Adriano - racconti e altro

Gli azzardi del viaggio

Aulo Clodio Liberato era un ragazzo felice. Per un dato valore di felicità, se non altro. Aveva da poco lasciato la propria casa, in un paesino abbarbicato sull’appennino dietro a Velleia, per cercare fortuna nella Grande Città, e il mondo si spalancava davanti ai suoi occhi, pieno di promesse e, cosa decisamente migliore, pieno di ricchezze. Attendevano soltanto qualcuno che allungasse la mano, ad afferrarle, e lui era pronto. Era sempre pronto. La fortuna gli avrebbe sorriso di sicuro.

La Grande Città era LA Grande Città e pronunciarne il nome sarebbe stato inutile: esisteva forse un solo essere umano che non la conoscesse? Impossibile! Meglio ancora, impensabile. Dall’Oceano fino alle lontane terre dell’India, dalle selve germaniche ai deserti africani, chiunque conosceva il nome della città eterna, chiunque aveva visto sventolare le sue aquile, chiunque tremava, quando il sole si rifletteva sulle armi dei legionari. E quella città, adesso, avrebbe spalancato le porte per lui, per il grande genio che l’avrebbe sconvolta, conquistata, dominata. Il genio che rispondeva al nome di Aulo Clodio Liberato, quando si sentiva chiamare.

Genio incompreso, d’accordo. Genio sottovalutato, diciamolo pure. Genio che, nel suo villaggio di pecorai e greggi, era rimasto a languire nell’anonimato, senza poter sfruttare le mille e mille doti, che era certo di possedere. Ma adesso, adesso che si era finalmente liberato, adesso la sua vera vita sarebbe cominciata. Era la grande occasione, per dimostrare al mondo il vero valore di Aulo Clodio Liberato, qualunque esso fosse, e lui non l’avrebbe mai potuta perdere. Ciò che era successo prima, invece... beh, non aveva più importanza. Era successo prima, no? E il prima non contava più, non esisteva più. Il prima era prima e adesso è adesso.

Il prima in questione (che però adesso non esisteva più) era una storia vecchia di due settimane, di quando aveva tentato e fallito la carriera di pastore. Brutta carriera, in effetti, miserabile carriera, ed era solo felice di aver fallito in quel ruolo. Niente contro i pastori, ovvio, fantastiche persone, il sale della terra, professione solida per gente solida, senza grilli per la testa, ma... non era un lavoro per lui. Lo aveva sempre saputo, in fondo, ed era stato pressoché costretto dal padre ad arruolarsi (sì, dal suo punto di vista, era un arruolamento nella più fetida legione della terra, quella delle pecore) come pastore, apprendista pastore.

E aveva fallito. Miseramente.

Gli avevano affidato una ventina di pecore da sorvegliare, a lui e a un altro apprendista, per testarli e verificare se, alla fine dell’addestramento, avessero imparato qualcosa. Aulo aveva imparato tutto, a cominciare da come perdere una pecora, addormentandosi durante il proprio turno. Un disastro, per un apprendista pastore, ed era stato solo merito del suo collega, Lucio Fauno, se il disastro non era diventato tragedia. Lucio aveva ritrovato la pecora, superato la prova ed era diventato così un pastore a tutti gli effetti. Aulo era stato spronato verso altre, più appropriate attività lavorative, con una pedata nel sedere e un insulto. Nessuno si sarebbe mai sognato di assumere un incompetente come lui: gli avrebbe fatto perdere tutto il gregge nel giro di tre giorni, a essere generosi.

Non era stato un confronto corretto, a dire il vero: Aulo era un umano, Lucio Fauno era un fauno, e tutti sapevano quanto fossero bravi i fauni a controllare il bestiame. Erano stati patroni e protettori della pastorizia, prima di entrare nel mondo reale, per Ercole! Ma Aulo Clodio Liberato non si era lamentato e aveva accettato il verdetto. Gli andava bene, in fondo. Fare il pastore, spendere tutto il giorno a guardare il culo di una pecora... no, non era un lavoro per lui. Lui ambiva ad altro, sentiva di essere chiamato a ben più grandi imprese. Così aveva indossato la sua tunica migliore, tra le due che possedeva, si era caricato in spalla un fagotto con le sue poche cose, aveva salutato tutti ed era partito per la città, in cerca di fortuna.

