte. Sarebbe stata un incubo, quella camminata.

Luca Tarca procedeva in silenzio, studiando la cartina che aveva stampato alla Rinascita, tentando di farla coincidere col paesaggio attorno a loro. A volte ci riusciva. Per quanto poteva capire, erano sempre diretti a nord e in fondo era questa la cosa fondamentale. Pensava al suo computer, solitario nella cameretta che non avrebbe mai più rivisto, e pensava a ciò che forse accadeva altrove. A volte i suoi occhi correvano al cielo biancastro, implacabile, e cercavano un qualche segno. Cercavano le prime tracce del mondo, che sarebbe tornato per ricordare all’Italia che ne faceva ancora parte.

Fedele Innocenti sbuffava e sudava, sotto lo zaino. Doveva lasciarlo al suo compagno, forse, che era più giovane di lui, ma il fisico di Tarca era affidabile come un politico: meglio restare così, almeno finché riusciva. Dietro di loro, la città era svanita nell’umidità, nascosta dietro l’orizzonte. Svanita senza rimpianti, almeno per Fedele. Aveva solo pessimi ricordi, laggiù, ma soprattutto non aveva un futuro. Meglio guardare avanti, verso nord, alle montagne che prima o poi sarebbero apparse lassù, a disegnarsi contro il cielo. Sperava che succedesse presto, perché non avrebbero retto molto, le sue gambe. Troppa vita sedentaria, negli anni di azienda.

Samuele Rainieri e gli altri della Rinascita erano rimasti indietro, come la città ma appena staccati. I campi nutriti dai lombrichi, pian piano, riacquistavano un aspetto quasi civile e reale, ma era molto lento quel processo. Troppo lento. Anna Bruno borbottava ancora contro quei due, e in particolare il marito di Eva, mentre preparavano un quinto campo. Diego Zorro lavorava nella serra, raccogliendo quello che già era pronto e curando le pianticelle in fase di crescita. Silvia Carli aveva già scaricato e criptato i documenti, su richiesta di Rainieri, e si chiedeva a cosa sarebbero serviti. Li avrebbe poi letti con calma, un poco alla volta. Renato Trudu si occupava del primo campo, quello che nel giro di una settimana avrebbero seminato. Gli altri sarebbero arrivati dopo, se funzionava.

Carlo Sovrani continuava a setacciare il quartiere di periferia, dove li aveva quasi presi e poi persi. I risultati mancavano ancora. Ormai era quasi sicuro che fossero riusciti a fuggire dalla città e aveva già tentato due volte di convincere i superiori ad allargare le ricerche anche nella campagna attorno, ma con poco successo. Una pattuglia era partita, sì, ma una pattuglia era inutile. Soprattutto, doveva esserci anche lui, là fuori, per arrestarli con le sue mani e il suo manganello. Glielo spiego io cosa succede a chi mi prende per il culo, proprio a casa mia, pensava, vagando per le strade piene di auto e scarse di umani, nell’afa del venerdì pomeriggio.

Ettore Sala chiacchierava in sala caffè, coi colleghi. Aveva appena finito di raccontare il premio per la sua impresa, con la massima discrezione, invitandoli a guardarlo in tv tra una settimana, quando avrebbero inaugurato il PalaGheddafi. «E sarò lì in prima fila, in mezzo ai consiglieri, io» diceva, in un arruffarsi di piume da pavone. Il geometra Mangiapane gli si strusciava accanto, come un gatto, mentre l’architetto Graziani gesticolava con sufficienza. «Ci sarò anch’io, vedrai, basta che chiedo a mio papà.» Gli altri ridacchiavano, scambiandosi battute senza senso. L’architetto Baiocchi sedeva sdegnoso in un angolo, con la tazza in mano e un occhio sempre all’orologio. Era quasi tempo di far tornare i colleghi al lavoro. Ruopolo attendeva, accanto a lui.

