Adriano - racconti e altro

Col missile in testa

In quella che sarebbe rimasta nella memoria come la notte del missile, ma solo in seguito e solo per chi l’aveva scampata, Ambrogio Colomba sedeva sulla sua panchina preferita e guardava il traffico scorrere. Per quel poco che scorreva. Più che altro stagnava, ma Ambrogio lo guardava e questo ci può anche bastare. Lo faceva solo per passare il tempo, dopotutto.

Non era una persona felice, il nostro osservatore del traffico, ma non era neppure così triste. Aveva raggiunto la spianata grigia della rassegnazione, in cui hai preso coscienza del tuo posto nel mondo e lo hai accettato, abbandonando le illusioni di tempi migliori per scendere a patti con la realtà. Che, nel suo caso specifico, era il barbonaggio in un’area periferica della giungla urbana.

Viveva sulla sua panchina, quando poteva. Quando non poteva, cercava un buco in cui infrattarsi, al riparo dalle intemperie e dagli scarponi degli sbirri di passaggio. Le tane non mancavano, in zona, tra cantieri semidimenticati e case sfitte nonché sfatte. Più sottopassaggi, cavalcavia, addirittura un paio di portici, che erano sistemazione di lusso. Se ti sapevi adattare, e sapevi identificare quelli che potevano linciarti o bruciarti nel sonno, riuscivi a vivere con tutta la dignità di un cane randagio.

Ambrogio Colomba era barbone professionista da almeno venticinque anni e aveva ricevuto solo un paio di ustioni di secondo grado, qualche livido e un osso rotto, più un lieve caso di assideramento alla mano sinistra, che era passato senza troppi danni. Con la sicurezza di chi ha visto il peggio e sa che dal mondo riceverà soltanto sputi, il nostro eroe sedeva adesso sulla panchina preferita, qualche borsa di plastica ai suoi piedi, qualche forma di vita tra i capelli, un sorriso da Buddha e la serenità di un’altra giornata che volge al termine. Aspettava, ma senza aspettative.

Automobili, qualche pedone, motocicli, mezzi pubblici, un’ambulanza a sirene spente. Il panorama urbano in movimento era variegato e transitava davanti a lui, spesso ignorandolo, talora schifandolo e quasi mai degnandolo di uno sguardo gentile, o anche solo pietoso. Ambrogio Colomba era giusto una bruttura architettonica come tante e come tante era meglio fare finta che non esistesse. Prima o poi sarebbe sparito, magari nel corso di un qualche rinnovamento del quartiere o cose così.

Ambrogio tendeva a ricambiare l’indifferenza. Era più sicuro. Ignorali e spesso ti ignoreranno pure loro. Attraversa la loro strada e il giorno dopo potresti essere diventato un trafiletto sul quotidiano, e l’idea di finire sul giornale non lo attirava affatto. Ma il cielo era sereno, l’aria tiepida e calma, non troppo fetida o irritante, e insomma era bello restare seduto ad aspettare un amico.

Così Ambrogio Colomba attendeva sulla sua panchina, mentre la città gli scorreva attorno. C’era un leggero sorriso sulle sue labbra. Sue di Ambrogio, dico, non della città. La città sorrideva ben poco, ma sembrava contenta così. A ciascuno il suo, dopotutto. Ambrogio era filosofo, con tanto di laurea ad attestarlo, e prendeva la vita con filosofia. Era un condimento buono come un altro.

C’era un uomo con un missile in testa.

Ambrogio chiuse gli occhi per un istante. Quando lì riaprì, l’uomo esisteva ancora e un missile gli spuntava ancora dalla calotta cranica. O meglio, sembrava conficcato nella calotta cranica, come se gli si fosse piantato in testa, piovuto da chissà dove.

Missile a parte, l’uomo poteva essere un qualunque altro esemplare della specie dominante in città. Altezza media, tracce di pancetta, anni fra i quaranta e i cinquanta, brizzolato e un poco stempiato, elegante a sufficienza da non farsi guardare male, valigetta in una mano, smartphone nell’altra. Con tutta probabilità un qualche professionista, magari diretto verso la più vicina fermata della metro, o proveniente da lì. Il genere di persona che non noti, di solito.

Se ha un missile infilato nel cranio, però, lo noti di sicuro.

Il tizio rallentò e si girò verso Ambrogio. Lo vide. Lo guardò. Una intensa espressione di disgusto si dipinse sul volto. Arricciò il naso, aggrottò la fronte, tornò a fissare davanti a sé e riprese la propria marcia al ritmo di prima, forse giusto un poco più veloce.

Ambrogio Colomba lo osservò in silenzio, mentre attraversava il suo campo visivo e spariva verso altre vite e altri mondi. Una scena piuttosto insolita, lo doveva ammettere. Non aveva mangiato, per cui non poteva essere un’allucinazione causata da cibi avariati. Dalla fame, forse? Possibile, ma non probabile: non gli era mai accaduto, dopotutto. Non beveva, quindi anche il delirium tremens era da escludere. Malattie? Si sentiva piuttosto bene, al momento, ma grazie dell’interessamento.

Forse il missile era reale. Per un dato valore di realtà.

E lo sguardo schifato che gli aveva rivolto il tizio missilato?

Ma era normale amministrazione, barboni come Ambrogio facevano schifo a tutti. Chi lo vedeva gli dedicava sempre una smorfia di disgusto, prima di passare oltre. Era una legge di natura, o almeno sociale. Non era neppure la peggiore: finché guardano e passano, non c’è problema. Il problema si verifica quando si fermano. Spesso significa che arriveranno botte. O peggio.

Il missile, invece.