Lucio glielo aveva sconsigliato, ma Lucio non poteva capire certe cose. Era una brava persona, sì, e aveva anche cercato di coprirlo durante l’incidente della pecora, anche se Aulo non aveva accettato, per orgoglio e per non finire a fare il pastore a vita, ma Lucio era pur sempre un fauno e, in quanto fauno, non poteva capire davvero i desideri di un essere umano. I fauni amavano la campagna, la vita tra gli animali, sui pascoli, e tutta quella roba che facevano molto natura. Un umano aveva altri desideri, altri bisogni, altri sogni. Sogni che avrebbe realizzato soltanto in città.

E il primo giorno di viaggio era stato fantastico. Clima buono, sole caldo, cielo sereno, nuove facce per strada, nuove strade sotto i calzari, nuovi luoghi da vedere... come aveva fatto a sprecare tutto quel tempo lassù, in mezzo al niente, su una montagna coperta di boschi e pecore? Non era vita per un uomo di genio, Aulo lo aveva sempre saputo, e adesso ne aveva la conferma. Anche solo una boccata di aria libera, nuova, gli riempiva la mente di idee, progetti, visioni per il futuro. E se quello accadeva lì, mentre era ancora nella Gallia Cisalpina, chissà cosa sarebbe successo a camminare tra le luminose vie della Grande Città?

Aulo Clodio Liberato era un ragazzo felice, appunto, mentre viaggiava verso il suo domani, ma non lo sarebbe rimasto a lungo, perché il suo domani conteneva una taverna, dove fermarsi a riposare e sciacquare via la polvere del viaggio. Una taverna piccola, rurale, con poca gente, tranquilla e con la faccia da contadini o da pastori, che mangiava, beveva, chiacchierava e insomma pensava ai fatti propri, qualunque essi fossero. E un tavolo, in un angolo, dove rollavano gli astragali.

Aulo conosceva quel gioco. Era anche stato piuttosto bravo, nel suo paesello. Decisamente bravo. Più di una volta, infatti, aveva ripulito gli amici, nelle partite che facevano per passare il tempo, di tanto in tanto. Nessuno aveva mai saputo vincere contro di lui, nella sua compagnia. Mentre beveva e mangiava, ma soprattutto beveva (alla facciaccia tua, papà! Prova a dirmi qualcosa, adesso! Sono grande, sono libero e sono lontano da te, tiè!), Aulo Clodio Liberato cullava pigri nella mente vaghi ricordi di quelle sfide tra ragazzini, sempre e soltanto dominate da lui, dal suo genio, dalla capacità quasi divina delle sue mani, che sapevano lanciare sempre il risultato che serviva.

E se ripulissi qualcuno di questi contadinotti?, si chiese. Certo, era da un po’ che non giocava, ma non c’era ruggine sul suo genio, le sue mille doti non si atrofizzavano certo, anche a restare per un po’ a riposo, anzi: crescevano di continuo! E poi, a vederli, quei quattro al tavolo non parevano poi un granché di giocatori. Sì, erano a malapena decenti, quattro poveracci che giocherellavano così, solo per passare il tempo. Più beveva, più Aulo vedeva con chiarezza i difetti nel loro stile, il modo rozzo in cui lanciavano gli astragali, la loro totale e pietosa incapacità di controllare il gioco. Uno come lui li avrebbe battuti anche bendato, e con una mano legata dietro alla schiena.

E se lo facessi? Quel pensiero gli gorgogliò nella mente, sull’onda del vino da quattro soldi che gli riempiva sempre più la pancia. La Grande Città gli avrebbe certo riservato mille e mille modi per fare fortuna, su questo non poteva esserci alcun dubbio, ma forse avrebbe avuto bisogno di un poco di tempo, forse non sarebbe riuscito già il primo giorno, forse gliene sarebbero serviti anche quattro o cinque, prima di sfondare, e la città era cara, tutto costava di più... i pochi soldi che aveva in tasca non sarebbero durati a lungo. Abbastanza, per condurlo al successo? Difficile da dire.

Guardò con più attenzione i quattro giocatori, cercando di concentrarsi sulle loro mosse, nonostante le immagini apparissero un poco sfocate, a tratti sdoppiate. Con la sua abilità, li avrebbe certo potuti spennare. Non che avessero molto, a occhio, ma qualche soldo extra non avrebbe fatto male. E poi... beh, poteva essere soltanto l’inizio. Uno come lui avrebbe potuto ripulire tutte le taverne da qui alla città, con una manciata di astragali. Al paese non aveva rivali ed era chiaro che la sua abilità doveva essere quasi divina, a giudicare da quanto miserabile gli appariva quella degli altri.

