Adriano - racconti e altro

Orizzonti di plastica

Capitolo nono

Verso la fine di via Craxi, poco prima che sfoci in piazza Tremaglia, c’è un palazzo di otto piani, tra altri dieci palazzi quasi uguali a lui. È una zona piuttosto esclusiva del nuovo quartiere, costruito per l’Expo, in cui il prezzo degli appartamenti al metro quadro è almeno il triplo di quello che un onesto impiegato può guadagnare in un anno, straordinari inclusi. Non tutti i residenti, però, hanno pagato quelle somme: alcuni hanno avuto un appartamento in comodato gratuito, altri sono semplicemente i proprietari dell’intero edificio, spesso intestato a prestanome. Una zona tranquilla ed esclusiva, per le persone oneste, perbene, lombarde e timorate di Dio. Cittadini esemplari dell’epoca nuova.

Al sesto piano di quel palazzo, si trova l’appartamento dell’amministratore delegato Fabrizio Storti, non certo la sua unica casa, ma quella che di recente usa più spesso, per motivi ignoti a tutti. Come è ovvio, rientra tra quelli che abitano lì senza pagare un soldo. Gli imprenditori edili fanno spesso di questi regali alle persone importanti, per motivi altrettanto ignoti a tutti. È la vita.

Proprio verso quell’edificio, costruito pochi anni prima per sembrare una dimora d’epoca, domenica ventinove giugno si era diretto Fedele Innocenti. L’amministratore lo aveva invitato e lui obbediva. Non sapeva bene neppure lui perché ci fosse andato, in effetti: forse era un sistema per sfuggire alla realtà, oppure per accettare la realtà, o infine era l’ennesimo trionfo del grande dio dell’umanità.

La Sacra Abitudine.

L’abitudine lo aveva fatto andare a letto alla solita ora, anche se non aveva dormito, e l’abitudine lo aveva spinto ad alzarsi, a prepararsi, a indossare l’abito migliore e a seguire il suono dell’olifante del capo. L’abitudine lo avrebbe probabilmente tirato fuori da quella crisi, a lungo andare, con il più semplice dei sistemi: coprire e dimenticare, seppellendo il suo lutto sotto strati e strati di quotidiana normalità, di semplici fatti che riempivano le giornate.

Ma c’era qualcosa, nella sua testa, che non si voleva arrendere all’abitudine. Fallito, gli aveva detto il suocero, nell’orribile telefonata della sera prima. Fallito, gli era rimbombato nel cranio per tutta la notte. Ogni sua azione, fino a quel giorno, era servita solo a cancellare quella parola, che l’avvocato Bianchi gli aveva cucito addosso per la prima volta durante il loro viaggio assieme, mentre cercava di sistemarlo in qualche ufficio. E a cosa aveva portato, la sua lotta? A un corpo sotto un lenzuolo, che adesso l’impiegato di qualche ditta di onoranze funebri stava forse sistemando per la sepoltura. Ecco a cosa aveva portato: alla scomparsa della persona per cui lottava.

Quando il palazzo dell’amministratore si era alzato davanti a lui, con la sua imponente facciata finto neoclassica, da qualche parte dentro di sé Fedele aveva sentito l’impulso ignoto di fare esplodere quel luogo, distruggere il loro mondo come loro avevano distrutto il suo. Fu solo un impulso, che da tempo non ricordava; l’abitudine poi tornò al timone e gli fece suonare il campanello, per avvisare.

Il portone si aprì, in una nube di aria fresca, e lo risucchiò nella sua penombra. Pochi passi sul finto marmo, poi l’ascensore e fu al sesto piano, antro e regno dell’amministratore delegato. Il colloquio lo attendeva e con esso, forse, anche una promozione; di sicuro un premio. Una bella medaglia di cartone da appiccicarsi sul petto. Se gli ultimi due giorni non fossero esistiti, quello sarebbe stato un momento di trionfo. Invece, era il vertice della follia umana. Fedele si asciugò la fronte, indossò la migliore maschera da dipendente ed entrò. Domenica ventinove giugno, undici e venti del mattino.

L’amministratore Fabrizio Storti era lì, avvolto in una comoda veste da camera color verde pisello e con inquietanti bordi di pelo. Con la coda dell’occhio, Fedele notò anche le pantofole arancione, ma finse di non aver visto nulla: per quel poco che restava della sua salute mentale, era sempre meglio non indugiare troppo sui vestiti del capo.

«Oh, ti sei presentato, bene» gli disse Storti, senza offrirgli la mano. «Pensavo che ti saresti messo in lutto o roba del genere, te. Ma hai fatto meglio così. I morti son morti e noi abbiamo da pensare ai vivi, adesso. Ci sono affari da discutere, lo sai anche te.»

Fedele sorrise, abbassando la testa. Si sforzava di non pensare, di svuotare la mente, di concentrarsi solo e unicamente su qualcosa di inutile e insignificante, tipo il toporagno elefante. Ci riuscì.

