Adriano - racconti e altro

Caleidoscopio di fumo

Ettore Sivella capì che qualcosa non andava quando entrò in cucina e trovò altri tre Ettore Sivella a fare colazione. Il primo aveva una odiosa barbetta da aspirante intellettuale, che lo faceva sembrare ancora più stupido del solito; il secondo era pelato e occhialuto, con brutti segni sulla fronte, come rughe tracciate con l’aratro; il terzo sfoggiava un paio di basette galattiche, che neanche Asimov nei suoi anni migliori.

Ettore li fissò boccheggiando. Non aveva senso. Niente di tutto ciò aveva senso. In cucina c’erano solo due sedie, non c’era posto per tre persone, non sedute attorno al tavolo. Quindi... Si fermò. Le sedie erano ancora due, e una era libera. Sedevano tutti e tre sulla stessa. Da un certo punto di vista. E se inclinavi la testa così, allora ti accorgevi che... Sì, ecco...

Ettore chiuse gli occhi e contò tutti i numeri primi fino a duecento. O almeno tentò di. Si arrese al tredici perché non li sapeva più e ricominciò da capo, contando i numeri pari fino a cinquanta. Più facile. Respirò a fondo. Riaprì gli occhi. Gli altri tre Ettore Sivella persistevano a infestare la sua cucina e facevano colazione come se niente fosse, una possibilità che avrebbe causato convulsioni al suo vecchio prof di filosofia. Che il niente fosse, dico. Ma anche che tre copie di lui coesistessero in uno stesso punto, molto probabilmente.

La copia con le basette galattiche sbranava un panino al salame, quella con la barbetta inzuppava un biscotto in una tazzona di latte, la tera mangiucchiava con poca voglia una brioche. Nessuna era una tipica colazione da Ettore Sivella. Una colazione da Ettore Sivella doveva includere salsicce. Era il minimo indispensabile. Come avrebbe potuto affrontare una giornata di ufficio senza la giusta quota di unto e di grassi nel sangue? Non poteva. Quindi quei tre erano impostori.

Il che aveva senso, ma non migliorava la situazione.

Ettore raggiunse la finestra, strusciando i fornelli per tenersi il più possibile lontano dal tavolo e dai tre intrusi. Il paesaggio oltre i vetri era quello di sempre e lo tranquillizzò un poco. La Piramide di Lambrate si disegnava contro il cielo del mattino, perché era mattino, proprio come di pomeriggio si disegnava contro il cielo del pomeriggio. Ma non divaghiamo. Il punto era che si disegnava, era solida, diffondeva solidità al mondo, dava spessore alla realtà e così via, nei secoli dei secoli, amen. Tutto era a posto, tutto era a posto e tutto era a posto. Forte della solidità che puoi trovare soltanto in incalcolabili tonnellate di vetro, acciaio e cemento, Ettore si girò di nuovo verso la tavola.

Le sue tre copie erano svanite. Tutto a posto, appunto. Un innocuo peto mentale.

Ma non lo era. Non era a posto per niente.

Accadde di nuovo quella sera, mentre rincasava. Durante il giorno c’erano stati due o tre momenti in cui, per un attimo, forse, ma si era chiaramente sbagliato. Suggestione, stanchezza, i postumi del difficile risveglio. Soltanto uno stupido avrebbe pensato che potesse essere vero. Peti mentali.

Riemergendo dalla fermata della metro, Ettore Sivella si sentì molto, molto stupido.

Prima di tutto, perché aveva appena incrociato un altro Ettore Sivella. Era un Ettore vestito male, o almeno alquanto trasandato. Aveva capelli che gli scendevano sul collo e le spalle, ma che si erano quasi estinti all’apice della calotta cranica, lasciando spazio ad ampie radure pelate. Non contento, suonava la chitarra acustica (passabilmente bene) e cantava Man of constant sorrow (passabilmente male) alla maniera di Joan Baez, ma con una voce da sinusite irreversibile.

Era uno spettacolo triste, ma così triste che Ettore ne avrebbe pianto, se ne avesse avuto la forza. Il culmine della pateticità umana in un ecosistema urbano. O qualcosa del genere.

