Adriano - racconti e altro

Cavalleria parrocchiana

Questo è ciò che tutti sanno in paese. Che la grande tortellata presso la parrocchia di San Giovanni Complottista, in programma la sera del ventitré giugno per celebrare il patrono locale e raccogliere fondi per l’associazione “Amici Mici”, che si dedica alla protezione dei gatti randagi e oppressi, si risolse con una tragedia tanto inaspettata quanto brutale. O in qualcosa di sufficientemente simile a una tragedia da soddisfare i pettegolezzi del quartiere e animarne il resto dell’estate, che fino a quel momento non aveva promesso alcunché di buono o interessante.

La notte dei lunghi tortelli: così l’aveva ribattezzata uno spiritoso che aveva avuto la fortuna o la saggezza di non partecipare, il signor Ennio Tirabussi (69), che quella sera aveva giocato a tressette con gli amici e che comunque non amava i tortelli. «Li fanno sempre troppo pesanti e poi te lo dico io, prima di digerirli, guardi... Ma stavolta li hanno digeriti in fretta, eh? Più li mandi giù e più, eh... Ahaha! C’è solo da riderci su, glielo dico io. Che gente!»

«No, davvero. Sapevo che non erano mica normali quelle due, ma una roba del genere, dai! Roba da matti, altroché. Roba da matti!» aveva poi aggiunto, prima di allontanarsi scuotendo la testa.

Di parere simile, ma più seria, era anche la signora Ada Cabassi (73). «Quelle due lì, guardi. Non si parla male degli altri, perché non sta mica bene. Brave ragazze, per carità, sempre pronte ad aiutare in parrocchia, però... Ah, è una brutta storia, glielo dico io. Le conosco da una vita, abbiamo vissuto qui da quando eravamo bambine, ma prima non erano così, mi creda. Amiche no, non lo sono mai state, ma si salutavano, si parlavano. Erano normali, sa? No, no, è stato al matrimonio, sa, quando il figlio ha sposato la figlia della sorella, come è che si chiamavano adesso, aspetti...»

«Al matrimonio hanno litigato sì, come due gatte, ma il problema è un altro, sa,» aveva commentato Antonia Pilotti (72). «Il figlio della Cesira ha spostato la figlia della sorella della Erminia, sa. Bravo ragazzo, per carità, niente da dire, persona seria. Beve, ma è tranquillo, davvero. No, è stato per la credenza. L’Erminia la voleva lei perché era un ricordo della mamma, ma sua sorella, la Ines, non è mica andata a darla a sua figlia quando si è sposata? Non le dico cosa ne è uscito, sa. La Cesira ci si è messa in mezzo perché sa, finiva nella casa del figlio, una cosa in meno da comprare. Apriti cielo! Che disgrazia! Si sono strappate i capelli, quelle due.»

«Guardi, io ero amico dei mariti, poveri diavoli,» aveva spiegato Raffaele Zoppi (76). «Lavoravamo in vetraria, quella che c’era vicino alla stazione, ha presente? Adesso l’hanno chiusa, ma una volta si lavorava duro. Le mogli erano due vipere, ma loro andavano d’accordo, mai una parola brutta. Si fermavano spesso al bar per un bicchiere o due di rosso, prima di tornare a casa. Un bicchiere o sei, facciamo. Ci andavo spesso anch’io, per la compagnia, due chiacchiere, una partita a carte, le solite cose. Sono morti tutti e due ormai. Con le donne che avevano in casa sarebbe morto anche un santo. Ha visto anche lei cosa hanno fatto stavolta, no? È roba che ti fa morire giovane, non potere stare in pace neanche a casa tua. Poveracci.»

«Una storia folle» secondo il maresciallo Calogero Sciannamea (47). «Ancora non sappiamo cosa ci abbiano messo dentro di preciso, le bottiglie erano vuote quando le abbiamo trovate, ma è andata di lusso, guardi, di lusso! Chi se lo sarebbe immaginato da quelle due? Un litigio sì, lo capisco, e pure quello che si sono fatte a vicenda. Succede. Nel mio lavoro ne vedo di peggio. Ma la parrocchia? La sagra del patrono? Si parla tanto di terroristi, stranieri, pericoli di ogni tipo, e poi scopri che i matti ce li hai già in casa e sono i più pericolosi di tutti. Alla loro età, poi...»

