Adriano - racconti e altro

Epoche nuove

Qualcosa era andato decisamente storto, nella seconda versione della eolipila. Erone se ne accorse quasi subito, per questo ebbe il tempo di spingerla a distanza di sicurezza e appiattirsi ben bene al suolo, prima del botto. Non che il botto fosse particolarmente violento o dannoso, d’accordo, ma se qualcosa deve esplodere, è sempre meglio che esploda a una certa distanza da te e dalla tua casa. È una legge molto semplice, che Ctesibio aveva già provveduto ad annotare, nei propri appunti, e che i suoi successori avevano spesso applicato, rimanendo così suoi successori un poco più a lungo.

Quando il fumo si fu disperso, Erone si rialzò, spazzolandosi la tunica. E adesso bisognava ripartire da capo. La prima eolipila era stata un successo, con un solo, piccolo difetto: era fondamentalmente inutile. Bella da guardare, certo, e anche piuttosto divertente, ai bambini della zona piaceva molto, ma era pur sempre inutile. Inutile per i progetti di Erone, quantomeno.

La prima eolipila era composta da un grosso calderone coperto, riempito di acqua. Dal coperchio del calderone uscivano due tubi verticali, le cui estremità superiori si piegavano poi ad angolo retto, per infilarsi in una sfera cava. Dalla sfera cava partivano poi due pipette di metallo, dalle estremità curvate in direzioni opposte. Quando l’acqua nel calderone cominciava a bollire, il vapore saliva nei tubi, per trasmettersi alla sfera cava; da lì usciva attraverso le due pipette piegate, facendo ruotare la sfera su se stessa. Una dimostrazione molto divertente della forza del vapore, appunto, ma anche molto inutile, perché il suo unico risultato era di far girare una palla.

Fino a questo punto era già arrivato anche Ctesibio, il suo antenato spirituale, che aveva lavorato sul vapore e le sue proprietà già trecento anni prima. L’obiettivo di Erone era di andare oltre e ottenere qualcosa di utile, una macchina che sfruttasse il vapore per svolgere un qualche tipo di lavoro, un qualunque tipo di lavoro. Era l’affare del momento. Dopo l’abolizione della schiavitù, tutto l’impero stava cercando un modo per incrementare il lavoro svolto, riducendo il più possibile le spese per la manodopera umana. I grandi mercanti erano pronti a coprire d’oro chi ci fosse riuscito ed Erone non era insensibile a questo argomento, soprattutto a ore pasti.

La seconda eolipila, dunque, avrebbe dovuto fare qualcosa con l’energia prodotta, qualcosa che non fosse solo roteare una palla. Azionare la macina di un mulino, per esempio. Muovere le ruote di un carro, per esempio. Possibilmente non esplodere, cosa che invece sembrava fare con una frequenza eccessiva, almeno per i suoi gusti. Bollire l’acqua direttamente nella sfera, per rimuovere il bisogno del calderone e renderne più compatte le dimensioni, non pareva la mossa vincente, almeno per ora, soprattutto perché non riusciva a calibrare bene il rilascio del vapore dalle pipette. E poi, anche se il vapore fosse uscito correttamente dalle pipette, ancora non faceva nulla. Erone sospirò.

Come sempre in questi casi, la soluzione migliore sarebbe stata quella di uscire, fare due passi, al sole, e magari scendere fino all’Eptastadio e respirare un poco di salsedine. Il mare pareva far bene alle sue idee, o forse era la contemplazione del faro ad aiutarlo. Un giorno forse avrebbe provveduto a determinare, con esperimenti idonei, quale fosse la causa precisa del suo sentirsi meglio con una camminata, ma al momento gli bastava cambiare aria e pensare ad altro. Le idee sarebbero venute da sole. Uscì.

