Adriano - racconti e altro

Al giusto prezzo

Quando Eugenio Borsi si svegliò, la sua camera era un congelatore. E il bagno era un congelatore. E la sala era un congelatore. E la cucina, beh, quella la lascio indovinare a voi: avete tre possibilità e le prime due non valgono. In breve, il suo appartamento era un congelatore. Una cella frigorifera. E lui, lui Eugenio, era un quarto di bue appeso al gancio.

Non che ci fosse granché di bovino in lui, sia chiaro. Ovino, forse, ma la sola cosa che Eugenio e un bue potevano avere in comune era lo sguardo, e anche quello va preso tra parentesi e in senso molto metaforico. Ma il punto non è la relazione che può o non può esistere tra lui e vari componenti del mondo animale che spesso finiscono a tranci nel nostro frigo. Il punto è che il suo appartamento era un frigo. Era una ghiacciaia. O, per usare un termine tecnico, faceva un freddo cagone.

Non è bello emergere da due trapunte e ritrovarsi al centro dell’Antartide. È il genere di esperienza che tende a guastare la tua giornata, prima ancora che sia cominciata davvero. E quella di Eugenio era già guasta. Come la sua caldaia, del resto. Causa prima del suddetto congelamento.

Avrebbe dovuto chiamare l’idraulico, lo sapeva. Lo avrebbe dovuto chiamare già da almeno un paio di settimane, in effetti. Facciamo anche da un mese. O da quasi un anno, se vogliamo esagerare. Dal marzo scorso, quando la caldaia aveva smesso di dare segni di vita. In parte. La parte che, quando è ormai marzo, ti preoccupa di meno. Il peggio è passato e davanti a te hai mesi e mesi di caldo. Afa.

Ci penseremo in autunno, giusto?

Solo che Eugenio Borsi non ci aveva pensato. O meglio, ci aveva anche pensato, ma poi aveva visto il panorama desolato del suo conto, aveva considerato che gli idraulici, per quanto utili, hanno quel brutto vizio di voler essere pagati, aveva considerato quanto potesse costare far riparare la caldaia e aveva deciso che, dopotutto, gli inverni non erano più così terribili e avrebbe potuto affrontarne un paio anche senza il riscaldamento. L’importante era che l’acqua calda ci fosse e quella c’era.

In mancanza di riscaldamento domestico, si era affidato al riscaldamento globale, che in estate è una dannazione, ma in inverno poteva anche tornare comodo, giusto?

Sbagliato.

O meglio, in linea di principio il ragionamento poteva anche essere corretto, almeno in astratto e sul piano puramente speculativo. All’interno della realtà, invece, il ragionamento si dimostrò un film di fantozziana memoria. Perché sì, d’accordo, la temperatura media continuava a salire, ma non era un discorso così lineare. Senza fare i meteorologi da bar, si può dire che l’aumento della temperatura manda a puttane tutti gli schemi climatici a cui eri abituato per le varie stagioni. A volte capita che ti arrivi nei denti una ondata di supercaldo dai tropici. A volte di superfreddo dai poli. E variazioni sul tema, tante quante ne preferite. Insomma, una fregatura in qualunque caso.

Niente di tutto questo interessava a Eugenio. Il suo problema, al momento, era l’ondata di gelo che gli era arrivata nei denti, la neve in strada, il ghiaccio sulle finestre (sul lato interno) e la giacca a vento da indossare anche in casa. Con la cuffia. E i guanti. E due paia di calze di lana. E, ma questo va da sé, i termosifoni morti.

Che poi, diciamola tutta, anche coi termosifoni accesi non era mai stato proprio questo grande locus amoenus, il suo appartamento. Era abitabile, d’accordo, e non serviva la giacca, ma abiti pesanti sì e lo yogurt probabilmente si sarebbe conservato bene anche fuori dal frigo. Per motivi a lui ignoti, era sempre bollente in estate e gelida in inverno, quella casa: interno ed esterno cambiava poco. Non ti pioveva in testa e il vento non lo sentivi (non troppo), ma per il resto erano quasi uguali.

Il che, secondo il modesto parere di Eugenio, non aveva senso.

«Dimmi la temperatura esterna,» ordinò all’assistente domestico.

«Un grado sotto lo zero,» gli rispose una voce femminile e artificiale.

«Dimmi la temperatura interna.»

«Cinque gradi.»