«Guarda, per un po’ di tempo magari ci resterai male, lo capisco» stava continuando Fabrizio Storti, camminando verso una poltrona. «Ma poi passa, fidati di me. Mi pare che anche a me ne sia morta qualcuna, di mogli, ma cosa vuoi, dopo un po’ non ci fai più caso. Firmi un assegno e via, tutto si risolve.» Si sedette, o meglio le gambe arcaiche lo scaricarono nella poltrona. «Bah, lasciamo stare, che ce ne frega niente. Siediti anche te, che dobbiamo discutere di cose serie.»

Fedele vide una poltrona poco discosta. Si sedette, con cautela. Era comoda.

«Allora...» riprese l’amministratore, dopo un momento di pausa. «Mi hai fatto proprio un bel lavoro con quel coso, Madrigali, eh? Ah sì, ne stava combinando di brutte in azienda, quello lì. Tu non ne hai neanche idea, fidati di me! Ma adesso è sistemato.»

«Cosa stava facendo di preciso?» chiese Fedele, con falsa indifferenza.

«Cosa stava facendo? Ma l’hai visto anche te, no? Me le hai portate te le prove, testina!»

«Sì, certo» si corresse, «ho raccolto tutte le informazioni che ho trovato, ma non so di preciso cosa fosse il reato, lì in mezzo. C’era troppa roba...»

L’amministratore sorrise, mettendo in mostra la ceramica dei denti. «Ah beh, su questo hai ragione anche te. Ne ha combinate parecchie, quel Madrigali!»

«Si riferisce al lavoro presso la Rinascita?» chiese Fedele, trattenendo il respiro. Era questo il punto chiave, adesso. Qualcosa gli si agitava in fondo alla testa. Qualcosa di spiacevole.

«La Rinascita?» Storti aggrottò la fronte, per quanto i lifting glielo permettevano ancora. «Ah sì, la fattoria. Ma no, ma no, ma cosa vuole che me ne freghi di quella roba, nè! Non c’è ancora una legge che vieta di fare cose stupide: se uno ha voglia di starsene fuori in estate a zappare un campo, lo può fare, capito? Cazzi suoi. No, no. Fare l’idiota non è un reato, figurati! Se no, a questo mondo...»

«E allora cosa sarebbe?»

«Sarebbe che quel pirla di un Madrigali faceva pubblicità in azienda, raccontava cose assurde agli altri, si metteva a scrivere su quella roba lì, la Rete. Diceva che stavamo distruggendo il pianeta, ma pensa te che pistola! E voleva che gli altri ci credessero. Non lo ascoltava nessuno, figurati. Chi ci crede ancora a quelle storie, al giorno d’oggi? Va tutto bene, qui! Lo vedono tutti.»

Fedele annuì con un mezzo sorriso. Tutto bene, tutto benissimo, madama la marchesa.

«Ma il disfattismo è vietato, ecco cos’è. Fare pubblicità contro il paese è vietato, ecco cos’è. Fare i proclami catastrofici è vietato, ecco cos’è. Hai capito? E quel pirla di un Madrigali diceva che tutte le cose non andavano bene, e me lo diceva proprio qui, nella mia azienda, quel cane!»

«Capisco» disse Fedele, fingendosi interessato e d’accordo. «A volte, però, se c’è un problema vero, potrebbe anche essere utile parlarne, per trovare una soluzione. Almeno credo.»

L’amministratore Storti lo fissò senza parlare. Sembrava un avvoltoio, che ha avvistato un animale in punto di morte. Poi sorrise, peggiorando l’atmosfera. «Sei giovane, ancora non sai come vanno le cose, al mondo» disse, liquidandolo con un cenno di mano. «Se dici che un problema esiste, quel problema non si risolverà mai, perché tutti vorranno metterci le mani e il naso. No, no, se vuoi che un problema si risolva, ignoralo. Non dirlo, fai finta che non esista. Col tempo, poi, tutto si sistema da solo, fidati. È così che va il mondo: se guardi una cosa, la cosa non cambia. Ma se non la guardi, ecco che di punto in bianco diventa un’altra cosa. Tac! Guardare da un’altra parte. Capito?»

Fedele pensava al silenzio che c’era stato tra lui ed Eva. Lei era morta per quel silenzio, era morta perché loro due non erano più stati capaci di dirsi le cose in faccia. «Sì, capisco» rispose. «In effetti, da un certo punto di vista è così, anche se non ci avevo mai pensato.»

«Da tutti i punti di vista è così, testina!» L’amministratore sorrideva soddisfatto, aggiustandosi il bordo di pelo della veste da camera. Era contento di poter fare una predica e distribuire al suo fedele subordinato qualche perla di saggezza: bisognava sempre spiegargli tutto, a quelle capre, ma non era mica colpa loro. Erano fatte così, purtroppo. Ci voleva pazienza.

Fedele sorrideva e non parlava, mentre Storti si concedeva un torrente di chiacchiere e chiacchiere, su come l’azienda sarebbe migliorata, sull’importanza della pubblicità positiva e sulla necessità di eliminare tutti i disfattisti come Madrigali, alias Manovali, che minacciavano la solidità dell’azienda e del paese intero. Bastava aspettare che passasse la mattinata. Ancora un poco e si sarebbe stancato di lui, l’amministratore: lo avrebbe congedato con qualche promessa e quell’incubo di alienazione si sarebbe concluso. Il freddo era grande, nel ricco salotto di Storti, così grande da avvolgere persino la melassa che si sentiva nel cranio. Lo intontiva e non era male.