Alessandria era immersa nella luce e nel caldo della tarda primavera. Ancora piuttosto piacevole, per una passeggiata pomeridiana, ma già tendente a una temperatura che lui, animale da interni più che da esterni, non apprezzava molto. C’era folla, per le strade, ma c’era sempre folla, in una città di commerci come la sua: crocevia di Europa, Asia e Africa, seconda solo a Roma per grandezza, era un brulicare di vita ininterrotta, dall’alba al tramonto e spesso anche viceversa. Piacevole, per come lo aiutava a rimescolare le idee e farle scontrare tra loro; a volte, ciò che ne usciva valeva più di mille ore passate al tavolo, a scribacchiare o trafficare. A volte era inutile, d’accordo, ma valeva la pena di tentare. Nel peggiore dei casi, ne avrebbe comunque guadagnato l’appetito.

Ancora abbastanza giovane, con una tunica relativamente pulita, Erone non spiccava tra la gente, se non per una caratteristica: la sua barba, curata ma tenuta un poco più lunga rispetto alla moda di chi si considera (o vuol farsi considerare) un intellettuale. Unita al resto della sua figura, lo identificava come un filosofo, o qualcosa di simile; in concreto, ciò significava che i passanti lo rispettavano, a volte lo salutavano, ma più spesso lo aggiravano, per evitare problemi. Non si poteva mai dire cosa avrebbe combinato, di punto in bianco, un tizio la cui mente aveva solo una labile connessione con la realtà circostante e, spesso, anche col buonsenso.

Le parole della folla lo avvolgevano in una morbida nube, che tendeva però a farsi sempre meno confortevole, a mano a mano che si avvicinava al porto. Da commerci, traffici e politica, le parole si spostavano maggiormente verso argomenti più insensati, a parere di Erone. Parlavano di tritoni, che qualcuno sosteneva di aver visto nuotare nei paraggi; qualcuno che aveva speso troppo tempo con la testa in un otre di vino, senza dubbio.

Tritoni! Come se certe cose esistessero davvero. Erone non aveva mai capito perché tanta gente si ostinasse a guardarsi indietro e fantasticare di passati mai esistiti, quando un futuro di tecnologia e progresso si schiudeva davanti a loro. Doveva trattarsi di un qualche tipo di difetto congenito nella struttura della loro mente, ma sapeva lui come rimediare: quando la sua eolipila avesse finalmente dischiuso una nuova era di razionalità per il mondo, non ci sarebbe stato più spazio per i pensieri primitivi. Su questo non aveva dubbi. Con un poco di pazienza e di buona sorte, la sua eolipila avrebbe certo liberato il mondo dai residui mitici che ancora lo incrostavano.

Con la mente persa in nubi di vapore, Erone camminava verso il riflesso blu del mare, là dove si mischiava ai riflessi decisamente meno blu e più giallognoli del Nilo: lì, nei pressi della foce, emergeva l’isola di Faro, unita alla città dal lungo molo dell’Eptastadio e incoronata da una torre, nota a tutti i marinai del mondo (o almeno di ciò che Erone considerava mondo): il faro, luce dei mari orientali, il più alto edificio eretto dall’uomo, monumento alla sua tecnica, alla sua sapienza, al suo genio capace di trionfare sugli elementi. Per lo meno, così amava considerarlo Erone, quando si sentiva umile e modesto.

L’odore delle onde gli riempiva le narici, mentre camminava sull’Eptastadio, tra pareti lignee di navi ormeggiate, fiumi di lavoratori all’opera, stormi di gabbiani parimenti all’opera in quel ciclo eterno, e avicolo, di alimentazione e defecazione sui passanti occasionali, che come Erone amavano curiosare nei paraggi. E nessuna traccia di tritoni: era un dettaglio che non poteva fare a meno di notare. Sorrise. Con buona pace di chi credeva davvero a quelle scemenze mitiche, il sano mare circostante si ostinava a non dare il minimo indizio sulla loro esistenza. Miraggi prodotti da un otre di vino, appunto.

Il faro incombeva su di lui, adesso. Base quadrata, tronco ottagonale, vetta circolare, incoronato da una statua di Poseidone e sorvegliata, nei quattro angoli della base, da altrettante statue di tritoni. A Erone non piacevano molto quelle statue, le riteneva di pessimo gusto e favorivano inutilmente i pensieri molli della gente, ma portava pazienza: era una meraviglia di tecnica umana e quelle statue, in fondo, erano solo decorazioni, per compiacere il popolino. Non che lui avesse qualcosa contro le divinità: i templi avevano una propria ragione di essere, come committenti, e lui li rispettava. Non avrebbe potuto proseguire le ricerche, senza i soldi che gli pagavano per i suoi lavori occasionali. Da lì a credere che certe creature esistessero davvero, però...

