Adriano - racconti e altro

Proiettili del futuro

Quando si staccò dallo schermo, Ghanshyam Sharma sapeva che non avrebbe mai più rivisto la sua Terra. Non in quella vita, almeno. Forse nella prossima, se così doveva essere e se le distanze dello spazio non avevano valore per le rinascite, ma per la sua attuale esistenza il tempo sulla Terra era concluso. Perché ancora non sapeva come o quando sarebbe morto, anche se una mezza idea se la poteva fare facilmente, ma sapeva dove sarebbe morto, salvo imprevisti di viaggio. Il posto in cui sarebbe morto lui, e con lui tutto il resto dei passeggeri normali, quelli del ponte inferiore.

Doveva ancora decidere, però, se fosse un bene o un male.

Percorse sospirando lo stretto corridoio che portava alla sua cabina. Ai lati, gli sfilavano mille porte uguali, chiuse su mille cabine uguali. Una di esse era stata assegnata a lui e ai suoi tre compagni di viaggio. Tre volontari come lui, come volontari erano tutti, lì a bordo. Almeno per un dato valore di volontarietà. Il mio corpo brucerà su legna che non hai mai visto la Terra, pensò, e il pensiero non gli piacque, ma lo pensò lo stesso, perché lui era così. Bello o brutto che fosse, quando Ghanshyam stringeva un osso tra i denti, continuava a masticarlo finché ne rimaneva un pezzo. L’osso era il viaggio che stavano facendo.

La Terra! Non ci aveva mai pensato, mentre ci viveva. Non era necessario pensarci: la viveva e la Terra era qualcosa che aveva sotto di sé, e attorno, e sopra, e in ogni luogo che potesse vedere. Così era stato per generazioni e generazioni prima di lui, fin dove i ricordi della sua gente si potevano spingere, e così sarebbe potuto continuare, se. Se. C’era sempre un se, in ogni storia. Nella storia del suo popolo, il se era un bivio: continuare a scavare nello stesso punto, oppure guardare altrove?

Avevano scelto di guardare altrove e a loro toccava scoprire se l’altrove potesse andare bene.

E così la Terra era ormai una biglia luminosa, da qualche parte là dietro. Una biglia che svaniva nel nero immobile dello spazio. Addio, è stato un piacere averti conosciuta.

Per la diciottesima volta pensò che era stata una pessima idea accettare. E per la diciottesima volta rivide il volto dei suoi genitori durante quell’ultimo litigio e capì che era stata sì una pessima idea, ma anche l’unica idea che ci fosse, a quel punto. Tanto valeva guardare avanti, ormai, e sperare in meglio. Tanto, la via del ritorno non esisteva. Procedette lungo il corridoio, un poco incerto sulle gambe. Ancora doveva adattarsi all’ambiente.

Era quasi arrivato. La porta della sua cabina si aprì e ne spuntò il volto giovane e sbarbato di Saba, solare e sorridente come sempre. «Ecco dov’eri! Ti stavamo aspettando.»

Ghanshyam Sharma gli sorrise in risposta. «Ero a fare due passi, per distrarmi un po’. Di certo non scappo, non da qui.»

«Eri ancora a guardare la Terra, vero?» Ghanshyam non rispose. «Dai, entra! Pradeep brontola più del solito e ci manca il quarto per giocare, lo sai. Così almeno starà zitto» aggiunse Saba, con un cenno verso l’interno della cabina. «È peggio del solito, oggi.»

«Arrivo, arrivo» sospirò Sharma, alzando gli occhi in un gesto di scherzosa rassegnazione. Entrò e la porta si chiuse dietro di lui, immergendolo in un vago aroma di incenso, sotto cui si poteva quasi percepire l’odore più intenso dei corpi che vi abitavano.

Eccoli, i suoi tre compagni di viaggio, seduti a gambe incrociate sullo stretto e duro pavimento tra le cuccette. Jaya Balan, il più anziano coi suoi venticinque anni, barba curata e volto serafico; Pradeep Anand, l’ingegnere, di un anno più giovane rispetto a Jaya, come sempre nervoso, rasato con cura e spettinato con cura; Saba Rajavel, appena ventenne e ancora liscio sulle guance, che se ne tornava sorridente al proprio posto; infine lui, Ghanshyam Sharma, che si chinava a raggiungerli, con una smorfia sotto la barba corta e i suoi ventitré anni che gli parevano cento, in quell’istante. Poi l’istante passò e fu di nuovo giovane.

«Novità?» chiese Jaya, alzando un sopracciglio.

«Nessuna» rispose Ghanshyam. «Volevo solo salutare la Terra, per l’ultima volta. Non che si veda molto, ma...» allargò le braccia, per quanto potesse farlo nella stretta cabina.

«Tra dieci giorni passeremo» disse Pradeep, stringendosi nelle spalle. «O almeno così ha detto il Comandante. Poi staremo a vedere. L’importante è muoversi.»

«Dieci giorni...»

«E poi, altre due settimane prima di arrivare. Se arriveremo» concluse Pradeep.

Più o meno un mese, arrotondando un poco. Ghanshyam Sharma non era proprio entusiasta della notizia. Tutto sommato, sotto questo aspetto condivideva il parere di Pradeep: facciamola finita in fretta e che sia quel che sia. Così, invece, aveva un altro mese da spendere lì, nel nulla, sigillato in una scatola di metallo, che pareva una nave da crociera troppo cresciuta. Ne avevano vista una, l’anno scorso, mentre si preparavano al viaggio, ed era stato proprio l’istruttore a suggerire il paragone. A Ghanshyam era piaciuto. Era una immagine che funzionava ed era anche l’immagine che più si avvicinava alla realtà, almeno per quanto ne potesse capire lui. Una nave, che naviga nello spazio.

«Chissà cosa troveremo!» disse Saba con entusiasmo, rivolto a nessuno in particolare. Nessuno gli rispose. Fissavano il pavimento metallico davanti a loro, in silenzio, e ognuno forse rispose con la mente, nel chiuso della propria testa. Poi, come facevano da molti giorni e come avrebbero fatto per molti giorni ancora, cominciarono a giocare.

Il comandante Arun Prasad non era contento.

Tutto procedeva come da programma, certo. La nave funzionava a dovere, non c’erano statti guasti o altri imprevisti tecnici, il morale dell’equipaggio era buono, il gruppo di scienziati lavorava ai test che dovevano condurre (qualunque cosa fossero), non c’erano ritardi sul tempo di viaggio ed era più o meno il migliore dei mondi possibili, per adesso.

Pure, il comandante Prasad non era contento.

Un anno, se tutto va bene. Forse di più, se qualcosa andrà male. E forse... Ma non concluse quel pensiero. Non lo concludeva mai, per una sorta di scaramanzia personale. Non ce n’era bisogno. Lo leggeva in faccia a tutti i membri dell’equipaggio, militari come lui. Probabilmente lo avrebbe letto anche sulle facce dei passeggeri, se fosse sceso al loro ponte, per incontrarli, cosa che però non aveva mai fatto. Si sarebbe sentito in colpa, anche se in teoria non ce n’era motivo. Facevano ciò che era necessario, facevano il proprio dovere ed erano tutti, dal primo all’ultimo, volontari, come volontari erano tutti, a bordo della nave. Perché sentirsi in colpa, se l’avevano scelto loro?

Ma c’era una differenza. Loro, militari e scienziati, se tutto andava bene sarebbero tornati indietro, alla fine. I passeggeri no, sarebbero rimasti là. Qualunque cosa ci fosse, là.

Il comandante Prasad tornò a leggere il piano di volo, per distrarsi. Circa dieci giorni, prima di arrivare al punto chiave. Per adesso, procedevano lungo la stessa traiettoria della partenza, mentre si allontanavano sempre più dall’attrazione del Sole. Era necessario, gli avevano spiegato, e fino a lì lo capiva anche lui, pur non essendo uno scienziato. Poi, una volta ridotto al minimo l’influsso del campo gravitazionale, sarebbero passati oltre. Qualunque cosa gli scienziati intendessero con oltre.

Era una tecnica che funzionava, gli avevano spiegato sulla Terra. Ci lavoravano da tempo e avevano superato con successo tutti i test (o quasi, aggiungeva Prasad, sapendo che nessuno avrebbe mai parlato dei test falliti: erano un segreto militare): prima le simulazioni al computer, poi le prove con semplici oggetti, su distanze sempre maggiori, infine piccole scialuppe, con passeggeri. Topi, cani, scimmie, fino ad arrivare all’uomo. C’erano sempre riusciti, almeno nei “sempre” che contavano.

Ci sarebbero riusciti anche con una intera nave da migliaia di tonnellate, con oltre mille persone a bordo? Dicevano di sì e il comandante Prasad doveva ammettere che, per quanto la vita di mille o più persone fosse un prezzo accettabile, per non dire irrilevante, quello della nave non lo era. Non avrebbero mai sprecato tutti quei soldi e anni di lavoro, se non fossero stati sicuri di farcela. Per cui, tra una decina di giorni, Arun Prasad sarebbe entrato nella storia, primo uomo a comandare una nave oltre il sistema solare e su una nuova stella. Salvo imprevisti.

Sospirò. Se solo avesse avuto la certezza matematica di farcela, non si sarebbe preoccupato. Ma la certezza matematica non c’era. Una volta passato, era anche possibile che non riuscisse mai più a tornare indietro; probabile, in caso di guasti, perché con la normale navigazione i quattro anni luce che separavano il sistema stellare di Alfa Centauri dal Sole erano troppi. Potevano farcela soltanto con una navigazione che non era navigazione, ma un passare dietro le quinte: così lo aveva definito un fisico con spirito poetico. Altri, e in forma più pertinente, parlavano e straparlavano di iperspazio e lo accostavano a formule ed equazioni che, a loro dire, dovevano spiegare come fosse possibile la procedura di entrata e uscita. Altri ancora, invece, si divertivano a parlare di riassetto degli atomi lungo un asse differente, con conseguente riposizionamento della proiezione nell’universo olistico e alterazione dell’allineamento della nave. Secondo loro, non c’era un viaggio reale e forse erano i più vicini alla verità. Almeno per adesso.

Al comandante Prasad non interessava, così come non gli interessava nulla che non potesse capire. Siccome la navigazione interstellare non la poteva capire, non gli interessava. Era militare, lui, non uno scienziato, e il suo compito era semplice: doveva guidare la nave dal punto A al punto B. Non rientrava tra i suoi doveri la comprensione della manovra. Aveva istruzioni da eseguire, certo, e le eseguiva; altri le avevano assegnate a lui ed erano loro a doversi poi assumere la responsabilità della correttezza di queste istruzioni. Gli altri decidevano, Prasad obbediva. Non era contento, ma lo avrebbe fatto lo stesso, perché era suo dovere e l’equipaggio dipendeva da lui, nel bene e nel male.

Così studiò ancora il programma del viaggio, controllò i comandi, verificò il tempo trascorso e il tempo da trascorrere, tutte operazioni che compiva almeno cinque volte al giorno. Alla fine, chiuse gli occhi e si abbandonò al sedile, cullato dal ronzio regolare dei computer. Pensava alla famiglia, che aveva lasciato a casa e che avrebbe forse rivisto tra più di un anno, se la missione fosse andata bene. Poi il pensiero sfumò nel sogno e, per un attimo, Arun Prasad dimenticò l’universo, che lo circondava e lo attendeva. L’universo che lui e la sua gente stavano sfidando per primi.

La Garuda era una nave unica, né poteva essere altrimenti.

Prima nave di quel tipo a essere completata, costruita quasi per intero nello spazio, sulla stazione che da una ventina d’anni orbitava immobile nel cielo del blocco Chind, la Garuda era soprattutto la loro scommessa. Una costosissima scommessa, che aveva risucchiato fondi, materiali ed energie, proprio quando gli stessi fondi, materiali ed energie sarebbero stati vitali altrove. Per questo doveva essere anche una scommessa vincente: il fallimento non era contemplato. In gioco non c’erano solo l’immagine del Chind, la sua supremazia mondiale e gli equilibri tra i blocchi di potere sulla Terra. In gioco c’era il futuro stesso della Terra.

O almeno così la pensava il loro governo e gli scienziati annuivano. La precaria e volatile alleanza tra Cina e India, le due superpotenze che avevano dato vita al Chind, li foraggiava con fondi enormi per le proprie ricerche e non avevano motivo per deludere lo sponsor principale, finché li pagava e finché esisteva. E poi, da un certo punto di vista, erano d’accordo pure loro. Fu questo che li spinse prima a teorizzare, poi a sperimentare sui computer, infine a realizzare in pratica la possibilità di viaggio interstellare.

Il punto di arrivo, dopo anni, era stata la Garuda.

Esisteva un modo per sottrarsi momentaneamente all’universo relativistico; un oggetto poteva, per un attimo, uscire dall’universo relativistico e rientrarvi intatto, in una differente porzione dello spazio; un essere vivente poteva fare altrettanto e sopravvivere. Se tutto ciò era possibile, e poiché avevano dimostrato con mille esperimenti che tutto ciò era possibile (anche se, a dire il vero, teoria e dimostrazione non coincidevano molto bene e probabilmente c’erano sfumature che neppure loro aveva ancora capito, ma erano dettagli secondari, che potevano ignorare finché tutto funzionava), allora per la Terra esisteva una via di fuga, il sistema per non fare la morte del topo, bloccati sul proprio pianeta in asfissia, con una estinzione di massa sul groppone.

La Garuda.

La Garuda aveva cominciato a svilupparsi ancora prima di sapere quale sarebbe stata la sua meta. In effetti, non si sapeva neppure se ci potesse essere una meta, ma avevano deciso di prepararsi in anticipo, giusto per non perdere tempo. Mentre il Chind sguinzagliava le prime sonde, alla ricerca di pianeti abitabili, il cantiere per la Garuda si attivava in cielo.

Erano stati fortunati. Lo avevano trovato quasi dietro l’angolo, proprio attorno al sistema stellare di Alfa Centauri: un pianeta roccioso attorno ad Alfa Centauri B, nella fascia in cui, teoricamente, era ritenuta possibile l’esistenza un pianeta abitabile. E la sonda aveva confermato che sì, era un pianeta di tipo terrestre e che sì, aveva un’atmosfera. Poco più piccolo della Terra, con una inclinazione sul suo asse di poco maggiore rispetto a quella terrestre, presentava sia fenomeni meteorologici, come il manto nuvoloso lasciava supporre, sia ghiacci ad almeno uno dei due poli. Poi, un guasto alla sonda l’aveva costretta al rientro, senza poter aggiungere altro.

Il passaggio successivo doveva essere l’invio di altre sonde, per raccogliere più informazioni, ma il Chind aveva fretta. Troppi soldi investiti, troppo friabile l’alleanza tra Cina e India, troppo incerta la sua posizione davanti all’opinione pubblica mondiale, troppa carne sul fuoco: così avevano giocato d’azzardo, saltando un paio di fasi intermedie e arrivando all’invio dei droni, ultimo passo prima degli umani.