Ambrogio si sistemò meglio sulla panchina e cominciò a guardare davvero i passanti, non soltanto a vederli. In una decina di minuti notò altre due persone col missile: un adolescente di pura razza non ariana e una donna giovanile con un ratto al guinzaglio. O forse era un cane. Probabilmente era un cane, anche se non lo sembrava. Entrambi lo guardarono di sfuggita, senza commentare.

Poteva essere una nuova moda. C’erano sempre idiozie simili, che partivano da un idiota persuasivo e si diffondevano tra altri idioti persuadibili. Un missile in testa era stupido, ma ne aveva già viste di peggiori. Poteva anche essere un qualche tipo di protesta contro una qualche guerra da qualche parte nel mondo. Sì, suonava meglio così. Una protesta contro i bombardamenti. Plausibile.

«Buonasera, mia piccola vedetta lombarda!»

La voce nota lo riscosse dai suoi pensieri e lo riportò al reale. Una sagoma familiare si avvicinava a un passo andante moderato. Non troppo alta, esile, un poco ingobbita, spalle strette e pelata larga, il solito incrocio di linee sulla fronte e attorno agli occhi, una espressione da bassotto bastonato: come non riconoscere il buon vecchio Carlo Frossi? Ambrogio alzò una mano sporchiccia.

«Ben arrivato, custode dell’eternità.»

Carlo sorrise e scosse un poco la testa. «Custodisco ben poco, io. Al massimo la spolvero.»

«Spolveratore dell’eternità, come preferisci.»

«Il tuo saluto odierno fa particolarmente schifo. Senza offesa.»

«Ne penserò uno migliore per la prossima volta. Il tempo non mi manca. Mi centra sempre.»

«Non so da dove ti vengano quelle fantastiche battute, ma spero di non doverlo mai scoprire.»

Carlo Frossi sedette accanto all’amico, ma alla massima distanza concessa dalla panchina. C’erano pur sempre limiti a quanto potevi resistere accanto ad Ambrogio ed era meglio non superarli, se solo ne avevi la possibilità. Ma erano amici da anni e tra amici un poco di cattivo odore si può ignorare.

«Qualcosa di interessante, oggi? Il nostro Diogene moderno continua la lotta per proteggere la città, che la città lo voglia o meno?»

Ambrogio Colomba scrollò le spalle. «Interessante non direi. Curioso, però, ci può stare. Senti...» E raccontò all’amico dei missili che aveva visto in testa ad alcune persone. «Ne sai qualcosa tu?»

Carlo Frossi lo fissò per un poco. «Sapere decisamente no,» rispose poi, «ma ne ho visti anch’io per strada. Non gli stessi che hai visto tu, immagino, ma gente che ha in testa una specie di missile? Sì, ce n’erano diversi in metro. Qualcuno anche fuori, in effetti. Non ci avevo pensato molto, trovi tanta di quella roba assurda quando giri un po’, ma...» Scrollò le spalle.

«Quanti diresti che erano? Grossomodo.»

«Una dozzina in totale, credo. Non abbastanza per configurarsi seriamente come i prodromi di una nuova moda demenziale, ma sufficienti per essere identificati come una piccola enclave cittadina.»

«Mi piace quando mi parli sporco. È la tua laurea che alza la testa per la salutatio mattutina.»

«Il tramonto è già passato, comunque. E non ti dico dove andare, perché lo sai già.»

Sorrisero. Parlottarono ancora per un poco dei missili in testa, poi l’argomento si esaurì da solo in una mancanza endemica di interesse da parte dei dialoganti. L’ora di cena venne e se ne andò. Carlo Frossi procacciò cibo per entrambi in un vicino take-away e mangiarono assieme sulla panchina, la città che continuava a scorrere attorno a loro, avvolta adesso nelle sue luci artificiali e artificiose. Si parlò della vita, l’universo e tutto quanto. Si parlò dei tempi andati, che erano sempre un buon tema su cui ripiegare in assenza di alternative. Si ridacchiò.

Ma erano andati parecchio, quei tempi. C’era stata un’epoca in cui erano compagni di classe al liceo e la vita si spalancava davanti a loro come una promessa in campagna elettorale. Non proprio due giovani di belle speranze, ma due giovani che avevano possibilità, come riconoscevano insegnanti e genitori. Poi il liceo era finito, l’università li aveva inghiottiti, le loro strade si erano separate, corso di filosofia per Ambrogio e corso di archeologia per Carlo, ma il legame era sopravvissuto. Amici; spesso a distanza, ma amici lo stesso.

La laurea era stata la ghigliottina delle speranze, ameni inganni o meno che fossero. Entrambi con pieni voti, entrambi col nulla davanti. E adesso io? Tra una cosa e l’altra, era finita con Carlo Frossi a lavorare in una partecipata del comune, che si occupava della gestione dei cimiteri, e Ambrogio Colomba a sopravvivere in strada, filosofo nel cuore e sulla carta, in società persona inutile.

Era stata brutta, ma non poi così orribile. Carlo aveva almeno un lavoro stabile e retribuito, anche se non molto, e i suoi vecchi studi erano diventati oggi una specie di hobby con cui cercava di tenersi vivo e non troppo insano di mente. Aveva anche un sito, dove si dedicava a tempo perso a un poco di divulgazione archeologica. Qualcuno lo visitava. Ambrogio aveva cercato lavoro per diversi anni, ricevendo solo risate. Dalla casa di famiglia a un buco in affitto, poi in strada, il tutto senza passare dal via e ritirare qualche soldo. La vita e la società lo aveva spazzato tra i fuoricasta e da lì non si era più saputo riprendere. Cose che capitano.

Ma erano rimasti amici. Consolazione piccola, ma superiore a zero.

