Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 111

Il primo atto indipendente di Bogdan Stratos su Madre fu schiacciare un insetto. Lo eseguì con tutto il disgusto che operazioni simili sempre gli causavano, di recente. Li odiava. Non che le avesse mai amate quelle particolari forme di vita, ma dopo l’esperienza su Svarga era diventata quasi una fobia. Tutto ciò che ronzava nell’aria, zampettava in mezzo all’erba ed era invertebrato meritava la morte. Se si avvicinava a lui, poi, non solo meritava la morte, ma una morte lenta e dolorosa. Oppure una morte veloce, dopo una lunga serie di preliminari molto lenti e dolorosi.

Per il viaggio su Madre aveva preparato repellenti di ogni tipo. Nei mesi all’Ufficio lo avevano avvisato che di insetti ne avrebbe trovati parecchi. Lo avevano avvisato che gli insetti di Madre non solo pungevano, ma erano anche dolorosi. Un tecnico delle comunicazioni, che era stato sul pianeta a sistemare un nuovo impianto, gli aveva anche mostrato la cicatrice che si era portato a casa come souvenir, dopo un incontro ravvicinato con un abitante invertebrato del posto. Gliela aveva mostrata mentre bevevano nell’area ricreativa, prima di cena, e a Bogdan era passato l’appetito.

Non lo avrebbero mai punto, aveva giurato a se stesso. A costo di sterminarli tutti e distruggere per sempre l’ecosistema del pianeta, non lo avrebbero mai punto. Non avrebbe visitato altri ospedali per colpa di un insetto, come gli era capitato a Guan Yu. Così si era procurato tutto ciò che gli avevano assicurato essere efficace per tenere lontano quei mostri, e lo aveva applicato durante la discesa in ascensore, tra gli sguardi incuriositi dei colleghi e gli altri passeggeri. Guardassero pure. Lui non ne voleva di insetti attorno e non ne avrebbe avuti. Punto.

Poi erano arrivati, erano usciti dal terminale dell’ascensore, avevano respirato l’aria ammuffita della indescrivibile capitale del pianeta e subito un insetto gli si era posato sul braccio, una specie di tafano deforme e troppo cresciuto che strofinava assieme le zampe anteriori e aveva già preparato non una, ma ben due cose simili a proboscidi o pungiglioni. Bogdan Stratos poteva immaginare fin troppo bene come avesse intenzione di usare quei pungiglioni, così la sua mano era scattata ancora prima del pensiero e ciac! L’insetto era diventato una macchia colorata e un poco ributtante, sparsa sul palmo e il braccio. I compagni di viaggio più vicini si erano girati a guardare, espressioni subito interrogative che in un attimo si erano fatte disgustate.

«Meglio che ti fai una doccia, quando siamo arrivati,» aveva commentato il più vicino, un uomo di mezza età e faccia da cane bassotto. Bogdan aveva concordato. Erano venuti a prenderli, con tanto di scorta militare, e li avevano condotti alla base, dove avrebbero alloggiato durante il soggiorno sul pianeta. Nessuno si era voluto sedere accanto a lui. Bogdan aveva concordato anche su questo: non era proprio gradevole l’odore emesso dall’insetto spiaccicato. Non proprio una cimice terrestre, ma neanche un praticello fiorito, a meno che i fiori non avessero già attraversato l’apparato digerente di un qualche bovino. La doccia era stata la benvenuta, ma la doccia non bastava.

Neppure il tempo di disfare i bagagli e Bogdan era già alla farmacia dell’ospedale, che alla base era una struttura molto più grande di quanto lui si sarebbe aspettato. Ma in fondo anche la base militare era molto più grande di quanto lui si sarebbe aspettato, quasi una città di provincia, in effetti, parchi e negozi, e pure bambini che giocavano in strada. Posto curioso, ma a questo avrebbe pensato poi, se mai ci fosse stato bisogno di pensarci. Le sue priorità erano altre. I repellenti che aveva portato e che gli avevano consigliato all’Ufficio non bastavano: servivano nuove armi.

Aveva discusso a lungo col medico della farmacia, un tizio dalla faccia lunga e floscia che insisteva a dire che lì non avevano repellenti per insetti, non era qualcosa di cui si occupava la farmacia di un ospedale. Bogdan non aveva ceduto. Alla fine aveva vinto, dopo una lunga, lunga attesa e assistenti spediti qui e là, forse a procacciarsi quello di cui aveva bisogno, forse solo per fare scena. Risolto al momento la prima emergenza, ma pronto a riaprire quel fronte in caso di bisogno, Bogdan aveva cominciato a guardare il posto in cui era finito.