Contro ogni pronostico, aveva funzionato di nuovo.

La nave madre, una lontana cugina della Garuda, molto più piccola e leggera, aveva studiato più da vicino la conformazione del pianeta, individuando il tipo di zona che i suoi programmatori avevano ritenuto più adatto per le esplorazioni, poi si era parcheggiata in orbita geostazionaria e aveva scaricato sulla sua superficie un esercito di droni. Esploratori artificiali, dotati dell’intelligenza più evoluta e complessa che fosse possibile programmare al momento, avevano un compito da eseguire e lo avevano eseguito fin dalla discesa verso il pianeta.

Avevano analizzato l’atmosfera, scoprendo che la sua composizione non era molto diversa da quella terrestre: piccole percentuali in più o in meno dei gas rari, ma azoto e ossigeno erano nelle giuste proporzioni. Avevano analizzato il terreno, scoprendo che, almeno negli elementi fondamentali, non era molto diverso da quello terrestre. Avevano analizzato l’acqua e, per la terza volta, il responso era stato lo stesso: nessuna differenza significativa rispetto alla Terra.

E poi, naturalmente, avevano scoperto che il pianeta non era solo abitabile, ma abitato.

Vegetali, soprattutto, o almeno forme di vita che, in base alle categorie terrestri, si potevano definire vegetali: da loro dipendeva l’ossigeno nell’atmosfera, quindi si poteva supporre che eseguissero un qualche tipo di fotosintesi. I droni ne prelevarono alcuni esemplari più semplici, per riportarli sulla Terra come campioni da analizzare.

Esistevano poi forme di vita animale, o almeno forme di vita che si presentavano come animali, oltre a una miriade di insetti: non parevano avere molto in comune con le corrispondenti categorie terrestri, ma in mancanza di meglio aveva usato i termini noti, per affinità. L’intelligenza artificiale del droni, per quanto sviluppata a sufficienza da permettere loro scelte molto complesse, non lo era abbastanza da studiare e capire il comportamento di più esseri senzienti non terrestri, ma lo era a sufficienza da scorgere modelli generali nelle loro azioni. Così, seguendo i programmi, raccolsero anche alcuni esemplari di animali e insetti, sempre per fini di studio.

Ciò che non scoprirono con quella esplorazione, invece, fu la presenza di intelligenze vere e proprie. Niente tecnologie, niente città, niente forme di vita che superassero l’equivalente di mammiferi di piccola e media taglia. O almeno, non videro niente che fossero programmati per comprendere e riconoscere come segni di intelligenza. I mari apparivano popolati, ma mancava l’equipaggiamento per una vera e propria esplorazione subacquea, così si dovettero accontentare della terraferma. Alla fine, dopo un mese abbondante di permanenza sul pianeta, i droni risalirono alla nave madre. Missione compiuta.

Con la scoperta di un pianeta abitabile per l’uomo, ma soprattutto con la scoperta di vita aliena e non pericolosa (in apparenza), il vento dell’opinione pubblica girò in favore del blocco Chind. Non erano più spese folli, assurde e immotivate; non era più una inutile prova di forza nei confronti dei paesi occidentali. Adesso, il progetto spaziale di Chind era il modello a cui tutti guardavano. Perfino in Occidente si parlava di resuscitare piani che marcivano nei cassetti da chissà quanti anni, per non restare ancora più indietro e, magari, ritornare a essere la prima potenza mondiale.

Non lo avrebbero fatto. La tecnologia per i voli interstellari era monopolio di Chind: loro l’avevano inventata e sviluppata, e non l’avrebbero mai condivisa con altri. Che ci arrivassero da soli! Nessun paese occidentale li aveva appoggiati, in anni di ricerche; adesso toccava a Chind ricambiarli. Su questo, entrambi i soci di maggioranza nel blocco erano d’accordo.

E per dimostrare la propria superiorità, per scavare un solco tecnologico ancora più grande tra loro e il resto della Terra, avevano infine costruito la Garuda. Portare l’uomo su Alfa Centauri era troppo poco: col volo interstellare diventava una pura formalità. Chind avrebbe fatto molto di più. Avrebbe portato una intera nave di coloni su quel mondo, per trasformare un mondo abitabile dall’umanità in un mondo abitato dall’umanità. Abitato dai popoli di Chind. Un mondo di riserva, tutto loro.

Ghanshyam Sharma alzò le mani, mentre Jaya Balan contava con calma i punti.

«Basta, mi arrendo!» implorò. «Mi escono dalle orecchie.»

«In effetti...» Pradeep Anand sorrise storto, accarezzandosi la guancia liscia. «Ormai è quasi ora di cena e possiamo anche fermarci. Vincere sempre diventa noioso.»

Ghanshyam lo guardò male. Erano seduti da ore, avevano alternato quasi tutti i giochi di carte, dal Ventinove, al Seep, al Dehla Pakad, cambiando più volte le coppie. In tutti questi giri, Pradeep era la costante dei risultati: chiunque fosse il suo compagno e qualunque fosse il gioco, vinceva quasi sempre lui. Con una media dell’ottantaquattro per cento, come aveva fatto notare lui stesso.

«Facciamo due passi?» propose Saba Rajavel, alzandosi in uno schioccare di ginocchia. «Starmene seduto qui mi distrugge!»

«Vengo volentieri» rispose Ghanshyam, alzandosi a propria volta. «E voi?»

«Preferisco aspettare qui» disse Jaya. «Tra non molto arriverà la cena, non ci sarà molto tempo per camminare. Più tardi, semmai, si potrebbe fare.»

«Adesso e più tardi, allora!» Saba sorrise. «Scusate, ma se non mi muovo un po’, qui vado fuori di testa.»

«Ricordate che tra mezz’ora passerà il servizio» disse Pradeep, alzandosi dal pavimento soltanto per coricarsi in una cuccetta. «Per il resto, fate come vi pare.»

Lo fecero. Ghanshyam e Saba uscirono dalla cabina, abbracciando con piacere l’aria più fresca e più leggera del corridoio. Con ancora più piacere, abbracciarono l’idea di un periodo senza carte, un periodo in cui potessero camminare e spazzolare un poco di ruggine dalle ginocchia. Non si erano mai sentiti così in galera, come in quella nave.

«Da che parte andiamo?» chiese Saba. Guardava al compagno come a un fratello maggiore e anche in una cosa tanto semplice attendeva il suo parere. Aspettava sempre che fosse qualcuno a dirgli che cosa fosse meglio fare: Pradeep, Jaya, Ghanshyam, chiunque. Un comportamento che li metteva a disagio, a volte. Anzi, diciamo pure spesso.

«Dove vuoi» rispose Ghanshyam. Il corridoio proseguiva identico in entrambe le direzioni, tra file di porte chiuse. Da una parte o dall’altra non cambiava nulla. «Andiamo a sinistra» aggiunse poi, vedendo che il giovane Saba non si decideva e continuava a fissarlo, con lo sguardo di un cane che aspettava un ordine dalla voce del padrone.

Ghanshyam Sharma sospirò. Saba l’aveva ormai adottato, lo seguiva ovunque e attendeva sempre la sua guida, prima di muoversi, ma certe volte poteva anche sbrigarsela da solo! Invece nulla, ogni suo tentativo di fargli decidere qualcosa si concludeva sempre così: Saba lo fissava e non agiva. Più che un fratello minore, sembrava davvero un cane da compagnia, a cui qualcuno aveva insegnato a camminare su due zampe. Si avviarono in silenzio.

Dalle porte chiuse filtravano rumori di ogni tipo, attutiti dal metallo. Dialoghi più o meno accesi, il mormorio di un mantra recitato all’infinito, due uomini che cantavano, persino un russare pesante, da motosega, di qualcuno che doveva essere l’incubo dei propri compagni. Un problema che, grazie al cielo, loro non avevano. Schegge di vita, come quelle che filtravano di certo dalla porta della loro cabina. Vita in viaggio, in attesa, vita di sradicati volontari, che avevano abbandonato la terra natale, per lanciarsi in una follia che li avrebbe portati, forse, ad affondare un giorno le radici in una terra nuova, aliena. Un pianeta che ancora non avevano visto, un pianeta che ancora attendeva un nome.

Cosa li ha spinti a partire?, si chiese Ghanshyam, con poco interesse. Era la classica domanda oziosa e inutile, che gli attraversava la mente mentre procedeva nei corridoi. Per ognuno c’era stato un motivo, certo, ma quel motivo apparteneva a lui soltanto. Proprio come il motivo che aveva spinto Ghanshyam Sharma a partire apparteneva a Ghanshyam soltanto. Inutile pensarci, eppure lui ci pensava spesso, ora che si trovava su una nave, a galleggiare nello spazio. Cosa li aveva spinti?

Saba Rajavel gli aveva raccontato la sua storia, una volta, quando erano partiti da poco. Stavano camminando anche allora, parlando di aria fritta, argomenti che neppure si ricordava; Ghanshyam aveva lasciato cadere la domanda, quasi per caso, certo senza attendersi risposte serie. «E tu come ci sei finito, quassù?» aveva chiesto.

Saba si era fermato, lo aveva fissato negli occhi, poi aveva abbassato lo sguardo. «Mio padre aveva perso il lavoro. Non ce la passavamo molto bene. I miei fratelli aiutavano, quando potevamo, ma non potevano molto. Avevano famiglia, anche loro. E poi, beh...» Si era stretto nelle spalle magre, con un sorriso timido. E poi era toccato a lui, ovvio, al piccolo di casa. Prendi i soldi e buttalo nello spazio. Una bocca in meno da sfamare.

Ghanshyam non aveva avuto bisogno di sentirlo, ma Saba aveva continuato. «Adesso mio padre ha trovato un nuovo lavoro, a casa si sta meglio. Erano tutti molto contenti, quando mi sono offerto,» aveva aggiunto. «Erano orgogliosi.»

Già, molto contenti. E scommetto che tuo padre ha ottenuto subito il suo nuovo lavoro, non appena hai passato i test e sei stato ammesso. Ghanshyam l’aveva pensato, ma era rimasto zitto. Forse non c’era bisogno di parlare, in certi momenti. Forse lo sapeva anche Saba. Volontari spontanei, niente da dire: spinti dalla voglia di avventura e dalla sete di conoscenza. O dalla fame.

E tu? Ecco la domanda che Saba non gli aveva fatto, per fortuna. Perché in fondo lui, Ghanshyam Sharma, non avrebbe saputo cosa rispondere, se non la verità. E la verità l’avrebbe messo molto in imbarazzo, stupida com’era. Meglio prepararsi una buona bugia, che suonasse convincente e nobile, in linea col suo personaggio. Così aveva fatto, nei giorni seguenti, anche se la domanda non era mai arrivata. Tanto di guadagnato.

Incrociarono altri due giovani, che camminavano in direzione opposta, e li salutarono con un cenno. Non era molto animato, il corridoio, soprattutto verso l’ora di cena. Tra poco avrebbero forse visto gli addetti alla consegna, scortati da un soldato, mentre bussavano a ogni porta, per consegnare la confezione col pasto: quello sarebbe stato il segnale di stop sul loro cammino, il segnale che li avrebbe costretti a invertire la marcia e rientrare alla base. Intanto, però, camminavano.

«Manca una settimana, vero?» chiese Saba, spezzando il silenzio.

«Come?» Ghanshyam scosse la testa, per riportare al presente il suo cervello. «Ah, sì, il passaggio. Il comandante ha detto così, poi staremo a vedere.»

«E non sei preoccupato?»

Ghanshyam pensò alla risposta. «Mah, direi di no. Sarà solo... sarà solo un passaggio, no? E poi lo sapevamo già che ci sarebbe stato. Se ci hanno spedito fin qui, vuol dire che sanno quello che fanno e il passaggio andrà bene. Non ha senso preoccuparsi, davvero.»

Saba lo fissò a lungo, un viso serio come non lo aveva mai mostrato prima. Poi si sciolse in un sorriso. «Già, non ha senso preoccuparsi. Sarà solo un passaggio.»

Ghanshyam si morse le labbra, contento che la barba le nascondesse. Voleva aggiungere qualcosa, ma dalla fine del corridoio si avvicinava lo stop: le divise verde scuro degli addetti alla consegna, in due, che procedevano verso di loro a passo lento. Accanto, si sporgeva il grigio di un soldato. Fine della camminata. In silenzio, invertirono la marcia, per tornare alla cabina, e del passaggio non si parlò più, per il momento.

Quattro giorno al passaggio.

Il comandante Arun Prasad rientrava da un lungo incontro col gruppo degli scienziati: un briefing, come lo chiamavano loro, usando la vecchia parola inglese. Un supplizio dei Rakshasa, come lo chiamava lui, usando una parola ancora più antica, ma appartenente alla tradizione indiana. Ore e ore seduto in mezzo a studiosi, che gli parlavano di cose incomprensibili, per fare il punto sul viaggio e per pianificare la seconda fase della missione: tutto già detto, tutto già visto, eppure gli scienziati si sentivano sempre in dovere di ripeterlo e ricontrollarlo. Lo avevano fatto già due volte dalla partenza e l’avrebbero fatto altre due volte, più avanti. Almeno altre due volte. E lui doveva ascoltare e annuire, annuire e ascoltare, ascoltare e annuire. Sì, sì, sì. Morissero tutti!

Avevano ricapitolato l’intero percorso, dalla Terra fino a dove erano arrivati in quel momento, per concludere che non c’erano state variazioni di rilievo e tutto procedeva in accordo alle simulazioni. Avevano spiegato di nuovo il passaggio, confrontandolo coi dati raccolti nei viaggi precedenti, che erano stati compiuti dalle sonde e dai droni: non ci sarebbe stato pericolo, lo rassicurarono, e con una probabilità del settantasei virgola tre per cento i passeggeri non si sarebbero neppure accorti del passaggio. In caso di problemi, i passeggeri avrebbero avuto una probabilità del cento per cento di non accorgersene, essendo già morti nel frattempo, ma Prasad lo tenne per sé.

Avevano poi continuato analizzando la traiettoria di avvicinamento al pianeta, alla luce dei campi gravitazionali del triplice sistema stellare di Alfa Centauri, e avevano proposto tre soluzioni diverse, suddivise per tempo di percorrenza, vantaggi probabili e svantaggi probabili. Infine, come colpo di grazia, avevano ripetuto la strategia da adottare all’arrivo sul pianeta, cioè la stessa adottata nella spedizione coi droni: la Garuda si sarebbe fermata in orbita, mentre le scialuppe sbarcavano i passeggeri sulla porzione di continente già analizzata dai droni e considerata priva di pericoli.