«Ma già, ma già, a te non ti interessano mica queste cose qui, nè? Vuoi cose concrete, un premio o una promozione magari, nè?» disse a un tratto l’amministratore, rivolgendosi a Fedele. Sorpreso, lui annuì e basta, senza una parola pronta da aggiungere.

«Eh, immaginavo... voi giovani, sempre a pensare ai soldi, nè!» E giù una risata da iena di Fabrizio Storti. «Avrai la tua ricompensa, perché hai fatto un buon lavoro, non ti preoccupare. Anzi, ecco di cosa ti volevo parlare. Ancora un po’ e me lo dimenticavo...»

L’amministratore allungò una mano nel cimitero di fogli sopra un tavolino. C’erano strati e strati di documenti e ciarpame, disposti in un ordine che ricordava vagamente la crosta terrestre. Non era da escludere che ci fosse anche qualche scheletro di stegosauro, lì in mezzo.

«Fra due settimane, che dovrebbe essere domenica tredici, mi pare, qui vicino ci sarà una cosa a cui devi partecipare anche te» disse, continuando a frugare tra i fogli. Ne estrasse uno, dall’aria un poco meno stropicciata di altri. «Ah, eccolo. Mi mettono sempre tutto in disordine, quando puliscono, questi servi. Allora, ci sarà l’inaugurazione del nuovo PalaGheddafi, hai presente?»

Sì, Fedele aveva presente. Se ne era parlato parecchio in azienda, nei mesi passati, perché erano uno dei principali azionisti o qualcosa del genere. In effetti, non era ben chiaro quale ruolo avessero di preciso, ma si sapeva che erano coinvolti direttamente e quindi un po’ tutti la sentivano anche come una cosa loro. Il nuovo, mastodontico palazzetto da ventimila posti a sedere, con annesso un centro commerciale, che sarebbe sorto a Cusano Milanino in memoria del grande, luminoso statista amico della patria, pugnalato alle spalle da un popolo traditore e irriconoscente. Tra due settimane c’era già l’inaugurazione? Come vola il tempo, quando ci si diverte!

«Ho presente» rispose. «In azienda se ne parla molto.»

«Bene, bene, pubblicità! È una cosa molto importante, abbiamo investito molti soldi altrui in questo progetto e alla cerimonia saremo in prima fila. Ci sarò io e alcuni consiglieri, aspetta che ti dico chi sono.» Cercò con un dito sul foglio, stringendo gli occhi. «Ecco, ci saranno il Graziani, il Teodori e la Zappavigna, tutti dal consiglio di amministrazione. Dobbiamo fare bella figura, lo sai. E ci sarai anche tu. Parteciperai alla cerimonia come rappresentante dell’azienda e poi penseremo anche a una posizione migliore per te, con calma. Capito?»

Sì, Fedele aveva capito. Aveva capito cosa volevano che facesse, ma non aveva capito perché farlo fare a lui. Dopotutto, non era proprio la persona più indicata, quanto a bella presenza. Ma forse era una delle solite manovre dell’amministratore, per rafforzare il proprio controllo sul consiglio. Uno dei giochi che certo piacevano molto al caro avvocato Bianchi, ma che lui, Fedele Innocenti, aveva sempre disprezzato e mai compreso, pur costretto ad accettarli. Accettò anche stavolta.

«Bravo, bravo! Vedrai che farai strada, se mi ascolti» disse Storti. «E adesso vammi a prendere una bottiglia, là sul mobiletto, che dobbiamo brindare al buon lavoro che hai fatto.»

Obbediente, Fedele andò e prese. Tornando alla poltrona, si guardò attorno con pigrizia, nella sala ricca di arredi e paccottiglia costosa, e gli trafisse l’occhio un particolare strano, o almeno insolito. Un binocolo, forse ultimo modello, certamente più lussuoso di quello usato da lui alla Rinascita, era posato sulla mensola sotto la finestra. Accanto, c’era un foglietto di carta. Lo notò e distolse subito lo sguardo. Meglio fissare le pareti, dove spiccavano quadri e fotografie di incontri con personaggi importanti, più diverse lauree honoris causa. O i mobili d’epoca, luccicanti e marroni. C’erano tante altre cosa da guardare, lì; meglio ignorare quel binocolo. Prometteva male.

Non era dello stesso parere l’amministratore. Aveva colto l’occhiata di Fedele e aveva colto anche il riflesso di curiosità che si era acceso e subito spento sul suo volto. Mentre il dipendente posava la bottiglia sul tavolino, Storti si alzò con accentuata pigrizia, camminò fino alla finestra e prese quel binocolo, con studiata indifferenza. Poi sorrise a Fedele, con le sue zanne di ceramica.

«Non ho potuto fare a meno di notare che questo binocolo ti ha incuriosito» disse Storti, con malizia e un sorriso da pugni. «Per caso ti stai chiedendo cosa ci faccio, qui in città, eh?»

«Non mi interesso degli affari altrui, se non mi viene chiesto di farlo» rispose Fedele, con la faccia più seria che riuscì a trovare nel suo ripostiglio. «L’ho notato e ho pensato che era molto più bello del mio, tutto qui.» Era la tattica migliore, per svicolare via con l’amministratore. Aveva una mezza idea di cosa potesse farci, con quel binocolo, e non voleva conoscere i dettagli.