Posso farmi un nome, come giocatore. Sì, questa era una fantastica idea. Invece di arrivare in città come anonimo sconosciuto, ci sarebbe arrivato come Aulo il Favoloso, terrore dei tavoli, colui che aveva ripulito ogni locale, sulla strada verso l’Urbe. «Esatto!» gli rispose il vino, che gorgogliava nella sua pancia. «Pensa a quanti soldi potresti fare, di paese in paese! E pensa a come sarai accolto, all’arrivo.»

Aulo Clodio Liberato ci pensava eccome. Avrebbe esercitato, perfezionato e rifinito uno dei mille doni che possedeva, il che era un bene, ma soprattutto si sarebbe arricchito facilmente, il che era pure meglio, e avrebbe costruito una leggenda attorno a sé, il che era fantastico. Che cosa aveva da perdere? Nulla, perché uno come lui non conosceva neppure il significato della parola perdere, se si trattava di astragali! Così Aulo si avvicinò al tavolo dei giocatori, non del tutto stabile sulle gambe, e si preparò a imparare una nuova parola.

Il primo approccio non fu dei migliori. Erano freddi, quei quattro uomini (contadinotti, si corresse Aulo, solo semplici contadinotti). Di fronte al nuovo arrivato, che chiedeva un posto al tavolo ed era avvolto da un intenso odore di vino, oltre che di sudore, polvere e altro, si erano guardati in silenzio, forse un poco perplessi (fiutano il mio genio, si disse Aulo, hanno paura di me), poi uno di loro, la faccia come un campo arido, scrollò le spalle e si spostò un poco, per lasciare spazio al ragazzo. La partita era cominciata.

Sembravano cauti, nelle prime mani, e Aulo non ne fu sorpreso, anche se non poté evitare una certa delusione: aveva sperato che fossero più imprudenti, aveva sperato di poterli pelare subito, in due o tre turni, e invece puntavano poco, si guardavano molto, scuotevano la testa, tentennavano. Vecchi fifoni, ovvio, che non avevano neppure il coraggio di affrontarlo a testa bassa. Forse la sua abilità li aveva spaventati subito?

Aveva ottenuto un colpo di Venere già alla prima partita, spazzandosi via il piatto (misero, in effetti, ma aveva sbagliato i tempi, ovvio: doveva riservarsi quel colpo per le fasi successive, con un piatto più ricco) e anche la seconda partita era andata a lui. Forse era meglio rallentare e farli vincere un poco, giusto per non spaventarli? Uno dei quattro gli offrì altro vino. Ottima mossa! Gli facilitava i pensieri, lubrificava la sua mente, la faceva correre più veloce, più fluida. Cominciarono una nuova partita. E Aulo perse. Ne cominciarono un’altra. Aulo perse di nuovo.

Tra un sorso di vino e l’altro, o forse anche più di un sorso, Aulo sorrideva. Adesso sì che tutto stava andando come era giusto che andasse. Facciamo vincere i contadinotti, facciamo credere loro che siano superiori a me, che io sia solo un povero fesso, ubriaco e incapace di ragionare. Illudiamoli, e poi li ripuliremo. Quando saranno belli grassi, sotto con la festa! Poi perse anche la quinta partita e si accorse che i suoi risparmi cominciavano a calare, più di quanto avesse previsto, mentre i suoi quattro compagni non brontolavano più, come avevano fatto invece all’inizio.

Stavano abboccando, giusto? Certo che stavano abboccando! La sua tattica era infallibile, più e più volte l’aveva sperimentata, al suo paesello, contro gli altri ragazzini, e sempre era stato lui a uscirne vincitore. Anzi, trionfatore! Quindi sarebbe successo anche stavolta. Per convincersene, e per tenere fluida la mente, bevve altro vino, generosamente offerto dal tizio seduto alla sua destra.

Aulo Clodio Liberato raccolse gli astragali, li agitò con cura e li lanciò. Niente di fatto. Un peccato, già, ma il piatto non era ancora pieno a sufficienza. La sua abilitò avrebbe colpito senza esitazioni, al momento giusto, quando tutto era in gioco e lui avrebbe potuto sbancare gli avversari. Su questo non aveva dubbi: era o non era Aulo il Favoloso, mago degli astragali?

Una frazione del suo cervello, non ancora affogata nell’alluvione di vino, si agitava per fargli segno che no, lui non era un mago degli astragali, non era neppure un buon giocatore di azzardo: era solo un ragazzino, che aveva avuto fortuna contro una manciata di altri ragazzini, in gran parte molto più stupidi di lui. Ma contro adulti, che giocavano in una taverna, quante speranze aveva? Se proprio si voleva andare a fondo, realisticamente, quante speranze aveva di vincere?