Ma la forza gli era mancata e così aveva solo allungato il passo, salito le scale a due a due e adesso i soliti, sani scorci della città lo circondavano, inclusi alcuni spintoni da altri pendolari al rientro dalla giornata lavorativa, accompagnati da insulti gratuiti. Scene ordinarie, eventi ordinari.

Niente a posto. Come detto, Ettore Sivella si sentiva adesso molto, molto stupido per avere pensato che il problema si fosse risolto da solo; anzi, che il problema non fosse mai esistito. Camminò verso casa a passo rapido e incazzoso, mentre le immagini degli altri Ettore gli vorticavano nella testa, in una parata che pareva concepita all’inferno. O almeno in un posto molto trash. Perché, vivaddio, un esercito di propri cloni lo si poteva anche accettare, obtorto collo e obtorte anche molte altre parti del corpo, ma perché dovevano essere tutti così patetici? Non si poteva, chessò, incrociare un Ettore straricco, con attico in centro e palle varie? Sarebbe stato sempre inquietante, d’accordo, ma almeno non se ne sarebbe dovuto vergognare. Non sul piano sociale, ecco.

Quella sera cercò di rilassarsi sul divano ascoltando l’opera omnia di Simon & Garfunkel, che non era proprio rilassante, d’accordo, anzi tendeva al malinconico e deprimente, ma lo faceva nel modo giusto e di solito gli risollevava il morale. Stimolava a una sana e soddisfatta contemplazione della sfiga altrui modulata su piacevoli arpeggi, creando uno stato mentale che consentiva di apprezzare le comodità domestiche e la presenza di uno stipendio sicuro.

Non funzionava. La musica pareva addirittura suggerire che ci fosse qualcosa di sbagliato lì in casa, che mancasse qualcosa. O qualcuno. Il che non aveva senso, perché c’era sempre stato solo lui, e la poca brigata aveva costituito una parte fondamentale della sua vita beata. Ok, magari non così beata ma pacifica sì e soddisfacente anche. Passabilmente soddisfacente, ecco.

Ma adesso si sorprendeva di continuo a guardarsi attorno, come se stesse cercando. O aspettando. O roba simile. «Che non spunti qualcun altro,» borbottò. «Non ne voglio più vedere.»

Per quella serata il suo desiderio fu esaudito. Le strane sensazioni si ostinavano a rimanere, e in tre occasioni fu quasi sicuro di avere notato un movimento in sala, giusto all’angolo estremo del campo visivo, dove si troverebbe la famosa coda dell’occhio, ma era in casa solo, era sempre solo e tutto il resto era stanchezza, una giornata stressante, magari anche un poco di paranoia atavica. Realtà? No, mai! Una bella dormita e sarebbe passato tutto. Di sicuro.

Ma il letto era scomodo, alternativamente troppo largo e troppo stretto, ed Ettore si sentiva perso o schiacciato. E il sonno tardava. Contò le pecore per un poco, poi le mandò tutte quante al macello e si girò su un fianco, sull’altro fianco, sulla schiena, in pancione, borbottò un paio di bestemmie ma a voce molto bassa, perché aveva deciso che dirle così non era davvero blasfemo, era solo un modo per espellere vapore e trovare la pace interiore. Non funzionò.

Alla fine si arrese e tentò addirittura quegli esercizi di controllo del respiro che gli aveva suggerito una volta un collega. Inspira a fondo col naso e di diaframma, trattieni un poco, espira pian piano da labbra semiaperte (o semichiuse, a seconda dei punti di vista), abbandona a poco a poco i pensieri consci e altra roba da vero fricchettone, che lo faceva vergognare molto ma magari funzionava, non si sa mai, a mali estremi, eccetera eccetera. Forse funzionò davvero, oppure il suo cervello decise di staccare la spina e andare a prendersi un caffè, perché di lì a poco Ettore Sivella salutò il mondo dei desti e si perse da qualche altra parte, dove va la coscienza quando dorme.