«Ah, su questo non c’è dubbio, proprio! Ho visto i filmati che hai fatto col tuo, là alla fattoria, e non sono una gran cosa. Sgranati, traballanti e con una luce pessima. Robaccia, a malapena si capisce. No, no, ti ci voleva uno di questi, semmai. Uno buono.»

Esibiva il suo binocolo come un trofeo, con l’orgoglio del buon padre di famiglia, come un piazzista mostra la sua nuova mercanzia al pubblico pagante. La scenetta, in un altro momento, sarebbe stata quasi ridicola, ma quella mattina era soltanto inquietante, per i sottintesi e per il ricordo del viaggio alla Rinascita, con le sue conseguenze. Pessima idea, quella di notare il binocolo. Doveva fissare il pavimento, invece di guardarsi attorno. Ma l’aveva visto e si era ricordato del giorno alla Rinascita.

«Vieni, vieni qua che ti spiego.» L’amministratore chiamò a sé Fedele, con un cenno. «Poi ci andrai anche tu a comprartene uno, fidati. Sono molto utili, per molte cose, vedrai.»

Fedele avrebbe preferito restare nell’ignoranza, ma a quel punto non aveva alternative. Andò.

«Guarda» disse l’amministratore Storti, quando Fedele lo ebbe raggiunto. «Guarda qui di fronte. Cos’è che vedi lì fuori?» indicando la città oltre la finestra.

Fedele Innocenti guardò, ma non vide nulla di particolare. Solo un altro palazzo, simile a quello in cui si trovava, almeno dall’esterno. «Un palazzo» rispose, sapendo che era la risposta sbagliata.

«Sì, sì, un palazzo... ma non noti altro? Prova a pensare, testina.»

Provò a pensare, ma tutto ciò che ne usciva era un lenzuolo bianco, bianco come quel lenzuolo che aveva coperto per sempre il suo mondo. Scosse la testa.

«Ah, te... te non trovi neanche l’acqua in Po, come diceva mio nonno!» Sorrise, tutto compiaciuto. «Guarda la finestra del quinto piano, proprio qui di fronte. Quella sulla destra, dopo il balcone. La vedi, nè? O ti ci vuole il navigatore satellitare?»

La vedeva e vedeva anche la spiegazione del binocolo. Non gli piaceva. Non gli piaceva per niente. Ma era il suo lavoro e doveva ascoltare fino alla fine. Così si limitò a un cenno di assenso.

«Bene, a quella finestra c’è uno spettacolo molto interessante, a certe ore del giorno. Le ho annotate tutte sul foglio lì sotto. Ci ho messo un po’ a preparare il palinsesto, ma adesso è molto preciso. Al massimo, qualche minuto in più o in meno, ma di solito non mi perdo il meglio del reality show.» La strizzata di occhio che seguì la battuta fece venire la pelle d’oca a Fedele. E non perché l’aria condizionata lì dentro fosse troppo forte, anche se lo era.

Ecco l’uomo per cui ho fatto morire mia moglie, pensò. L’amico fraterno di suo padre avvocato. Il bravo cittadino che non è un fallito come me. Il modello supremo di persona perbene.

«Vedi» continuava l’amministratore, «questo binocolo è un pezzo molto utile. Ha uno zoom digitale e ottico potentissimo, capace di metterti a fuoco anche i pori della pelle. Ti consente di modificare in diretta la scena così come vuoi, aumentando o riducendo il contrasto, la luminosità, e molte altre robe che non ricordo. Può ignorare la luce dell’ambiente in cui ti trovi, così non devi stare al buio, per vederci bene. E in più, fra le altre cose, può registrare o fotografare tutto ciò che vede. Con un click, oppure con un timer. Lo so, ci sono senz’altro giocattoli migliori in circolazione, oggigiorno» aggiunse con una stretta di spalle, modesta, «ma io sono particolarmente affezionato a questo. Fa bene il suo lavoro e a me piacciono gli oggetti che fanno bene il loro lavoro.»

Fedele era pronto a credergli sulla parola, ma naturalmente la fiducia sulla parola non bastava mai, non a lui. Era troppo carico ed eccitato, con quel binocolo. Lo avrebbe fatto verificare di persona, sì, per poi aspettarsi la solita recensione lusinghiera. Strinse i denti e si preparò al peggio, sapendo che il peggio sarebbe stato peggiore di quanto potesse immaginare. Lo era sempre.

«Le schifezzuole che hai filmato tu alla fattoria non valgono un centesimo di quello che può fare il mio fidato strumento, te l’assicuro. Guarda» gli disse infatti l’amministratore Storti, tendendogli il binocolo. «Questa è la registrazione di ieri sera. Dimmi tu se non è uno spettacolo! Dimmi se non è un filmato perfetto! Ah, ci vogliono proprio questi paradisi qui, quando te ne torni a casa stanco dal lavoro e hai bisogno di risollevarti... lo spirito.» Strizzata d’occhio, ributtante.

