Adriano - racconti e altro

Cecrope

Anche Socrate è morto, qualche giorno fa. Lo condannarono con l’accusa di empietà, ma non oso immaginare a quale sorte potrei andare incontro io, se rivelassi la mia storia. Forse a qualcosa di peggiore, perché mi considererebbero un traditore, un nemico di Atene. Non conterebbero più nulla gli anni spesi al servizio della città, la nobiltà dei miei avi, o tutto il resto. Soltanto a Socrate lo dissi, perché era l’unico che potesse capire, senza considerarmi pazzo o denunciarmi alle autorità.

E adesso è morto anche lui, come tutto ciò che mi circonda. L’Atene di un tempo, quella in cui ho creduto, non esiste più. Ammesso che sia mai esistita davvero. È solo per questo che oggi ho deciso di raccontare la mia storia. Non ho più nulla da perdere, se non la mia vita, ma anche questa è ormai un fardello inutile. Anche le ultime illusioni sono cadute: ora posso anche seguirle.

Zeus misericordioso, perché non hai steso l’oblio sulla mia memoria, cancellando l’immagine di ciò che vidi allora? E tu, Atena Pallade, perché non mi hai fermato, quando la gioventù mi spinse alla follia di un sacrilegio che, solo tra tutti, non potrà mai essere perdonato? Perché io scoprii quel che si nascondeva nel cuore della tua città, la città che porta il tuo nome e che a te eleva sacrifici. E ora non riesco più a credere a te, o agli altri numi d’Olimpo. Per anni ho tentato di illudermi, di mentire a me stesso, ma non è servito. Adesso sono pronto ad affrontare ogni punizione che gli uomini mi vorranno infliggere, perché non sarà peggiore di ciò che già so.

Erano i primi anni di Pericle al potere, poco dopo l’ottantaduesima olimpiade. Io ero giovane e, come tutti i giovani, insolente e arrogante. Mi burlavo delle assurde credenze dei miei padri e non rispettavo i numi, ridevo delle storie sulla nascita della nostra città. Forse fu proprio per questo che gli olimpî vollero punire la mia tracotanza, scostando per un attimo il velo che cela la realtà e mostrandomi gli orrori che giacciono sotto di esso. Ciò che seguì, furono le erinni della mia colpa.

I lavori sull’acropoli erano appena cominciati. In barba alle promesse di Platea, Pericle aveva deciso di ricostruire i templi distrutti dai barbari. Il più grande di tutti, dedicato ad Atena Parthenos, stava sorgendo proprio allora. È con un brivido che ora lo guardo, perché so quali terribili segreti siano nascosti a poca distanza da esso, tra i marmi bianchi che splendono al sole. Ma era notte quando mi avvicinai a esso e la luna pareva il falcetto di Ecate, sospeso sopra la mia testa, come in attesa di un sacrificio. Sarebbe stata una chera meno spietata, per me.

Non fu difficile superare le mura, attorno alla collina. Era un’epoca di pace, o così ci raccontava sempre Pericle, e nessuna guardia mi vide, mentre strisciavo nell’oscurità, verso la mia meta. Là dove passai, adesso sorge un tempio consacrato ad Atena Nike, ma in quegli anni era ancora un progetto nella mente del nipote di Cimone. Non oso immaginare quali forze possa tenere a bada, né quali fossero i culti più antichi, che si celebravano sui bastioni dell’acropoli fin dai tempi dei primi sovrani. Temo di saperlo, ma preferisco non pensarci.

Il mio obiettivo era la zona meridionale, dove tutti dicevano che si trovasse il sepolcro di Cecrope. Volevo dimostrare ai miei amici che si sbagliavano, che solo il popolino ignorante poteva credere a simili storie, leggende di epoche troppo remote per essere vere. Non so quale demone mi abbia condotto laggiù o quale pazzia abbia accecato la mia mente. Forse apparirebbe meno assurdo oggigiorno, quando tutti gli intellettuali ostentato un ateismo di facciata. Io non osai più accostarmi agli dèi, da allora, perché ho orrore di quello che noi ammantiamo sotto nomi affascinanti e racconti piacevoli da sentire. Temo la verità della loro natura.