Quando il cervello del comandante Prasad ebbe finalmente ritrovato un poco di ossigeno, era già l‘ora di cena e l’intero pomeriggio se n’era andato in chiacchiere. Non che avesse senso parlare di cena o di pomeriggio, a bordo della nave: le distinzioni temporali non esistevano, se non come nomi di comodo, con cui etichettare segmenti di tempo decisi a tavolino. Due volte al giorno i pasti erano distribuiti: il primo lo chiamavano “pranzo”, il secondo “cena”. Le fasi nel mezzo, di conseguenza, erano indicate col nome dei corrispondenti intervalli terrestri. Dal risveglio fino al pranzo era mattina, poi c’era il pomeriggio, fino alla cena, e infine la sera, fino a quando non ci si coricava. Poi, notte, quando le luci erano spente.

Era dunque sera, adesso, mentre il comandante osservava gli schermi e si preparava a un sonno breve, come brevi dovevano essere tutte le sue fasi di sonno, a bordo. Poteva affidarsi ai computer, certo, erano abbastanza intelligenti da raggiungere Alfa Centauri da soli e tornare indietro, come in effetti era successo con la missione dei droni. Probabilmente erano anche abbastanza intelligenti da scattare una foto ricordo sul pianeta, senza farsi le corna a vicenda. Lui però non si fidava troppo e preferiva essere sempre lì, ai comandi, pronto a intervenire in caso di imprevisti.

«Non ce ne saranno» gli aveva detto uno scienziato mingherlino, un certo Gosvamin. «Il computer sa cosa deve fare, sia nelle situazioni previste, sia in quelle impreviste. Può anche reagire molto più velocemente di lei, in caso di problemi. Si riposi pure, comandante: la sua presenza davanti agli schermi non è necessaria su questa nave» aveva aggiunto poi, guadagnandosi un posto d’onore nel cuore di Prasad, nel reame delle “persone da strangolare alla prima occasione”.

Figuriamoci se ascolto quel trombone!, aveva risposto il comandante, non appena Gosmavin era uscito dalla sala. Così adesso sedeva accanto ai computer, dormendo a intervalli brevi e regolari, un occhio sempre pronto a controllare i dati. Ancora non c’erano stati problemi.

Era un viaggio tranquillo, doveva ammetterlo. Non era stata tranquilla la partenza, proprio come non lo erano stati i due mesi precedenti la partenza. Adesso che erano nello spazio, però, milioni di chilometri lontano da ogni straniero pazzo e fanatico, poteva godersi l’esperienza più importante di tutta la sua carriera. Anzi, di tutta la sua vita. Non sapeva più nulla della Terra e non avrebbe saputo nulla per un altro anno almeno, fino all’arrivo della seconda nave, a dare il cambio alla Garuda, e questo non era bello. Aveva una famiglia laggiù e quei pazzi occidentali potevano fare di tutto.

Sospirò, sistemandosi meglio sul sedile. Inutile pensarci adesso, tanto non poteva farci nulla. Le sue preoccupazioni dovevano riguardare soltanto il viaggio, e lo sviluppo della colonia sul pianeta. E, se possibile, doveva evitare che quegli scienziati causassero troppi danni. Compito ingrato, il suo, ma era il compito che aveva accettato e qualcuno lo doveva pur svolgere.

Con gli occhi chiusi e una mano accanto ai comandi, si abbandonò al suo intervallo di sonno.

Non era stata una partenza tranquilla, la loro.

I problemi erano cominciati con la messa in orbita della stazione, ma non si erano fermati a quella. Anzi, la stazione l’avrebbero pure accettata, dopo aver ringhiato e abbaiato un poco, per dimostrare di essere ancora forti, ancora temibili: un rituale che, probabilmente, si tramandava fin dalla prima comparsa della vita senziente sulla Terra e che, altrettanto probabilmente, sarebbe continuato fino alla scomparsa della vita senziente dalla Terra. Il problema reale, la crisi che minacciava di potersi evolvere in guerra vera e propria, era arrivato quando i paesi occidentali avevano capito la ragione per cui il Chind aveva creato la stazione orbitale.

Dominare i cieli; dominare lo spazio; dominare il futuro.

Questo non lo potevano accettare.

Il Chind costituiva già da qualche decennio il cuore e il cervello del pianeta. Su una popolazione di oltre nove miliardi, più della metà era concentrata nei paesi del Chind, ossia Cina, India e l’area del sudest asiatico; la sua supremazia politica, economica, tecnologica e culturale era una realtà, che potevi fingere di ignorare, chiudendo gli occhi, ma che era sempre lì ad aspettarti, quando li riaprivi. E all’Occidente, al vecchio sovrano deposto, la perdita del trono non era piaciuta affatto. La perdita del trono era sembrata un brutto imbroglio. Una truffa.

L’unico campo in cui le distanze erano ridotte, per adesso, era quello militare. L’Occidente aveva sacrificato tutto, pur di non perdere contatto, eppure non bastava ancora: a poco a poco, sentiva che anche quell’ultimo baluardo, l’ultima certezza di potere gli veniva strappata, quasi senza sforzo. La stazione orbitale aveva fatto il resto. Prometteva di spostare lo scontro su un terreno dove soltanto il Chind poteva combattere, perché soltanto il Chind ne aveva i mezzi. Perché come puoi difenderti da un nemico che ti sovrasta e può colpirti da ogni luogo, in qualunque momento, ben prima che tu lo riesca anche solo a vedere? Non puoi; puoi solo colpire per primo, colpire forte, per non lasciargli il tempo di usare tutto quel potere. Colpire prima di essere colpiti, colpire per uccidere. Era quello che avrebbe fatto, più avanti. O almeno, quello che l’Occidente avrebbe tentato.

Se l’esplorazione di Alfa Centauri aveva suscitato nuovi entusiasmi nella comunità scientifica mondiale, aveva anche suscitato nuovi terrori nei governi dei paesi occidentali. Che fosse già troppo tardi per agire? L’inizio dei lavori alla Garuda aveva risposto di sì: forse era già troppo tardi. Non per questo si sarebbero arresi: i gesti razionali non erano mai stati una specialità locale.

Era toccato alla diplomazia, prima, ma il Chind aveva rigettato ogni accusa: la Garuda non aveva scopi militari, ma scientifici e civili. Nessuno ci aveva creduto. Era toccato poi alle proposte di dure sanzioni economiche nei suoi confronti, ma di nuovo non avevano ottenuto risultati. Il Chind aveva risorse più che sufficienti per terminare il progetto da solo, anche con un embargo, anche con tutti gli embarghi che i paesi occidentali potessero immaginare. Anzi, sarebbe stato lo stesso Occidente a pagare per primo il prezzo di un embargo, perdendo un mercato enorme e indispensabile per le proprie attività economiche. Le multinazionali l’avevano chiarito subito e i governi avevano ceduto, con tanti saluti alle ipotesi di sanzioni.

Restava solo una via ed era proprio quella che, fin dall’inizio, avevano preparato in silenzio. La via che avrebbe permesso all’Occidente di recuperare il dominio della Terra. Il giorno del varo, quando la Garuda si preparava a lasciare il pianeta con un carico di oltre mille volontari, fu anche il giorno in cui quell’ultimo piano fu attuato. Con tutte le sue conseguenze, immaginabili e non.

L’equipaggio della Garuda non si accorse di nulla: i passeggeri attendevano tranquilli nelle cabine, i soldati sistemavano le ultime cose e controllavano che a bordo non ci fossero problemi, la vita scorreva placida e regolare. Il comandante Prasad fu l’unico a sapere, l’unico a vedere e l’unico a ricevere qualche notizia dalla stazione. A lui non lo avevano potuto nascondere.

Dopo minacce velate e inutili, consigli di abbandonare l’impresa e altre forme più o meno proprie di moral suasion, come si chiamavano adesso i ricatti, l’Occidente aveva deciso di passare a modi più diretti. Lo scudo spaziale, che ormai da molti anni copriva i suoi cieli e che mai era stato necessario utilizzare, si attivò quel giorno. Uno solo era l’obbiettivo: non difendere i suoi paesi, ma distruggere la stazione orbitale e la sua nave. E pazienza per i mille passeggeri. Mille era uno sputo, se misurato sui miliardi di umani viventi.

Fu un fallimento. L’Occidente aveva già perduto il dominio dello spazio, se mai l’aveva posseduto davvero. Il Chind aveva preparato le contromisure e i missili furono abbattuti l’uno dopo l’altro dal ben più efficiente scudo, che proteggeva la stazione. L’intera manovra servì soltanto a far sudare il comandante Prasad, che guardava lo schermo con orrore, e a distruggere la tacita tregua tra mondo occidentale e mondo orientale. Era stato un atto di guerra e avrebbe ricevuto un’adeguata risposta.

Ma niente di tutto ciò sfiorò la Garuda, che quel sette marzo abbandonava la stazione orbitale e si lasciava indietro la Terra, con tutti i suoi problemi. Per il suo carico di coloni, la nuova casa sarebbe stata in un altro sistema solare, su un pianeta ancora nuovo, attorno a una stella mai vista. Il pianeta di Alfa Centauri, a cui loro stessi avrebbero dato un nome.

La nuova guerra mondiale non li avrebbe mai riguardati.

«Non so cosa ci troviate di bello a stare in mezzo a tutta questa gente» disse Pradeep Anand, a bassa voce. L’entusiasmo gli si poteva leggere chiaro in volto, come una scritta nera su sfondo nero.

Jaya Balan sorrise. «È un modo per ricordarci quello che siamo» gli rispose. «E poi sarà meglio che ci abituiamo a loro, invece di chiuderci in piccoli eremi. Sul nuovo mondo dovremo vivere tutti assieme e collaborare ogni giorno, noi con loro e loro con noi, come una famiglia.»

«Il nuovo mondo è il nuovo mondo; qui è qui.»

Ghanshyam Sharma li osservò con un mezzo sorriso ironico. Capiva la posizione di entrambi, ma capiva anche che non c’era niente da fare. Era giusto mischiarsi, ogni tanto, anche se neppure lui ne era molto contento. Ma pochi sono contenti delle medicine, anche se li fanno guarire, e quella era di certo una medicina, come l’ora d’aria per i carcerati.

La stanza era la più grande dell’intera nave, o almeno la più grande del ponte inferiore, il solo a cui loro avessero accesso. Anche così, conteneva a fatica più di trenta persone, ben pigiate l’una contro l’altra. L’aria era riciclata anche più spesso, lì dentro, ma non bastava a cancellare gli odori. Per non parlare del caldo, dei rumori, dei corpi schiacciati contro i corpi. Neppure nei mercati di Calcutta si raggiungeva quella densità di popolazione al metro quadro.

Non che ci fosse qualcosa di interessante, lì. Era una semplice stanza metallica, uno spazio vuoto che si riempiva di gente. All’ingresso, due soldati fungevano da uscieri, per impedire che il numero di persone all’interno salisse oltre la soglia di sicurezza. Dentro, altri quattro soldati, appoggiati alle pareti, controllavano che non si verificassero incidenti. Per il resto, la stanza era una massa di teste scure e di voci, che si rimescolavano di continuo, come per moto browniano. Un luogo dove l’uomo era spettacolo e spettatore, nello stesso momento.

«A cosa serve, poi...» disse di nuovo Pradeep, sempre più allegro.

«Lo sai già» rispose Jaya. «È uno spazio per farci incontrare, discutere; per permetterci di conoscere altra gente, oltre i nostri compagni di cabina. Ci ricorda che siamo tutti sulla stessa barca.» Sorrise, soddisfatto della propria blanda battuta.

«Potevano farla più grande, già che c’erano...»

«Lo spazio è quello che è» intervenne Ghanshyam. «Accontentiamoci. Avremo tutto lo spazio che ci serve al nostro arrivo. Un mondo intero, tutto per noi. Ti basta?»

Pradeep lo guardò male. «Potevano farla più grande.»

«E potevano non farla, come sarebbe stato più logico. Spazio risparmiato, meno costi, meno lavoro per i soldati. Invece ci hanno concesso una stanza di incontro, anche se significava sprecare alcuni metri quadrati di nave. Un ingegnere come te dovrebbe capirlo» aggiunse Ghanshyam, con più di una punta di cattiveria.

Pradeep non rispose. Era il suo punto debole ed era il punto in cui lo colpivano sempre, per chiudere una discussione. Sharma si sentiva un poco in colpa, nel farlo, ma non troppo. In fondo, era stato proprio Pradeep, anzi l’ingegner Anand, a presentarsi così, il primo giorno, con un volto ancora più scuro del suo colore naturale. E non era difficile capire il perché. Probabilmente, si era aspettato un posto nel ponte superiore, tra gli scienziati e i militari; invece lo avevano imbarcato coi contadini e gli operai specializzati, tra la manodopera che avrebbe dovuto lavorare duro sul nuovo pianeta. Per il suo orgoglio era stato un brutto colpo, quasi da KO. Lo avevano trattato da comune essere umano.

Ghanshyam si separò dai compagni, nuotando tra la gente verso i margini della folla. Saba era poco lontano, impegnato a chiacchierare con un suo coetaneo; la persona che cercava lui, invece, era più avanti, appoggiata alla parete, con lo sguardo annoiato e le armi in vita che pendevano flaccide.

La persona che cercava lui era un soldato di guardia.

«Salve, Gupta!» lo salutò, sbucandogli quasi addosso, accanto alla parete di metallo.

Il soldato Harsh Gupta si girò verso di lui, con un rapido sorriso. «Salve, Sharma.»

Si erano conosciuti durante l’addestramento speciale, dopo essere stati selezionati e prima che la Garuda partisse: Gupta era tra i soldati, Sharma tra gli operai specializzati, ma in alcune occasioni i loro gruppi avevano dovuto collaborare, proprio come avrebbero dovuto poi collaborare sul nuovo pianeta, all’arrivo, per creare la colonia.

«Vedo che stasera sei di turno tu, qui alla sala» disse Sharma.

Gupta si strinse nelle spalle. «Ogni tanto mi tocca. Non è l’incarico più piacevole, ma almeno faccio qualcosa, invece di aspettare e basta.»

«Quindi non ci sono novità e tutto procede bene.»

«Tutto procede bene» confermò Gupta. «Ma tutto procederà molto meglio, quando saremo arrivati. Stare chiuso qui dentro per tutto il tempo... non è proprio un gran divertimento, sai.»

«Anche tu il morbo dell’eremita?» chiese Sharma, ridendo nella barba. Era la formula scherzosa che si usava per quei passeggeri che soffrivano più di altri la permanenza sulla nave, in spazi così stretti. Il loro problema non era tanto la claustrofobia di essere pigiati in loculi di metallo, persi nel vuoto, ma l’essere pigiati con altre mille persone, quasi tutte sconosciute.

Gupta alzò una mano, in segno di scusa. «Niente eremita, per carità. Ma non era questa la missione che sognavo. Capisco che il viaggio sia necessario, ma... beh, prima arriveremo e meglio sarà.»