Non fu un bel sonno. Prima di tutto, era costipato di sogni. Non una cosa negativa, di per sé, perché a volte ti capitano anche sogni piacevoli, divertenti, addirittura belli. A Ettore non capitò. Tutto ciò che riusciva a sognare erano ricordi della propria vita, ma frammentati sparpagliati, in disordine, dal primo giorno di scuola si saltava all’università, poi indietro alla gita di terza media, quindi l’asilo a cui non voleva andare, l’ernia del disco cinque anni fa, la cresima e tanta altra roba che a malapena ricordava da sveglio, o che non ricordava proprio. Roba che gli era capitata: a volte sgradevole, più spesso irrilevante. Forfora sulle spalle della sua esistenza.

Eccetto che.

Nei sogni le cose andavano in modo diverso. A volte sembravano uscite dal trova le dieci differenze di una rivista di enigmistica, altre volte erano cambiamenti grandi. Frequentava un’altra facoltà e si laureava senza andare fuoricorso. Alle medie faceva amicizia con compagni diversi. Invece che allo sport (dove aveva fatto schifo), da adolescente si dedicava alla musica, con risultati meno patetici. In camera non teneva un nascondiglio segreto pieno di riviste porno, ma una gabbia con uno strano pappagallo crestato.

Sognava altri Ettore Sivella, che forse sarebbero potuti essere, se lui avesse fatto scelte diverse. O se il caso gli avesse servito una mano diversa all’inizio della partita. Potenzialità inespresse, tarpate. O seghe mentali, se si preferiva quella prospettiva.

A Ettore facevano schifo entrambe. Si svegliò male dopo avere dormito male, bofonchiò qualcosa a un volume così basso da diventare solo vibrazione afona, si alzò, raggiunse il bagno, infilò la testa sotto l’acqua gelida, la scrollò vigorosamente sparando schizzi ovunque, si guardò allo specchio e lo trovò bagnato. Lo asciugò borbottando altre cose inudibili. Si guardò di nuovo.

Non un bello spettacolo, lo doveva ammettere, ma ne aveva visti di peggiori.

Suggestione, ecco il punto. Le scemenze del giorno prima lo avevano suggestionato, per forza: chi non lo sarebbe stato, dopo avere incontrato copie di se stesso un po’ ovunque? Ma ieri era ieri, oggi era oggi e domani sarà domani, in onore di La Palisse. Ieri gli erano successe cose strane, vero, ma ieri poteva essere archiviato e dimenticato, con un poco di tempo. Non c’era bisogno di continuare a pensarci e questo valeva anche per il suo inconscio, o qualunque altra parte del cervello producesse i sogni. Chiaro? Chiaro. Ettore annuì e grugnì.

Poi entrò in cucina e trovò sei Ettore Sivella che facevano colazione. Sulla stessa sedia. Si coprì gli occhi e borbottò un intero rosario, ma in una versione che la CEI avrebbe difficilmente approvato.

La cosa più terribile era forse il modo in cui lo ignoravano, e si ignoravano a vicenda. Era come se ognuno fosse da solo in cucina. Il che lo avrebbe dovuto rassicurare, perché significava che era solo un’allucinazione: terribile fin che vuoi, d’accordo, e magari sintomo di qualche grave problema di salute, uno di quelli che ti stende davvero, tipo un incipiente esaurimento nervoso, o addirittura un tumore al cervello (e giù di scongiuri). Il problema esisteva nella sua mente, non nel mondo reale.

Ma non funzionava.

Barcollò fino alla finestra, occhi sempre coperti e litania diversamente sacra sempre a filo di labbra. Col tavolo dietro le spalle, Ettore spostò la mano e guardò all’esterno. Sperava. Sì.

La Piramide di Lambrate era là, punto fermo del suo cielo quotidiano. Finché la vedeva, finché la sua sagoma solida e sicura dominava il suo universo, Ettore poteva ancora credere che tutto fosse a posto, tutto normale, tutto come sempre. Potevi perdere fiducia in tante cose, ma quel colosso era la certezza ultima, il baluardo estremo contro la follia. O roba simile, insomma: ci siamo capiti. Era un incubo architettonico così grande, pacchiano e inutile che non potevi non credergli: se i primati che si considerano homo sapiens sono capaci di giungere a tanto, tutto il resto è solo cispa al risveglio.