Adesso si incontravano di solito per strada, dove Ambrogio viveva. Carlo lo avrebbe anche ospitato nel suo bugigattolo di miniappartamento, ma l’offerta non era mai stata accettata. Forse orgoglio, o forse dignità, o magari testardaggine. Così chiacchieravano sulle panchine, meteo permettendo, e di solito Carlo Frossi aveva qualcosa da mangiare con sé, ma scopriva di non essere poi così affamato e facevano a metà, sarebbe un peccato buttarlo via, ho gli occhi più grandi della bocca, eccetera.

Mentre i due amici chiacchieravano, altri passanti col missile in testa transitavano davanti a loro. A volte Ambrogio e Carlo li notavano, altre volte erano troppo impegnati a rincorrere i bei tempi che furono e non si accorgevano di quanto avvenisse nel presente. I missilati, invece, notavano sempre i due amici. Si giravano, li guardavano, passavano oltre. Per adesso.

Ma c’era sempre più gente con in testa quella stramba decorazione. Alcuni dei missili avevano pure cominciato ad accendersi di luci intermittenti, come un addobbo natalizio. Non che qualche persona sana di mente avrebbe davvero usato un missile come addobbo natalizio, ma l’effetto era quello. Se non badavi troppo al contesto, beninteso.

Ambrogio e Carlo non vi badavano proprio, smarriti come erano in epoche lontane, le stesse dove era forse possibile trovare le nevi di Villon, ammesso che il riscaldamento globale non le abbia già sciolte per sempre. Fu un urlaccio a riportarli al presente, un suono che era più animale che umano, ma solo per valori molto umani di animale. Non conteneva parole, o almeno non di senso compiuto: solo una sfilza di vocali e qualche consonante gutturale, giusto per dare varietà al rumore. Veniva da un qualche punto davanti a loro, sull’altro lato della strada. Veniva dal mezzo di una folla, non così numerosa o compatta, ma comunque un nutrito gruppo di ominidi, nonché un gruppo di ominidi ben nutriti, a giudicare dalle sagome sospese tra lampioni e insegne.

I due panchinari alzarono la testa quasi in sincronia, si girarono verso la fonte dell’urlaccio e videro l’ammassata di persone. Videro soprattutto le teste di quelle persone. Erano tutte decorate da quello strano missile, conficcato più o meno in verticale nel loro cranio, ma adesso il bizzarro addobbo era vivo. O meglio, sembrava vivo. Pulsava.

Ambrogio sbatté le palpebre e guardò meglio. No, non pulsava proprio. Sembrava pulsare, ma solo perché le luci si accendevano e spegnevano a un ritmo molto regolare, come insegne o addobbi. Lo stavano facendo già da un poco, in realtà, ma lui se n’era accorto soltanto adesso, per cui lo trovò un cambiamento strano e piuttosto inquietante. Si girò verso Carlo: a giudicare dalla sua faccia, anche lui non doveva sentirsi molto rassicurato da quelle luci.

«Dici che è normale che lampeggino così?»

Carlo Frossi scrollò le spalle, sguardo sempre fisso sulla folla. «Non ne ho idea. Forse sì. Se si tratta di una decorazione di un qualche tipo, potrebbe illuminarsi da sola quando è buio. Perché qualcuno si dovrebbe mettere in testa un aggeggio che lo fa assomigliare a un albero di natale, poi, è un altro paio di maniche, ma...» Altra scrollata di spalle.

Dalla massa di missilati si alzò un secondo urlaccio. Era inarticolato come il primo, ma sembrava il prodotto di una persona differente. Più vecchia, forse. Gutturale e rauco, quasi catarroso. Non molto piacevole anche in circostanza normali e quelle non lo erano proprio.

«Secondo te cosa stanno facendo?» chiese Ambrogio.

«Secondo me non lo voglio sapere, ma temo che presto lo dovrò scoprire.»

Il mucchio di gente non era più serrato come all’inizio. Si stava allargando, scollando, e si poteva in parte vedere cosa ci fosse nel centro. Si poteva soprattutto vedere che i missili avevano cominciato a lampeggiare con un ritmo diverso, sincronizzati tra loro: se non fossero stati oggetti misteriosi che parevano conficcati nel cranio di esseri umani, lo spettacolo sarebbe stato anche piuttosto bello, una coreografia di pregevole fattura, anche se magari non proprio di buon gusto.

In mezzo alla folla sembrava esserci una persona. Esserci stata, anzi. I residui attuali non li potevi proprio descrivere come “persona”. Era più una cosa. Parti di una cosa. Se eri di bocca buona e di stomaco forte, potevi anche descriverla come smembrata, magari prima di vomitare.

«È solo un manichino, vero?» sussurrò Carlo Frossi. «Dimmi che è solo un manichino, per favore. O un pupazzo. Un, non so, un effetto speciale. O magari...»

«È solo un manichino,» rispose Ambrogio Colomba.

«Non lo pensi davvero.»

«No, non lo penso davvero,» ammise Ambrogio, «ma mi hai chiesto di dirti così.»

«Penso che questo non sia il momento migliore per le battute o i siparietti comici.»

«Lo penso anch’io. Era solo per, sai, sdrammatizzare un poco. Ecco.»

«Non ci sei riuscito molto bene.»

«Si fa quel che si può. Posso dirti però una cosa di cui sono quasi certo.»

«Quale sarebbe?»

«Visitare altre zone della città potrebbe essere una buona mossa. Cambiare aria, sai, per la salute. Tipo, adesso. Di corsa.»

La folla si era fermata, mentre i due parlavano. Così immobili a testa alta, sembravano a tratti uno strano branco di cani randagi che fiutano l’aria o si dedicano ad altre attività che hanno senso solo per i cani. Alcuni di loro ricominciarono a muoversi, girandosi a osservare una certa panchina; una con due occupanti privi di missile.