Guardando quei tritoni scolpiti, non poteva che pensare di nuovo alle strane voci, giunte da Roma. Parlavano di fauni, che erano la versione locale dei satiri. Fauni che, a quanto pareva, non solo si erano fatti vedere in mezzo agli uomini, ma si erano anche messi a lavorare con loro. Stupidaggini, ovviamente, ma non ci si poteva aspettare altro, da certa gente. Per ricchi e potenti che fossero oggi, gli italici erano ancora un popolo di pecorai e contadini, sotto sotto, dipinti a nuovo su un nucleo ancora primitivo. Niente a che vedere coi greci come lui, che da secoli contemplavano la luce della ragione. Bambini da educare, ecco cos’erano quei padroni del mondo.

«Se esistono i fauni, esistono anche i tritoni?» aveva osato chiedere qualcuno, proprio davanti alle statue del faro. Era stata certo quella l’origine delle voci assurde sulla loro presenza, nella baia. Racconti assurdi da un paese lontano, un uomo imbottito di vino, ed ecco che nel porto tutti parlano di tritoni e sciocchezze varie. L’umanità era davvero triste, quando la si contemplava da vicino.

Esistono i tritoni? Risposta ovvia, per Erone. I tritoni non esistono, così come non esistono satiri, sirene, erinni, centauri e tutto ciò che i loro antenati, secoli prima, si erano divertiti a immaginare. Vivevano nell’epoca della ragione, Erone ne era certo, e il futuro era aperto alla scienza e alle macchine; i miti erano solo miti, dei e tritoni solo relitti del passato, ancora buoni per decorare gli edifici (o per pagarsi il prossimo pasto, d’accordo), ma crederci davvero? Follia, giusto?

Giusto, gli rispose il faro. Giusto, replicarono le onde. Giusto, confermarono le navi che affollavano Alessandria. I tritoni erano uomini con una coda di pesce, che sbatteva su e giù in acqua e generava una propulsione sufficiente a... Ma si interruppe. Ecco l’idea! Ecco come usare la sua eolipila! Ecco come ottimizzarla!

Nell’entusiasmo del momento, si sarebbe concesso altre dodici frasi, tutte con un punto esclamativo in coda e uno “ecco” davanti, se le gambe non avessero preso il posto del cervello, partendo in un trotto moderato ma costante verso casa, tra gente che si scansava e lo guardava storto. Non era il cado di sprecare tempo con gli eureka; molto meglio lavorare. E sì, da un certo punto di vista poteva anche ringraziare i tritoni, relitti di un passato ormai perduto: pensare a loro aveva dato la spinta giusta ai suoi ragionamenti. Pur inesistenti, erano serviti a metterlo sulla buona strada. Che idea! Che grande idea! L’idea che avrebbe domato i mari, cancellando gli ultimi ricordi dei miti che lo avrebbero abitato.

E una settimana dopo, mentre la grande idea di Erone si concludeva con un botto e una colonna di fumo, come molte delle sue ultime idee, più o meno grandi, dalla baia di Alessandria emergevano i primi tritoni, venuti a congiungersi alle altre specie sapienti del mondo, dal mito alla realtà, sulla strada che i cugini fauni avevano aperto e percorso.

La città era un formicaio calpestato, umani correvano in ogni direzione, voci si inseguivano, soldati marciavano e luccicavano al sole egiziano, messaggeri scattavano da un palazzo all’altro, funzionari erano svegliati e vestiti in fretta, le aquile romane sventolavano su ogni cosa. Una grande giornata, che sarebbe entrata nella storia, proprio come quando i fauni erano usciti dai pascoli. E, come coi fauni, l’impero avrebbe acquistato nuovi lavoratori specializzati, che non vedevano l’ora di essere utili, per farsi riconoscere come reali, non fantasmi mitici.

Per Alessandria e l’impero, una nuova epoca si apriva. Una epoca in cui i miti erano realtà.

di Adriano Marchetti