Non un bel posto. La base militare non aveva l’aria deprimente e squallida della città, che secondo il suo sempre modesto parere era una discarica a cielo aperto, che meritava di essere purificata da una pioggia di fuoco. Dimostrava sempre tutta la creatività artistica e architettonica di una latrina da stazione, ma almeno era più vivace, colorita, accogliente. In parte. Se ti fermavi alla superficie. Se ti spingevi un poco sotto, invece, la base ti appariva per quello che probabilmente era: uno sfondo di cartapesta su cui recitare una farsa. O così gli piaceva pensare. Era accogliente, sì, ma di quel tipo di accoglienza che caratterizza i villaggi vacanze in tutta la galassia abitata. Che erano dodici pianeti, al momento, ma non aveva importanza. Il punto era che la base sembrava fatta apposta per sembrare rassicurante e metterti a tuo agio, ma lo sembrava così tanto che finiva per avere il risultato opposto.

C’era qualcosa di sbagliato, pensava Bogdan, immerso nell’olezzo del nuovo repellente per insetti. C’era anche una quantità orrenda di tafani, specie nelle aree verdi, ma gli giravano attorno e ancora non avevano tentato di posarsi, quindi la roba che gli avevano rifilato alla farmacia funzionava. Per adesso. Ma non aveva intenzione di testarla troppo, così si teneva lontano da alberi e prati. Per un poco aveva camminato senza meta, quel primo giorno alla base, girando dove gli era consentito, con un occhio a cercare insetti e un altro a cercare di capire cosa fosse di preciso che non gli piaceva.

La risposta era tutto. Tutto sembrava a posto, quindi tutto sembrava sbagliato. Era quasi sicuro che ci fosse sotto qualcosa, ma era altrettanto sicuro che non gli interessava più di tanto scoprirlo. Non era venuto su Madre per giocare al piccolo detective o altre scemenze simili. Era venuto su Madre a studiare il nucleo dei giganti gassosi e solo a questo avrebbe pensato. Il resto non era rilevante. E la base non era poi così terribile. Meglio della fondazione Chen-Cohimbra e della città di Guan Yu, di sicuro. Non meglio di Varshi e delle altre aree di Lakshmi che aveva potuto vedere durante gli anni di università, ma pazienza. Si poteva accontentare e si sarebbe accontentato.

Il primo giorno si era concluso con Ruth Blakely che spiegava il programma per il periodo seguente e come si sarebbe distribuito il lavoro. Avrebbero avuto bisogno di almeno un’altra settimana di test prima di pensare ai giganti gassosi veri e propri, e poi comunque c’era da preparare questo, quello e quell’altro ancora. Bogdan ascoltava annoiato, a cervello spento o lampeggiante. Non si sentiva più così impaziente, adesso che erano sul posto, ma avrebbe gradito una esecuzione più rapida, anche e soprattutto perché a breve sarebbe arrivato quel maledetto verme di Muzafar Chang a tenere la sua famosa conferenza e gli avrebbe dato una grande soddisfazione avere già pronto qualcosa da tirargli nei denti. Se il qualcosa fosse stato un blocco di marmo, tanto meglio, ma poteva accontentarsi per il momento di una nuova scoperta. Una tutta sua, una che nessuno gli potesse rubare.

A fine riunione chiacchierò un poco con gli altri nel gruppo, non perché ne avesse davvero voglia o gli fossero poi così simpatici (non lo erano), ma solo per passare il tempo. Per quanto aveva potuto vedere durante il pomeriggio, la base militare non aveva molto da offrire in fatto di svaghi. Locali, sì, e probabilmente si poteva trovare anche altro, se si sapeva dove cercare, ma nulla che apparisse così interessante ai suoi occhi. E poi comunque aveva altre priorità, altre cose per la testa.

Qualunque cosa avesse in testa al momento svanì una volta rientrato nella camera che gli era stata assegnata. I bagagli erano ancora da disfare e ne aveva voglia tanto quanto di essere preso a calci in faccia, ma il problema era un altro. Il problema erano i tre insetti posati sulla finestra, a formare una specie di triangolo irregolare. Bogdan si bloccò a fissarli, una mano a cercare oggetti con cui poterli spiaccicare. Oggetti che, magari, non rompessero anche il vetro, se possibile. Ciabatte, per esempio, o roba simile. Difficile trovarne, coi bagagli ancora da disfare, ma la sua mano cercava lo stesso: era molto speranzosa e ottimista. Poi notò che forse non c’era bisogno di schiacciarli, anche se farlo avrebbe contribuito in piccola parte a migliorare il mondo.

Erano posati all’esterno della finestra, non all’interno. Una qualche specie locale di mosca o tafano, come ne aveva viste in abbondanza girando per la base. Bogdan respirò a fondo. Fastidiosi, ma non una minaccia immediata. Bastava assicurarsi che tutto fosse chiuso a dovere e poi magari qualche colpetto sul vetro li avrebbe fatti sloggiare. Pure, non era stata una bella sorpresa.

Risultò che di colpetti ne servirono parecchi e per gli ultimi non si poteva più usare il diminutivo o altre forme di attenuazione, ma alla fine gli insetti se ne andarono. Bogdan abbassò tutto, sperando che bastasse a tenerli lontano, ma per sicurezza sarebbe stato opportuno pensare a tendine o altro. Li preferiva a distanza di sicurezza anche dal proprio campo visito, quegli sgorbi.