Carlo Frossi si alzò con la naturalezza e la disinvoltura di un attore consumato e mai riparato. Mani sui fianchi, distese la schiena a ricavarne un soddisfacente concerto di cric e crac, espressione più o meno impassibile e occhi che guardavano in ogni direzione in cui non si trovassero missilati.

«Bene, è stato un piacere rivederti, direi che è ora di tornare a casa, sai com’è. Impegni, cose così.»

Anche Ambrogio si alzò con la stessa disinvoltura nulla e cominciò a raccogliere i suoi sacchetti, lo sguardo basso e la schiena mai rivolta alla gente. «Penso anche io che potrebbe essere saggio andare a visitare una zone diversa. Non vorrei abusare della cordiale ospitalità di questo quartiere.»

«Giusto, giusto,» e cercò di spiare con la famigerata coda dell’occhio i movimenti della folla. Il suo occhio non aveva una coda, ma Carlo vide che la gente era ancora ferma nello stesso punto e la cosa che si trovava al centro del suddetto punto continuava a trovarsi al centro del suddetto punto. Forse sarebbero riusciti a svignarsela senza problemi. E forse, crepi l’avarizia, di problemi non ce n’erano in ogni caso. Poteva essere uno di quegli spettacolini idioti che improvvisano in strada, per filmarsi e condividere la propria demenza su una qualche piattaforma social. Ecco, giusto. Si erano accordati per incontrarsi in quel punto, più o meno verso quell’ora, e interpretare una scena da notte dei morti viventi con retrogusto trash ed effetti speciali da fantascienza anni ‘50 a budget nullo.

Era possibile, giusto? Magari anche plausibile, giusto? Perché pensare subito al peggio?

Perché il peggio, fin troppo spesso, è la verità.

Carlo Frossi guardò ancora una volta il gruppo di persone, sempre cercando di farlo di sfuggita. Era immobile, in apparenza: gente in piedi che formava un vago cerchio, al centro qualcosa su cui non ti volevi concentrare troppo, attorno una strana congrega di ominidi di varia età ed estrazione sociale, un missile infilato nel cranio, smartphone in mano, occhi da banco del pesce, bocche chiuse, faccia di chi attende il prossimo pensiero. Poteva essere una qualunque scena da binario della stazione, ma non lo era. Carlo scosse la testa e seguì Ambrogio, che se la stava già svignando.

Camminarono per un poco in silenzio, con occhiate regolari dietro le spalle, giusto per sicurezza. La gente non si vedeva più, forse sempre ferma nello stesso punto, forse dispersa altrove. L’importante era che nessuno li stesse seguendo e così pareva. Per adesso.

«Cosa pensi che sia successo?» chiese infine Carlo.

«Qualcosa che spero continuerà a succedere ad altri, e non a me,» rispose Ambrogio.

«Però non hai idea di cosa sia nello specifico.»

«Oh, di idee ne ho, ma sono tutte sgradevoli. Per questo preferisco non doverle verificare. Li hai visti bene, quei tizi? Ti sembravano sani? Ti sembravano normali

«Ti dirò, raramente la gente che incrocio per strada da queste parti mi sembra sana o normale, ma so a cosa ti riferisci. No, normali proprio per niente. E sani? Ritenta, sarai più fortunato.»

Ambrogio storse le labbra in una specie di sorriso. «Avevano in mano lo smartphone. Tutti.»

«Cosa perfettamente normale, di questi tempi. Sono strani quelli che non lo hanno in mano.»

«Vero, ma...» Gesticolò un poco con una mano, agitando i sacchetti di plastica che impugnava. «La cosa che... No, lasciamo perdere: non riesco a tradurlo in parole.»

«Insolito, per te. Di solito ci vuole la museruola per farti tacere, quando parti.»

«Oh, posso parlare quanto vuoi, per carità, ma non riesco a trovare i termini corretti per esprimere quello che ho in testa. È principalmente una sensazione, sai, e le sensazioni sono brutte beste, molto difficili da comunicare in modo esatto e preciso. No, lasciamo perdere. Il tuo smartphone, invece?»

«A casa. L’ho dimenticato freudianamente. Non che faccia molta differenza.»

«Non avevi voglia di portarlo e hai inavvertitamente deciso di non cercarlo, prima di uscire?»

«Qualcosa del genere. Tanto lo uso solo come orologio. Al massimo troverò l’ennesimo messaggio pubblicitario dell’operatore telefonico, in cui mi annunciano che sono il fortunatissimo vincitore di una favolosa promozione speciale, tutti i messaggi che voglio e X giga per una manciata di giorni, il numero da chiamare per attivarla, e così via. Spargila in un campo e magari cresceranno fiori.»

Per un poco camminarono e basta, in silenzio. O almeno nella versione approssimativa di silenzio a cui puoi avere accesso nel mezzo di un’area urbana, cioè gravido di decibel selvaggi. Non avevano una meta precisa, al momento: puntavano solo ad allontanarsi il più possibile da dove si trovavano prima. Presto sarebbero arrivati da qualche parte, che era una destinazione buona come un’altra.

Continuavano a incrociare persone col missile in testa.

Non molte, perché i pedoni non abbondavano in quella via e in quel momento del giorno, ma troppi per i loro gusti. Ne videro anche alcuni al volante, fermi ai semafori o incolonnati dietro a un bus. E all’interno dei bus, sì: molto più facili da notare, grazie alle ampie vetrate dei mezzi pubblici. I loro missili non lampeggiavano, il che poteva essere un buon segno, ma che ci fossero non aveva nulla di buono. La scusa della moda stramba poteva ancora reggere, ma con enorme fatica.