Ettore la fissò a lungo, per ricaricarsi di energie ma soprattutto per dare tempo all’allucinazione di passare, come era passata il giorno prima. Stesso posto, stessa ora. Almeno non c’erano suoni: le sei copie erano sedute a tavola, mangiavano, bevevano, ma non un rumore ne usciva. Sì, si trattava per forza di un’allucinazione. Brutta, d’accordo, ma accettabile. Da un certo punto di vista.

Ettore si girò e la tavola era vuota. Ottimo. Colazione, sosta in bagno, via verso l’ufficio. La nuova giornata cominciò così, identica a mille e mille altre venute prima. All’inizio.

Incrociò altre due copie di sé durante il viaggio: una sedeva in metro, poco lontana da lui, e leggeva il giornale, e l’altra usciva da un bar, forse dopo avere fatto colazione, vestita da lavoratore di basso livello e con una borsa gonfia e consumata che gli penzolava da una spalla. Ettore Sivella finse con grande nonchalance di avere scoperto qualcosa di molto interessante fuori dal finestrino del vagone, poi in un vecchio avviso appeso a un muro. Erano allucinazioni, solo allucinazioni.

Un’altra allucinazione gli capitò durante la pausa pranzo, ma fu molto, molto più brutta. Passava di fronte a un bar, anzi un locale, uno di quelli che vorrebbero essere di lusso ed esclusivi, ma di fatto sono solo un poco patetici. Uno di quelli col nome inglese, anzi britannico, e in generale un arredo da estero nell’immaginario di qualcuno che è stato al massimo a San Marino. Avete presente, no? Il locale non è importante, soprattutto non agli occhi di Ettore. Importanti sono le due persone che per un attimo vede al suo interno, prima di allungare il passo e fuggire verso l’ufficio, tutto pallido e a testa bassa. Due persone. La prima era lui stesso. La seconda no.

Era un ricordo che fino a due secondi prima neppure si ricordava di possedere, tanto vecchio e tanto trascurato era. Ma adesso che lo aveva visto, adesso che aveva incrociato quella faccia dal passato, e l’aveva incrociata proprio vicino alla faccia di un altro se stesso, o un quasi se stesso...

Che poi era stata al massimo soltanto una possibilità, non solo remota ma anche ignorata. Ricordo? No, non lo poteva definire così. Era uno di quei “se solo avessi” in cui inciampi di tanto in tanto, quando la vita ti serve solo lisce e tu puoi solo assistere, mentre gli altri giocano carichi e briscole. Il tipo di scorcio malinconico immortalato da De André con le sue passanti, insomma.

Non era neppure una possibilità persa, perché una possibilità che ti sei lasciato scappare possiede pur sempre una sua dignità. Una dignità indegna, ok, ma c’è. Quello nel locale era stato uno spettro di possibilità, di cui neppure si era accorto al momento. O nei diecimila momenti successivi. Una di quelle cose di cui ti accorgi a distanza di anni, in un rapido lampo illuminante, che ti coglie con uno “Ah”, seguito da una bestemmia.

Un momento che potete capire soltanto se lo avete provato, quando l’universo intero sembra per un attimo trattenere il fiato, e poi comincia a cantarti «Scemo, scemo!» a tutto volume. E tu subisci, tu taci, perché sai che ha ragione. Sei stato scemo, scemo, e capirlo solo adesso, quando ormai è tardi, troppo tardi per qualunque cosa, fa molto più male che ogni insulto esistente.

Ma basta spiegazioni inutili. Il punto era che Ettore Sivella aveva appena visto se stesso assieme a una persona che, molti anni prima, aveva incrociato per un attimo la sua vita. Incrociata e basta, non aveva lasciato molte tracce, ai tempi. Giusto un bivio, che lui aveva superato senza neppure notarlo. Ciò che aveva scorto nel locale, un attimo fa, era di fatto una semplice ipotesi che.

Ettore Sivella si bloccò. Il palazzo dove lavorava era di fronte a lui, ma i suoi occhi lo registrarono solo di sfuggita. Ah, ecco. Aveva senso. No che non aveva senso, ma aveva una sua logica. Logica insensata, d’accordo, ma pur sempre logica. Da una certa prospettiva. Inspirò, espirò; inspirò, espirò e poi continuò a ripetere l’operazione in automatico, come sempre. Si guardò attorno, ma attorno gli appariva tutto normale. In superficie. E sotto?