Quella notte non dormì bene, sognando di nuovo la libellula di Svarga, che gli aveva schizzato roba negli occhi spedendolo all’ospedale. Un altro pianeta da purificare con una pioggia di fuoco, Svarga e i suoi insetti. Sempre secondo il suo modesto parere. Ma i giorni seguenti non gli portarono nuovi incontri ravvicinati, o almeno non più ravvicinati dei normali incontri quotidiani con insetti, e pian piano Bogdan riuscì quasi a dimenticarsene, tutto preso com’era dai preparativi per il primo reale tentativo di sondare il nucleo di un gigante gassoso. Non che avrebbero potuto davvero raggiungere il nucleo: i test su Giove lo avevano dimostrato e nessuno si aspettava che sarebbe andava in modo diverso coi giganti di Madre, ma un poco sì, un poco si sarebbero riusciti ad avvicinare, e quel poco poteva anche essere sufficiente. Con molta fortuna.

Un poco poteva anche bastare, per scoprire cosa fossero quelle strutture organiche. O anche solo se ci fossero davvero, si corresse un attimo dopo. Era probabile che ci fossero, tutti i risultati ottenuti finora suggerivano che ci fossero davvero. Quel maledetto di Muzafar Chang se ne andava in giro per la galassia a raccontare che c’erano e li aveva scoperti lui, che gli esplodessero entrambe le palle e un infarto lo stroncasse mentre era seduto sul gabinetto. Fosse come fosse, nel nucleo dei giganti gassosi c’era indubbiamente qualcosa: forse non proprio le strutture organiche che aveva ipotizzato lui, forse non proprio come le aveva ipotizzate lui, ma qualcosa c’era e le sonde gli avrebbero detto cosa fosse. Forse. Se tutto andava bene. E se sopravvivevano abbastanza a lungo.

Era la sua grande occasione e non avrebbe fallito. Era la grande occasione per tutto il suo gruppo, in effetti, un’accozzaglia di scarti umani dragati dai fondali più inabitabili dell’Ufficio e ammassati in un insieme così eterogeneo che anche solo chiamarlo insieme era una esagerazione. Nessuno voleva fallire. Nessuno voleva affondare di nuovo nella palude, da cui probabilmente non sarebbe mai più potuto riemergere. Leonardi aveva dichiarato di puntare molto su di loro e tutti sapeva che Leonardi aveva un pessimo rapporto con le sconfitte. Bogdan si chiese di nuovo perché avesse scelto proprio gente del genere, se puntava così tanto su di loro, ma di nuovo non trovò una risposta soddisfacente per la propria autostima, così abbandonò la domanda.

Il giorno dell’ultimo collaudo sul pianeta arrivarono anche gli annunci ufficiali della conferenza del professor Chang, luogo e orario di svolgimento e palle varie. Bogdan li accolse con l’entusiasmo di chi soffre da oltre un mese di stitichezza completa e sigillante; il resto del gruppo mostrò invece un cauto interesse, ma solo quando lui non era nei paraggi. Sapevano tutti del rapporto pessimo tra il loro collega e lo scienziato svarghiano e nessuno voleva ricevere una dose supplementare di lagne e recriminazioni sui fatto di Svarga e il ratto della scoperta. Ci erano già passati, più e più volte, e non era una strada che volessero percorrere di nuovo. Persino Ruth Blakely, la responsabile del gruppo, decise di ignorare il giovane planetologo e discusse solo con gli altri dell’eventualità di assistere al convegno. Poteva essere interessante, no? Molti concordarono.

«Ma senza dirlo a Stratos, che altrimenti quello...» Annuirono tutti. Sapevano. Non c’era bisogno di concludere la frase. Così decisero di sondare la possibilità di raggiungere la città per la conferenza, se non c’era lavoro in programma. Forse non avrebbero sentito nulla di nuovo, perché erano loro a possedere i dati migliori e più recenti, ma chissà, forse il professore svarghiano aveva saputo usare meglio il poco di cui disponeva. Forse aveva saputo studiare il problema da una prospettiva diversa, arrivando a risposte diverse. Forse... E dopotutto non avevano nulla da perdere, no?

Risultò che qualcosa lo avevano, perché Bogdan lo scoprì e mise un muso lungo lungo che toccava il pavimento. Si sentiva tradito, pugnalato alle spalle, e ridusse ulteriormente la sua partecipazione già scarsa alle attività del gruppo. Non se ne sarebbe andato, per carità, perché era l’unico modo che avesse per studiare i giganti gassosi, ma questo non significava che li avrebbe perdonati, traditori dal primo all’ultimo. E un giorno, di sicuro, si sarebbe vendicato. In un modo o nell’altro.