«Pensi davvero che lo smartphone abbia qualcosa a che fare coi missili?» chiese infine Carlo Frossi, mentre attraversavano la strada. Avevano appena incrociato due adolescenti, entrambi col missile ed entrambi col telefono in mano. C’era stato uno scambio di occhiate rapide, ma niente di più.

Ambrogio Colomba scrollò le spalle. «Potrebbe essere la causa, oppure un sintomo. Basandoci sulle nostre conoscenze attuali non possiamo escludere a priori nessuna delle due opzioni. Se otterremo ulteriori informazioni, magari potremo eliminarne una delle due, o anche entrambe.»

«Tiriamo a casaccio, insomma.»

«Esattamente.»

Nel frattempo i loro piedi li stavano conducendo verso la zona dove abitava Carlo, forse inseguendo un qualche disegno superiore o forse solo per abitudine maturata negli anni. D’altro canto, sarebbe stato piuttosto difficile dirigersi verso la zona dove abitava Ambrogio, dato che Ambrogio abitava in ogni luogo in cui ci fosse una panchina utilizzabile, oppure un portico, un riparo di qualche tipo. Se poi gli sbirri di pattuglia appartenevano alla rara categoria dei non violenti, tanto di guadagnato.

La sera scivolava verso la notte, una distinzione sempre difficile da tracciare, specialmente perché è spesso una questione psicologica piuttosto che temporale. Ma i nostri due amici avevano già infilato una discreta catena di sbadigli ciascuno e questo contava spesso come spartiacque tra le due fasi del giorno. Non c’era particolarmente buio attorno a loro: il cielo lassù si colorava di un nero sbiadito e trasandato, ma in basso l’aria era satura di lampioni, finestre accese, insegne, cianfrusaglie assortite, e la città non si poteva proprio descrivere come illuminata a giorno, ma era chiara a sufficienza per vedere qualche ratto fuggire a nascondersi quando passi umani si avvicinavano.

Un gruppetto di persone emerse da una stradina laterale e bloccò il marciapiede davanti a loro. Tutti erano dotati di missile e smartphone, alcuni anche di borsetta o valigetta, a seconda dei sessi. C’era pure un discreto numero di facce imbronciate. Erano puntate contro Ambrogio.

«Ah, questo sviluppo non lo avevo preventivato,» sussurrò Carlo Frossi, fermandosi. «E adesso?»

«Sfoderiamo la nostra migliore faccia di bronzo e procediamo come se niente fosse?»

«Rifugio in audacia? La vedo dura, ma possiamo anche provare.»

«Fare o non fare. Non c’è provare. Questo insegnava Yoda,» commentò Ambrogio sottovoce.

«Una citazione dotta che mi serviva proprio, grazie. Da te mi sarei aspettato qualcosa di meglio, ma lasciamo perdere. Meglio procedere, prima che cominci a usare Topo Gigio al posto di Kant.»

«Topo Gigio lo cito solo come sostituto di Hegel, grazie. Per Kant preferisco Bugs Bunny.»

«E con questa...»

Carlo respirò a fondo, abbassò un poco la testa, strinse le spalle e avanzò. Una vecchietta armata di larga borsa da spesa, con annesso marchio della catena di supermercati, gli bloccò il passaggio.

«Mi scusi, signora, potrei passare? Dovrei tornare a casa.»

La vecchietta gli somministrò due ceffoni, uno per guancia. Era più forte di quanto sembrasse e un doppio stemma a quattro dita apparve sul volto di Carlo. Mancava giusto l’impronta del pollice, ma la vittima non si lamentò della collezione incompleta.

«Signora, non mi pare il caso di reagire così. La mia era solo una richiesta garbata.»

La vecchia caricò il braccio per un secondo round; Carlo chiuse subito il becco. Guardò di sfuggita verso Ambrogio, in cerca di supporto morale, materiale o qualunque altra cosa. Qualcosa trovò, ma molto diverso da ciò che si sarebbe aspettato.

Un missilato si era avvicinato ad Ambrogio e apparentemente si stava fotografando assieme a lui. In altri termini, un selfie. Uno stupidissimo selfie. Ogni ultimo dubbio sulla insanità dei tizi col missile in testa abbandonò Carlo Frossi. Non erano insani: erano pazzi furiosi. Da abbattere, sepossibile.

Ambrogio sembrava pensarla allo stesso modo, almeno in base alla sua espressione. Guardava quel tizio che gli si era avvicinato come se fosse una bomba inesplosa, una che puzzava anche parecchio. Non che Ambrogio profumasse di violette, beninteso, ma la sua faccia suggeriva che il missilato lo batteva, anche se probabilmente era un tipo diverso di puzza. Una specie di puzza spirituale, o giù di lì. Ci siamo capiti.

Dopo il selfie, il tizio tornò a fondersi nel gruppo. Altri sollevarono gli smartphone e cominciarono a scattare una foto dopo l’altra, in una scarica di flash come se avessero davanti due attori straricchi, invece di un barbone e un dipendente del cimitero comunale. Carlo indietreggiò fino ad affiancare il suo amico, ma senza distogliere lo sguardo dalla vecchia. Era pericolosa. Già le vecchie tendevano a essere cattive e pericolose di per sé, almeno in base alla sua esperienza, ma quella in particolare si trovava a un passo dall’idrofobia. Un passo oltre.

Ma la vecchia non lo morse. Al contrario, annuì tutta seria e gli voltò la schiena, tornando a unirsi al resto del gruppo, proprio come aveva fatto poco prima il tizio del selfie. Formavano di nuovo una barriera compatta, a bloccare la strada dei nostri due eroi. I missili si illuminavano intermittenti, ma le loro facce rimanevano vuote. Loro delle persone, non dei missili: i missili tendono a non avere la faccia, anche se alcuni parlatori a vanvera attribuiscono loro intelligenza.