Stava incrociando gli spettri delle vite che avrebbe potuto aver vissuto? Ipotesi affascinante, non lo poteva negare, ma non in gener di cosa che vorresti capitasse a te. Non nella realtà, almeno. Non da sveglio. In sogno ok, in sogno ci può stare. Ma mentre torni in ufficio? No, grazie. Non che ci fosse qualcosa di vero, ovvio. Era un peto mentale. Erano...

Sciocchezze, sciocchezze e ancora sciocchezze. Doveva essere un esaurimento nervoso, o qualcosa di simile. Ovvio. Ettore non sapeva bene cosa fosse o come funzionasse di preciso, ma lunghi anni di finzioni letterarie e cinematografiche gli avevano insegnato che era una specie di jolly, con cui si poteva spiegare qualunque evento assurdo che ti capitasse. Forti scatti d’ira? Esaurimento nervoso. Allucinazioni? Esaurimento nervoso. Ti vesti da Babbo Natale e cerchi di sodomizzare il tuo gatto? Esaurimento nervoso. Quindi doveva essere un esaurimento nervoso anche quando eri testimone di eventi che non potevano esistere in questo continuum temporale. Ovvio. Ma non rassicurante.

La cosa migliore da fare, per il momento, era tenersi occupato. Rientrare in ufficio, dedicarsi a una qualche scartoffia noiosa e inutile, perdersi in mondi di cifre e percentuali e pensare ad altro. Non una soluzione reale, ma un rinvio del problema, con la speranza che si perdesse per strada da solo. A volte succedeva davvero. In ufficio, dunque.

Ettore Sivella fissò il portone. Quale era il suo ufficio? E che lavoro faceva, di preciso? Qual era il nome della sua azienda? O era una ditta? O altro ancora? Guardava le targhette, ma le targhette non gli suggerivano la risposta giusta. Erano solo liste di lettere, prive di senso.

Ma aveva speso tutta la mattina lì dentro! Era uscito solo per pranzare, in quel solito locale dove. Il locale. Il solito. Tutti i giorni. Quello. Appena dietro. Là.

Ettore si passò una mano sulla fronte. Dove andava a pranzare tutti i giorni? E perché non pranzava a casa? Perché era lì? Cosa ci faceva in quel posto? Non conosceva nessuno da quelle parti! Non era la sua zona, non lo era mai stata. Lui di solito era.

Ma no, non era lì.

Forse.

Il suo cranio era una royal rumble di ricordi confusi e pensieri ancora più confusi. Era uscito di casa ed era uscito lui. Lui. Ettore Sivella. E la sua casa era. Dodici indirizzi diversi gli attraversarono il cervello e solo tre erano strade di cui conosceva più o meno la posizione. E gli altri? Erano sempre il suo indirizzo, lo sentiva, ma non li riconosceva. Non proprio. Non esattamente.

E cosa faceva nella vita? Quale era la sua vita? La sua storia? Le sue storie, anzi. Ne aveva un intero gomitolo: intrecciate, ingarbugliate, che a volte si toccavano e a volte si allontanavano. E in mezzo ci doveva essere lui. O almeno ci doveva essere qualcosa. Qualcuno. Uno.

Invece c’era una folla. Come quando ti trovi tra due specchi e i riflessi di te si perdono all’infinito in un doppio corridoio. Sei al centro, ma se anche sempre più lontano, sempre più piccolo. Ed Ettore si sentiva proprio così. Disperso. Sempre più lontano. Sempre più piccolo.

Chiuse gli occhi, li riaprì, voltò le spalle al portone e guardò la città dove lui vivevano.

E in un attimo chiaro e orrendo li vide. Legioni su legioni di Ettore Sivella quasi uguali, quasi del tutto diversi, che si affrettavano verso mille lavori, mille disoccupazioni, mille dolori e mille gioie. E vittorie, sconfitte, depressioni e indifferenze: tutte le sfumature che compongono una esistenza, le danno forma, sapore, vita. Ed erano lì, da qualche parte, nello stesso punto in cui si trovava lui. Era come stare sulla vetta al centro di una catena montuosa e vedere i picchi disperdersi attorno a te.