Non contribuì a migliorare il suo umore la scoperta che la conferenza si sarebbe svolta all’interno di quella stessa base in cui lui si trovava. In tanti avevano chiesto di poter assistere e in città non c’era un edificio grande a sufficienza per accoglierli tutti. Alla base sì, c’era il palazzetto, e nel palazzetto si sarebbe svolta la conferenza. Proprio a due passi dai loro alloggi. Due passi figurati, d’accordo: in realtà erano molto più di due, per chiunque non indossasse gli stivali delle sette leghe, ma il punto era un altro, il punto era che quel maledetto di Muzafar Chang gli sarebbe stato fin troppo vicino, a sufficienza da appestare l’aria col suo olezzo malsano. Significava anche che il resto de gruppo non avrebbe avuto problemi ad assistere alla conferenza. La galassia era davvero ingiusta.

Vi rimuginava mentre raggiungeva la farmacia dell’ospedale, per rifornirsi di repellente. Quello per lo meno sembrava funzionare e gli insetti gli giravano alla larga. Ne trovava ancora sui vetri esterni della sua finestra, di tanto in tanto, ma cercava di non farvi caso e comunque le tendine aiutavano a non vederli. Ma nessuno sgorbio aveva più osato posarsi su di lui, nessuno lo aveva punto, come era invece successo a tutti i suoi colleghi (ben gli stava, a qui porci traditori) e nessuno lo avrebbe più spedito in ospedale, come era successo sempre a uno dei suoi colleghi, un giovane tecnico pettinato come un porcospino folgorato, che si era fatto crescere per ragioni ignote il più triste paio di baffetti che Bogdan avesse mai visto su un essere umano di sesso maschile. Una specie di tafano gli aveva punto la base del collo, la puntura si era gonfiata, aveva assunto una colorazione molto dadaista, gli era venuta la febbre, crisi respiratorie e alla fine aveva vinto un soggiorno di tre giorni in una stanza di ospedale. L’avevano definita una crisi allergica, niente di grave, cose che capitano, ma a Bogdan aveva dato i brividi e da allora aveva raddoppiato le dosi di repellente.

Che ormai era quasi finito. Così aveva approfittato di un tardo pomeriggio in cui il lavoro era finito e restava solo da attendere l’ora di cena, e si era incamminato verso la farmacia sotto un cielo colore candeggina usata. E in farmacia aveva trovato la tizia con l’occhio bendato: incontro di cui Bogdan avrebbe fatto volentieri a meno, a posteriori, ma a posteriori non vale mai. Purtroppo.

La tizia era lì per una qualche medicazione e stava discutendo col medico dietro al bancone, perché il farmaco non era ancora arrivato o qualcosa del genere. Bogdan la ignorò il più possibile, anche se l’ambiente ristretto e l’ottima acustica rendevano difficile ignorare più di tanto ciò che dicevano le persone attorno a lui. Che poi attorno a lui ci fossero solo due persone, il medico e la guercia, non lo aiutava nel suo tentativo di ignorarle. Finì così per sentire più di quanto avrebbe voluto, anche se si sforzò di non ascoltarlo. Bastarono poche parole per capire che la discussione era fatta della stessa sostanza degli incubi. Dei suoi incubi, quantomeno.

La tizia doveva avere più o meno la sua stessa età, anche se i capelli erano grigi. Un grigio naturale, senza dubbio: nessuna forma di vita intelligente avrebbe mai deciso di tingersi di grigio quando non aveva ancora raggiunto i trent’anni, almeno secondo il suo modesto parere. Ma i capelli erano solo il più secondario dei dettagli, se paragonati alla toppa da pirata che portava sopra l’occhio sinistro. Una toppa che, in base a quanto Bogdan sentì (ma non ascoltò), era stata causata da un insetto che si era preso libertà non previste. Ne fu subito orripilato. Ma non voleva saperne di più, certe cose lo terrorizzavano, e proprio perché non voleva saperne di più la fermò poi per chiederle che cosa fosse successo al suo occhio di preciso. Se non era una problema parlarne. Giusto per sapere. Sai.

La tizia lo fissò per un momento, poi scrollò le spalle. Si chiamava Erika Freire, o così si presentò. Parlava con un accento dell’area sudamericana, che Bogdan riconosceva ma non sapeva localizzare con precisione. Zona andina, forse, o forse se lo stava inventando lui. Ma era una exologa e studiava una determinata specie di insetto che prosperava dalle parti della base. Non che lo stesse studiando proprio di sua volontà, perché il suo interesse principale era rivolto a un’altra specie, anfibia e dalle caratteristiche molto più interessanti. «Ma poi ho avuto la cattiva idea di parlarne con la persona sbagliata, sai com’è, e così mi sono ritrovata qui, che mi piacesse o meno. Non mi piace molto.»

Bogdan annuì, fingendo abbastanza bene di non essere disgustato da tutto quel parlare di insetti. Era consapevole dell’esistenza di persone che amavano davvero studiare certa roba, ma non ne aveva viste molte da vicino. Negli ultimi tempi, non ne aveva mai viste e basta. Preferiva girare alla larga.

«Ed è stato uno di quegli insetti a causarti... problemi all’occhio?»