«Non so dirle di preciso quante chiamate abbiamo ricevuto,» aveva spiegato Elena Malinverni (35), di turno presso la locale Pubblica Assistenza la notte del 23 giugno. «Sarà cominciata più o meno a mezzanotte o giù di lì, ed è andata avanti fino al mattino. Anche dopo, probabilmente, ma dopo non ero più io di turno e ci ha dovuto pensare qualcun altro. Un incubo, davvero. E i sintomi sempre gli stessi per tutti, ovviamente, e le lascio immaginare poi le condizioni in cui li abbiamo trovati, specie i più anziani che vivevano soli. Una notte indimenticabile, e non certo in positivo. Che razza di festa patronale... a raccontarla quasi non ci si crede.»

Eventuali commenti di don Dario (52), parroco della chiesa di S. Giovanni Complottista, dovranno attendere le sue dimissioni dal reparto di terapia intensiva del vicino ospedale. Amava davvero tanto i tortelli, anche se d’ora in poi forse non ne vorrà più vedere.

Ciò che tutti sanno, o che almeno sapranno a breve, una volta diffuse le notizie, è che la tortellata di san Giovanni ha prodotto decine di casi di intossicazione alimentare, in una prima fase. In seguito, i risultati degli esami condotti sui primi pazienti hanno portato dall’intossicazione all’avvelenamento. Resta ancora da determinare se sia stato colposo o premeditato, anche se certi indizi suggeriscono il peggio. Quanto ai moventi precisi, si è ancora nel buio più totale.

Ciò che tutti sanno è che le signore Cesira Passera (72) ed Erminia Cavalli (73) avevano alle spalle una lunga storia di inimicizia tendente all’odio, che si era sviluppata nel corso dei decenni nella più tradizionale e tipica faida da piccolo paese. Maldicenze, catene di dispetti, raffiche di insulti più o meno pesanti o motivati, litigi urlati sotto le finestre dell’una o dell’altra, e così via. Solita storia: un copione uguale, recitato migliaia di volte in migliaia di posti diversi da migliaia di attori diversi.

Fino alla notte di san Giovanni.

Ciò che tutti sospettano è che la signora Cesira e la signora Erminia siano andate fuori di testa una volta per tutte e abbiano cercato di ammazzarsi a vicenda, magari in seguito a una discussione su un qualcosa di molto stupido. O magari non tutte e due. Magari solo una ha dato di matto e l’altra si è adeguata, giusto per non farsi battere. Sia come sia, in paese tutti scuotono la testa e pensano che le due matte ne abbiano combinata una davvero grossa, stavolta, e a finirci in mezzo sono state vittime innocenti, tanto per cambiare, puro danno collaterale in una guerra tra befane.

Ciò che ancora nessuno sa, e che dovremo raccontare, è l’antefatto della tragedia, la storia che ci ha portato a una festa del patrono cominciata nel campo dietro la parrocchia e finita per molti al pronto soccorso del più vicino ospedale. Un incubo che per alcuni continua ancora; per gli altri, beh, in un modo o nell’altro si è concluso, anche se nella memoria vivrà a lungo. Ma torniamo all’inizio.

Cominciò con la riunione in canonica tra i volontari che avrebbero partecipato alla organizzazione della festa. La signora Cesira e la signora Erminia erano presenti, come al solito, e come al solito si erano sedute nei posti più distanti che ci fossero. Come al solito si erano anche impegnate a fingere che l’altra non esistesse, evitando anche solo di guardare nella direzione in cui si trovava la nemica.

Ma se si odiavano così tanto, perché partecipavano entrambe agli stessi eventi?

Perché ci partecipava l’altra, ovvio.

Chi delle due avesse cominciato a frequentare la parrocchia non ha importanza. Ha importanza che una delle due aveva cominciato e l’altra si era accodata, perché lei ci andava per farsi vedere e se lei ci va per farsi vedere, e io invece me ne sto a casa, chissà cosa penseranno gli altri. Diranno che lei è una brava persona, che fa volontariato e vuole aiutare gli altri, mentre io no, io sono egoista e me ne frego, e lei ci farà bella figura e io no, e gli altri...