«Spazi aperti, cieli azzurri e un mondo da conquistare, lo so. Lo sogniamo tutti, ma ci si adatta. E si adatterà anche il mio compagno, Anand, anche se brontola più di te.»

«Va tutto bene, nelle vostre celle?»

«Si sopravvive. Mi tirano scemo con le loro carte, ma si sopravvive.»

«Sono certo che vi divertirete tutti molto di più, quando avrete in mano una zappa, o una vanga. Le carte non fanno venire i calli, ma quelle sì.»

Chiacchierarono ancora, del viaggio e di ciò che li attendeva. Non parlarono invece di quello che entrambi avrebbero voluto affrontare e che rendeva tutti un poco nervosi, sulla nave. Il passaggio, il balzo che li avrebbe portati dal sistema solare al sistema di Alfa Centauri. E anche se altri umani lo avevano già affrontato, nei test, e diversi droni avevano attraversato distanze ben più grandi, loro sarebbero stati i primi a unire le due cose: spedire da una stella all’altra una nave di massa così elevata, con oltre mille esseri umani a bordo.

Meglio farlo subito e non pensarci più, invece di tormentarsi in attesa, fingendo di non pensarci, con la mente che tornava sempre là, al passaggio. Meglio farlo subito, sì, e invece dovevano aspettare ancora.

Mancavano meno di tre giorni.

«Vedo che continua a studiare quello schermo.»

Il comandante Prasad si girò di scatto, sorpreso dalla voce alle sue spalle. C’era uno scienziato, lì sulla soglia della sala. Meglio ancora, c’era quell’odioso stuzzicadenti di Gosvamin, che si divertiva sempre tanto a magnificare le proprietà della sua nave e a definire inutile la presenza di un umano ai comandi. Perché il tuo computer fa tutto da solo, pensò Prasad, senza parlare.

«Mi sento più sicuro così. Preferisco avere sempre tutto sott’occhio» rispose il comandante, il volto neutro. «Una questione psicologica, insomma.»

«Sì, questo lo posso capire» commentò Gosvamin. «Residui di umanismo; sono sempre così ardui da rimuovere, soprattutto tra le persone della vecchia guardia. Un giorno, però, sarà opportuno che ci si dimentichi di queste paranoie: se programmato come si deve, un computer sa essere molto più efficiente di ogni essere umano al mondo.»

E tu li sai programmare come si deve, giusto?, pensò il comandante Prasad. «Un giorno forse sì» gli rispose. «Siccome però questo è il primo viaggio compiuto dalla nostra nave, ritengo sia molto più opportuno controllare che tutto proceda bene, giusto? Siamo ancora in fase di test, dopotutto.»

Gosvamin si irrigidì. «Non siamo più in fase di test. Al contrario, ogni test è già stato superato, una nave ha già raggiunto con successo Alfa Centauri e quella nave era governata da un computer. Non c’erano umani a controllare che tutto procedesse bene, e tutto ha proceduto bene.»

«Aveva un carico di droni, non di umani» lo corresse Prasad. «E la sua massa era di molto inferiore alla nostra. Non è proprio la stessa cosa.»

«Anche i computer erano di un modello precedente, rispetto al nostro. Eppure, non hanno avuto problemi.» Il suo sorriso si era perso per strada.

«Su questa nave, la responsabilità dei passeggeri e dell’equipaggio è mia. Io sono il comandante. Dunque, è mio preciso dovere assicurarmi di fare tutto il possibile per salvaguardare sia la nave, sia i suoi occupanti. Per questo controllo i computer.»

Gosvamin si strinse nelle spalle. «Come vuole. Se tutto ciò la farà sentire più tranquillo, prosegua pure col suo lavoro. La prego però di abbandonare certe sue posizioni tecnofobiche, che appaiono ormai superate dai tempi.» Con un cenno del capo, che poteva essere un saluto, uscì dalla stanza.

Fastidioso! Anzi, insopportabile, si corresse il comandante Prasad. Eppure era uno degli scienziati che gli sarebbero rimasti attaccati più a lungo, visto che proprio lui si occupava dei computer. Non il solo, ma il migliore dei quattro informatici; quindi, aveva ordine di non mettere neppure la punta di un mignolo fuori dalla nave, all’arrivo. Quel Gosvamin sarebbe rimasto a bordo per tutto l’anno di permanenza sul pianeta, a controllare dati, analizzare il sistema e chissà cos’altro. Era anche una specie di aiuto navigatore, perché si occupava del navigatore reale, ossia il computer.

E lui gli avrebbe dovuto fare da balia, perché anche il comandante aveva il divieto di scendere. Bel lavoro! Era logico, certo, ed era giusto, ma Prasad si sentiva ugualmente frustrato. Sperava solo che al ritorno la Terra fosse ancora dove doveva essere e fosse in buone condizioni: nessuno gli avrebbe negato una bella vacanza e voleva godersela fino in fondo.

Controllò lo schermo, per vuota abitudine. Niente di nuovo. Era un peccato che avessero inventato la navigazione interstellare, ma non un modo per comunicare decentemente a quelle distanze. Due giorni dopo la partenza aveva provato a parlarne con uno degli scienziati di bordo e la risposta era stata sconfortante: ci stavano lavorando, ma la soluzione restava ancora lontana. Il che non era poi tanto strano: fino alla comparsa dei satelliti, non esisteva neppure un modo per comunicare in fretta, e con efficienza, tra città distanti qualche migliaio di chilometri. Tra un anno sarebbe arrivata a dare loro il cambio una seconda nave, in base al programma, e allora avrebbe ricevuto tutte le notizie di cui aveva bisogno. Nell’attesa, era meglio concentrarsi sul presente.

E il presente diceva che mancavano due giorni scarsi al passaggio.

«Facciamo un altro giro di Dehla Pakad?»

Ghanshyam Sharma fissò il volto sereno di Jaya Balan e represse a forza un gemito di agonia. Non si poteva continuare così. Era inumano. La navigazione interstellare, da sola, non bastava: ci voleva anche un sistema per far passare il tempo, senza che i passeggeri impazzissero. Uno qualunque, una misericordiosa botta in testa andava benissimo. Purtroppo, il sistema non era ancora stato inventato e la botta in testa non era considerata misericordiosa, almeno non da tutti.

Sedevano a gambe incrociate sul pavimento della cabina, tutti e quattro, nella figura geometrica che il poco spazio tra le cuccette consentiva loro; più una ellissi che un cerchio, insomma. E le carte risucchiavano la vita di ciascuno, come un demone infernale. Jaya le mescolava impassibile, a gesti lenti, e Ghanshyam si sentiva più verde dell’erba.

«Potremmo fare una pausa» propose.

«Allora cambiamo gioco?» chiese Pradeep Anand.

«No, io dicevo di fare proprio una pausa con le carte.».

«Non abbiamo molto altro da fare, però. Manca ancora molto alla cena.»

Pradeep aveva ragione. I limiti al bagaglio erano molto rigidi, per motivi di spazio. Avevano fatto quasi tutti il pieno di vestiti, cioè il bene di cui avrebbero avuto maggior bisogno all’arrivo. Ma non avevano pensato seriamente a cosa fare, durante il mese e più di viaggio che li attendeva. Mangiare, dormire, chiacchierare, passeggiare nei corridoi quando possibile. E poi? E poi, le carte. C’era stato un tempo, all’inizio, in cui sembrava che alle parole non dovesse esserci mai fine: ognuno parlava dei propri progetti, delle proprie speranze, di cosa si attendeva e di cosa temeva in quell’avventura in cui si erano imbarcati. Un tempo, appunto. Ma ormai il pozzo delle parole sembrava inaridito e le carte erano l’ultimo approdo. Le carte.

«Cosa staranno facendo gli altri?» chiese Saba Rajavel.

Nessuno gli rispose. Forse stavano facendo le stesse cose che facevano loro lì dentro: annoiarsi a morte. Proprio il sentimento che nessuno si sarebbe aspettato, non certo durante un viaggio verso un mondo nuovo da colonizzare. Eppure, dopo la prima fase di paura ed euforia, era stata proprio lei, la noia, a dominare la nave. Sua Maestà la Noia si era seduta in trono e niente l’aveva potuta smuovere da lì, né preghiere, né minacce, né carte. Sì, c’era un gran bisogno di inventare un rimedio. La botta in testa appariva sempre più misericordiosa, agli occhi di tutti.

«Potevano almeno metterci un computer, in cabina...» disse Saba.

Pradeep sbuffò. «Sì, certo, un computer per cabina. Mettiamo duecento o trecento computer accesi tutto il giorno, ottima idea. Anzi, mettiamo pure le vasche con idromassaggio in ogni cabina, tanto c’è energia da vendere, perché no? E l’impianto stereo, eh?»

«Beh...»

«Le riserve che abbiamo devono bastare alla nave per più di un anno, incluso il viaggio di ritorno verso la Terra, lo sai? O pensi forse che potremo fare rifornimento su Alfa Centauri? Conosci forse un distributore da quelle parti? Perché se è così, penso proprio che faresti bene a parlare un po’ col comandante, gli farà piacere ricevere questa informazione.»

«Ecco...»

«Oh, certo, dimenticavo, possiamo ricaricarci al sole, giusto? Pannelli puntati sulla stella Beta, poi ci penserà lei a farci il pieno, eh? Ma sì, qualcosa lo recupereremo, così, ma sai cosa recupereremo? L’energia che servirà alla nave per l’anno che passerà in orbita, ecco cosa recupereremo. Nessun extra per noi, solo il minimo sindacale. Se non recuperassimo neppure quella, allora addio viaggio di ritorno, per la gloriosa Garuda

«Però...»

«Se non sappiamo cosa fare e ci annoiamo, dobbiamo usare la nostra testa, per distrarci. Il cervello. Non consuma riserve di energia e occupa poco spazio. E tutti ne abbiamo uno. O almeno, di solito ne dovremmo avere uno, poi in certi casi non so...» aggiunse Pradeep.

«Non tormentarlo così» disse Jaya con un sorriso. «Ha sbagliato e succede a tutti di sbagliare. Non serve torturarlo e non farà passare il tempo più in fretta.»

Vorrebbe essere con gli scienziati, invece che con gli operai specializzati, pensò Ghanshyam. Ma si dovrà mettere il cuore in pace, il nostro caro Pradeep. Se lo hanno scartato, ci sarà un motivo. E il motivo mi pare di capirlo, a forza di viverci assieme. Ha la simpatia di una tenia.

Rimasero in silenzio, mentre un tempo di melassa scorreva e si avvolgeva attorno a loro. Forse già i prossimi modelli di nave avrebbero risolto il problema delle scorte energetiche, concedendo così ai passeggeri qualche distrazione in più. O forse i passeggeri stessi sarebbero stati addestrati anche per sopportare il viaggio, non solo per lavorare dopo l’arrivo. Ma erano progetti per il futuro. Il presente apparteneva a loro, ai passeggeri della Garuda, ed erano loro a doversela cavare da soli, per più di un mese nello spazio, in compagnia di se stessi.

«Domani ci sarà il passaggio, dopo cena» disse Saba, fissando il pavimento. Si vergognava, certo, ma forse sopportava anche peggio il silenzio. Per questo fu proprio lui a spezzarlo.

Gli altri si girarono a guardarlo. «E quindi?» chiese Pradeep.

«Quindi... beh, cambierà qualcosa, no?» rispose Saba, a disagio.

«Cambierà poco. Ci sarà qualche variazione nel disegno delle costellazioni, il sole si ridurrà a una stella come le altre, ma molto luminosa, e il gruppo di Alfa Centauri diventerà più grande davanti a noi. Ma tanto, qui dentro, noi non vedremo nulla» concluse Pradeep. «Non sarebbe stato né pratico né sicuro riempire la nave di finestrini.»

«Beh, però saremo su un’altra stella, no? Insomma, non saremo più a casa, nella nostra zona...»

«Se vuoi metterla così... ma di fatto per noi non cambierà nulla, qui dentro. Ci saranno altre due settimane da passare in cabina ad annoiarci e ad ascoltare le nostre scoregge, per vedere chi le fa più potenti e più fetide. Poi, e soltanto poi, forse potremo fare qualcosa. E tra annoiarsi attorno al Sole e annoiarsi attorno ad Alfa Centauri, io non vedo una gran differenza, ragazzo mio.»

«La differenza è che domani abbandoneremo per sempre il sistema solare» intervenne Ghanshyam. «Qualunque cosa succederà, per noi non ci sarà più un ritorno. È questa la differenza.»

Pradeep si strinse nelle spalle. «Differenza molto relativa. Lo sapevamo già, quando ci siamo offerti volontari, e lo abbiamo accettato. Non vedo cosa ci sia di tanto speciale, adesso.»

«Sapere non è uguale a essere. Prima lo sapevamo e basta, ma da domani sarà una realtà, un dato di fatto concreto. Sono le ultime ore che trascorriamo nel nostro sistema solare; poi, per il resto della vita, saremo su Alfa Centauri» disse Ghanshyam. «Bella o brutta che sia, la nostra vita si svolgerà là. Direi che è un discreto cambiamento, non ti pare?»

Jaya Balan seguiva la discussione in silenzio, le mani che continuavano a mescolare le carte, più per riflesso che per reale desiderio di giocare. Sorrideva, sereno come sempre. Lasciò che i compagni parlassero ancora per qualche minuto, prima di intervenire. «Sono discussioni molto interessanti, su punti di vista molto interessanti. Non dicono però nulla di più, rispetto a quello che sappiamo già.»

Lo guardarono; Ghanshyam e Pradeep accesi per la discussione, Saba in imbarazzo, perché erano state le sue parole a provocare tutto quanto.

«E tu invece cosa ne pensi?» gli chiese Pradeep.

Jaya sorrise. «Domani sarà solo un rito di passaggio, per noi come per gli uomini. Abbandoneremo la stella dove siamo nati e ne raggiungeremo un’altra. È un passaggio necessario, che sapevamo già tutti di dover affrontare, prima o poi. Domani lo affronteremo. Chiuderemo il passato, la nostra infanzia, e apriremo il futuro, l’età adulta. Capisco che possa farvi paura, ma...»

«Non mi fa paura» lo interruppe Pradeep.

«...ma è qualcosa che deve accadere. Tanto vale accettarlo e smettere di preoccuparsi, risparmiando le energie per quando ci serviranno davvero.»

Ghanshyam Sharma lo guardò. Sapeva poco di quel suo compagno, quel Jaya Balan che se ne stava sempre tranquillo in disparte, a osservarli con un sorriso. Era il più vecchio nella cabina, anche se un anno o due non è poi una grande differenza, ma non era solo l’età. Non parlava quasi mai di sé, ma una delle poche cose che aveva detto, dopo la partenza, era già nota a tutti fin dal periodo degli addestramenti: che la sua era una famiglia molto antica, di origine brahmana.