Erika Freire annuì. «Ma non è niente di grave, credo. O almeno mi dicono che non è grave e per il momento mi devo fidare. Staremo a vedere. In tutti i sensi, hah! Comunque sì, un insetto. Uno degli pseudotafani che ti dicevo, sai. Non so cosa gli abbia preso, magari ho fatto qualche gesto che lo ha innervosito, ma mi è volato nell’occhio all’improvviso e non credo che lo abbia punto, non proprio, non ho sentito punture o altro, ma qualcosa mi ha fatto e così...» Alzò le spalle.

«E così?» chiese Bogdan, non desiderando davvero conoscere altri dettagli, ma spinto da quel tipo di fascino morboso che porta gli esemplari di homo sapiens a rallentare per guardare un incidente o leggere con avidità le descrizioni di disastri e altri avvenimenti in cui brulicano i morti.

«E così l’occhio si è arrossato, si è gonfiato e adesso non ci vedo proprio. In ospedale dicono che è un fenomeno temporaneo, una reazione allergica dell’organismo, ma a me sembra che lo dicano un po’ troppo spesso e quasi per ogni cosa, per cui sai, fidarsi è bene ma...»

Bogdan ebbe un rapido e sgradevole flashback del proprio soggiorno in ospedale a Guan Yu, dopo che le libellule lo avevano aggredito. Dopo che le libellule lo avevano aggredito: affermazione che a distanza di mesi continuava a suonargli ridicola e probabilmente avrebbe continuato per il resto dei suoi giorni, ma era anche vera, fin troppo reale. Aggredito dalle libellule. Sì, gli insetti alieni erano una forza del male. Erano chiaramente una forza del male. Meritavano solo di essere sterminati.

«Io non ho un particolare amore per gli insetti,» disse poi. «Non dopo un incidente che mi è capitato mentre ero su Svarga. Non che mi piacessero molto neppure prima, ma adesso li odio proprio. È per questo che sono sempre in cerca di nuovi repellenti. Non voglio che la fauna di Madre familiarizzi troppo con me. Per così dire.»

Erika annuì di nuovo. «Sì, posso capire. Non mi intendo molto di repellenti, anche perché col mio lavoro non vanno molto d’accordo, come puoi capire, ma mi pare che di recente ne abbiano messi a punto alcuni piuttosto efficaci. Le punture di insetto sono un problema per quasi tutti i nuovi coloni, a volte anche più di un problema. È che ne esistono così tanti, sai, e ne scopriamo specie nuove ogni giorno o quasi, per cui è difficile mantenersi sempre al passo. Repellenti che funzionano oggi, in un paio di settimane potrebbero già essere diventati obsoleti, o almeno parziali.»

«Perché trovate specie nuove che reagiscono in modo diverso.»

«Perché troviamo specie nuove che reagiscono in modo diverso, già. E perché le specie vecchie non reagiscono sempre allo stesso modo. Sembra che si evolvano e si adattino molto in fretta, qui: ciò che li ferma oggi non li fermerà sempre anche domani. Deve esistere una selezione molto intensa, che li costringe a migliorarsi di continuo, per reagire all’ambiente che cambia.»

Bogdan decise che avrebbe trascorso sul pianeta il minor tempo possibile. In fondo non era proprio necessario essere sulla superficie, giusto? Poteva condurre i suoi studi anche dallo spazio. O almeno dalla stazione orbitale. In fondo a lui interessavano i giganti gassosi, quindi non era così necessario il contatto diretto con Madre. Giusto? Giusto? Si doveva informare. Era la prima cosa da chiedere a Ruth Blakely, una volta tornato agli alloggi. Su quel pianeta, in mezzo a quegli insetti, non ci voleva restare. Non se poteva evitarlo. Non per un secondo in più dello stretto indispensabile.

«Tu sei uno dei planetologi arrivati da poco, giusto? Quelli che vogliono studiare i giganti gassosi,» chiese Erika dopo una breve pausa.

Bogdan la fissò. «Sì, sono uno di loro. Non credevo di essere così famoso.»

«Infatti non lo sei. Ma ho sentito che sarebbero arrivati a breve, tu sei una nuova faccia, non sembri uno che passa molto tempo all’aria aperta per lavoro e così...» Si strinse nelle spalle.

«Ah, capisco. Comunque io passo tempo all’aria aperta, di solito. È solo che di recente avevo altro da fare e sì, lo ammetto, il mio lavoro non richiede di stare molto all’aperto, ma questo non significa che io sia sempre chiuso in casa, sia chiaro. È solo che...»

Erika Freire agitò una mano a interromperlo. «Non era una critica, ma una constatazione. Passa pure il tuo tempo dove e come preferisci, non è certo un problema. Io devo stare spesso all’aperto a dare la caccia agli insetti, ma ti assicuro che a volte ne farei volentieri a meno. Specie con gli insetti che mi toccano adesso. Gli pseudoscarafaggi almeno erano anfibi, così ogni tanto avevo una scusa per una vacanza al mare. Non che ci sia un gran mare da queste parti, ma è meglio di niente.»