E così via, ci siamo capiti. Il punto è che se una delle due si dedicava a una qualche attività pubblica e c’era il rischio che qualcuno la vedesse, allora anche l’altra si doveva dedicare alla stessa attività e doveva farlo meglio. O più spesso. O almeno in modo più vistoso. E parlando a voce più alta.

Tipica rivalità da bambini, ma tra persone che si erano lasciate alle spalle la propria infanzia già da più decenni di quanti ne volessero ammettere. E magari erano davvero bambine quando la loro sfida era cominciata, ma nessuno lo sapeva dire con certezza, neppure le dirette interessate. Era quel tipo di faida che, col tempo, acquisisce una vita autonoma ed esiste perché è sempre esistita.

Ma non divaghiamo. Il punto è che entrambe erano volontarie presso la parrocchia di San Giovanni Complottista ed entrambe erano presenti in prima fila (ma agli estremi opposti) mentre si discuteva di come organizzare la festa patronale. La tortellata era ovvia, ma ci volevano anche altre pietanze e altri intrattenimenti. Una orchestrina per suonare il liscio, ad esempio, e magari fuochi d’artificio a fine serata, più specialità locali, una bancarella o due, tavolate da sistemare, permessi da richiedere, e questo, e quello, e quell’altro ancora. Solita storia.

Fu un incontro lungo e noioso, reso ancora più lungo e noioso dal dibattito a distanza tra due donne che rifiutavano di riconoscere l’esistenza dell’altra e si rivolgevano alla parte opposta soltanto con vaghe e trasparenti allusioni. Ognuna doveva dimostrare a tutti di essere più volonterosa dell’altra, e più attiva, più disponibile, più coinvolta, più tutto. I poveracci presi in mezzi pensavano a cose tristi e guardavano spesso i cellulari, cazzeggiando per fingere di trovarsi altrove.

Don Dario fece del proprio meglio per mediare e placare gli animi, ma no sarebbe bastato il meglio di un santo quando fu il momento di assegnare il ruolo principale: i tortelli. Chi li doveva preparare? Più persone, si sarebbe detto, perché ne servivano tanti ed era meglio dividersi il lavoro, giusto? La stagione dei “Faccio-tutto-io” era finita ed era l’epoca del lavoro condiviso, no?

No. Poteva esserci una sola regina dei tortelli, perché una sola conosceva la ricetta suprema, quella che tutte le invidiavano. Una sola poteva preparare i tortelli come si doveva. Le altre, l’altra, non ci sapeva fare davvero e avrebbe rovinato tutto. Chiunque lo avrebbe capito. Basta guardare, no?

Don Dario era già pronto a strapparsi i capelli e flagellarsi, quando un’altra parrocchiana, la signora Maria Strozzi (56) ebbe un colpo di genio. Perché un solo tipo di tortelli? Ce n’erano sempre di più di vegetariani e vegani, in parrocchia: perché non andare incontro alle loro esigenze e preparare una tortellata vegana, oltre a quella standard?

Col senno di poi non fu geniale per niente, ma in quel momento il parroco vi si aggrappò con tutta la forza della disperazione. Sperando di farle tacere (non bastò) e metterle a cuccia (ma neanche per idea), don Dario dichiarò che entrambe si sarebbero occupate dei tortelli e ne avrebbero preparato due tipi diversi. Bastava solo accordarsi pacificamente su come dividerli.

Non fu pacifico per niente. Dopo discussioni lunghe ed estenuanti, la signora Erminia Cavalli ebbe il compito di preparare la novità dell’anno, i tortelli vegani, perché tutti sapevano che era una cuoca esperta e non avrebbe avuto problemi ad affrontare la prova. Alla signora Cesira Passera andarono i tortelli tradizionali, perché si sapeva che poteva contare su valide aiutanti in famiglia ed erano tutte ottime cuoche, così non ci sarebbero state difficoltà anche se i tortelli erano molti.

Lisciate a dovere entrambe le orribili contendenti, don Dario chiuse l’incontro e pregò che dio gliela mandasse buona. A giudicare da quanto avvenne poi, in quel momento dio doveva essere occupato, oppure aveva scelto di esaudire la preghiera in modo alquanto imprevisto e non convenzionale, ma senza dubbio efficace e definitivo.