Ghanshyam non sapeva se fosse vero, né gli interessava, ma era chiaro che Jaya avesse qualcosa di diverso da loro. Forse solo la sua imperturbabilità, forse l’aura di saggezza, forse aria fritta, come diceva Pradeep, o forse chissà cosa. Nulla che a Ghanshyam piacesse particolarmente, in ogni caso. Lo trovava inquietante. A volte sembrava un vecchio in un corpo di venticinquenne.

Perché ti sei offerto volontario?, pensò Ghanshyam, senza parlare. Perché infilarsi in una cabina di pochi metri quadrati, scagliato verso un’altra stella, se appartieni a una famiglia benestante e ben inserita nella comunità? Perché lasciare tutto, puntando sul niente? Jaya Balan non lo aveva detto, ma forse era già scritto nei suoi vestiti, di buona fattura ma consumati, o nei suoi gesti, educati ma in un qualche modo spenti. I Balan potevano aver avuto un grande passato, ma il presente sembrava non averli trattati molto bene: calpestati forse dall’epoca nuova, come molte altre famiglie. Ed era per fuggire a quel presente che Jaya, forse, si era tuffato verso il futuro.

«Non è niente di cui preoccuparsi, già» disse intanto Saba, un poco più rilassato. «Probabilmente non ce ne accorgeremo nemmeno.»

«Probabile» concluse Pradeep. «Quindi, basta parlare di queste sciocchezze e pensiamo a cosa fare, per tirare sera. Avete qualche idea, voi?»

E cercando una risposta alla domanda, si trascinarono fino alla cena.

Il comandante Arun Prasad sudava.

Aveva azionato un timer e adesso fissava con occhi di vetro i secondi che scivolavano verso lo zero. Ne rimanevano molti, ma erano pochi. Sarebbe stato difficile ritrovare la calma, in un tempo così breve. Perché con lo zero sarebbe arrivato il passaggio.

In un modo o nell’altro, con lo zero sarebbe passato alla storia. Il primo uomo a guidare una nave di coloni su un’altra stella, se tutto fosse andato bene; il primo uomo a svanire assieme a una nave con oltre mille passeggeri a bordo, se tutto fosse andato male. «Le probabilità che qualcosa possa andare male sono irrisorie. Non vale neppure la pena di prenderle in considerazione,» avevano ripetuto gli scienziati, a ogni riunione. Gosvamin glielo ripeteva anche più spesso, e in forma più accesa.

Eppure...

«Ancora a meditare sui comandi?»

Gosvamin entrò adagio nella sala, forse evocato dal pensiero del comandante. Prasad si voltò verso di lui, con l’entusiasmo della vittima sacrificale, e abbozzò un sorriso che era più un ghigno.

«Aspetto il momento, tutto qui.»

Gosvamin annuì, fermandosi in piedi accanto a lui. «Vedo che ha attivato anche un timer. Proprio non vuole perdere neppure un secondo di questo evento storico.»

«Mi sento più sicuro, così.»

«Capisco. Ha avvisato i passeggeri?»

«Ho avvisato l’equipaggio. Sono tutti pronti.»

«Ah.» Gosvamin fece una pausa, fissando lo schermo. «Ma non ha avvisato i passeggeri, vedo.»

Il comandante Prasad si sistemò meglio sul sedile. «Sanno che passeremo oggi. Ho preferito non specificare il momento esatto, così non ci penseranno e non si preoccuperanno per niente. Quando sarà finito, lo comunicherò.»

«Capisco. Vuole essere l’unico a preoccuparsi per niente.» Gosvamin sorrise, senza guardarlo. «Se la cosa la può interessare, i suoi uomini sono piuttosto tranquilli. Molti di loro, in questo momento, sono nel nostro settore e i miei colleghi li hanno rassicurati su cosa succederà. Ne stavano ancora parlando, quando io sono uscito. Sa, sono tutti molto entusiasti per la nuova stella e sono impazienti di poter vedere il cielo di Alfa Centauri. È qualcosa di cui un giorno parleranno con orgoglio ai nipoti, capisce.»

«Sì, capisco. Buon per loro. E lei cosa ci fa qui? Come mai non è rimasto con gli altri? Forse non si volevano far rassicurare da lei?»

Il sorriso di Gosvamin si allargò. «Volevo controllare se anche il nostro comandante avesse bisogno di qualche ultima rassicurazione. La responsabilità del viaggio è tutta sulle sue spalle, in fondo. È il minimo che io possa fare, per lui.»

«Non ho bisogno di rassicurazioni, grazie.»

«E poi», continuò Gosvamin, come se non fosse stato interrotto, «volevo essere testimone coi miei occhi del momento del passaggio. Sarà anche il trionfo del mio computer, vede. Significherà che è perfettamente capace di gestire da solo il transito di una massa così elevata, come la Garuda. Cosa di cui noi siamo già sicuri da tempo, ma che ancora non convince certi scettici.»

«Sono convinto che il computer sia capace di cavarsela benissimo da solo.» La voce di Arun Prasad si fece più dura. «Anche perché, se non lo fosse, io non avrei certo le competenze necessarie per un intervento correttivo. Spetterebbe a voi, in quel caso.»

«E infatti siamo pronti anche a questo. Come vede, io mi trovo qui proprio di fianco a lei, pronto a intervenire per ogni necessità. Non sottovaluto la possibilità di errori, come invece sembra pensare lei; soltanto, io non la sopravvaluto. Tutto andrà bene» concluse Gosvamin, fissando lo schermo. «E adesso, la devo pregare di non distrarmi ulteriormente. Anzi, credo proprio che sarebbe opportuno che neppure lei si distraesse, a meno che non voglia perdersi il passaggio, tra un minuto.»

Il comandante Prasad si girò verso lo schermo. Era vero! Poco più di cinquanta secondi e poi la nave avrebbe lasciato il sistema solare, per balzare nel sistema di Alfa Centauri. E lui si era lasciato distrarre dal quel trombone scheletrico, quel professorone di Gosvamin! Si morse il labbro inferiore, mentre gli ultimi secondi scivolavano via sotto ai suoi occhi. Avrebbe visto qualcosa? O avrebbe sentito qualcosa? Sarebbe stato meglio chiederlo, quando erano ancora sulla Terra, ma non ci aveva pensato. E adesso era troppo tardi per prepararsi.

Adesso!

Il timer raggiunse lo zero e svanì. Un istante prima, lo schermo inquadrava il sistema stellare di Alfa Centauri, la loro meta. Un istante dopo, lo schermo inquadrava ancora il sistema stellare di Alfa Centauri, la loro meta. Ma le stelle erano più distanziate tra loro, e molto più luminose. O era una illusione? Lo vedeva o lo sognava?

«Tutto qui?» chiese a bassa voce.

«Tutto qui» rispose Gosvamin, sempre sorridendo. «Come le avevo detto in più occasioni, niente di cui preoccuparsi. Ordinaria amministrazione, per il mio programma.»

«Ma non ho sentito nulla!»

«E non doveva sentire nulla. Il tempo del passaggio è troppo breve perché possa raggiungere la soglia della coscienza, almeno nella quasi totalità dei soggetti sani e normali. Non escludo in linea di principio l’esistenza di qualche soggetto dotato di particolare sensibilità, forse patologica, che si potrebbe accorgere addirittura di questo breve intervallo, magari solo a livello inconscio. Ancora non ne abbiamo trovati, certo, ma con oltre dieci miliardi di esseri umani non è matematicamente da escludere l’esistenza di un soggetto di questo tipo. In ogni caso, mi sento di poterle assicurare che, a bordo di questa nave, nessuno si è accorto del passaggio.»

«E abbiamo superato circa quattro anni luce.» Il tono del comandante Prasad si era fatto reverente. «Credo di poter capire l’orgoglio con cui parla del suo computer.»

«Oh, non mi fraintenda, in realtà il mio ruolo è stato minimo, nella scoperta dei viaggi interstellari. Non sono certo stato io a occuparmi della teoria o della pratica. Il compito del mio staff è stato solo quello di progettare e programmare un computer in grado di gestire tutti i dati a disposizione, per decidere il punto di partenza e il punto di arrivo del passaggio e, naturalmente, il momento in cui effettuarlo. Bisogna calcolare la corretta inclinazione di ogni atomo al momento della partenza e poi l’inclinazione che dovrà assumere al momento dell’arrivo. Un lavoraccio, che soltanto un computer può gestire. Si può dire che noi abbiamo provveduto al cervello, mentre altri creavano il corpo.»

«In ogni caso, avete fatto un ottimo lavoro.»

Gosvamin chinò il capo, senza rispondere.

«E adesso, altre due settimane di navigazione normale, prima di arrivare sul pianeta» continuò Arun Prasad. «E poi... toccherà ai passeggeri. Io il mio compito l’avrò finito.»

Gosvamin uscì in silenzio dalla stanza, lasciando il comandante alle sue responsabilità. Certo, il suo compito sarebbe finito, all’arrivo, ma forse si sarebbe accorto che la parte peggiore non era ancora cominciata. Era un tipo così sensibile! Ma non era il caso di pensarci adesso, non con tutto il tempo che mancava. Ogni giorno si porta il suo fardello, è meglio non prendere a prestito anche quello del domani. Arriverà da solo, a suo tempo.

Mentre la porta si chiudeva alle sue spalle, il comandante Prasad si schiariva la gola, per dare a tutti i passeggeri la notizia del passaggio terminato.

L’entusiasmo era grande, nella sala comune.

Mancava poco, ormai. Ancora una settimana e quel viaggio, quel lunghissimo e noiosissimo viaggio, sarebbe finito. Ancora una settimana e avrebbero potuto cominciare a fare qualcosa, invece di stare per tutto il giorno chiusi in una cabina a guardarsi in faccia, come il carico di un carro bestiame.

Una settimana e avrebbero raggiunto il nuovo mondo, il loro mondo, il mondo che avrebbero pian piano trasformato nella loro casa, modellandolo con le proprie mani. Si sentivano arrugginiti e fuori forma, ma si sentivano soprattutto pieni di energia, da sfogare.

Saba Rajavel era assieme ad altri tre coetanei, parlavano e ridevano a voce alta, gesticolando su chissà quale impresa avrebbero compiuto, all’arrivo. Jaya Balan aveva trovato un altro uomo serio e posato come lui, forse un futuro contadino, e parlavano a voce bassa, come se attorno non ci fosse nessuno. Era impossibile sentirli, impossibile quasi anche vedere il movimento delle loro labbra, ma sembravano capirsi, pur nel rumore generale. Pradeep Anand era in disparte, guardava tutto ma non pareva voler entrare in una discussione, almeno per adesso. Forse si consumava ancora al pensiero del ponte superiore, dove immaginava scienziati e militari passeggiare assieme in corridoi tranquilli e deserti, discutendo con educazione sopra i massimi sistemi. Ghanshyam Sharma sorrideva, contro la parete, mentre studiava i suoi compagni e i loro atteggiamenti, così diversi l’uno dall’altro.

«Si divertono proprio, stasera» disse Harsh Gupta, in piedi accanto a lui. Assieme ad altri tre soldati, doveva controllare che non ci fossero problemi nella sala e per adesso non ce n’erano. Entusiasmo sì, ma senza eccessi; l’addestramento che ogni passeggero aveva ricevuto, prima di partire, viveva e funzionava anche dopo quella che pareva una eternità di nulla.

«Normale» commentò Ghanshyam. «Dopo quasi un mese a fare da merce nel bagagliaio, oggi ci hanno ricordato cosa siamo venuti a fare, quaggiù.»

Gupta sorrise. «Fareste meglio a riposare, finché potete. All’arrivo, ci sarà tanto di quel lavoro da togliersi la voglia una volta per tutte.»

«Lo sappiamo, ed è per questo che siamo contenti. Potremo finalmente dimostrare che serviamo a qualcosa anche noi. A forza di stare qui dentro, a girare i pollici, ce lo stavamo dimenticando.»

Ghanshyam si asciugò la fronte. Faceva parecchio caldo, lì dentro, e l’odore di umanità era forte, ma non si lamentava. Si sarebbe lamentato di sicuro, più tardi, ma non adesso. Adesso voleva solo pensare al lavoro che era stato assegnato al suo gruppo. Nessuna novità, perché sulla Terra erano stati addestrati proprio per quello, ma era bello sentirselo ricordare, davvero.

Quel giorno, infatti, il comandante aveva ripetuto il piano di lavoro per le operazioni di sbarco sul pianeta e la prima sistemazione dei coloni. Sarebbe stato lungo e avrebbe richiesto una settimana di fatiche, prima che tutti fossero sbarcati e alloggiati a dovere, ma erano dettagli secondari.

Il primo giorno, la nave si sarebbe fermata in orbita geostazionaria sopra il punto prescelto e avrebbe spedito a terra le scialuppe con cinquanta persone e il materiale per installare l’ascensore. Mentre i primi lavoravano all’ascensore, un altro gruppo di dieci operai si sarebbe occupato invece di trasportare e assemblare l’impianto di depurazione: c’era un fiume nella zona dove sarebbe sorto il loro insediamento e avrebbero dovuto sfruttare le sue acque, per ogni necessità. Quella della nave, per quanto riciclata, non poteva bastare.

Una volta terminato l’ascensore, lo avrebbero potuto usare per trasportare sul pianeta il grosso del materiale, giorno dopo giorno, mentre le scialuppe si sarebbero occupate dei passeggeri. All’arrivo, questi avrebbero utilizzato il materiale scaricato per assemblare i moduli abitativi, un lavoro che li avrebbe tenuti impegnati solo per un paio d’ore ciascuno. Se non ci fossero stati incidenti, in una settimana tutti i passeggeri sarebbero sbarcati sul pianeta, con un tetto sopra la testa, una riserva di acqua depurata a cui attingere e un unico pensiero nella testa: raggiungere l’autonomia alimentare.

«Avete già deciso in quanti resterete sulla nave?» chiese Ghanshyam all’amico soldato.

Gupta si strinse nelle spalle. «Dipende. Circa la metà degli scienziati resterà a bordo, per continuare i loro studi del pianeta, procedere con la revisione della nave e così via. Gli altri verranno con voi, ma solo dopo che avrete terminato il vostro lavoro con le case.»

Ovvio, sorrise Ghanshyam. «E voi soldati?»

«Più o meno lo stesso. Alcuni resteranno a bordo, ma la maggior parte scenderà con voi, è chiaro. La nave non avrà bisogno di molta protezione, sospesa in cielo, ma voi sì. I droni hanno detto che non ci dovrebbero essere forme di vita pericolose, almeno in questa zona, però...»

«Però non si sa mai, giusto.» Ghanshyam Sharma rimase in silenzio, a osservare la gente ammassata nella stanza, che parlava e rideva. Erano solo una piccola parte dei passeggeri, insignificanti come percentuale, eppure lì dentro sembravano molti. Molti piccoli contenitori di sogni e speranze, chiusi assieme lì dentro. Alcuni forse si sarebbero aperti e realizzati, altri invece sarebbero scomparsi in silenzio, perdendosi per strada. «Chissà in quanti sopravviveremo» aggiunse.