Fedele lo prese e avvicinò l’occhio allo schermo. Nel riquadro luminoso della finestra, avvolta dalle ombre della notte precedente (ieri, il giorno in cui è morta Eva, pensò), comparve il profilo nitido di una ragazzina. Poteva avere dodici anni, tredici al massimo, non un giorno di più. Capelli neri legati dietro alla nuca, non molto lunghi, viso sottile, altezza che poteva essere media, in proporzione al davanzale, magrolina, un progetto di seno appena abbozzato sotto la maglietta bianca, di cotone: una ragazzina come ne vedi a stormi per strada e neppure ti accorgi che esistono. Normale. Con la sfortuna di abitare proprio qui, di fronte all’esimio Fabrizio Storti.

Non ci volevano Einstein o Hawking per capire cosa sarebbe successo di lì a poco e Fedele avrebbe preferito non guardare. Ma il capo era lì e doveva guardare. La ragazzina ciondolò per la stanza, spostando oggetti o cercando qualcosa, senza fretta e senza apparente motivo. Poi sistemò un paio di sagome che sembravano le parti di un pigiama. Fedele le avrebbe voluto urlare di non farlo, di abbassare la tapparella, ma in estate ci si dimentica spesso di questo, specie se abiti in alto e ti senti al sicuro. Ci si dimentica anche di tirare le tende, se hai dodici anni e ti manca ancora l’esperienza per fare caso a questi dettagli. A ottanta, invece, hai tutta l’esperienza per approfittarne.

La ragazzina voltò le spalle alla finestra e si sfilò la maglietta, mostrando una schiena liscia e nuda, pallida. Poi si girò per prendere la maglia del pigiama e Fedele chiuse gli occhi, provando schifo per se stesso e per il mondo in generale. Lasciò scorrere il video per un minuto, poi spense e riconsegnò il binocolo all’amministratore, con un sorriso in volto che era una banconota del Monopoli, mentre lui lo guardava con la dentatura falsa in brillante esposizione.

«Bello, vero?» gli chiese Storti, col trionfo in faccia. «E non è neanche uno dei migliori! Questo era la media, diciamo, ma ce ne sono altri che...» e giù a strizzargli l’occhio.

«Un video notevole, niente da dire» rispose Fedele. Ieri era morta Eva, schiacciata da un’auto dopo il loro litigio. Litigio nato da un ordine dell’amministratore, a cui lui non si era opposto. Adesso un lenzuolo bianco copriva sua moglie, la sua vita aveva perso ogni stella polare, l’adorato suocero gli aveva già giurato vendetta e intanto l’onorevole amministratore Storti spiava una ragazzina che si cambiava per la notte. «Direi che ha avuto buon gusto, nella scelta dei vicini.» Il sorriso che ne uscì era quasi convincente. Stava migliorando, come attore. Poteva avere un futuro come comparsa in un horror, una di quelle che muoiono alla prima scena, squartate dal mostro di turno.

«Ti manderò qualche video, così stai allegro anche tu, mentre lavori. Ne avrai bisogno, adesso che sei senza moglie. Bisogna sempre tenere in alto il morale!» Altra strizzata d’occhio, ripugnante.

Col vomito che gli premeva contro l’esofago e la voglia di fracassare un trofeo sulla faccia del capo, Fedele arrivò in qualche modo alla fine della conversazione. Era sudato, anche in quel gelo alieno. Si salutarono con la promessa di rivedersi tra due settimane alla cerimonia, «E vestiti come si deve, mi raccomando» aggiunse l’amministratore, sospingendolo verso la porta. Allora mi vestirò come te, pensò Fedele, aggiungendo il cerone e il naso rosso. Sorrideva e annuiva. Poi, fu fuori.

L’ascensore fu il primo sollievo, l’aria bruciante dell’esterno fu il secondo. Poteva sentirsi la pelle a bagnomaria, nel clima di fine giugno in città. Scivolò verso l’imboccatura dei tunnel, trattenendo il fiato: non gli era mai piaciuto stare all’esterno, ma adesso era peggio ancora. Gli ricordava troppo la spedizione alla Rinascita e tutte le conseguenze che aveva avuto. Gli ricordava Eva, che invece la vita all’aperto la amava, anche troppo. Ci era morta, all’aperto.

Camminò più del solito, nel fresco e nella luce artificiale della galleria; saltò la prima fermata, saltò la seconda e fu solo alla terza che sentì di averne abbastanza e prese la metropolitana. Tornarsene a casa era brutto, ma era ancora più brutto restare lì, nel nulla, a pensare. Se fosse salito subito, forse avrebbe visto il segretario Tombini, in abiti dimessi, che sedeva in un vagone e guardava la gente attorno, a disagio. Invece non si incontrarono, quel giorno, e forse era il loro destino.

Verso il tramonto, Luca Tarca salì all’ultimo piano del condominio, per raggiungere il terrazzo. Nel pomeriggio aveva provato a cercare Innocenti, ma in casa non c’era nessuno e non se l’era sentita di telefonargli o disturbarlo. Se avesse avuto bisogno, si sarebbe fatto vivo lui stesso, più tardi. Oppure avrebbe ritentato in serata. Adesso voleva solo riposare gli occhi, dopo una giornata davanti a uno schermo. Giornata inutile, doveva aggiungere.