Per qualche giorno non ci furono ulteriori problemi nella comunità. Le due signore si erano lanciate sul lavoro come diavolacci assatanati, per fare meglio dell’altra davanti agli occhi (e alle lingue) del paese intero, e non sembravano avere troppo tempo per odiare l’altra, magari riservandosi di farlo in un secondo momento, dopo l’inevitabile disfatta della nemica. Perché tutti avrebbero visto chi era la migliore delle due, era ovvio. Lo avrebbero visto e l’altra, la perdente, si sarebbe mangiata il fegato come meritava. Ed era solo giusto così, dopotutto. Chiunque lo capiva.

Poi la signora Erminia Cavalli fu assalita da un dubbio improvviso. Aveva la massima fiducia nelle sue capacità di cuoca ed era certa che i suoi tortelli sarebbero stati fantastici ma, ora che ci pensava a freddo, le avevano rifilato il lavoro peggiore. Tanta fatica in più, per qualcosa che pochi avrebbero mangiato. Perché, oggettivamente, voi cosa avreste scelto: i tortelli tradizionali o quelli con verdure varie? Ecco, appunto. L’avevano imbrogliata! Quella strega maledetta della Cesira, ovvio: era stato un suo piano per fregarla. La Maria era probabilmente una sua amica, si erano messe d’accordo.

Terribile! Come rimediare, adesso? Come dimostrare a tutti che la migliore era lei e che quell’altra là era soltanto un serpente velenoso, una che le studiava tutte pur di far fare una figuraccia a chi era migliore di lei? Come impedire questo terribile oltraggio?

C’era da fare qualcosa, e subito.

Fu il fato, la fortuna, il caso, quello che vi pare, a metterci il famigerato zampino. Giusto tre giorni prima della sagra, un venti giugno assai afoso, la signora Erminia Cavalli si recò all’appuntamento dalla parrucchiera e si intrattenne per un poco a condividere pareri e informazioni (o a spettegolare, a seconda dei punti di vista) con la signora Vittoria Rastelli (65), che abitava appena fuori paese ma passava spesso in centro (per valori molto modesti di centro) quando aveva bisogno di far sistemare la messa in piega o di andare dall’erborista. Andava spesso dall’erborista, la signora Rastelli. Alcuni dicevano che ci andava anche troppo. Certe malelingue la accusavano anche di essere un po’ una di quelle mezze streghe, e a volte di essere stata anche una mezza qualcos’altro da giovane, o anche di esserla stata per intero, ma erano storiacce che non bisognava ascoltare, davvero. Solo cattiverie.

Parla che ti riparla, la signora Cavalli cominciò a confessare sottovoce le sofferenze che le causava la donnaccia di cui sappiamo bene, come la sua cucina fosse la migliore del mondo, ma le avevano rifilato un lavoro che non la valorizzava e c’era il rischio che la gente non capisse, che preferissero altre cose, preparate da quella donnaccia là, che poi non le cucinerà neanche lei, figuriamoci, quella non sa neanche bollire l’acqua senza bruciarla, non ci crede nessuno che quella là sappia cucinare qualcosa di decente, guarda. La signora Rastelli la ascoltò con simpatia, annuendo nei punti giusti e aggiungendo mugugni di consenso e comprensione ogni volta che sembrava necessario.

Quando il monologo della signora Cavalli stava ormai sgocciolando alla sua naturale conclusione, il volto della signora Vittoria Rastelli si illuminò di un sorriso più caldo e quasi genuino. Fu allora che la paziente ascoltatrice si tolse la briga e di certo il gusto di dare il consiglio giusto alla parlatrice.

«Ma, senta,» le disse a voce bassa. «Se lei è davvero così preoccupata che qualcuno possa pensare che i piatti della sua rivale siano migliori dei suoi tortelli, perché non fa “qualcosa” per assicurarsi che questa signora Passera non combini un disastro? Uno bello grosso, dico.»

«Eh, sì, magari, ma cosa dovrei farci io? Che poi non è che li prepara lei i piatti, glielo ho detto. Lei al massimo li porta e poi li scalda un po’, ma li cucineranno quella disgraziata di mia nipote e quelle che le girano attorno, sa. Non c’è neanche bisogno che glielo dica da chi ha imparato a cucinare, la traditrice. E adesso mi va anche ad aiutare quella là per farle fare bella figura! Roba da matti.»