Gupta storse la bocca, a disagio. «Beh, qualche incidente ci sarà, nei primi tempi, è inevitabile. Un mondo nuovo, un ambiente nuovo, regole nuove... ma siamo tutti giovani e sani, e ben addestrati. In qualche modo ce la caveremo di sicuro, vedrai. E poi non ci avrebbero mandato qui, se pensassero che non ce la faremo, no?»

Ghanshyam alzò le spalle. «Ma sì, il pianeta è abbastanza abitabile, o almeno lo sembra, e alcuni di noi sopravviveranno di sicuro, fino all’arrivo della seconda nave, altrimenti non avrebbe avuto poi molto senso farci partire. La mia domanda è: quanti saranno i sopravvissuti della prima ondata? Per noi sarà un mondo ignoto, con forme di vita ignote; potrebbe bastare un virus qualunque per fare una strage, lo capisci anche tu.»

«Beh, ma non è detto che un virus ci faccia qualcosa» rispose Gupta, dopo una breve pausa. «Siamo alieni per i virus, come i virus sono alieni per noi. Si saranno adattati alle forme di vita del loro pianeta, no? Quindi non ci faranno nulla. non sapranno come attaccarci, no?»

Ghanshyam lo guardava, senza parlare.

«Anche sulla Terra è così, no?» continuò il soldato. «Ci sono malattie che colpiscono solo le piante, altre che colpiscono solo gli animali, altre solo l’uomo. Non puoi certo ammalarti per qualcosa che colpisce le piante, no? Magari si adatteranno a noi, d’accordo, ma ci vorrà tempo e intanto anche noi li potremo studiare e trovare una cura. Ce lo hanno spiegato più di una volta, gli scienziati che sono a bordo» concluse, annuendo convinto. «È tutto sotto controllo.»

Ghanshyam non aveva niente da replicare. «Speriamo solo di non finire a fare le cavie» disse. Nella sala davanti a loro, qualche gruppetto usciva e altri entravano a sostituirli, seguendo la solita danza dei ricambi. I due soldati all’ingresso gestivano il flusso. C’era ancora entusiasmo e sembrava che non dovesse calare mai, almeno per quella sera.

«Cavie? No, figurati!» rispose Harsh Gupta. «Il nostro è un compito molto più importante. Siamo i semi che la Terra sparge nell’universo, da noi fioriranno nuovi mondi, abitati dall’uomo. Noi siamo le avanguardie del futuro, vedrai! Ne arriveranno molti altri, noi siamo solo i primi. È per questo che mi sono offerto volontario anch’io: volevo essere qui, sulla prima nave, per fare la storia e per vedere coi miei occhi il primo passo dell’uomo. Noi siamo i semi del futuro» concluse Gupta, rosso in volto e con le braccia allargate, come ad avvolgere l’intera stanza.

Saba Rajavel rideva coi suoi nuovi amici, Jaya Balan parlava tranquillo con altri due uomini, seri e posati come lui, persino Pradeep Anand aveva trovato qualcuno, un operaio con gli occhiali tondi e la faccia da intellettuale, che sembrava fuori posto lì in mezzo. I semi del futuro, pensò Ghanshyam. Una manciata di semi, per testare il terreno, prima della semina reale. Vedremo su Alfa Centauri cosa ne spunterà.

Il comandante Arun Prasad controllava come al solito il piano di volo. Tutto procedeva bene. Dietro di loro, ignorata, era rimasta Proxima Centauri, che era sì la stella più vicina al Sole, ma che era del tutto inutile per loro: non aveva senso perdere tempo con le nane rosse, quando hai davanti altre due stelle che possono ospitare pianeti abitabili. E una delle due, la stella Beta, lo ospitava davvero.

Quattro giorni all’arrivo. Aveva ripassato alla nausea il programma di atterraggio, lo aveva anche illustrato a tutti i passeggeri, tre giorni prima, per assicurarsi che lo conoscessero e lo ricordassero. Era servito anche a verificare che il morale fosse alto, cosa non certo sicura dopo quasi un mese di vita lì dentro, senza niente da fare. Ma il morale era alto, i coloni erano impazienti di arrivare e darsi da fare, per insediarsi sul nuovo mondo.

Tanto meglio; sarebbe stato più semplice affrontare i problemi successivi. O almeno, così sperava.

Intanto poteva respirare, perché almeno un problema era risolto: quello del viaggio. Non lo aveva vissuto nel modo giusto, forse, ma forse non esisteva neppure un modo giusto per viverlo, non per il primo uomo che si fosse ritrovato a comandare una nave di quelle dimensioni, carica di uomini, nel primo balzo interstellare della storia. Il primo che contasse, almeno, perché sì, d’accordo, ne erano già stati effettuati altri, non ultima la spedizione dei droni, ma quelli non avevano importanza. Era il passaggio di un grande gruppo di umani a contare, non le briciole.

C’erano riusciti. Avevano dimostrato che le stelle si potevano conquistare.

Mancava l’ultimo tratto, fino al pianeta, ma ormai era pura routine, un lavoro da tassista spaziale o poco più. La prova vera era stato il passaggio. Abbandonato sul sedile, il comandante Prasad tornò col pensiero a quel poco che sapeva.

Il passaggio! Così lo chiamava e così si era radicato nella mente di chi vi aveva che fare, ma come lui stesso aveva studiato, e come avevano cercato di spiegarli, non c’era alcun tipo di passaggio. Più che di un movimento concreto, si trattava di una specie di cambiamento nella prospettiva, come far ruotare un oggetto per osservarlo da un altro punto. O almeno, questo era l’esempio iniziale, poi ci si perdeva in strane teorie sull’universo olistico, sulla presenza della totalità in ogni sua parte e altre cose che parevano più che altro filosofia per schizzati o mistica di seconda mano. Niente che Prasad avesse mai capito davvero, ma non era importante: sapeva quanto bastava per comandare la nave, al resto avrebbero pensato gli specialisti di bordo. E il computer.

Per la prima volta da quando erano partiti, si scoprì a osservare lo schermo con un vago affetto, non con la lieve ostilità che provava all’inizio. Continuava a pensare che un uomo fosse più affidabile di una macchina, per quanto evoluta essa fosse, ma aveva anche accettato che, per molte cose, persino una macchina se la poteva cavare benissimo da sola, a patto di avere qualcuno pronto a intervenire.

La stella Beta si avvicinava, nelle inquadrature, e ormai anche il pianeta era visibile, da una parte. Ne avrebbero intercettato l’orbita entro quattro giorni e, a quel punto, si sarebbero parcheggiati nel suo campo gravitazionale, in perfetto equilibrio. E con quell’ultima manovra, anche il suo lavoro di comandante sarebbe finito, almeno per il prossimo anno.

E resterò quassù a guardarli, mentre loro scenderanno sul pianeta e costruiranno un insediamento. In parte li invidiava, ma in una parte molto più grande era contento di poter restare lì, nell’ambiente che conosceva e controllava. Avrebbe avuto compagnia, una squadra di soldati per ogni emergenza, e soprattutto una buona metà degli scienziati: quelli troppo preziosi, che non si potevano rischiare e che, a terra, non avrebbero avuto alcun lavoro da svolgere. Per il resto, sarebbe stato un semplice supervisore, col compito di dare consigli e ordini quando serviva, ascoltare le richieste dei coloni, sorridere e annuire. E attendere l’arrivo della seconda nave, che tra un anno circa avrebbe dato loro il cambio, trasportando un altro carico più grande di coloni. Poi, il ritorno a casa.

Sapeva anche come sarebbe continuata la storia, ma difficilmente lo avrebbe riguardato, in futuro. Il trasporto dei coloni sarebbe continuato con quel ritmo, almeno fino a che gli scienziati non avessero progettato un sistema di viaggio più veloce: le teorie che avevano reso possibile quel viaggio, infatti, sostenevano anche che il passaggio fosse possibile senza bisogno di allontanarsi dalle grandi masse, dunque prescindendo dai campi gravitazionali. La pratica, però, diceva che no, non era possibile, non con le attuali tecnologie, se si voleva arrivare nel punto giusto e con la forma giusta; così erano stati costretti ad allontanarsi dal Sole per una ventina di giorni, all’inizio, e adesso stavano sprecando altre due settimane per avvicinarsi al pianeta della stella Beta.

Pazienza!, pensò il comandante. Un giorno forse avrebbero trovato un sistema migliore, sì, ma per quel giorno lui sarebbe stato già in pensione, come minimo.

Con un sospiro, abbandonò le sue riflessioni inutili e tornò ai problemi concreti. I turni dello sbarco, i carichi da posizionare sulle scialuppe, l’ascensore da fissare per trasportare il grosso della stiva: i piani si succedevano l’uno all’altro sugli schermi, sotto gli occhi stanchi e annoiati del comandante. Ma era il suo ultimo vero compito e lo avrebbe eseguito alla perfezione.

E poi, che gli dèi proteggessero i coloni.

«Domani...»

«Già, di primo mattino» rispose Ghanshyam Sharma, girandosi verso il compagno, Saba Rajavel. Il corridoio era deserto, ma da ogni porta venivano rumori, frasi, agitazione. Clima da ultimo giorno di scuola, pensò, ma anche clima da ultimo giorno di vacanza, per certi versi, quando esci a visitare ancora una volta i luoghi in cui hai trascorso le ferie, in una passeggiata della memoria che alla fine ti condurrà in albergo, a preparare le valigie.

E in fondo era così anche per loro. Quel viaggio che pareva infinito, mentre si allontanavano a poco a poco dalla Terra, era giunto alla sua fine. Avevano attraversato le distanze enormi tra le stelle, si erano mossi in silenzio per settimane nello spazio e adesso erano lì. Il pianeta li aspettava.

«Mi sarebbe piaciuto vederlo, prima...» disse Saba.

Ghanshyam alzò le spalle. «Pazienza. Lo vedremo di sicuro quando scenderemo noi. E poi avremo tutto il resto della nostra vita da passarci.»

«Ma una finestra, almeno, o qualcosa del genere...»

«Non è una crociera. E poi una sola non sarebbe servita a molto. Avrebbe solo fatto litigare mille persone per un angolino da cui guardare fuori.»

Camminavano, in attesa della cena, e non era come le camminate precedenti. Se prima sembrava di essere in un ospedale, adesso sembrava di essere in un villaggio turistico, il che rendeva ancora più assurda e realistica l’immagine da fine vacanze. C’era gente che cantava, in cabina, e cabine dalla porta aperta, con piedi che spuntavano nel corridoio e che loro due dovevano aggirare e scavalcare. La disciplina era saltata e persino il comandante pareva averci rinunciato. Un carnevale, prima che il lavoro arrivasse, l’indomani. L’odore di incensi era forte.

Dormiremo in pochi, stanotte, pensò Ghanshyam.

«Mi sarebbe piaciuto scendere per primo» disse Saba, storcendo la bocca.

«Meglio di no. Ai primi toccherà la parte peggiore, coi depuratori e l’ascensore da montare. Meglio arrivare un paio di giorni dopo, come noi: dovremo solo pensare al nostro alloggio e poi a dare una mano coi magazzini e il carico da sistemare. Sarà molto più semplice, credimi.»

«Però scendere per primi, su un mondo nuovo...»

Ghanshyam sorrise. Lo poteva capire e doveva ammettere di essere rimasto un po’ deluso anche lui, davanti ai piani di lavoro. Ma era logico, in fondo. Col primo gruppo sarebbero scesi gli operai più adatti al compito, assieme a una squadra di soldati, come protezione. Tutti gli altri, quelli generici, sarebbero scesi dal secondo giorno in poi. Loro erano il terzo giorno: non si potevano lamentare.

Pradeep Anand sì, lui si era lamentato parecchio. Anche per questo erano usciti a fare un giro, loro due: non ne potevano più di sentire le sue grida di dolore contro l’ingiustizia patita. Voleva essere tra i primi, tra gli specialisti incaricati di montare l’ascensore spaziale, o almeno un depuratore. Si sarebbe forse accontentato anche di una toilette chimica, purché fosse coi primi, coi migliori. E invece no, era finito nella pancia del gruppo, assieme a umili manovali, che avrebbero solo montato alloggi prefabbricati e magazzini altrettanto prefabbricati, e che sarebbero entrati in azione quando il meglio era già passato, per raccattare gli avanzi.

«Sono un ingegnere, io, non un muratore!» aveva ringhiato più volte, da quando i turni erano stati annunciati. E che il suo ruolo fosse chiaro e definito fin dalla partenza, non contava nulla. Pradeep aveva continuato a sperare in uno sbaglio, o in un improvviso ravvedimento del comandante, che si sarebbe accorto dello scandalo e avrebbe, di conseguenza, riassegnato l’ingegnere Anand a un altro gruppo, dove le sue capacità potessero essere valorizzate come meritavano.

Niente di tutto ciò era successo. O forse sì, forse avevano scelto davvero il modo per valorizzare al meglio le sue capacità: nasconderle nel centro del gruppo, dove potevano causare meno danni.

«Come pensi che sarà il nuovo mondo?» chiese Saba, mentre aggiravano un paio di piedi, spuntati da una porta spalancata. Cantavano, là dentro, e qualcuno emise anche un rumore meno gradevole, che proveniva dal lato opposto del corpo. Allungarono il passo.

«Sarà tutto da scoprire, almeno per un po’. Ogni giorno troveremo qualcosa di nuovo e dovremo ricominciare da zero, come se fossimo appena nati. Dovremo imparare a riconoscere le piante, gli animali, le cose da fare e da non fare... Alcuni di noi dovranno anche occuparsi di cosa potrebbe essere commestibile, sul pianeta. Non ci annoieremo di sicuro, vedrai.»

«Ho guardato le immagini e le registrazioni, prima di partire» disse Saba. «Non assomiglia a casa. Cioè, alcune cose sì, i colori, insomma, e anche le forme di alcune piante, in effetti, potrebbero con un po’ di fantasia assomigliare, ma tutto il resto...»

Tutti le avevano viste, faceva parte dell’addestramento. E tutti avevano ricevuto le informazioni raccolte dai droni su piante e animali, o almeno su ciò che, per il momento, potevano definire piante e animali. Ci avrebbero pensato botanici e zoologi del loro gruppo, a trovare categorie migliori. «E l’ambiente non ti piace?» chiese Ghanshyam, guardando il compagno. «Mi pare un po’ tardi per pensarci, adesso. Dovevi dirlo prima di partire.»

«No, non è che non mi piace...» Saba pareva a disagio. «È solo che è tutto così diverso. Ci vorrà un po’ ad abituarmi, ecco. È come... non so, è come se l’acqua diventasse verde. Cioè, è sempre acqua e si beve, però è di un altro colore e ti devi abituare. Più o meno...»