Eugenio Borsi invocò una presunta divinità dalle fattezze suine. Le pareti della casa gli garantivano un bonus di circa sei gradi rispetto all’esterno. Fantastico. E adesso magari qualcuno si aspettava da lui che aprisse la finestra per far cambiare aria, certo. La misera quantità di calore corporeo dispersa nell’ambiente era forse la sola cosa che lo mantenesse sopra lo zero. Sostituirla coi gas e le polveri cancerogene della città? Neanche morto.

Il che, forse, poteva anche succedere, a cambiare troppo l’aria.

Ma non avrebbe chiamato l’idraulico. Non se lo poteva permettere, se voleva mangiare. E se poi la caldaia non si poteva riparare ed era necessario sostituirla, beh, altro che saltare pasti: sarebbe stato più rapido e indolore un salto dalla finestra. Abitava al quinto piano, dopotutto.

E comunque era gennaio, l’inverno era quasi finito. Giusto un mese. Un mese e mezzo al massimo. Lo sanno tutti che a marzo fa già caldo a sufficienza, no? Bastava crederci davvero, poi la volontà smuove le montagne, non ci sono più le mezze stagioni e si stava meglio quando si stava peggio, il che nel suo caso corrispondeva all’estate. Quando l’appartamento era un bagno turco.

Non c’era un modo per assorbire il calore estivo e poi liberarlo in inverno? Possibile che nessuno lo avesse ancora inventato? Cosa aspettavano a farlo? Sarebbe stata la sua salvezza! Qualcosa tipo un climatizzatore, che però immagazzina il caldo invece di spararlo all’esterno. Te lo tiene in caldo per l’inverno, quando ti serve davvero. Eh? Perché non me lo inventate? Perché non vi date una mossa?

Eugenio sospirò. Quello sì che sarebbe stato utile, invece di perdere tempo con automobili guidate dai server di una multinazionale, citofoni che spiano i passanti, porte che si aprono se le guardi male e chissà quali altre scemenze dannose. Ma no, nessuno pensava ai poveri disgraziati costretti a vite orrende in appartamenti che avevano sempre il clima sbagliato. Non era giusto.

Si preparò un tè che non aveva bisogno di essere raffreddato, perché lo faceva da solo nel giro di un paio di minuti. Sgranocchiò biscotti, cercando almeno di riempirsi di calorie se proprio non poteva stare al caldo. Accese una candela senza dire buonasera, tese le mani verso la miserabile fiammella, che magari poteva anche produrre un poco di calore se ci credevi davvero, e cercò di ignorare ogni evidenza ricevuta dai sensi. Non faceva freddo. Il freddo non esisteva. Era solo uno stato mentale.

Mezz’ora dopo Eugenio Borsi non ne poteva più. Stato mentale del cazzo. Faceva freddo, faceva il più classico dei freddi cagoni e avrebbe venduto la madre a un nano per avere il riscaldamento. Solo che non c’erano nani nei paraggi e probabilmente non avrebbero voluto comprare sua madre. E non aveva neppure una madre da vendere, in effetti. O meglio, forse ne era rimasto ancora un po’, ma prima l’avrebbe dovuta disseppellire, il che complicava un poco le cose.

Merda.

Giusto per passare il tempo, e perché non si poteva mai dire, Eugenio aprì la app della banca e diede l’ennesima occhiata allo stato del suo conto. Un requiem in re minore. Sospirò.

«Dimmi la tariffa media per la riparazione di una caldaia,» ordinò all’assistente domestico.

«Specificare il modello della caldaia.»

Eugenio violò il secondo comandamento.

«Modello non riconosciuto.»

«Non era il modello! Era una... lasciamo perdere. Non lo so, diciamo un modello qualunque. Fammi una media. Tariffa media per riparazione media di una caldaia media.»

Dopo una breve attesa, l’assistente domestico gli recitò una tariffa che avrebbe costretto Eugenio a un ricovero d’urgenza per attacco cardiaco, se mai l’avesse letta su una fattura di un idraulico. Se gli idraulici rilasciavano fatture, cosa che lui non sapeva ma che gli sembrava poco probabile.

Niente da fare. Vivere al freddo poteva essere brutto, ma era comunque una certa forma di vita. Una spesa di quel livello gli avrebbe precluso qualunque forma di vita superiore al barbonaggio. Meglio tenersi il freddo, per adesso, e aspettare tempi migliori.

«Venderei un rene per un riscaldamento che funzioni,» borbottò, mentre tornava a letto a seppellirsi nelle trapunte. Pessima giornata. Non c’era proprio niente di meglio da fare. E maledetto anche tutto lo smart working del mondo, che gli negava la possibilità di scaldarsi almeno in un ufficio e che gli rendeva una miseria. Come potevano pagarti ancora meno di prima, se lavoravi da casa tua e quasi ventiquattr’ore su ventiquattro? La sua carissima azienda poteva: chiedere al suo conto corrente per una conferma. Non superava più le tre cifre, ormai. Miseria ladra.