«Ho capito, signora, ma, guardi, non dico proprio sabotare, che è una brutta cosa e non sta bene fare cattiverie, però sa cosa succede a volte, qualcosa va storto, magari qualcuno si sbaglia e ci mette un condimento al posto di un altro, roba di un attimo, nella confusione generale, basta distrarsi e...»

La signora Erminia Cavalli guardò la signora Vittoria Rastelli come se non l’avesse mai vista prima. Il che era almeno in parte vero, perché fino a quel punto non aveva badato molto alla donna davanti a lei: era solo un muro del pianto su cui riversare ogni lagnanza. Adesso però la notò davvero. Sotto i capelli cotonati anni Ottanta in una improbabile tintura biondo platino e abiti da gattara allo stadio terminale si nascondeva una mente piuttosto acuta. E interessante.

«Avrebbe per caso qualche condimento da suggerire?» le domandò con falsa innocenza.

La signora Rastelli si strinse nelle spalle. «Se vuole passare da me domani, ne potremmo parlare.»

Ma la signora Cavalli non era la sola a essere tormentata da dubbi. Come la sua acerrima nemica, e più o meno nello stesso periodo, anche la signora Cesira Passera era condannata a contemplare, nel silenzio della cucina, la paura che le sue abilità di cuoca e l’assistenza della nuora (sulla presenza di altre amiche aveva mentito) non fossero sufficienti a convincere gli avventori della sagra patronale. Chi fosse la migliore era indiscutibile, ma non sempre essere e apparire coincidono.

E se qualcuno avesse pensato che cucinava meglio l’Erminia? Peggio: e se a pensarlo fossero stati in molti? Ipotesi orrenda! Ma non impossibile. Dopotutto era tradizione mangiare i tortelli la notte di san Giovanni e quella vipera aveva ottenuto la novità. Tortelli vegani! Beh, d’accordo, lei mica li avrebbe mai mangiati, per carità, una bestemmia, ma la gente è strana, si sa, si lascia influenzare, va in cerca di cose insolite, vuole sperimentare.

E se li avessero mangiati davvero? Peggio: e se fossero piaciuti di più dei tortelli tradizionali? Con quello che si mangiava al giorno d’oggi, tutto surgelato e con dentro chissà cosa, erano in molti che avevano la lingua difettosa. Poteva succedere di tutto. La strega poteva farsi la fama di essere chissà che grande cuoca, e solo perché gli altri avevano la bocca rovinata dalla troppa porcheria.

Era un pericolo. C’era da fare qualcosa per prepararsi. O prevenirlo, meglio ancora.

Fu il fato, la fortuna, il caso o quello che vi pare a metterci anche qui il famigerato zampino. E forse per ironia o forse per giustizia, lo fece utilizzando lo stesso strumento: la signora Vittoria Rastelli.

La signora Passera la incontrò il ventuno di giugno, due giorni prima della festa, mentre era a fare la spesa al vicino supermercato. Si conoscevano di vista, ma anche di udito, e chiacchierarono un poco in fila alla cassa, per poi continuare all’uscita del negozio, le borse posate a terra e pettegolezzi che correvano a ruota libera. Si parlò di questo, si parlò di quello, per arrivare poi al grande evento, alla sagra in parrocchia che costituiva più o meno il clou di inizio estate per chi viveva in paese.

Una cosa tira l’altra e senza quasi accorgersene la nostra povera Cesira Passera aveva cominciato a confessare sottovoce i dolori che la angustiavano, gli impegni che si era assunta in parrocchia, ma lo aveva fatto volentieri, per carità, tutto lavoro benedetto, si sa, a lei piaceva molto cucinare, ed era la più brava, ovvio, ma c’era quella serpe convinta di essere chissà chi, e il lavoro che le avevano dato, davvero, quella là poteva inventarsi di tutto, lo so bene io, cosa potrà mai combinare alla sagra, e gli altri cosa diranno, eccetera eccetera.

Era un guaio davvero. I tortelli devono essere fatti come si comanda, come da tradizione, ma si sa, è terribile, la gente al giorno d’oggi si inventa di tutto, e se poi avessero preferito i suoi di tortelli? La porcheria di quella vipera, dico. Per sperimentare qualcosa di nuovo, sa. Magari avrebbero pensato che i suoi tortelli erano vecchi. Che lei era vecchia. E solo perché quella là, guardi...