Ghanshyam annuiva. «Sì, sì, capisco cosa intendi. Ci vorrà un po’ per tutti. È un mondo nuovo, non stiamo facendo un trasloco in un’altra città. Dovremo imparare, appunto, il nuovo colore dell’acqua e farcelo piacere. E se poi non ci piacerà, dovrà piacerci lo stesso.»

«Sì, lo so, però...»

Però è strano e non ti convince, pensò Ghanshyam. E sai una cosa? Non convince neanche me. Era vero. Il problema per lui non era la stranezza della vegetazione, o delle forme di vita animali che i droni avevano trovato. Non era la moltitudine di insetti e non era neppure il fatto di essere su un altro mondo, a quattro anni luce dalla Terra, e che qualunque cosa fosse successa a loro, nel bene o nel male, per l’intero anno si sarebbero dovuti arrangiare da soli, senza soccorsi o aiuti da casa. O meglio, tutto questo era parte del problema, ma non era il problema. Era un’aggiunta, instalalta sul corpo principale.

E qual era dunque il corpo principale?

Ghanshyam Sharma non lo sapeva. Era la missione nel suo complesso che non lo convinceva. C’era una logica nel mandare avanti un piccolo gruppo di coloni addestrati, per verificare sul campo se un mondo fosse abitabile dagli umani, oppure no. C’era anche una logica nel farli restare lì, da soli, per un certo intervallo di tempo, così da avere informazioni più precise e da poter testare tutte le varie stagioni, per avere un’idea diretta sulle differenze rispetto alla Terra. C’era una logica ulteriore nella scelta di persone addestrate, ma in un certo modo sacrificabili, come prima spedizione: perdere un migliaio di specialisti sarebbe stato un prezzo eccessivo, anche per il Chind. Perdere un migliaio di lavoratori buoni, ma non ottimi, sarebbe stato un prezzo modesto, quasi nullo.

Ma allora dov’era il problema?

Qualcosa che aveva detto quel suo amico, il soldato Gupta, circa una settimana prima. Noi siamo i semi del futuro, così aveva definito i membri della missione. I semi del futuro, che la Terra spargeva sul nuovo mondo, sperando che avrebbero messo radici. Ma in realtà non erano proprio semi, non era quella l’immagine giusta. In realtà erano... come dire...

«C’è qualche problema?»

La voce di Saba lo riportò al presente. «No, niente, stavo solo pensando. Forse sono un po’ stanco anch’io, con tutta questa agitazione» rispose Ghanshyam. Avevano continuato a camminare, mentre il suo cervello vagava altrove, e si stavano avvicinando alla loro cabina. Una delle poche silenziose, in apparenza. Probabilmente Pradeep aveva cercato di lamentarsi ancora, ma Jaya Balan non era la sponda giusta per le lamentele: assomigliava più a un muro di gomma, che rimbalzava via le parole, oppure una pietra in un torrente, contro cui l’acqua si separa. Una pietra in un torrente...

Quando Saba aprì la porta della cabina, gli altri due erano seduti a terra e giocavano a carte. Non un suono, oltre a quello della plastica sul metallo, quando qualcuno posava una carta.

«Bentornati» li accolse Jaya. «Volete unirvi anche voi? Mancano trenta minuti alla cena.»

Pradeep non si girò a guardarli. «Volentieri» rispose Ghanshyam, sedendosi. «Tanto, sarà una delle ultime partite del nostro viaggio. Domani si arriva.»

E il domani era arrivato.

Il comandante Arun Prasad aveva osservato l’equivalente di un’alba sugli schermi della sala, mentre la stella Beta si affacciava dietro la sagoma scura del pianeta. Il loro pianeta. Il computer li stava portando adesso sul punto esatto, che era stato studiato per il primo insediamento, un tratto di terra abbastanza vicino all’equatore, che avrebbe dovuto garantire un clima abbastanza stabile e caldo: in futuro avrebbero avuto tempo per assaggiare anche gli inverni del nuovo mondo, ma non era il caso di andarsi a cercare problemi fin dall’inizio.

Prasad controllò il dossier che si era portato dalla Terra e che aveva letto ormai mille volte. I droni non avevano individuato possibili minacce ambientali, in quella zona, né sembrava popolata da una o più forme di vita pericolose; c’era abbondanza di acqua dolce, il terreno era pianeggiante e non richiedeva interventi diretti dell’uomo, per installare i moduli abitativi. Molti insetti, ok, ma niente di grave. Luogo ideale, insomma.

Almeno sulla carta.

Le immagini della superficie che gli schermi gli restituivano, pian piano, sembravano confermarlo. Il mondo in sé poteva ricordare abbastanza la Terra, o almeno ciò che la Terra doveva essere stata qualche milione di anni prima. Molta vegetazione, praterie, rilievi di ridotte dimensioni, torrenti e fiumi in quantità, con alcuni laghi: ecco come appariva, a distanza, la regione in cui avrebbero posto il loro primo insediamento. Una specie di paradiso.

I naturalisti avranno da divertirsi!, pensò Prasad. Era vero e infatti li avrebbe spediti a terra quasi tutti. C’era innanzitutto da stabilire quali fossero i vegetali e quali gli animali, ammesso che quella suddivisione si potesse applicare; poi, c’era da stabilire come e se avrebbero potuto interagire con il nuovo arrivato, cioè l’uomo; infine, bisognava scoprire se le forme di vita vegetale provenienti dalla Terra si sarebbero potute adattare a un mondo alieno. Molte domande e non era certo che a tutte vi fosse una riposta, in tempi rapidi. La maggior parte delle informazioni le avrebbero dovute scoprire sul campo, un poco alla volta. E non a un prezzo da liquidazione.

Ci vorrà la terza ondata, prima di ottenere qualcosa, si disse il comandante Prasad. Ma il problema non gli apparteneva e lo avrebbero risolto altri; lui doveva solo occuparsi del suo equipaggio e dei suoi passeggeri. Era tempo che le scialuppe si preparassero alla discesa, col loro carico umano e con le attrezzature da installare sul posto. Chiamò Pande, il suo secondo, e lo spedì a controllare che al ponte inferiore tutto fosse pronto. Non voleva ritardi, né incidenti; soprattutto, non voleva brutte sorprese, nel suo momento di gloria.

Aveva guidato la prima nave di coloni su un altro mondo. La storia lo avrebbe accolto tra i propri eroi, come altri grandi esploratori e scopritori prima di lui. Se poi lo avessero ricordato anche come il comandante della prima colonia spaziale funzionante, tanto di guadagnato, ma non rientrava tra i suoi doveri, in senso stretto. Il suo dovere, in base agli ordini ricevuti, includeva lo sbarco dei mille coloni, l’attesa in orbita per un anno e infine il ritorno sulla Terra, dopo l’arrivo della nave che gli avrebbe dato il cambio. Arun Prasad era un uomo responsabile, legato ai propri doveri.

«Tutto è pronto, sul ponte inferiore» gli riportò Pande. «Il morale è molto alto. Sono impazienti di scendere sul pianeta e pronti a partire anche loro.»

Il comandante Prasad sorrise. Tanto meglio così. «Tra un’ora saremo arrivati. Controlla il carico delle scialuppe e assicurati che i coloni siano imbarcati secondo programma.»

«Sissignore!»

Prasad fu di nuovo solo. L’ultima ora fu la più dura, peggiore anche dell’attesa per il passaggio, ma fu breve. Il rettangolo su cui sarebbe sorta la colonia, ben servito dai fiumi e con vista sul mare, si disegnò nello spazio sotto la nave, oltre trentamila chilometri più in basso. Il tempo era sereno, la temperatura al suolo doveva essere di poco superiore ai venti gradi, secondo il computer. Prasad gli credeva, anche perché la cosa non lo avrebbe riguardato. Ancora qualche correzione automatica, per parcheggiarsi in un’orbita stazionaria attorno al pianeta, poi il suo lavoro diretto terminò.

Seguì tranquillo e con un blando sorriso la discesa della prima scialuppa, ancora legata alla Garuda da un invisibile cordone ombelicale, tanto sottile quanto solido: la base su cui avrebbero assemblato l’ascensore spaziale, per sveltire i lavori di scarico. Con distacco maggiore seguì l’atterraggio della scialuppa, il portello che si apriva e un uomo, il primo uomo, che posava il piede su quel mondo, un mondo nuovo e alieno. Doveva essere il tenente Chandra, o almeno questi erano stati i suoi ordini: gli altri passeggeri lo seguirono di lì a poco, accompagnati dai due soldati che aveva sbarcato con loro. Sembravano formiche, minuscoli e insignificanti puntini neri sul verde della pianura, visti da lì, dallo schermo nella sala comandi della nave. Il comandante sorrise divertito.

Mentre i passeggeri della prima scialuppa si occupavano di fissare al suolo il cavo, una seconda lì raggiunse, a poca distanza: nuovi uomini sbarcavano e andavano ad aiutare i compagni. Priorità assoluta per l’ascensore, così era stato stabilito, e loro obbedivano. Ecco, il cavo doveva essere stato fissato al suolo; adesso la Garuda e il pianeta erano legati, l’uno portava al guinzaglio l’altra. Anzi, si corresse Prasad, l’immagine non era giusta; piuttosto, gli ricordava un bambino che tiene in mano il filo di un pallone. Sì, così andava meglio, perché il bambino sarebbe rimasto lì per sempre, fissato alla terra, mentre il palloncino sarebbe voltato via, tra un anno. Il comandante si alzò, per recuperare la bottiglia che conservava nascosta tra i documenti personali. Tempo di brindare.

Sul pianeta, trentamila e più chilometri là in basso, anche le altre scialuppe erano scese e avevano sbarcato i propri passeggeri. Mani frenetiche ed emozionate le svuotavano dal loro carico, polmoni si gonfiavano dell’aria tiepida e pulita del pianeta, la prima aria non riciclata che respirassero da un mese, l’aria di un mondo che non era la Terra e che, da adesso in poi, sarebbe stata per sempre la loro nuova casa. C’era lavoro, c’era qualcosa che non fosse solo restare seduti in una cabina, poco più di un loculo, a guardarsi in faccia e attendere, trasportati come merce. Finalmente, c’era vita.

Fuori!

Nella scialuppa, le facce si alternavano davanti ai finestrini, a fissare il vuoto dello spazio. C’era lo spazio, c’erano le stelle, due soli, ma soprattutto c’era una terra, laggiù. Una terra che si avvicinava dal basso, mentre loro calavano dall’alto ad abbracciarla. Una terra e aria aperta.

«Il nostro mondo» sussurrò Saba Rajavel, perso nello spettacolo che aveva davanti agli occhi. Alla sua destra, Pradeep Anand guardò per un momento, con scarso interesse.

«Non molto diverso dal vecchio» disse.

Ancora non gli è passata, pensò Ghanshyam Sharma. Ancora offeso perché non lo hanno lasciato scendere col primo gruppo. Che testa...

Sfilavano accanto al cavo dell’ascensore spaziale, con cui altri operai scaricavano il materiale di cui avrebbero avuto bisogno a terra. E Pradeep sperava di essere anche lui tra i prescelti che lo avevano montato, il primo giorno, gli stessi prescelti che avevano già dormito per ben due notti sul pianeta. Sempre che avesse un qualche senso parlare di notte.

La stella Beta, attorno a cui orbitava quel mondo, era ben visibile nel cielo; altrettanto visibile era la stella Alfa, la compagna di Beta, più distante e più piccola, anche se non di molto. Si dovevano così aspettare un cielo con due soli, almeno secondo quanto avevano spiegato sulla Terra, e poteva forse essere un problema abituarsi all’idea. Soprattutto, sarebbe stato un problema ritrovarsi con diversi giorni senza notte, in periodi dell’anno che gli astronomi avevano calcolato, ma che Ghanshyam si era ormai dimenticato. Gli erano sembrate notizie irreali, dentro la nave.

Pazienza, tanto lo scoprirò tra poco, si disse. Anche per questo motivo la costruzione degli alloggi era una priorità: non si poteva sapere come avrebbe reagito il corpo umano a una situazione tanto anomala, né come avrebbe reagito la mente umana. Per sicurezza, era meglio preparare subito una casa in cui potersi rifugiare al buio. E la casa che sarebbe toccata loro era in parte lì, sulla scialuppa, in pratici contenitori da aprire e montare. Il resto li attendeva a terra, già scaricato dall’ascensore.

«Sarà molto interessante da studiare, questo ambiente» disse un tipo magrolino e sulla quarantina, con occhiali tondi, che viaggiava assieme al loro gruppo. Si era presentato, ma Ghanshyam non si ricordava molto bene il nome. Un cognome lungo e antiquato, qualcosa come Jagadananda, che in effetti poteva essere adatto a uno studioso come lui. Era un botanico, uno di quelli che si sarebbero dovuti occupare di studiare la vegetazione del pianeta e decidere quale fosse commestibile per gli uomini, nel caso ci fosse davvero qualcosa di commestibile. Ghanshyam ne dubitava.

«Immagino che per voi sarà un lavoro molto gratificante» disse Jaya Balan, con la calma e il sorriso che erano il suo segno caratteristico, almeno da quando gli altri lo avevano conosciuto.

«Beh, sì, gratificante» rispose il botanico. «E anche molto importante.»

«Senza dubbio. Immagino che i droni vi avranno già portato qualche informazione utile, prima della partenza, giusto?»

«Beh, sì, qualcosa lo abbiamo potuto vedere. È un mondo che può ospitare una vita di tipo terrestre, è chiaro, altrimenti non saremmo mai partiti. I campioni che ci sono arrivati mostravano una forma di sviluppo che, in effetti, potremmo davvero paragonare alle piante terrestri: possiedono clorofilla ed eseguono la fotosintesi, come si può capire anche solo osservando il colore verde, ma soprattutto la quantità di ossigeno nell’aria. Inoltre...»

Ghanshyam chiuse gli occhi, in un inutile tentativo di fuga dalla realtà. Non c’era spazio lì dentro, per sottrarsi alle dotte e interessanti spiegazioni dell’omino: l’unica via di uscita era scollegare per un poco il cervello, o almeno le orecchie, come sembravano fare sia Saba che Pradeep. Lui però non ci riusciva, così poté soltanto maledire Jaya, per aver stuzzicato il biologo che dorme.

«...e adesso avrò la possibilità unica di studiare un intero ecosistema alieno, che apparentemente si è sviluppato in una forma affine a quello terrestre, ma che nella sua struttura lascia vedere differenze sostanziali nello schema dei suoi elementi fondamentali. Provate solo a pensarci! Su questo pianeta l’evoluzione può essere partita da basi molto diverse rispetto a noi, eppure è arrivata a soluzioni che si possono considerare analoghe alle nostre, almeno per quanto riguarda alcune necessità. Esistono forme di vita vegetali che ricavano energia attraverso la fotosintesi, proprio come sulla Terra, e queste forme di vita sembrano occupare lo stesso spazio occupato dagli analoghi terrestri.»