«E adesso?» sussurrò Carlo da un angolo della bocca.

«Non ne ho la più pallida idea. Proviamo a cambiare strada?»

«Ti fidi a girarti di schiena?»

«Possiamo indietreggiare senza girarci. E comunque, sempre meglio che rimanere qui, no?»

Carlo era moderatamente d’accordo. «A proposito, dove stavamo andando di preciso?»

«Non lo so. Eri tu a guidare, no? Io ti seguivo.»

«Ehm. Veramente ero io che seguivo te.»

«Quindi ci stavamo seguendo a vicenda. Interessante. Ci potremmo lanciare in una lunga disamina sociologica di questo comportamento, ma non mi pare il momento migliore.»

«Direi proprio di no, ma lo possiamo annotare per il futuro. Come spunto per una discussione, sai.»

La folla continuava a fissarli, immobile e muta. I due abbozzarono un passo indietro, per vedere che effetto avrebbe fatto. Per un attimo non successe alcunché, poi i missilati cominciarono a emettere il genere di grugniti e versi che ti puoi aspettare da un ramapiteco affetto da un grave caso di gonadi a turbina. O che ti saresti potuto aspettare se i ramapitechi fossero esistiti davvero.

«Questo è probabilmente il momento in cui cominciamo a correre,» suggerì Ambrogio.

Carlo guardò dietro di sé. «Questo probabilmente non è il momento in cui cominciamo a correre.»

Ce n’erano altri. Solo quattro, per adesso, ma in lontananza se ne vedevano ancora. La cosa che più lo preoccupava era che i quattro dietro di loro non stavano fermi: avanzavano col passo da zombie reso famoso da svariati film di basso livello. In effetti assomigliavano parecchio a comparse di un film di basso livello, anche come abbigliamento, trucco ed effetti speciali: dettagli che rendevano il tutto ancora più grottesco di quanto già non fosse. Carlo ne avrebbe fatto volentieri a meno.

Uno dei quattro era il geometra Ermanno Pistacchi. Alto un metro e tanta voglia di crescere, asciutto e secco, praticamente mummificato, capelli lisci e grigi, pettinati con una riga a destra e frangetta a onda sulla fronte, un completo di un grigio leggermente più scuro con papillon rosso, era una figura che compariva spesso e malvolentieri nella vita di Carlo Frossi. Era anche il suo vicino di casa, uno scroccone di caffè come se ne vedevano pochi. E puzzava sempre di naftalina.

«Ce ne sono anche dietro e uno di loro è il mio vicino di casa,» disse ad Ambrogio. «Hai idee?»

«Il tuo vicino di casa è pericoloso?»

«Come una fagiolata in una stanza priva di finestre.»

Ambrogio non rispose, folgorato forse dalla similitudine selvaggia. Ma era tempo di agire, non più di parlare, così Carlo gonfiò il petto inesistente, sollevò il mento e avanzò verso la nuova minaccia. Sapeva il modo giusto di comportarsi in circostanze simili. Lo aveva sempre saputo, lui.

Si fermò di fronte al vicino e gli tese la mano. «Buonasera geometra, come va? Tutto bene? Proprio una bella serata per fare due passi, non trova?»

Apparentemente non trovava molto. Il missile nel cranio del geometra Pistacchi lampeggiò per tre o quattro secondi con un ritmo diverso, si spense, infine tornò al ritmo iniziale. Carlo indietreggiò di un passo, giusto per sicurezza. Il suo vicino infilò in tasca lo smartphone, alzò le braccia al cielo in un gesto da benedizione papale ed emise uno strano squittio.

«Forse è meglio...» fece in tempo a dire Ambrogio Colomba, poi il geometra Pistacchi afferrò Carlo per la camicia e cominciò a scrollarlo con brio. O almeno cercò di: la sua muscolatura assente, unita a una stazza da peso larva, faceva assomigliare la scena a un goffo tentativo di praticare windsurf.

Gli altri missilati, però, sembravano avere colto il suggerimento e avanzarono verso Carlo, che era troppo occupato a liberarsi del vicino per accorgersene e reagire. È piuttosto difficile reagire quando hai un geometra appeso al collo, dopotutto, specie se il suddetto geometra ringhia, sbava un poco ed emette di continuo quegli strani squittii.

Fu Ambrogio ad agire. Anche la folla di fronte a loro aveva cominciato ad avvicinarsi, adesso che il retro era bloccato dal gruppetto che puntava su Carlo. Se volevano fuggire, il momento giusto per farlo era esattamente adesso: esitare o fallire significava scoprire in prima persona cosa avessero in programma per loro gli strani tizi col missile in testa. O chiunque li stesse guidando. Così scaricò a terra i sacchetti che trasportava, si caricò sulle ginocchia e sostituì la sua consueta filosofia orientata alla quieta contemplazione con una filosofia incentrata sull’azione. Partì.

Circa ottanta chili di scarsa igiene personale centrarono in pieno il geometra Pistacchi, facendolo volare senza bisogno di pensieri felici o altre idiozie. Stringeva ancora un pezzo di camicia in mano, ma non sembrava al momento un grave problema: era solo il taschino, dopotutto. Con una manata e una spinta Ambrogio si assicurò che Carlo fosse presente, partecipe e soprattutto che cominciasse a muovere il culo. Lo fece. I due si lanciarono in uno scatto da centometrista che non si allena più da almeno due o tre decenni, ma fifa e adrenalina funzionavano come sostituti dei muscoli, almeno per adesso, e il “per adesso” era tutto ciò che contava. Al poi avrebbero pensato poi, se necessario.