La signora Rastelli sorrideva e annuiva. Capiva benissimo, per carità.

Così, dopo qualche altra chiacchiera generica, diede anche alla signora Cavalli lo stesso consiglio in precedenza elargito alla sua rivale. E se a qualcuno scappasse di aggiungere un qualche condimento speciale al ripieno dei tortelli? Giusto per correggere un poco il sapore, giusto per essere sicuri che i migliori ricevano il rispetto e il riconoscimento che meritano. Non è per sabotare l’altra, per carità! È solo in nome della giustizia. È solo a fin di bene. Per proteggere le tradizioni. Sa.

La signora Cesira Passera fissò a lungo la signora Rastelli, pensando. Pensando. Vuoi vedere che, a dispetto delle apparenze, sotto quei capelli cotonati anni Ottanta e quella pessima tinta, per tacere di quei vestiti da gattara matta, si nascondeva una mente acuta e geniale?

Non che lei avrebbe avuto davvero bisogno di ricorrere a certi sistemi, sia chiaro. Ma, nel caso, solo a titolo di garanzia, si sa. Per ogni evenienza. Non si sa mai cosa può succedere. Ovvio.

«E avrebbe forse qualche condimento da suggerire?» le domandò con falsa innocenza.

La signora Rastelli sorrise serena. «Se vuole passare da me domani, potrei avere qualcosa per lei.»

Così, il giorno della sagra, le due sfidanti si presentarono in parrocchia di buon ora con in borsetta una piccola bottiglia, acquistata a caro prezzo da una certa signora che, nonostante la pettinatura, la testa la sapeva usare sul serio. Si incontrarono all’ingresso della cucina, si scambiarono falsi sorrisi cordiali e saluti che potevano addirittura essere scambiati per gentili, si rimboccarono le maniche e il lungo lavoro da cuoche cominciò, tra aiutanti che andavano e venivano e tutta la confusione che si può trovare nei luoghi in cui le bocche che parlano sono sempre più numerose delle mani che fanno.

Non fu poi così difficile aggiungere un piccolo ingrediente extra ai tortelli della signora Cavalli e la signora Passera lo fece alla prima occasione. In nome della giustizia, sia chiaro. Allo stesso modo la signora Cavalli non ebbe difficoltà a trovare il momento giusto per aggiungere il piccolo ingrediente extra ai tortelli della rivale. Solo per far trionfare la giustizia, ci siamo capiti.

Alla fine del pomeriggio le pietanze erano pronte, le bottigliette erano vuote e le due signore erano fiere del lavoro svolto, nonché sicure che quella vipera della rivale avrebbe ricevuto la sorpresa che si meritava, lei e la sua linguaccia e tutto quello che le aveva fatto passare per anni. Qualunque cosa fosse, perché neppure le due interessate se lo ricordavano molto bene ormai, ma i torti erano tanti e i tortelli li avrebbero raddrizzati. Da un certo punto di vista. E in nome della giustizia, appunto.

Nessuna si era preoccupata di quale fosse di preciso il contenuto delle bottigliette. Erano bastate le vaghe allusioni della signora Rastelli, unite alla consapevolezza che era qualcosa che avrebbe fatto perdere la faccia alla rivale, quella befana. Il resto era secondario.

Forse avrebbero fatto meglio a preoccuparsene.

La sera del ventitré giugno, sotto un cielo ancora luminoso e afoso, cominciò la festa del patrono. E fu una festa che in paese avrebbero ricordato a lungo, anche se all’inizio sembrava la solita solfa, in ogni dettaglio identica a mille altre che si erano svolte in passato. Ok, forse meno di mille, ma l’idea è quella, ci siamo capiti. Gente arrivava, chiacchierava, si metteva in coda alla cassa, ritirava il cibo, andava in cerca di un posto dove sedersi, magari degli amici inviati come avanguardia a occupare i posti sulle panche attorno ai lunghi tavoli, e poi mangiava, chiacchierava ancora, sputacchiava qui e là frammenti di cibo, gesticolava, vociava, eccetera eccetera. La musica sarebbe arrivata più tardi, ma l’aria era già brulicante di baccano, come si conviene in certe occasioni mondane.

Per valori molto provinciali di mondano.