L’amministratore delegato Fabrizio Storti, nel suo ufficio polare, spegneva il telefono, infastidito e piuttosto incazzato. Un vago rossore gli accendeva la pelle plastica, riportando vita nelle occhiaie e nelle rughe mascherate dai lifting. Ancora non l’avevano preso, quell’Innocenti, e la cosa gli faceva girare le scatole e anche le palle. Possibile che ci volesse tanto, per far sparire un pistola del genere? Possibile, sì, come era possibile che l’avvocato Bianchi lo chiamasse di continuo, per lamentarsi del pessimo lavoro svolto dalle guardie. Come se fosse colpa sua, di Storti! Ma gli toccava portare tanta pazienza e sfogarsi sul capo della caserma. Ancora un giorno e lo avrebbe fatto licenziare.

Il segretario Maurizio Tombini sedeva alla scrivania, davanti allo schermo di un computer, intento a recuperare la mezza giornata di permesso che si era preso, ieri. Guardava con occhio distratto liste e liste di nomi e cifre, senza leggerne nessuna, e intanto pensava a quei due disgraziati, Innocenti e il suo amico. La sera prima, aveva controllato i documenti immessi in Rete, li aveva letti con estrema attenzione e poi li aveva diffusi su alcuni siti che conosceva lui, italiani ma soprattutto stranieri. Era più di quanto si aspettasse, da Innocenti. Una bella panoramica sulla vera vita dell’azienda, costruita attraverso gli incarichi che gli avevano assegnati, in anni di attività. Quasi niente di legale, almeno in qualsiasi altro paese: in Italia era quasi tutto legittimo, moralmente discutibile ma legittimo. Però non era proprio il genere di cose di cui vantarsi con gli amici, ecco. Capiva bene perché Storti fosse così ossessionato dall’idea di catturarlo e vendicarsi. Non farti trovare, mi raccomando, pensò. Più lontano vai e meglio sarà. Con un mezzo sorriso, tornò a guardare i dati sullo schermo.

La piramide di Lambrate, immortale monumento più duraturo del bronzo, eretto a somma gloria del governo e della Expo 2015, vegliava la città dall’alto, nel silenzio del primo pomeriggio. Davanti, si apriva il parco, protetto da una cupola di vetro; accanto, i centri commerciali facevano affari, con le compere del fine settimana; intorno, le strade erano trafficate come sempre. Tutto era buono e tutto era giusto, nel mondo, e se qualcosa non lo era, allora bastava guardare da un’altra parte e dire che tutto era buono e giusto. L’ottimismo è il profumo della vita e la menzogna ne è il succo.

Mentre l’Italia dormiva tranquilla, con le sue mille storie insignificanti, dall’altra parte dell’oceano la Cina faceva finalmente la sua mossa. In tanti l’avevano attesa, per giorni; in tanti avevano cercato di prevederla e prevenirla, con mezzi leciti e meno leciti. Inutilmente. Sarebbero stati molti meno a commentarla, quella sera, ed era proprio lo scopo della mossa. Mentre gli Stati Uniti si svegliavano a poco a poco, per celebrare il duecentoquarantanovesimo anniversario, quel venerdì quattro luglio qualcuno aveva deciso di sparare i primi fuochi d’artificio sui loro cieli.

Le portaerei statunitensi erano ormai nei pressi di Taiwan, ufficialmente per una esercitazione; russi e alleati avevano attaccato i confini nordoccidentali; i mercati erano in caduta libera. Alla Cina non importava, lei era tranquilla. Aveva atteso e l’attesa paga sempre. I bombardieri invisibili ai radar e ai satelliti non erano più un vago prototipo, come avrebbero scoperto per colazione gli americani; il mondo non girava più attorno all’Occidente, come avrebbero scoperto tutti, nei mesi a venire; e così sarebbero cambiati anche i rapporti di forza. Adesso, la ruota sarebbe girata e con essa il vento del progresso. Normale cambio di guida, come succede spesso nella storia.

Finché esiste una storia, quantomeno.

Venerdì quattro luglio, circa le nove sulla costa atlantica. Cacciabombardieri, che avevano sorvolato non visti l’intero continente, eseguivano adesso una perfetta manovra sopra l’oceano, per introdursi nella rotta studiata per il ritorno a casa. Dietro di loro, nell’azzurro del cielo americano, su palazzi infranti e sulle macerie metalliche di una fiaccola e una testa coronata, si alzava la polvere, enorme fungo grigio scuro, spuntato dal cuore della città colpita.

La guerra cominciava.