Jaya Balan sorrideva e annuiva, accarezzandosi la barba sempre ben curata. Si era già pentito della sua folle domanda, poco ma sicuro, ma era troppo cortese per farlo capire o per fermarlo. E così se ne stava lì immobile, con la pazienza di un asceta, sotto la cascata gelida di parole del botanico.

Ghanshaym si avvicinò a un finestrino, per cogliere un altro sguardo del pianeta, sempre più vicino e sempre più grande. Sì, questo era vero, visto da lontano poteva assomigliare alla Terra, con le sue spirali bianche di nubi, i larghi oceani e fasce di terra, che componevano continenti a lui ignoti, ma che un giorno avrebbe imparato a conoscere, come i continenti del suo vecchio pianeta. Sempre che fosse sopravvissuto abbastanza a lungo, su quel nuovo mondo.

«Quanti dei vegetali che troveremo saranno commestibili?» chiese di colpo, interrompendo il lungo monologo del compagno di discesa. Jagadananda si girò verso di lui, lo sguardo perplesso, mentre una mano saliva ad aggiustarsi gli occhiali sul naso.

«Commestibili? Beh, come stavo spiegando al suo amico, è una cosa che potremo sapere per certo solo dopo il nostro arrivo sul pianeta. Forse alcuni dei colleghi che mi hanno preceduto, in questi due giorni, sono già arrivati a una risposta, ma io ancora non lo saprei dire. Il punto è che la chimica dei campioni in nostro possesso sembra essere compatibile con quella umana, almeno in gran parte, e questo significherebbe che quel tipo di vegetali è commestibile. Non posso certo pronunciarmi su elementi come il sapore dei singoli vegetali, certo, o eventuali problemi di digeribilità, che alcune specie potrebbero provocare, ma...»

Ghanshyam Sharma sospirò. Non c’era bisogno di ascoltare il resto, aveva già capito come sarebbe andata a finire. Non ne fu sorpreso. Sarebbe toccato a loro fare da cavie, per verificare se sul pianeta ci fossero forme di vita commestibili per l’uomo. Una prospettiva che non lo attirava molto.

«Dieci minuti all’atterraggio» annunciò il pilota della scialuppa.

Il botanico si azzittì, come se qualcuno da dietro lo avesse spento. Col volto di nuovo smorto, tornò a sedersi tranquillo e composto. Jaya si strinse nelle spalle, sorridendo, e presto lo imitò. Un attimo e tutti i venti occupanti della scialuppa erano seduti. La notizia aveva tolto ogni curiosità, perché non ci sarebbe stato più bisogno di essere curiosi.

Anche per loro, il nuovo mondo era a un passo.

Semi del futuro, pensò Ghanshyam Sharma, seduto contro la parete esterna del loro alloggio, mentre anche il secondo sole tramontava. La notte non sarebbe durata molto, li avevano avvertiti quelli che erano scesi prima di loro: meglio chiudere bene le imposte, se non si voleva essere svegliati troppo presto dalla luce esterna. Ma non se ne preoccupava, non ancora. Non aveva sonno.

L’aria aveva un odore strano, non spiacevole. Dal centro dell’accampamento giungevano ancora gli ultimi rumori della giornata, qualche ritardatario che era rimasto indietro coi moduli abitativi. C’era già chi li aiutava, non serviva che li raggiungesse anche lui. C’era sempre qualcuno che ti aiutava, lì. Il lavoro era un ritorno alla vita, dopo il mese di carcere sulla nave, e la stanchezza ti faceva sentire vivo, utile, non un peso morto da trasportare. Era così anche per lui. Si sentiva bene.

Più avanti, già avvolte dalle ombre, vedeva un gruppo di piante che sembravano felci, ma alte due o tre metri almeno; potevano essere parte del set di un film preistorico, per quel che ne sapeva lui, ma erano vere ed erano la vegetazione più diffusa, nella loro zona. Così aveva detto Jagadananda, che si era sistemato nel loro alloggio, e Ghanshyam era disposto a credergli sulla fiducia, anche perché non gli interessava poi molto. Pensava ad altro.

L’aria era tiepida. Avevano sudato parecchio, durante il lavoro, ma l’acqua non mancava e si erano potuti regalare una vera doccia, per la prima volta dalla loro partenza. Domani avrebbero installato un terzo depuratore, per prepararsi ai nuovi coloni in arrivo, ma l’acqua non sarebbe mai divenuta un problema. Era identica a quella terrestre, dopo averla filtrata per eliminare ogni eventuale ospite indesiderato, come aveva specificato un ingegnere, sorridendo. Pradeep Anand non aveva sorriso.

Una contrazione allo stomaco spezzò i ricordi. Ghanshyam strinse le labbra, alzò lo sguardo al cielo, respirò a fondo e cercò di trattenere al proprio posto le viscere. Ci riuscì, crisi passata. Dovevano essere quei frutti che avevano aggiunto al menu, a cena. È per abituarvi alla cucina locale, aveva detto il cuoco. Non sono velenosi, anzi: sono più nutrienti della frutta terrestre, aveva aggiunto un botanico. Le riserve alimentari non sono infinite, quindi sarà meglio che impariamo a mangiare ciò che troviamo su questo pianeta, aveva sottolineato un tenente e la discussione era morta lì. Saba Rajavel aveva fatto una faccia strana, infelice, poi aveva continuato a mangiare. Bravo ragazzo.

I frutti non avevano un buon sapore, ma lo stomaco li aveva accettati, brontolando. Ci vuole un po’, ma poi non li senti più, aveva detto sottovoce un loro compagno, arrivato la mattina del secondo giorno. E ancora non era stato male nessuno, quindi il cibo non era velenoso. Era solo lento da digerire, forse anche perché li ingoiavano quasi interi, per togliersi quel gusto dalla bocca.

Impareremo, si disse Ghanshyam. E se non impareremo, pazienza.

C’erano insetti, su quel mondo, e non erano pochi. Si sentivano ronzare, nell’aria e nell’erba, e ogni tanto si vedeva passare rapida una macchiolina scura, che presto si perdeva allo sguardo. Ma ancora nessuna puntura, né un contatto diretto. «Sono in fase di studio» aveva spiegato un entomologo, in mensa. «Stanno cercando di capire cosa siamo, se siamo pericolosi e soprattutto se siamo appetibili. Al momento ci vedono come un enigma, una novità che è apparsa sul loro mondo e ha sconvolto la routine a cui erano abituati. Ma presto ci inquadreranno e allora potremo capire qualcosa di più sul funzionamento del loro ecosistema.» In altri termini, si dovevano aspettare i primi morsi o le prime punture, per capire che tipo di insetti fossero e quanto fossero nocivi. Ottimo.

Ghanshyam sorrise amaro. Neppure gli animali si erano fatti vedere, finora, eppure i droni avevano localizzato diversi esemplari, in zona, e alcuni li avevano catturati, per analizzarli. Ma i droni erano appunto droni, macchine: non avevano un odore, come l’uomo, e non erano viventi, come l’uomo. Ammesso che gli animali di quel mondo seguissero uno schema comportamentale affine ai colleghi terrestri, i droni non avevano rappresentato un invasore vero e proprio, non più di quanto potrebbe esserlo un sasso, o un cestino dell’immondizia.

L’uomo sì. L’uomo era l’alieno, la creatura venuta da fuori, che sconvolgeva il mondo a cui erano abituati. Ci avrebbero messo molto più tempo degli insetti ad accettare la presenza degli invasori.

«Mediti in solitudine?»

Jaya Balan si stava avvicinando, col suo passo tranquillo. Si sedette accanto a Ghanshyam, sull’erba verde e morbida che ricordava così tanto quella terrestre. L’ultimo spicchio di sole svaniva dietro un orizzonte frastagliato di vegetazione.

«Cercavo di entrare in comunione col nuovo mondo» rispose Ghanshyam, sorridendo. «Dobbiamo diventare buoni amici, dopotutto.»

Sotto la barba, il sorriso eterno di Jaya si spense. «Ci ho provato anch’io,» disse, «ma non è andata molto bene. È un buon mondo, ma non è un mondo per noi. Potrà diventarlo, ma non lo è.»

Ghanshyam studiò a lungo l’amico, nella penombra. Se lui aveva scherzato, Jaya invece sembrava serio. Non ne fu sorpreso. «Cosa intendi dire?» gli chiese.

«Dovremo lottare, per mettere le radici qui. Il mondo è fertile, ma è fertile per la sua vita. La nostra è l’intruso che viene da fuori, è la mano sul castello di sabbia, che il mondo sta costruendo. Resterà la mano, ma il castello di sabbia si distruggerà.»

Era sempre difficile spremere un senso dalle sue metafore, quando le usava. «In pratica, dovremo distruggere l’ecosistema del mondo, per impiantare il nostro?»

Jaya Balan si strinse nelle spalle. «Abbiamo già cominciato. Questo mondo ha una sua storia e sta seguendo una sua strada di evoluzione. Forse un giorno avrebbe prodotto esseri come noi, forse li ha già prodotti, ma adesso il suo filo si spezzerà. Una nuova specie dominante è arrivata da fuori e si impadronirà di tutto. E il cammino che questo mondo ha già percorso diventerà inutile. Certo, può sempre succedere che qualcosa ci fermi, come una epidemia, una intossicazione di qualche tipo, ma la strada è tracciata e la strada è diversa dal sentiero originale. La deviazione non svanirà.»

Da qualche parte nel buio giungeva un suono, che ricordava i grilli terresti. Era più melodico, non la pura ripetizione dello stesso rumore. La sera aveva un odore strano, ma non spiacevole. Le voci che si levavano dal loro accampamento si attenuavano, vinte forse dalla stanchezza e dal sonno. Si stava bene, in un venticello tiepido e gentile.

«I semi del futuro» disse Ghanshyam, parlando all’aria.

«Come?» Jaya si girò a guardarlo, la testa inclinata su un lato.

«Una espressione di Gupta, quel soldato che avevo conosciuto a bordo. Dovrebbe sbarcare domani, nel pomeriggio, credo.»

«Sì, quello con cui parlavi spesso, nella sala. Immagino che i semi del futuro saremmo noi, quindi.»

«Già, è così che ci vede, Gupta. I semi che la Terra ha sparso nella galassia, per fecondare gli altri pianeti e portare ovunque la sua civiltà. Ammesso che ne abbia una. E immagino anche che questa sia la versione ufficiale, per pubblicizzare la nostra politica spaziale. Potrebbe piacere. Suona bene, è orecchiabile. Ti prende.»

«Oh, piacerà, non ho dubbi. Piacerà soprattutto perché è un falso.»

Jaya si alzò, distendendo la schiena, gli occhi fissi all’orizzonte dove il sole era svanito. Ghanshyam si alzò a propria volta, guardando incerto il compagno. Non ricordava di averlo mai sentito così, ma era solo da un anno circa che si conoscevano e solo da poco più di un mese che passavano assieme quasi tutto il tempo. Ognuno di loro aveva facce che non aveva mai mostrato agli altri. Di tanto in tanto, una di quelle facce poteva emergere.

«Hanno deciso che questo mondo dovrà essere nostro,» continuò Jaya, «e così sarà. Arriveremo una ondata dopo l’altra, coloni raccolti ovunque nel nostro paese. Siamo miliardi, laggiù, e siamo quasi tutti spendibili. Il mondo ci respingerà, ma noi continueremo, come sempre abbiamo fatto. Ondate, su ondate, su ondate. Alla fine vinceremo, più per il numero che per altro. Alla fine, anche il muro più solido crolla, se continui a martellarlo. È la classica goccia che scava la roccia.»

«Più o meno quello che pensavo anch’io» disse Ghanshyam. «Noi siamo le fondamenta e altri poi costruiranno sopra di noi.»

«In parte è così, ma non sai quanto sia letterale la tua immagine. Come in una guerra, noi siamo la prima linea, che si sacrificherà per indicare agli altri gli armamenti del nemico, i suoi punti deboli e tutto il resto. Non credo che sopravviveranno in molti, tra noi, neanche fino all’arrivo della seconda nave, tra un anno. Non siamo semi, non noi. Noi siamo soltanto i proiettili dell’umanità.»

Jaya lo fissò, come a voler stampare nella propria mente il volto dell’amico. «Ma adesso è meglio ritornare con gli altri» disse, e si incamminò verso l’edificio comune, da cui venivano voci.

Sì fermò ancora pochi metri dopo, voltandosi come per un ultimo pensiero. «A proposito,» disse «Il comandante ha deciso il nome del pianeta. Prova a indovinare.»

Ghanshyam alzò una mano. «Passo. Gli indovinelli non mi piacciono. Dimmelo tu, tanto sarà uno dei soliti nomi idioti.»

Jaya sorrise. «Si chiamerà Svarga, come il paradiso vedico. E come recitava l’ingiunzione vedica, svarga-kamo yajeta: “se vuoi attingere lo Svaga, devi sacrificare”. Piuttosto ironico, non trovi?» Con un cenno del capo, ripartì verso l’accampamento.

Ghanshyam Sharma rimase solo, coi suoi pensieri e le sue riflessioni. Pensava a ciò che lo aveva portato lì, allo scopo che aveva inseguito sul pianeta attorno a un’altra stella, a quattro anni luce dal suo sole natale. Ed era uno scopo stupido, uno scopo di cui si vergognava. La sua famiglia non era ricca, questo no, ma non era neppure povera. Apparteneva al ceto medio di Varanasi, la città dove era nato e aveva speso tutta la sua vita precedente; là aveva studiato e là aveva trovato un lavoro, un buon lavoro, un lavoro onesto. Ma aveva abbandonato tutto, per quell’avventura.

Sognava le stelle, sì, le aveva sognate fin da quando era bambino, appassionato di astronomia e con la testa piena di fantasie assurde. Poi era cresciuto e le fantasie avevano perso colore, si erano fatte sottili, trasparenti, fantasmi che a malapena si scorgevano sul fondo della sua mente. Ma non voleva perderle, non voleva che morissero così. Per questo si era offerto volontario, nonostante il litigio col padre e le lacrime della madre: perché voleva salvare quelle fantasie, renderle reali, concrete.

Ed ecco cosa aveva concluso. Non sarebbe diventato un seme terrestre, da cui un giorno una nuova civiltà potesse germogliare, ma un proiettile della Terra. Non più un uomo, ma soltanto una delle munizioni, senza nome e senza volto, che la Terra avrebbe sparato a ripetizione, contro il cielo, contro quel pianeta, fino a che non lo avesse sconfitto. Fino a che non avessero conquistato Svarga, il loro paradiso di domani.

Se vuoi attingere lo Svarga, devi sacrificare. E loro sarebbero stati le vittime sacrificali, immolate dalla Terra per attingere lo Svarga. Vittime, ma anche armi, allo stesso tempo. Proiettili.

Erano i proiettili del futuro.

di Adriano Marchetti