La signora Passera e la signora Cavalli se ne stavano nell’angolo di cottura a rigorosa distanza l’una dall’altra. Bollivano, scaldavano, riempivano piatti, vassoi, tegami, teglie, quello che gli assistenti si affrettavano a tendere verso di loro, in una sorta di piccola catena di montaggio alimentare. Il tempo per guardarsi attorno e spiare i risultati del loro sabotaggio non c’era, ma tenevano le orecchie tese e sintonizzate sulla piccola folla, pronte a cogliere ogni segno di malumore per girarsi verso la nemica e offrirle un sorriso gentilmente malvagio e malefico.

Al momento non succedeva alcunché.

Strano. Perché non si sentiva subito? I condimenti di solito funzionano così: tu li metti e il gusto del cibo cambia, in meglio o in peggio a seconda dei casi. Perché allora non arrivavano ancora versi di disgusto dalle tavolate? Che fosse qualcosa a effetto ritardato? Ma non aveva senso! Era soltanto un condimento, no? Speciale, d’accordo, ma pur sempre condimento.

Pure, la signora Rastelli aveva assicurato che funzionava, quindi prima o poi avrebbe funzionato, di questo erano sicure. C’era solo da attendere un poco, per chissà quale motivo. Le due rivali attesero.

Continuò a non succedere alcunché.

Sentendosi truffate, ma rifiutando di ammetterlo anche a se stesse, la signora Cavalli e la signora Passera sbuffarono quasi all’unisono, compressero le labbra in una linea retta e sottile, strinsero un poco le palpebre e scossero appena la testa. Qualcuno l’avrebbe pagata per questo scherzo, ma dopo e con calma. Adesso c’era la sagra a cui pensare. Il resto doveva attendere.

E ci pensarono, alla sagra del patrono. Lanciavano di tanto in tanto brevi occhiate alla gente, giusto nel caso che succedesse qualcosa, ma qualcosa si ostinava a non succedere e il loro umore peggiorò, mentre il lavoro aumentava e le soddisfazioni rimanevano una speranza lontana. D’accordo che non si sentivano lamentele contro i piatti dell’altra, ma almeno qualche complimento a ciò che stavano cucinando loro ci poteva stare, no? Voglio dire, costava molto dire un «che buono»?

La notte intanto prendeva il posto della sera, i fuochi d’artificio arrivarono e se ne andarono (non un granché, diciamolo pure: potevano sprecarsi un po’ di più, già che c’erano), la gente diminuiva e si avvicinava il momento di chiudere. La sagra poteva ormai dirsi finita, giusto gli ultimi rimasugli di pubblico da sfrattare, le pulizie da fare, tavoli e panche da spostare e tutto il resto de lavoro che ti dà la sensazione di un circo prima e dopo lo spettacolo, tanto per citare un poeta. Ringraziamenti qui e là, scambi di complimenti per il buon lavoro svolto, commenti, pettegolezzi, cianfrusaglie sociali da smaltire e insomma la festa di san Giovanni era andata anche per quest’anno.

Da un certo punto di vista. Da un altro punto di vista, invece, doveva ancora cominciare.

Il primo a esplodere fu Salvatore Ciappi (54), aiutante tuttofare della parrocchia, che aveva speso il grosso del pomeriggio a gironzolare per le cucine come assaggiatore ufficioso per concludere poi i lavori con una robusta mangiata prima che la festa cominciasse. Quasi folgorato sul posto, lo videro piegarsi a metà con una smorfia, abbandonando a terra la panca che stava trasportando. Era bianco e parecchio sudato. «Non sto molto,» ebbe il tempo di bofonchiare, poi si lanciò verso i bagni con una strana corsa accartocciata. Raggiunse la porta in tempo, ma il resto... beh, tentativo coraggioso.

Toccò poi a Giuseppe Fermo (41) e Piero Buffa (60), entrambi volontari e assaggiatori, nonché noti frequentatori di tutto ciò che la parrocchia organizzava. A breve li seguì Anna Caliperi (55), che non voleva farsi notare troppo, ma alla fine fu costretta a correre, perdendo una scarpa per strada. Tempo di guardarsi attorno perplessi e anche Lina Trifola (48) decise che aveva una telefonata urgente e si doveva proprio assentare per un momento, ma torno subito, non è niente. A porre il sigillo finale sul tragico epilogo fu la smorfia di don Dario, che ebbe giusto il tempo di dire «Credo che qualcosa m» prima di accasciarsi a terra coi pantaloni alquanto appesantiti.