Parlarono ancora un poco del più e del meno, in una piazzetta nei pressi della farmacia. Non molto tempo dopo li raggiunse una sergente abbastanza giovane e muscolosa, non grossa ma atletica. Più o meno il tipo di struttura fisica che Bogdan incontrava di continuo lì alla base, ma che era quasi del tutto assente all’Ufficio per la Colonizzazione. La nuova arrivata si presentò come Carla Hedges, rimase un poco a chiacchierare con loro, si scusò, parlò di impegni inderogabili, prese Erika Freire a braccetto e se ne andarono verso un settore che lui non conosceva.

Bogdan scrollò le spalle. Per quanto ne sapeva lui, molti ricercatori avevano uno o più militari che li sorvegliavano da vicino, se si occupavano di studi o ricerche considerati “sensibili”. O così aveva spiegato la Blakely poco dopo il loro arrivo. Cosa ci fosse di sensibile nello studiare mosconi e altri sgorbi, Bogdan non lo avrebbe saputo dire neppure sotto tortura, ma a quanto pareva qualcosa c’era. Oh beh, il mondo era pieno di stramberie. Con la sua nuova scorta di repellenti si incamminò verso gli alloggi. Era quasi ora di cena, ormai, anche se tutto quel parlare di insetti non aveva stimolato il suo appetito. Anzi. Era davvero un brutto pianeta, quello.

Il fatto che a breve sarebbe arrivato Muzafar Chang per la sua conferenza non contribuiva proprio a migliorarlo. Bogdan si chiese di nuovo chi gli avesse concesso l’autorizzazione, poi si accorse che era una domanda stupida e la corresse: perché gli avevano concesso l’autorizzazione? Chi l’avesse concessa era ovvio: Leonardi, direttamente o per interposta persona. Ma i mesi all’Ufficio avevano dimostrato al di là di ogni dubbio che Leonardi amava Svarga e gli svarghiani tanto quanto essere preso a calci nei denti. O anche in altre aree sensibili della propria anatomia, ammesso che Leonardi ne avesse ancora e fossero ancora così sensibili: quando parlavi di una mummia di centodieci anni circa, qualche dubbio era legittimo, secondo Bogdan. Fosse come fosse, però, Leonardi non avrebbe mai accettato la conferenza. Non avrebbe mai permesso agli svarghiani di entrare.

Normalmente.

Dunque era successo qualcosa di anormale.

Avevano riso più o meno tutti all’Ufficio, quando era arrivata la richiesta del professor Chang. Una conferenza su Madre, dopo la causa con la fondazione Chen-Cohimbra, dopo l’anatema di Leonardi e con la possibilità sempre più concreta della chiusura totale di ogni rapporto accademico (e forse non solo) tra la Terra e Svarga. Era chiaramente una provocazione. Non potevano parlare sul serio. E comunque Leonardi non l’avrebbe mai autorizzata.

Non l’aveva autorizzata all’inizio, con gran sollievo di Bogdan, ma poi era accaduto qualcosa che lo aveva indotto a cambiare idea, per quanto impossibile sembrasse far cambiare idea al vecchiaccio. È stato il suo viaggio su Madre, avevano detto i pettegolezzi di corridoio. Il grande capo ci era andato di persona, ma non proprio di persona persona: di persona virtuale, capite? Come per la spedizione, quella di trent’anni fa. E si era incontrato coi generali alla base militare, continuavano a raccontare i pettegolezzi, e chissà cosa aveva deciso assieme a loro. Magari ci scapperà un incidente, sapete? Ma uno di quegli incidenti che, beh, ci siamo capiti. Secondo me gli svarghiani non ci tornano a casa.

Bogdan aveva ascoltato senza crederci davvero, o almeno senza crederci del tutto. Con quello che sapeva di Leonardi, non si sarebbe sorpreso se davvero avesse preparato qualcosa di sporco per gli ospiti svarghiani. Neppure ne avrebbe pianto, se mai fosse accaduto qualche “incidente” a Chang: la preferenza era per un incidente molto, molto doloroso, ma avrebbe accettato anche un molto, molto umiliante, almeno in via del tutto provvisoria. Ma non sarebbe successo, non nel modo in cui tutti se lo aspettavano all’Ufficio. Se Leonardi aveva davvero in programma qualche fregatura per Svarga, allora sarebbe stata una cosa estremamente subdola e vile, che non gli avrebbe sporcato le mani.

Forse poteva anche valere la pena di recarsi alla conferenza. Non per ascoltare le menzogne di quel verme traditore, per carità, ma per osservare, studiare, analizzare. Se i pettegolezzi possedevano una qualche base di verità, magari sarebbe stata l’ultima volta che gli capitava di vedere Muzafar Chang dal vivo. O anche vivo, chissà. Leonardi poteva avere preparato una nuova arma batteriologica con cui contagiare la delegazione, per poi diffondere la pestilenza su Svarga. Quello era nel suo stile.