Forse volevo dimostrare che Cecrope non era mai esistito, o almeno non nella forma che la storia ci tramanda. Un egiziano, per metà mostro, non poteva essere il fondatore di Atene, né un uomo dai piedi di serpente, nato dalla terra. Avrei dovuto accontentarmi, anziché sfidare il fato e i numi. Ora c’è un tempio a proteggere l’accesso alla tomba, ma allora era segnalato solo da un edificio molto più rozzo, fra i pochi rimasti dalla guerra coi barbari. Forse neppure loro avevano osato avvicinarsi, quando arsero la nostra Atene.

Non mi sentii blasfemo o sacrilego, quando penetrai in quella galleria nella roccia: ancora credevo che là sotto, al massimo, potesse esserci un uomo, non certo la creatura per metà serpente, che le storie descrivono spesso. Come mi sbagliavo! La sola consolazione è che nessuno, in seguito, ha mai parlato del passaggio, che imboccai alla luce di una torcia. Potrei aver sognato tutto ciò che accadde, dopo aver scoperto la fessura nella parete, oltre il misero monumento che avrebbe dovuto essere la tomba di Cecrope. Niente più che una grossa pietra scostata, da cui proveniva un soffio d’aria che faceva pensare a sotterranei più vasti. Mi feci strada, senza timore.

Il resto potrebbe essere un’allucinazione. Anche Socrate mi disse che tutto era stato solo un sogno, eppure il suo volto esprimeva disagio, mentre ne parlavo. Forse neppure lui credeva alle sue parole, o forse sapeva qualcosa in più. Camminai a lungo nella tenebra, con la torcia a illuminare un breve tratto di strada. C’erano strani bassorilievi alle pareti, molto antichi, ma li esaminai solo di sfuggita. Volevo scoprire cosa si nascondesse nel cuore dell’acropoli, quale segreto fosse celato dietro la storia del nostro fondatore. Lo scoprii, purtroppo, e il suo ricordo ha tormentato per anni le mie notti, come le erinni più selvagge. Credo che sia la punizione per aver guardato un dio.

Il passaggio era stretto, ma alla fine sbucò in una grotta molto ampia, ben più di quanto io potessi vedere. E c’era un odore terribile, quale non ho più sentito. Mossi solo qualche passo in quel luogo, prima di scorgere una sagoma immane, grande molto più di una trireme, che si agitava nel buio. Il coraggio mi lasciò, quando la luce della torcia si fu posata su quella creatura. Perché questo era, non una statua o un cadavere: qualcosa di vivo. Sollevò il busto, inarcandosi all’indietro come una serpe, e nell’ombra credetti di scorgere il profilo di un incubo partorito dall’oscuro Tartaro, solo in piccola parte umano. Nei lunghi arti, che spuntavano dal largo tronco, stringeva ciò che un tempo, forse, era stato una persona, o uno schiavo. Pareva un giocattolo fra quegli artigli.

Due occhi da rettile si accesero nel buio e uno strano suono si diffuse, sibilante. Ma erano parole, di una lingua più antica di quella di Omero e degli eroi da lui cantati. Fu allora che fuggii, risalendo la galleria, troppo stretta perché quell’essere potesse seguirmi. Persi la torcia, da qualche parte, ma me ne sarei accorto solo molto tempo dopo. Urtai più volte contro le pareti, fuori di me, senza sentire il dolore. Correndo, uscii dalla tomba di Cecrope, prima di crollare a terra, esausto, e spegnermi in un oblio che fu dono di Zeus, o una sua maledizione.

Mi svegliò il sole e una guardia che mi stava scuotendo per le spalle. Borbottai qualcosa, frasi prive di senso, e forse mi credettero ubriaco, o pazzo. Non tornai più in quel luogo e non volli mai sapere se quel passaggio esistesse davvero. Ma non mi sorpresi, quando vi eressero un tempio, a custodire il sepolcro, anche se è meglio non conoscere i riti che si compiono laggiù.

La storia dell’uomo serpente, nato dalla terra o venuto dall’Egitto, colui che regolò il culto di Zeus e di Atena: è davvero questo che nasconde? E se è così, quale potrà mai essere il vero volto dei nostri dèi, dietro le maschere che abbiamo dato loro? Il pensiero non mi ha più abbandonato. A cosa sono diretti i nostri sacrifici, le nostre preghiere? Cosa si agita tra le nubi dell’Olimpo, o negli abissi di Delfi? Posso solo chiedere la benedizione della morte, e della cicuta, prima di doverlo scoprire.

di Adriano Marchetti