La signora Cavalli si guardava attorno con l’espressione di chi sta vivendo un incubo, ma non è poi così sicura che sia solo un incubo. La colse un terribile pensiero, subito seguito da una più terribile fitta addominale. Quella serpe! Cosa aveva fatto ai suoi tortelli? Perché non aveva mangiato altro, si era guardata bene dal mangiare altro, soprattutto la roba che aveva cucinato la vipera! La sua testa si girò di scatto a fissare l’orribile donnaccia e la vide pallida, leggermente piegata, una mano premuta sull’addome. Pallida di faccia, sì, ma i suoi occhi bruciavano.

La signora Passera non impiegò molto a capire cosa stesse succedendo. Anche lei si era guardata dal mangiare cibo preparato dagli altri, specialmente ogni assaggio al cibo della rivale, perché c’era da essere sceme a mangiarlo dopo la piccola correzione che aveva aggiunto al ripieno. E se adesso si sentiva male, la ragione poteva essere una sola: quella maledetta donnaccia aveva avvelenato i suoi tortelli, che lei e la nuora avevano cucinato con tanta cura. Strega malefica!

«Tu!» si urlarono a vicenda, puntandosi con braccio teso e indice tremolante, in un campo che si era ormai svuotato. Restavano panche abbandonate a terra, oggetti lasciati cadere in fretta, un sacco di rifiuti afflosciato e un parroco in apparente stato di incoscienza maleodorante.

«Tu!» si urlarono di nuovo, con l’altro braccio impegnato a trattenersi le viscere nella pancia. Non ci furono fulmini o improvvise folate di vento a creare l’atmosfera giusta, ma solo il caldo umido e soffocante di una nottata estiva in pianura, più il ronzio di zanzare e una colonna sonora gentilmente offerta da milioni di grilli. Ambiente a parte, la tensione da duello finale c’era tutta.

«Tu!» ripeterono per la terza volta, perché era una bella parola e faceva il suo effetto.

«Cosa hai fatto ai miei tortelli, strega!»

«Cosa hai fatto ai miei tortelli, vipera!»

Una nuova, improvvisa fitta intestinale le costrinse a fermarsi e accartocciarsi; poi la fitta passò e la sfida poté ricominciare, tra accuse e insulti urlati da una parte all’altra. Proseguì per un certo tempo, mentre si caricavano per colpire o magari attendevano che arrivasse qualcuno a fermarle. È anche possibile che temessero le conseguenze di movimenti troppo bruschi. Siccome nessuno arrivò e non si poteva continuare a soffiarsi contro alla maniera dei gatti, le due rivali si concessero un ultimo urlo, di nuovo all’unisono, e finalmente passarono all’azione.

«Ti sistemo io

La signora Cavalli afferrò un mattarello, la signora Passera una teglia vuota. Con un forte ruggito da pitecantropo in pensione, le due donne si lanciarono l’una contro l’altra agitando le armi di fortuna. O di sfortuna, a seconda dei punti di vista.

Non fu una corsa agile o bella a vedersi, ma ottenne il suo risultato.

I primi a soccorrerle furono i carabinieri Salvatore Sciacca (40) e Marcello Mezzanotti (31), arrivati sul luogo in risposta alle chiamate di un vicino che si lamentava per il baccano in parrocchia. Alla vista di corpi distesi a terra in un lago dal colore marroncino, i tutori dell’ordine temettero il peggio. La presenza di mosche a sciame non incoraggiava pensieri positivi. Poi si avvicinarono meglio e il loro naso segnalò che la pozza non era formata da sangue, anche se era una sostanza organica.

«E adesso?» chiese l’appuntato Mezzanotti. «Chiamiamo la pubblica o gli spazzini?»

Ancora non è stato possibile reperire la signora Vittoria Rastelli, la cui testimonianza potrebbe fare luce su angoli ancora misteriosi della tragedia. Nel mentre, possiamo ipotizzare che per le prossime edizioni della sagra ci saranno grandi cambiamenti nell’organigramma della cucina.

NAS permettendo.

di Adriano Marchetti