Ma erano anche fantasie, gradevoli ma irreali. Probabilmente la realtà era molto più prosaica: niente complotti per vendette trasversali, ma un qualche accordo sottobanco con Svarga. La conferenza in cambio di concessioni particolari, vantaggi economici, roba simile. Anche quello era nello stile di Leonardi; lo era molto più di fantasticherie su pestilenze e altro. Pure, poteva sempre sognare.

E sognare sognò, quella notte, ma fu a base di insetti, con contorno di insetti e insetti per dessert. Si svegliò quando l’alba era ancora lontana, col desiderio di farsi una lunga doccia disinfettante e poi purificare il pianeta con una pioggia di bombe all’idrogeno. Non avrebbe dovuto parlare con la tizia in farmacia: le sue storie avevano suggerito al suo inconscio mille nuovi modi per disgustarlo con le più ributtanti interazioni tra uomo e insetti. Seduto sul letto nel buio della stanza, gli occhi chiusi e il respiro non ancora stabile, ripensò per la prima volta seriamente all’offerta che aveva ricevuto al ritorno da Svarga. Forse la sua fobia degli insetti stava diventando davvero una patologia. Forse era il caso di prendere davvero in considerazione un consulto psicologico. O anche psichiatrico.

Ma non adesso. Adesso era su Madre e le priorità erano altre. Lo studio dei giganti gassosi, da tanto tempo atteso e finalmente alla sua portata. Poteva anche sopportare qualche incubo e magari anche una sensibilità eccessiva nei confronti degli orrori ronzanti che svolazzavano ovunque. Se alle fine ne avesse ricavato riconoscimenti personali, veri riconoscimenti personali, allora tutto il resto era la più piccola delle spese, un fastidio trascurabile e comunque accettabile. E stavolta i riconoscimenti ci sarebbero stati, in un modo o nell’altro. Stavolta nessuno gli avrebbe fregato la scoperta.

Quel giorno partì alla carica subito dopo colazione. Avevano sprecato già fin troppi giorni su Madre a condurre test che, almeno in teoria, avrebbero dovuto aver concluso già prima della partenza. Ma la Blakely non era sicura, voleva evitare incidenti, potevano esserci imprevisti, questo e quello, qui e là, su e giù, e tutto ristagnava. O così pensava Bogdan. Altri ritenevano che fossero tempi del tutto normali per ciò che si preparavano a fare, anzi: forse anche un po’ troppo veloci. In fondo, non era che i giganti gassosi se ne sarebbero andati durante la notte, no? Erano lì ormai da qualche miliardo di anni, quindi potevano restarci ancora per una settimana o due. Nessuna fretta.

Bogdan li avrebbe strozzati. I giganti gassosi potevano anche non andare da nessuna parte, ma cosa poteva succedere alle (presunte) strutture organiche nei loro nuclei? Anche loro erano lì da miliardi di anni e vi sarebbero rimaste ancora per chissà quanto? Lui non lo credeva. Già un confronto tra le immagini catturate dai telescopi terrestri e quelle dei satelliti madriani denotavano un cambiamento nel corso degli ultimi trent’anni, cioè nel tempo che la luce aveva impiegato a viaggiare dal sistema di Madre fino alla Terra. Nelle immagini madriane le (presunte) strutture organiche apparivano più grandi e di forma leggermente diversa. D’accordo, le differenze erano minime e d’accordo, in parte potevano essere dovute a difetti negli strumenti e d’accordo, esisteva una minuscola possibilità che il cambiamento esistesse solo nella sua mente, ma se c’era davvero, eh? Cosa avrebbero fatto? Non pensavano che fosse una pessima idea perdere altro tempo?

Ruth Blakely non lo pensava e cercò di spiegarglielo. Bogdan Stratos neppure ascoltò. Era già stato costretto ad aspettare ben più di un anno per arrivare su Madre, e adesso finalmente c’era: aspettare ancora era un pensiero a cui era vietato l’accesso nel reame incantato del suo cervello. Un pensiero che, se fosse dipeso da lui, sarebbe già stato condannato a morte per alto tradimento.

Ripartì spiegando la necessità di trovare risposte al più presto, urgenza che non era certo dovuta alla conferenza di Muzafar Chang, figuriamoci, pensieri simili sono immotivati e futili, ma alla ben più seria e scientifica brama di sapere e conoscere, che aveva spinto l’uomo fin dai primordi o giù di lì. I giganti gassosi erano un enigma che poteva cambiare l’umanità, se risolto, ed era un loro preciso e ineludibile dovere morale trovare le risposte. C’era in gioco molto più di una semplice scoperta.

Ruth Blakely rispose che sarebbe rimasta in gioco anche tra due settimane e la necessità di evitare incidenti o errori era in linea con l’importanza di ciò che si apprestavano a fare.