Arrivarono tre giorni dopo e furono una sorpresa. Eugenio sedeva al computer, imbacuccato come il più triste degli escursionisti estremi. Doveva pensare al lavoro, a dati da analizzare per fingere alla meglio che ci fosse qualcosa di buono da ricavarne. Non ci pensava granché. Al centro della mente conscia c’era il freddo, che brindava ilare assieme a svariate maledizioni rivolte a tutti gli idraulici del mondo, che avevano tariffe così alte. Non un bel quadro di vita domestica, ma il peggio doveva ancora arrivare. O meglio, era appena arrivato, ma lo sventurato non lo sapeva ancora.

L’assistente domestico li fece entrare ed Eugenio se ne accorse solo quando sentì dei passi dietro di lui, in avvicinamento. Più passi. Troppi passi, per un appartamento dove viveva una persona sola, in ciabatte. Che gli scarafaggi avessero cominciato a usare gli scarponi? Si girò.

Non erano scarafaggi, ma persone. «Il signor Eugenio Borsi?» chiese il primo intruso, un tizio sulla cinquantina, con leggera pancetta, capelli brizzolati e faccia da schiaffi.

«Sì, sono io, ma voi chi siete?» rispose alzandosi e fingendo di appiattirsi i capelli. Era consapevole di non avere usato il deodorante da almeno una settimana. Dal suo ultimo viaggio al supermercato e all’esterno, in effetti. E anche il resto dell’abbigliamento aveva visto anni migliori, per dirla tutta.

«Siamo qui per il suo ordine. Mentre noi ci occuperemo del pagamento, i miei colleghi penseranno a consegna e installazione. Tutto incluso nel prezzo, non si preoccupi. Offerta molto generosa.»

«Consegna di cosa, scusate?»

L’intruso con la faccia da schiaffi sembrò perplesso. «Ma, come di cosa? Non si ricorda neppure lei quello che ci ha ordinato? Abbiamo qui il contratto, controlli pure.»

Eugenio non ricordava di avere ordinato alcunché, ma era un problema secondario. Il principale era il pagamento. Loro si sarebbero occupati del pagamento. Non prometteva bene. Soprattutto per chi, come lui, aveva ben poco con cui pagare.

«Credo proprio di dover controllare,» borbottò.

L’intruso gli tese una manciata di fogli. Eugenio li guardò. Li sfogliò. Li lesse. Li guardò di nuovo. Li sfogliò e li rilesse, nel caso fosse cambiato qualcosa nel corso degli ultimi secondi. Non si poteva mai dire. Ma non era cambiato. Li restituì all’intruso.

«Non capisco,» disse poi. «Quando lo avrei ordinato?»

L’intruso lo fissò. «Quando ha dato l’ordine al suo assistente domestico. Lo vedo da qui. Modello venduto dalla nostra società. Lei gli ordina cosa fare e lui lo fa a nome suo. Funziona così. O ancora non se n’era accorto? Mi dica, siamo qui per aiutarla. Nei limiti del possibile. Umanamente.»

«Ma... cioè, sì, d’accordo, lo avevo detto, ma era solo, insomma, voglio dire, parlavo da solo, era un po’ come quando, ecco, uno dice una cosa così e, beh...»

«Lo ha detto mentre era in corso un dialogo col suo assistente domestico e l’argomento era questo, è vero? Abbiamo qui anche la trascrizione, è inutile che ci faccia perdere tempo. Le ricordo che siamo qui per lei, su sua richiesta e per farle un favore. Siamo già pronti con l’installazione, i miei colleghi se ne occuperanno mentre noi completiamo il pagamento. E, se lo lasci dire,» aggiunse abbassando la voce, «non intendo essere scortese, ma ne ha davvero bisogno, sa? Si gela, qui dentro.»

Eugenio non lo poteva negare, ma il resto gli sembrava un poco, come dire, esagerato. «Vede, è solo che io non mi aspettavo proprio questo. Come ho cercato di spiegarle, io lo avevo detto...»

L’intruso con la faccia da schiaffi si girò e fece un cenno a qualcun altro, che si avvicinò subito. Era un tizio piuttosto muscoloso, abbastanza giovane, con un’aria che poteva essere da infermiere, ma di quelli che lavorano con pazienti piuttosto irrequieti, in stanze dalle pareti imbottite, senza spigoli e senza oggetti taglienti. Non in punti che un paziente possa raggiungere, quantomeno.