Fuggirono per un poco, senza una destinazione ma mossi da un impulso molto chiaro e preciso, che li spingeva ad allontanarsi il più possibile. Da cosa si volessero allontanare era fin troppo chiaro e lo continuarono a sentire dietro di loro per i primi due o tre minuti. Poi i suoni si affievolirono e la scena urbana cambiò, ma non necessariamente in meglio.

Ansimando come caricature di asmatici, mano premuta sul fianco sinistro, Ambrogio e Carlo furono costretti a fermarsi, non tanto perché si sentivano al sicuro, ma perché si sentivano molto vicini a un infarto del miocardio. La strada era tranquilla in apparenza e il marciapiede quasi deserto, fino dove il loro sguardo poteva arrivare, così si accasciarono contro il muro del più vicino edificio, cercando di recuperare almeno una parvenza di lucidità. Non ne avevano molta, al momento.

Auto passavano, ignorandoli. Alcune seminavano nell’atmosfera la nube tossica di pessima musica che sgorgava dai finestrini, altre erano brevi luci di fanali e ronzii. Per i due fuggitivi fuori forma e fuori età erano giusto un disturbo sullo sfondo, in buona parte coperto e offuscato dal loro fiatone. Sapevano che presto sarebbero dovuti ripartire, ma speravano che tra il presto e lo adesso ci fosse il tempo necessario per evitare il collasso cardiorespiratorio.

Sembrava esserci. Videro alcune persone col missile in testa, ma non sembravano interessate a loro o a qualunque cosa esistesse nei paraggi. Un gregge di adolescenti, o quantomeno di persone vestite da adolescenti, era fermo all’altezza di un negozio chiuso, spalle basse e sguardo perso nel vuoto, la faccia di manichini dimenticati in vetrina. Un anziano accanto a un semaforo boccheggiava al ritmo di una insegna. Un uomo di mezza età con l’aria da manager o criminale teneva l’orecchio premuto contro il cellulare, ma non dava altri segni di vita. Una vecchia si sporgeva immobile dalla finestra, con la testa rivolta al cielo e un dito affondato in una narice.

«Se non mi viene un infarto, sono morto,» boccheggiò Carlo Frossi.

Ambrogio valutò per un attimo il senso della frase, poi rinunciò. «Credo di averne già avuto uno un paio di minuti fa,» rispose. «Non credevo di essere così fuori forma.»

«Come credevi di essere, allora?»

«Non credevo. Sono agnostico per tradizione e stile di vita.»

«Questa un giorno me la spiegherai.»

«Se sopravviveremo abbastanza a lungo.»

«Grazie per la botta di ottimismo. Ne avvertivo davvero il bisogno. Adesso posso infartare in pace.»

«Figurati, è sempre un piacere, lo sai.» Ambrogio si raddrizzò e si passò una mano sulla fronte, col risultato che uno strato di sudore fu rimpiazzato da uno strato di sporchiccio. «Hai una idea di dove siamo finiti? Non mi sembra di ricordare questa parte di città, almeno non al momento.»

«Non siamo circondati da pazzi e questo mi basta, almeno al momento.»

Ambrogio contemplò la fauna umana della strada. «Ti sei guardato attorno, per caso?»

Carlo lo fece. «D’accordo, rifacciamo: non siamo circondati dai pazzi di prima. Questi almeno sono tranquilli. Sembrano tranquilli. Non sono ancora diventati aggressivi, ok? Ci stanno ignorando.»

Un missilato cominciò ad arrampicarsi su un lampione per motivi noti forse soltanto a lui, ammesso e non concesso che i motivi esistessero. I due fuggitivi lo presero come il segnale che era tempo di traslocare altrove le loro stanche ossa, e magari anche tutto ciò che alle ossa era attaccato. Con il più stanco e depresso dei sospiri si staccarono dal muro e ripresero il cammino, cercando di rimanere se possibile nascosti nella penombra. Non molto facile, data l’abbondanza di illuminazioni.

Il viaggio li portò ad assistere non volentieri ad altre scene di ordinaria normalità urbana, i cui attori erano sempre esponenti del popolo col missile. Un gruppetto di varia età si stava scattando un selfie dopo l’altro davanti a una vetusta cabina telefonica. Un uomo faceva addominali sul marciapiede al cospetto di un manifesto del Grande Padre Obeso, immortalato con la sua barbetta e una espressione da grave trauma cranico. Una donna sulla sessantina e un ventenne si facevano la linguaccia mentre si fotografavano a vicenda. Una ragazza andava ripetutamente a sbattere contro un cartellone, come una mosca davanti a una finestra mezza aperta. Due anziani tenevano per le braccia un francescano e lo trascinavano da qualche parte. Il frate non aveva il missile, i trascinatori sì.

In due occasioni un gregge di missilati si accorse di Ambrogio e Carlo e li inseguì per alcuni minuti, per poi disperdersi senza alcuna ragione apparente. Attraversarono il centro della città senza danni e coi muscoli piuttosto indolenziti. Davanti al duomo c’era un tizio col missile nella testa, che urlava parole prive di senso, come un tecnico audio che controlla gli impianti prima di un concerto. «Prova uno due tre, prova. Prova, uno due tre, prova. Configurazione sistema in corso. Prova,» e così via in una notte che era sempre più notte e sempre meno normale.

Ambrogio abbozzò un commento sul tema “sonno della ragione”, ma era evidente che il suo cuore non stava partecipando al dibattito solitario e presto lasciò perdere. Carlo non si lamentò. C’era un tempo e un luogo per ogni cosa: quella notte e quella città non erano adatte alla filosofia spiccia o al cazzeggio verbale. Ne avrebbero discusso in seguito, se necessario; adesso, entrambi desideravano soltanto allontanarsi da tutto e tutti. Continuarono a farlo, con piedi sempre più stanchi, tra i detriti di quello che era stato un mondo brutto ma comprensibile e adesso era solo un letamaio di follia.