Non aveva trovato una notizia che fosse una e questo era un brutto segno. Un pessimo segno. Già di natura incline al negativo, Tarca in quelle ore si aspettava quasi una dissolutio universale, di cui in ogni luogo si potevano scorgere i primi sintomi. Stanchezza, si disse, salendo le scale. E lo era, ma era anche il residuo della depressione che lo accompagnava dal giorno precedente. Niente sarebbe finito, se non forse lui stesso. Doveva ricominciare a dormire decentemente, aveva la testa ridotta a un puzzle: bastava scuoterla, per sentire i pensieri rotolare dappertutto e mischiarsi. Ma l’immagine che avrebbero composto era troppo sgradevole, per guardarla.

Uscendo in terrazzo, la prima cosa che lo colpì fu il caldo asfissiante, una bastonata che gli tolse il fiato come al solito. Poi, i suoi occhi si abituarono alla luce innaturale e vide Innocenti.

Appoggiato alla ringhiera, senza cappello e senza maschera, guardava all’orizzonte con un binocolo, come se in mezzo ai fumi e alla foschia umida ci fosse un paesaggio da ammirare. La sua camicia, a inizio giornata bianca, gli si incollava al corpo per il sudore. Tarca si fermò a studiarlo in silenzio, all’ombra della tettoia. Non aveva un bell’aspetto. Non che qualcosa potesse avere un bell’aspetto, a fine giugno e in quell’aria piena di polveri, ma l’aspetto del vicino era anche peggiore. Che gli fosse capitato qualcos’altro di negativo, quel giorno? O proseguiva il leitmotiv di ieri?

Glielo avrebbe potuto chiedere, ma non lo fece. Tarca ripensava a Eva, a tutto ciò che gli raccontava sul marito e a tutto ciò che lui stesso aveva scoperto sul conto di Fedele, in quegli ultimi giorni, e si accorse di avere un altro puzzle tra le mani, un puzzle di cui mancavano alcuni pezzi. Forse la stessa cosa la stava pensando anche Fedele, riguardo alla moglie: appena prima di perderla, aveva scoperto che c’erano angoli ignoti di lei, così grandi da trasformarsi in quartieri e città.

Potevano aiutarsi a vicenda, dopotutto. Col massimo della nonchalance che riuscì a mostrare, Tarca si avvicinò a Innocenti, sempre perso nella contemplazione di chissà cosa, attraverso il binocolo. A pochi passi, ancora il vicino non si era accorto di lui. Vergognandosi come un ladro senza amici al governo, si schiarì la gola e salutò. «Buonasera.»

Fedele Innocenti si raddrizzò di colpo, quasi fece cadere il binocolo e si girò con una espressione da colpevole colto sul luogo del delitto, che non aveva alcun senso. Era pallido sotto l’afa intensa della sera in arrivo. «Buonasera» gli rispose, a disagio.

«Mi spiace, non volevo spaventarti» disse Tarca, vergognandosi ancora di più per la sfilza di clichés che stava sparando. La conversazione non era il suo forte, decisamente. «Ero salito a prendere una boccata d’aria e a sgranchirmi un po’ le gambe. Non che ci sia molta aria, quassù, e neanche molto da camminare, in effetti, però...»

Fedele rispose con una smorfia che poteva essere un tentato sorriso. «Già, non si respira neanche, qui in cima.» Gesticolò verso l’orizzonte. «Volevo dare un’occhiata se si vedeva la piramide, ma da qui nulla. Siamo troppo lontani e c’è troppa foschia, oggi.»

«C’è quasi sempre troppa foschia» disse Tarca, avvicinandosi al parapetto. «A volte capita di avere fortuna e trovare una serata meno umida, ma non è il caso di contarci molto, sulla fortuna.»

«Già. Non è proprio il caso di contarci, sulla fortuna.»

Tarca si girò a studiare il vicino. «Qualcosa non va? Cioè» si corresse subito, «a parte la questione di ieri, ovvio. C’è qualcos’altro che non va?»

Adesso la smorfia di Fedele non poteva proprio essere scambiata per un sorriso. «Stamattina il capo mi ha voluto vedere, per congratularsi del mio ottimo lavoro. La storia di Manovali, sai.»

«Ah, capisco...»

«E mi ha anche mostrato cose molto educative, sulle sue attività. Già. Lavoro proprio per una brava persona, una persona perbene.» Guardò Tarca negli occhi, per la prima volta in quel dialogo. «E mi ha invitato all’inaugurazione del palazzetto nuovo, per rappresentare l’azienda assieme ad altri del consiglio di amministrazione. Un vero onore.»

«Che bella ricompensa, per quel lavoro...»

«Già. Una volta ci venivo spesso, quassù, quando ci eravamo appena trasferiti.» Lo sguardo si fece vacuo e distante. «Volevo vedere la piramide, ma non si vedeva mai. Così ho smesso, a poco a poco, e non ci ho pensato più. Erano almeno quattro anni che non salivo sul tetto.»

«Non ti sei perso molto, c’è poco da vedere» rispose Tarca, studiandolo. Non capiva dove volessero arrivare quei discorsi, che saltellavano da un argomento all’altro. Forse era solo confuso, confuso per la morte di Eva e schiacciato da un qualche senso di colpa. «Solo tetti, condomini, cupole e una foschia che copre l’orizzonte. E anche caldo e pessima aria, tanto per favorire.»