Ma lui, dove si trovava? Dove era? Quale era? Ettore si guardò attorno spaurito, ma attorno c’erano solo gli occhi spauriti di incalcolabili altri Ettore, in ognuno dei quali si rifletteva all’infinito. Come loro si riflettevano nei suoi, senza dubbio. Come...

Con un rantolo si strappò dalla visione. Un fulcro. Un punto reale. Qualcosa a cui ancorarsi. Adesso ne aveva bisogno, più che mai. Per ritrovarsi, per isolarsi. Per essere uno. Per raccogliersi, lì e ora.

La Piramide!

Corse attraverso il quartiere, in cerca di quel punto da cui sapeva di poterla vedere, al di sopra delle schiere di palazzi, uffici, edifici, stella polare che dominava la skyline o quel cavolo che era. Subito a ridosso del parcheggio, ecco, ancora pochi metri. Ultimo scatto. Ettore alzava già le braccia, in un muto gesto di preghiera, invocando una benedizione, invocando la realtà per sé. Adesso.

Arrivò. Guardò. Gemette. La Piramide di Lambrate non c’era più. La preghiera gli morì in gola. Al posto del colosso supremo, che celebrava le magnifiche sorti e progressive del Paese, c’era una fila di condomini da periferia industriale sovietica anni Settanta. Il tempo di un respiro ed era diventata un megaparcheggio. Un mastodontico centro commerciale. Uno stadio a confettiera, con annesso un palazzo dei congressi, due alberghi di lusso e vari altri ammennicoli. Poi un’altra cosa ancora. Poi...

Ettore si afflosciò in ginocchio. Si coprì il volto con le mani, ma continuava a vedere lo stesso. Le sue mani non avevano più sostanza, erano traslucide, poi trasparenti, infine erano solo aria.

«Ma allora io?»

Legioni di Ettore Sivella svanirono una dopo l’altra. Il marciapiede era vuoto.


Mattino. Era stato davvero uno strano sogno, strano e sgradevole. Aveva sognato l’asilo, quel breve periodo in cui lo aveva frequentato, a quattro anni o dintorni. C’era il bambino con gli occhiali, che un giorno lo aveva bloccato contro la rete e preso a pugni in faccia: Carlo Mangi, Magli, Muggia, un nome del genere. C’era una suora che lo rincorreva per costringerlo a salire sullo scivolo. Alcuni bambini scendevano dalle scale facendo la ruota. Un ciccione con un secchio in testa e una scopa in pugno dichiarava di essere il re della città. E altre cose che già si disperdevano, come accade quasi sempre coi sogni al risveglio. Che stramberia.

Ettore Sivella era sveglio. Seduto in cucina, faceva colazione come al solito, con latte e biscotti. Il mattino era bigio e nebbioso. Poco o niente si vedeva dalla finestra, ma quel poco bastava a dirgli che era la classica giornata padana di inizio autunno. Non un granché, ma c’era di peggio, se sapevi cercare a fondo. Ettore di solito preferiva non cercare a fondo.

Per un attimo, appena seduto a tavola, aveva creduto di vedere se stesso affacciarsi sulla soglia della cucina. Un se stesso sbarbato, senza occhiali, dalla faccia piuttosto consumata e malmessa. Soltanto una illusione, ovvio. Magari un rigurgito del sogno. Scrollò le spalle. In università lo attendeva una giornata piena, fra lezioni e tre laureandi che dovevano discutere di modifiche alla tesi. Meglio non complicarla oltre con inutili peti mentali. Scosse la testa e inzuppò un altro biscotto.

La nebbia stava cominciando a levarsi, quando uscì di casa. Un panorama di vaghi parallelepipedi e pochi spazi aperti, grigi di colore e di atmosfera. Niente che sollevasse lo spirito, ma in fondo lì ci doveva solo dormire. Con una scrollata di spalle e un mezzo sorriso, Ettore Sivella si avviò verso la nuova giornata di lavoro. Tutto tranquillo, tutto a posto. Non si aspettava stranezze, se non forse dai suoi laureandi. Potevano inventarsi di tutto, quei ragazzi. Oh beh, era pronto ad affrontarli.

Forse non era il migliore dei mondi possibili, ma era l’unico che esistesse. Vero?

di Adriano Marchetti