Passarono diversi schermi pubblicitari, lungo il cammino, ma nessuno trasmetteva pubblicità, solo il messaggio “Ottimizzazione in corso. Le attività saranno riprese al più presto”. Carlo si chiese cosa potesse significare, fece per girare la domanda ad Ambrogio, poi rinunciò. Non voleva conoscere la risposta, nel caso ce ne fosse una. Tutta la città sembrava un lavoro in corso, dove le attività normali (per qualunque valore di normalità) erano temporaneamente sospese. Solo gente con un missile nel cranio, che faceva cose ancora più stupide del solito. Il che era tutto dire.

Un tablet precipitò davanti a loro e si fracassò al suolo, mancando di poco la testa di Ambrogio. Da una finestra del quinto piano una sagoma umana svanì in fretta, seguita da una tapparella abbassata.

Altri frammenti di aggeggi elettronici decoravano marciapiedi e strade qui e là, ma non erano molti: il posto di onore andava sicuramente a uno schermo da almeno quaranta pollici, il cui impatto aveva spedito shrapnel plastici in un raggio di circa cinque metri. Carlo lo aggirò con cautela, un braccio alzato a garantire un minimo di protezione alla propria testa.

Avanti. Due ragazze si filmavano stonando un brano irriconoscibile. Un uomo senza missile ma con una discreta pancia scivolava da un’ombra all’altra con tutta la grazia di un ninja in avanzato stato di decomposizione. Un tizio era accartocciato in posizione fetale sotto una panchina. Nei pressi del parco procedevano lenti due carabinieri: il missile era entrato nel cranio attraversando il cappello, in apparenza senza danneggiarlo. Un cane orinava contro un portone. Un’auto di passaggio ragliava un getto di rap di qualità infima. Finestre si spegnevano. Minuti diventavano ore.

Un missilato li accostò di sorpresa, solo e disarmato. «Stiamo lavorando per voi,» sussurrò, prima di svanire di nuovo nella notte, o in quel che ne restava. I due fuggiaschi lo fissarono, si fissarono, uno sospirò e l’altro alzò le spalle. Continuava a non avere senso, ma almeno era un progresso. Anche se era difficile determinare se a progredire fosse la sanità o la pazzia. Camminarono ancora.

Era quasi l’alba quando Ambrogio Colomba e Carlo Frossi si voltarono a osservare la città dall’alto di un modesto cavalcavia. Erano soli, a parte qualche sparuta auto di passaggio, che li ignorava e ne era ignorata. Il cielo sbiadiva, il mondo si colorava, la luce naturale faceva ritorno. Ma la città non assomigliava più alla città che avevano conosciuto per anni, o almeno in cui avevano abitato, anche senza conoscerla poi così tanto. Uguale era l’aspetto generale, il profilo, la skyline, quello che era. A renderla diversa era una piccola aggiunta, che poi così piccola non era.

Un colossale missile era conficcato dritto nel suo cuore, o nello spazio che ne faceva le veci nonché le feci. Ambrogio stimò che doveva riempire tutta la piazza del duomo; Carlo riteneva che sforasse un poco, inglobando anche gli edifici ai margini. Ne discussero per qualche minuto, poi lasciarono perdere. Nella luce dell’aurora si potevano ancora scorgere i fiochi lampi che emetteva, simili agli addobbi natalizi che puoi trovare dappertutto verso la fine di dicembre.

Avevano ritmo, ma non uno schema riconoscibile.

Carlo Frossi sospirò. «Sarà così ovunque? Dico, anche da altre parti? Non solo da noi?»

Ovunque forse no, ma guardandosi attorno potevano trovare le sagome di missili conficcati anche al centro dei più vicini sobborghi, poco più che satelliti-dormitorio in orbita intorno al grande cuore di quella regione. O alla parte del corpo che preferite, se il cuore non vi piace. Non era necessario un balzo deduttivo di particolare difficoltà per ipotizzare che si potessero trovare pure là i missilati. Ma forse era soltanto un incubo, solo un’allucinazione, soltanto questo o quello. Forse una spiegazione c’era e forse anche una soluzione. Forse.

«E adesso noi?» chiese Carlo.

Ambrogio scrollò le spalle, stanco. Cosa potevano fare? Cosa dovevano fare? Ancora non avevano un missile nel cranio, ma per quanto? Allargò le braccia, scosse il capo, si afflosciò. Sì, prima o poi avrebbero dovuto trovare una risposta. Prima o poi avrebbero dovuto decidere qualcosa. Prima o poi sarebbe arrivata la morte entropica dell’universo. Ma quando? E come?

Il sole sorse sulle loro depressioni, coprendole di nuova luce ma senza illuminarli. E adesso loro? Il mondo della pianura si spalancava davanti a loro ed era vuoto e ostile, per due animali di città. Pure, lo avrebbero dovuto affrontare, in cerca di risposte o anche solo di un pasto e un posto per dormire.

E poi? Qualcosa se lo sarebbero dovuto inventare.

Teste basse e passi lenti, i due improbabili eroi cominciarono a scendere il cavalcavia, diretti verso un futuro quantomai nebuloso e incerto, non contenti ma rassegnati all’inevitabile. E fu davvero una fortuna che i loro sguardi puntavano verso il suolo. Come avrebbero reagito Ambrogio e Carlo, se si fossero accorti del missile colossale, titanico che sembrava sovrastare l’intero mondo?

Ma ancora non lo vedevano ed era meglio così.

di Adriano Marchetti