«Vittoria è il mio secondo nome,» gorgogliò il vino che gli riempiva la pancia. «Questa è la nostra serata fortunata, lo sento! È qui che nascerà la nostra leggenda, la leggenda di Aulo il Favoloso.»

La frazione sobria della sua mente tentò una eroica, inutile resistenza, agitandosi per restare a galla, ma alla fine una nuova ondata di vino la annegò. Come pensiero di addio, prima di dissolversi nella bevanda di Bacco e nella sua celebre, folle ebbrezza, la parte sobria registrò che il piatto era ormai cresciuto a dismisura, includendo ben più di quanto Aulo potesse perdere. Ne sarebbe uscito senza soldi, questo era certo, ma avrebbe salvato almeno i vestiti? E i calzari? E il fagotto, preparato dalla mamma? Avrebbe salvato un briciolo di dignità?

La parte sobria non lo seppe mai, non quella sera. Attorno al loro tavolo si era raccolta l’attenzione di tutti gli altri avventori della taverna, che guardavano la sfida e commentavano. E ghignavano, e si davano di gomito, ma questo Aulo non lo notava. Non notava gli sguardi diretti al forestiero, quel ragazzino fesso che si stava facendo fregare tutto, perché credeva di poter bere come un uomo. Lo guardavano come un capo di bestiame, al mercato,e facevano cenni con la testa. E anche due dei suoi avversari, adesso, faticavano a nascondere un sorriso.

Aulo afferrò di nuovo gli astragali e li lanciò, piuttosto storti. Concentrandosi come se ne andasse della propria vita, riuscì a riconoscere i numeri usciti e, con uno sforzo disperato del cervello, seppe anche ricavarne il risultato. Non il migliore, non il colpo di Venere, ma niente male, no? Gli poteva anche dare qualche soddisfazione.

«Bene, bene, non c’è male,» gli fece eco uno dei compagni di gioco, mollandogli una pacca sulla spalla. Aulo era piuttosto sicuro che quel tizio possedesse anche un nome e che si fosse addirittura presentato, all’inizio, ma l’inizio era ormai troppo lontano, nel passato, perché se ne potesse ancora ricordare. Gli sorrise, in fiducia.

Quanti turni avevano già fatto? Ah, ricordarlo... Il grumo di miele in cui pareva essersi trasformata la sua coscienza non seppe dargli alcuna informazione utile, in proposito, così rinunciò e si limitò a fissare i lanci degli altri, a fissare i loro risultati, aggrottando la fronte per capirli. Bevve ancora un poco, giusto per fluidificare i pensieri, che sembravano troppo irrigiditi. E poi...

«Colpo di Venere!» annunciò uno dei quattro, seduti al tavolo.

Aulo abbassò lo sguardo verso gli astragali, appena lanciati da qualcun altro. Uno, tre, quattro, sei: i numeri sulle quattro facce dei quattro astragali. Uno, tre, quattro, sei. Numeri diversi tra loro, sì, il che significava... colpo di Venere, giusto? Giusto, purtroppo. E lo aveva ottenuto un altro. Mentre mani si allungavano a rastrellare tutta la posta, e risate varie lo accompagnavano nel suo privato mondo di torpore, Aulo sì sentì più verde dell’erba. Poi il mondo gli svanì attorno e forse fu meglio così.

Lo svegliò la luce del mattino, piacevole come olio bollente sulla faccia. Piacevole come la sorpresa che lo attendeva, quando ebbe il tempo di rastrellare le cellule cerebrali funzionanti, farle allineare al cospetto del neurone centurione e strigliarle a dovere. Era in qualcosa di molliccio, scomodo, freddo e bagnato. Appiccicoso, anche. E fetido, molto fetido. Era...

Era in un fosso, ai margini della strada. Un fosso pieno di fango, se era fortunato, ma preferiva non pensare ai materiali alternativi. Era privo di ogni sacca da viaggio, che in modo confuso ricordava di aver posseduto, la sera prima. Era anche privo della maggior parte dei propri indumenti. Con un grugnito, si sollevò dalla melma, scacciando un paio di insetti troppo curiosi e avventurosi, almeno per i suoi gusti. Cosa era successo?