«Che succede?» disse Eugenio, sforzandosi di non farsi prendere dal panico.

«Non si preoccupi, è tutto regolare. Come da contratto, che il suo assistente ha siglato per lei con la sua autorizzazione. Implicita ed esplicita, le ricordo. Trascrizione del suo ordine, vede?» E agitò un foglio in aria. «Perfettamente in linea. Questione di un attimo e poi si potrà godere tutto il caldo che vuole. E di cui ha bisogno, perché, le ripeto, qui dentro si gela. Guardi che lavoro, esce persino una nuvoletta quando parliamo! No, no, non ne può fare a meno.»

«Sì, ma, insomma, sto cercando di spiegarle che...»

Fu allora che lo pseudoinfermiere lo afferrò e gli iniettò qualcosa in uno dei pochi punti scoperti del corpo di Eugenio.

«Ma, ehi, insomma!»

«Solo per sveltire la pratica, non si preoccupi,» spiegò il tizio con la faccia da schiaffi. «Una piccola preanestesia, giusto per prepararla. Non possiamo aspettare i suoi comodi, sa? Abbiamo clienti.»

Piccola o non piccola, Eugenio Borsi si sentiva vagamente vago. Era consapevole che qualcuno gli aveva afferrato un braccio e lo stava conducendo da qualche altra parte, ma non era importante, era qualcosa che stava succedendo a un altro. Sorrise e cercò di salutare con la manina, mentre altri due portavano uno scatolone nel suo appartamento. C’era un marchio che sembrava un ghigno diabolico su un lato della scatola. E sulla manica dei tizi che trasportavano il pacco. Eugenio sapeva che una parte di lui lo conosceva e lo riconosceva, ma non era importante. Sorrise di nuovo.

«Vede? Stiamo già procedendo con l’installazione. Siamo efficienti, eh? E tra un attimo, grazie a lei ci sarà un altro cliente soddisfatto. È il nostro lavoro, soddisfare i clienti.»

Eugenio annuì, mentre lo pseudoinfermiere scostava alcuni strati di vestiti per iniettargli altra roba. Sentì che lo conducevano verso la porta, poi non sentì più nulla. Buio.

Quando tornò al mondo dei vivi e dei consci, Eugenio Borsi si ritrovò nel suo letto. Aveva male alla testa, il genere di dolore intontito che puoi provare dopo una robusta sbevazzata mista. Aveva anche un dolore molto più preciso al fianco destro, ma non sembrava così importante. Era lontano, tenue.

Si sentiva anche sudato. E assetato. Strano.

Si alzò con cautela, scostando le trapunte come se potessero esplodere in ogni momento. Non c’era freddo. Le trapunte non esplosero, ma le trapunte esplodono di rado per cui era un dettaglio del tutto secondario ed Eugenio lo ignorò. Il caldo era un’altra storia. Non lo potevi ignorare, non quello. Era qualcosa che nel suo appartamento si poteva trovare solo in estate. E in tarda primavera. E sì, inizio autunno, ok, ma il punto era mai in inverno. Pure, adesso faceva caldo.

«Dimmi la temperatura interna,» ordinò a bassa voce.

«Ventisette gradi,» rispose la voce femminile e artificiale dell’assistente domestico.

«Dimmi la data.»

«Ventidue gennaio.»

Ventisette gradi il ventidue di gennaio. Pazzesco! Non ricordava di avere mai neppure sognato che in casa sua ci potesse essere una temperatura così alta, non in quella stagione. E adesso c’era.

Eugenio si massaggiò con cautela il fianco fasciato. Cominciava a fargli un poco più male, o forse si stava solo facendo più personale. Il prezzo era stato alto, innegabile, e avrebbe preferito di molto non averlo dovuto pagare, però c’era anche un aspetto positivo: non aveva pagato sul serio. Non coi soldi. A pensarci bene, di fatto non lo aveva pagato proprio. Aveva ottenuto qualcosa che gli sarebbe stato molto utile, in cambio di qualcosa che, ok, era utile anche quello, ma lo era in una maniera del tutto diversa. Astratta. Ideale. Non così tangibile. Non davvero reale. E poi ne aveva due: gli restava il secondo e non si sarebbe neppure accorto della differenza, sul lungo termine.

E l’aspetto più positivo di tutti era che adesso il problema del freddo era risolto. Eugenio sorrise.

Quali altri problemi avrebbe potuto risolvere con gli altri pezzi doppi del suo corpo?

di Adriano Marchetti