Bogdan attaccò sul versante delle opportunità. Eseguire un primo lancio avrebbe fornito molti più dati su eventuali errori nelle sonde e modifiche da apportare rispetto a mille test in laboratorio. Non era forse vero che molte delle più grandi scoperte degli ultimi due secoli erano state ottenute proprio così, abbandonando i laboratori e sperimentando dal vivo, a qualunque prezzo? La colonizzazione della galassia era cominciata proprio così, testando direttamente sui primi coloni gli effetti che cibo, acqua e atmosfera di un nuovo pianeta potevano avere sugli esseri umani. Se fossero rimasti seduti a sperimentare in ambienti protetti, forse l’umanità non sarebbe sopravvissuta al collasso climatico.

Ruth Blakely rispose che non era proprio un esempio felice e che le loro circostanze erano diverse. I diritti umani magari erano stati trascurati quando era una questione di vita o morte, ma uno studio di due giganti gassosi non era proprio una questione di vita o morte, giusto? Dunque era sensato che vi si arrivasse per strade più sicure, senza rischiare inutilmente mezzi e risorse.

Alla fine Bogdan giocò quella che sapeva essere la carta migliore. Leonardi. Leonardi voleva che i risultati arrivassero presto, in fretta, ieri anziché domani. Leonardi voleva sapere se ci fossero quelle strutture organiche, e nel caso cosa fossero, e magari anche perché ci fossero. Leonardi voleva tutte le risposte possibili e le voleva subito. Non le aveva già messo fretta una volta, perché i due o tre mesi promessi erano troppo lunghi per i suoi gusti e voleva che il prototipo fosse pronto in un mese al massimo? E cosa avrebbe detto adesso, se continuavano a lasciar passare giorni per niente?

Ruth Blakely lo fissò. «E tu come fai a saperlo?»

Bogdan agitò una mano. «Non ha importanza, lo sanno tutti. Se ne parlava ovunque all’Ufficio.»

«Direi proprio di no. Non se n’è parlato da nessuna parte. Non si parla mai dei colloqui privati con Leonardi. Lo dovresti sapere anche tu. Allora?»

Allora Bogdan lo sapeva che dei colloqui privati con Leonardi non si parlava mai, non in dettaglio e non se si voleva continuare a lavorare all’Ufficio per la Colonizzazione, e infatti nessuno ne aveva parlato. Non proprio parlato. Diciamo che Bogdan lo aveva saputo per vie traverse, o anche per vie diritte, a seconda dei punti di vista. Non proprio origliando, non esattamente origliando, ma l’idea era grossomodo quella, volendo. Ma il come non aveva importanza: era il cosa che contava, ossia la fretta di Leonardi. Quindi la risposta che poteva dare alla responsabile era una sola: la verità. Non lo fece, ma a suo modesto parere ci andò vicino a sufficienza.

«Non ha importanza il come,» rispose Bogdan. «Ha importanza ciò che vuole Leonardi, e Leonardi vuole le risposte al più presto. È così o non è così?»

Ruth Blakely sospirò. «Sì, è così. Leonardi ha fretta, qualunque sia il motivo. Ma tu...»

«Non ha importanza, ho detto. Il punto è che Leonardi potrebbe non essere contento di altri ritardi. Anzi, è sicuro che Leonardi non sarà contento. E sappiamo tutti cosa può fare Leonardi quando non è contento. Vogliamo davvero fornirgli una nuova occasione per diventare creativo coi suoi metodi per risolvere i problemi di infelicità? Perché penso proprio che la sua prima mossa sarà rimuovere e sostituire il responsabile del nostro progetto. Sarebbe un vero peccato, a questo punto.»

Ruth Blakely lo fissò in silenzio. A modo suo aveva ragione, quell’orribile giovane. Ricordava pure troppo bene il dialogo con Leonardi a cui aveva fatto riferimento, la sua ostinazione ad affrettarsi, a tagliare sui tempi, a chiudere presto, presto e ancora più presto. Il che era anche comprensibile, data l’età del grande capo: a centodieci anni non puoi essere molto paziente o rischi di rimanere paziente in eterno, dentro a una cassa. Eppure...

Ma alla fine cedette. Leonardi aveva fretta, il giovane Stratos aveva fretta, tutti avevano fretta. Che avessero pure fretta, se lo desideravano davvero. Non era uno stile di vita che lei condivideva, non uno che avrebbe mai adottato né uno che aveva mai adottato: la sua carriera all’Ufficio era stata un inno alla calma e ai piccoli passi. E forse proprio per questo non sarebbe mai arrivata a niente.

«Procediamo pure, allora,» disse. «Invia un messaggio all’Ufficio, per segnalare che il primo lancio avverrà entro la settimana, non appena avremo l’ok dai militari. Visto che l’idea è tua...»

Bogdan non se lo fece ripetere. Era un modo per scaricare su di lui la responsabilità di un fallimento e lo sapeva, ma allo stesso tempo sarebbe stato anche in gran parte suo il merito di un successo. Una buona condizione, a suo modesto parere. Adesso si trattava solo di sfruttarla al meglio.

Se possibile, alla faccia di quel maledetto verme traditore di Muzafar Chang. Per il bene supremo della scienza, ovviamente. Non per interesse personale.