Il ricordo lo bastonò alla nuca, aggiungendo un nuovo dolore, metafisico, ai dolori molto fisici che già gli stritolavano il cranio. Aveva bevuto. Aveva bevuto troppo. Anzi, più di troppo: c'era forse una parola migliore, ma al momento la sua mente era bianca. Aveva anche giocato agli astragali. E lui sapeva giocare agli astragali, vero? Era bravo. Era stato il predatore delle partitelle con gli amici, in paese. Il predatore delle partite tra ragazzini. Cosa gli era saltato in mente, la sera prima?

Il vino gli era saltato in mente. Il vino, e la maledizione di Bacco. Che fosse tornato anche lui nel mondo, assieme a tutte le altre robe mitiche che continuavano a spuntare? Che fosse tornato apposta per giocare con lui, ridere di lui? Non avrebbe mai più toccato vino, mai più. Lo giurò a se stesso, seminudo nel fango, e come tutti i giuramenti che facciamo a noi stessi era quasi certo che non lo avrebbe mai mantenuto. Giurarlo, però, lo fece sentire meglio, il che era già qualcosa, al momento.

Perché il peggio non era essersi ubriacato, o aver giocato agli astragali contro gente che ci sapeva giocare davvero. Il peggio ne era una diretta conseguenza. Era il risultato. Aveva perso tutto. E, dopo averlo ripulito a dovere, i suoi compagni di gioco dovevano averlo scaricato in un fosso, o forse era stato il padrone della taverna, o chissà chi. Poteva anche esserci finito da solo, ubriaco com’era. E quante risate si saranno fatti, davanti a quel ragazzino sceso dai monti, che credeva di essere il più furbo del mondo?

Troppe, decise Aulo. E troppe risate se le sarebbero fatte anche quelli del suo paese, se lo avessero potuto vedere in quel momento. Tranne Lucio Fauno, forse. Lui avrebbe solo scosso la testa, e forse sospirato. O almeno così voleva credere Aulo, perché credere ad altro sarebbe stato ancora peggio che risvegliarsi nudo in un fosso, con un mal di testa che neppure Giove, quando aveva partorito Minerva dal proprio cranio.

«Forse sarebbe stato meglio restarmene a casa» si disse. Poco dopo provò a ripeterlo a voce più alta, per verificare se ci credesse ancora. No, non ci credeva già più, dopo la prima depressione. Non sarebbe stato meglio restarsene a casa, nel suo paesino abbarbicato sull'appennino dietro a Velleia. Là aveva già tentato le strade a sua disposizione, fallendo. Non che ce ne fossero molte, ma le aveva fallite lo stesso. Tornare indietro, o restare indietro, non sarebbe servito.

Adesso doveva sperimentare nuove strade, magari con risultati migliori, se possibile. Fare di peggio sarebbe stato molto difficile, ma il primo risultato sembrava puntare proprio in quella direzione, che sarebbe verso il basso. Quindi, raddrizzare la rotta, al più presto. Ecco la prima regola per la sua nuova vita: evitare giochi di azzardo nelle taverne lungo la strada. Adesso gli restava solo di trovare le regole successive, poi sarebbe stato a posto. Lucio probabilmente avrebbe approvato.

Con un sospiro, e stiracchiando quanto possibile i pochi stracci che gli restavano, in un tentativo vano di coprire la maggior parte del proprio corpo, Aulo Clodio Liberato uscì dal fosso, riportandosi sulla strada. La Strada, per chi era nato da quelle parti, con la esse maiuscola e forse con anche tutte le altre lettere maiuscole. La via consolare Emilia. La Grande Città avrebbe dovuto attendere ancora un poco: non si poteva certo presentare così all’appuntamento con la fortuna. Che figura ci avrebbe fatto, uno come lui? Quindi, ricapitoliamo il programma.

Come prima tappa, la prossima città utile, qualunque essa fosse. Si sarebbe trovato un lavoro, uno qualunque, per racimolare qualche soldo e rimettersi in carreggiata. Nuovi vestiti, nuovi oggetti per il viaggio e così via. Poi, una volta che fosse stato pronto per ripartire, avrebbe programmato anche il resto. Non era saggio pensare a troppe cose, adesso: un passo alla volta, per lui, sarebbe stato più che sufficiente. Il resto si poteva sempre improvvisare, se necessario.

E magari sarebbe anche arrivato da qualche parte.

A piedi nudi, col fango che si seccava sulle schiena e reso forse più saggio dalla esperienza fatta per strada (o forse solo più leggero), Aulo si incamminò verso il futuro. O qualunque altra cosa ci fosse davanti a lui.

di Adriano Marchetti