«Già, lo vedo. Ma era una cosa che dovevo fare.» Si rigirò il binocolo tra le mani, come in un sogno. Sospirò. «Non si vede molto bene con questo coso, aveva ragione l’amministratore. Il suo funziona molto meglio. Ci ho guardato per un pomeriggio intero, là, e non l’ho neanche riconosciuta. O forse era colpa dei cappelli, chi lo sa.»

«Cosa?» Tarca si era perso in quel groviglio di pronomi e libere associazioni mentali, che forse da un certo punto di vista avevano un senso, ma un senso che solo il loro creatore poteva vedere.

«Eva. Ecco probabilmente dove andava. Non dai suoi genitori, ma in quella fattoria. Ci ho passato un sabato a spiarla, ma non l’ho vista. Ho visto Manovali e altre persone, ma non lei.»

«Ah, capisco. Beh, con il cappello e la mascherina è difficile riconoscere qualcuno, soprattutto se da lontano. Probabilmente non l’avrei riconosciuta neanche io, non hai niente di cui rimproverarti.»

Fedele sospirò, poi un improvviso attacco di tosse lo piegò contro la ringhiera del terrazzo. Tossì a lungo, accasciandosi sulle ginocchia, e il suo volto cambiò il pallore di prima con una preoccupante tinta violacea, da melanzana transgenica. Tarca si chinò per aiutarlo.

«Vieni, è meglio non stare fuori troppo, senza mascherina. Torniamo dentro.» Cominciava anche lui a sentire un prurito in gola, forse l’effetto dell’aria serale, forse solo suggestione. «Ne parleremo in un posto migliore, un’altra volta. Adesso è meglio se vai a riposare un po’.»

Fedele si alzò, in parte da solo e in parte trascinato da Tarca. Era ancora rosso, col petto che di tanto in tanto si scuoteva per un altro attacco di tosse, ma il peggio sembrava passato. Gli lacrimavano gli occhi e forse non era solo smog, ma non disse nulla. Era troppo impegnato a trattenere al loro posto i polmoni, per fare anche conversazione. Si lasciò guidare verso l’ascensore, col binocolo morto che gli pendeva dalla mano, urtandogli la gamba a ogni passo.

«Scendiamo, adesso. Ne parleremo domani, in un posto più sano. Qui fuori e a quest’ora è un vero e proprio suicidio, credimi. Tanto vale infilare la testa in un forno a gas.»

Scesero. Impegnato a occuparsi del vicino, Tarca dimenticò di uscire dall’ascensore e si fece tutto il viaggio fino al terzo piano. Ma c’era Innocenti con lui e Innocenti aveva il permesso di usarla, per questo non si bloccò dopo il primo tratto. Pazienza, ho infranto di nuovo la legge, pensò, scuotendo le spalle. Non era certo una priorità, al momento.

Uscirono assieme al terzo piano. Tarca accompagnò Fedele fino all’appartamento, ignorando i colpi di tosse e i suoi «sto bene, sto bene», che si alternavano con una certa regolarità. Lo guardò mentre si chiudeva alle spalle la porta blindata, guardò il crocifisso appeso all’esterno, uguale a ogni altra porta del condominio, guardò il pianerottolo vuoto, coi quadri. Ne avrebbero parlato, sì. Domani.

Si incamminò verso le scale, per raggiungere il suo quinto piano.

Proprio nel mezzo, al quarto piano, Carlo Sovrani sedeva in poltrona e studiava alcuni documenti. Se li era procurati quella mattina in caserma e non gli era stato difficile, anzi: gli era bastato dire la verità e i documenti gli erano piovuti tra le mani. Aspettando che venisse l’ora di andare a prendere Elena per portarla finalmente all’opera, ammazzava il tempo leggiucchiandoli con metà del cervello, mentre l’altra metà fantasticava liberamente sull’appuntamento.

Mercoledì sera aveva consegnato la clandestina, e fin qui tutto bene. Aveva fatto il suo dovere, nel corso di una ronda per la sicurezza. Ciò che non gli era piaciuto, però, era il modo in cui lui l’aveva trovata. Non c’era stato niente di naturale. Nel mezzo di un tunnel, a un centinaio di metri da dove tutti e tre abitavano, ecco che incrocia due suoi vicini, che discutono. In mezzo, tenuta da entrambi, una piccola clandestina. Il finocchio in maglietta gli aveva rifilato una storiella, certo, e al momento poteva pure sembrare convincente. Ma non lo era. Non lo era proprio. Ma la priorità era quella di occuparsi dell’intrusa e così aveva fatto Sovrani, da brava guardia. Ai tizi che abitavano al piano di sopra e al piano di sotto, poi, ci avrebbe pensato con comodo.

Adesso era con comodo.

Stravaccato sul divano, con le migliori arie della Cavalleria Rusticana nelle orecchie, Carlo Sovrani sfogliava tutta la documentazione su Fedele Innocenti e Luca Tarca. Era piuttosto deluso.

Su Innocenti c’era poco. Normale percorso di studi, normale laurea, normale periodo da disoccupato post-laurea, poi l’assunzione e da lì neppure una pecca. Che persona noiosa!, pensò Carlo, posando da parte un altro foglio. Neanche una multa non pagata, o un ritardo in una rata. Come extra, adesso abitava in un appartamento concesso in comodato gratuito per un accordo con la sua azienda. E se si guardava meglio, saltava fuori che il contratto era stato siglato, con un prestanome, direttamente da don Fausto, parroco del quartiere e proprietario di diversi condomini nella zona, tramite un’impresa religiosa, la nota Opus Mei, appoggiata a un’organizzazione laica, affiliata a sua volta a una società offshore di Antigua, collegata a una holding con sede in Liechtenstein.

Questo sì che è avere il culo coperto. Pur nel disprezzo, Carlo Sovrani poteva solo ammirarlo. Con i contatti e le referenze che aveva, toccare Innocenti sarebbe stata una pessima mossa. Sempre se non lo coglievi sul fatto, naturalmente, nel qual caso avresti avuto campo libero e tutte le porte aperte. E a questo proposito tornava comoda sua moglie, la bella donna senza tette che era morta proprio ieri. Perché Eva Bianchi faceva parte della Rinascita, pensa un po’.

Non era illegale, per carità. Al contrario, la Rinascita era regolarmente registrata presso la regione come onlus, anche se non percepiva fondi. Il che era quantomeno sospetto. In un’epoca illuminata e dalla profonda coscienza ambientalista ed ecologica, come era la loro, era logico sospettare e tenere sotto controllo un gruppo di persone che non dipendeva da nessuna azienda e passava le giornate al sole, a zappare e concimare le terre morte attorno alla città. Dovevano per forza usare prodotti geneticamente modificati o altre diavolerie simili, per far crescere qualcosa in un territorio dall’alta concentrazione di elementi nocivi. Quindi, causavano danni all’ambiente naturale.

Causavano anche danni al normale processo di smaltimento delle scorie tossiche nelle aree rurali, di cui si occupava la gran parte delle aziende cittadine, ma questo era un dettaglio secondario. Il punto era che potevano danneggiare la sana campagna della Lombardia e questo era grave.

A Carlo Sovrani stava molto a cuore la salute della terra, per questo aveva sempre tenuto d’occhio le attività della Rinascita. Era un gruppo di facinorosi e integralisti verdi, che provocavano più male che bene. Non lo aveva sorpreso scoprire che ne faceva parte anche la moglie del vicino. Ancora di meno lo aveva sorpreso vedere quel vicino in compagnia di una clandestina. Brutto segno.

Un segno ancora più brutto era che fosse coinvolto pure Luca Tarca, del quinto piano. Lui sì che era un elemento poco raccomandabile, con gravi problemi psicologici che ne impedivano una normale partecipazione alla vita sociale. O almeno, così lo descrivevano sulla scheda. A Carlo sembrava un finocchio maniaco del computer, brutto ma innocuo, però sapeva che i maniaci del computer erano un potenziale pericolo all’equilibrio sociale, per cui lo aveva sempre controllato con discrezione.

Era già stato sorpreso quattro volte a eludere i filtri governativi e visitare siti stranieri. Lo avevano ammonito, lui aveva risposto «obbedisco» e qualche mese dopo ci era ricaduto. Da almeno sei anni, però, non commetteva più infrazioni. Forse l’aveva capita o forse si era fatto furbo. In ogni caso, un controllo più approfondito non avrebbe fatto male a nessuno; al contrario, poteva prevenire qualche problema alla società. Carlo Sovrani era un forte sostenitore della pace e dell’armonia del paese ed era pronto a tutto pur di proteggere quei valori in cui credeva. In fondo, era ciò che faceva già ogni giorno, pattugliando la città per mantenerla in pace e al sicuro. Che un pericolo si annidasse proprio lì, nel suo condominio, era un pensiero capace di togliergli il sonno.

«Domani sarà meglio indagare e chiedere un po’ in giro» si disse, mentre la voce del suo soprano preferito lo cullava verso più dolci lidi. Domani, già. Stasera aveva altro da fare, un appuntamento con la sua fidanzata, Elena Sapori, e non se lo sarebbe certo guastato per due tizi del condominio. Il suo pensiero traslocò quindi verso la serata al teatro Vittorio Mangano, che lo attendeva di lì a due ore. Si sarebbero goduti la Tosca, che non lo esaltava molto ma piaceva tanto a Elena, poi cenetta tranquilla in un locale del centro, per concludere a dovere in casa di uno dei due. Non da Elena, con ogni probabilità, perché Carlo non sopportava i suoi genitori. Meglio lì, nel suo appartamento, senza rompiscatole attorno. Doveva mettere un po’ in ordine, allora.

Mentre si alzava per mettere in ordine, gesticolando e accennando passi di danza privi di senso sulle note di Mascagni, Carlo Sovrani proseguì i programmi della serata, studiando nella mente le frasi per fare bella figura e sembrare più romantico. Gli piaceva sempre lasciarla a bocca aperta, con una piccola galanteria. Avrebbe fatto la sua parte anche quella sera. Sempre duro, come recitava un tempo il motto del suo gruppo, e lui lo era sempre. Duro, ma col cuore morbido.

A Tarca e Innocenti avrebbe pensato domani. Non scappavano certo.