Emishi, Ezo ed Ebisu
Ebisu è il nome di un kami giapponese, oggi inserito nel gruppo degli Shichifukujin, le sette divinità della fortuna. Emishi è il nome con cui erano indicati negli antichi annali giapponesi i “barbari” che si opponevano all’espansione verso est del regno di Yamato, poi divenuto l’impero giapponese. Ezo è l’antico nome dell’isola di Hokkaidō, la più settentrionale tra le quattro isole principali che compongono l’arcipelago giapponese: Hokkaidō, Honshū, Kyūshū e Shikoku. Per quanto diverse in apparenza, queste tre parole significavano anticamente la stessa cosa. Condividono anche la medesima origine, che non è neppure giapponese. Questo a parere dei filologi, quantomeno.
Ebisu, emishi ed Ezo, infatti, deriverebbero tutte e tre da una parola in lingua ainu, ossia enciw. Una parola che, in epoca moderna, non esisteva più nei dialetti ainu parlati in Hokkaidō. Era rimasta in uso, però, nel dialetto parlato a Sachalin, almeno fino all’inizio del Novecento, quando ancora c’erano ainu residenti a Sachalin1. La troviamo infatti nella lista di vocaboli compilata dal polacco Bronisłav Piłsudsky ai primi del Novecento, durante il suo esilio a Sachalin. Nelle sue intenzioni, quella lista di vocaboli sarebbe dovuta diventare un vocabolario vero e proprio, un giorno, ma quel giorno non è mai arrivato; se anche è arrivato, l’ipotetico vocabolario non è giunto a noi, per cui il risultato è lo stesso. Abbiamo solo gli appunti a cui lavorava, che contengono parecchie parole ma non le diecimila che, nelle sue dichiarazioni, avrebbero costituito il vocabolario completo. Sia come sia, tra queste parole troviamo énćiu (questa la grafia utilizzata da Piłsudsky), a cui è attribuito il significato di “uomo, essere mortale, essere umano”.
Nella nota a un racconto ainu di Sachalin in cui è utilizzata questa parola, Piłsudsky la spiega in questi termini: “énćiu, un uomo, un nome per gli uomini (e gli ainu) assegnato loro dalle divinità. Gli ainu di Sachalin lo usano nelle preghiere e nella poesia, quando le divinità e gli uomini sono indicati come termini in contrasto. La parola proviene dalla lingua giapponese, in cui la parola ijin significa barbaro, forestiero.” Piuttosto interessante la sua proposta etimologica, perché i giapponesi sono di parere diverso, ma ci penseremo poi2. Per il momento, basta sottolineare come la parola enciw, a giudizio di Piłsudsky, nel dialetto ainu di Sachalin fosse usata per indicare gli esseri umani in contrasto con le divinità. Qualcosa di simile al brotós omerico, grossomodo, che designava gli umani come “mortali” in contrapposizione agli immortali dell’Olimpo.
Nel vocabolario ainu-giapponese compilato da Kubodera Itsuhiko, poi, troviamo la parola enchiu (enju), secondo la grafia scelta dallo studioso giapponese. Il suo significato è sempre quello di “persona, essere umano”3, ma Kubodera aggiunge che si tratta di un termine usato a Sachalin e che apparterrebbe al linguaggio poetico, non a quello quotidiano. Tutto a posto fin qui, nonché in linea con la definizione data da Piłsudsky. Il dialetto ainu parlato a Sachalin presentava parecchie differenze rispetto ai dialetti di Hokkaidō. Una parte di queste differenze era fonetica, come la distinzione tra vocali lunghe e brevi, che nei dialetti di Hokkaidō non si è conservata, ma anche la sopravvivenza di un certo numero di arcaicismi nel lessico aveva il suo peso. Uno di questi, in apparenza, era proprio la parola enciw, sparita in Hokkaidō.
Kubodera aggiunge un altro particolare interessane. Nel dialetto di Sachalin, enchiu ipoxse (sempre seguendo la grafia usata nel suo vocabolario) corrispondeva nei dialetti di Hokkaidō ad aynu itak, che in giapponese è tradotto come ainugo (アイヌ語) e significa “lingua ainu”. La stessa parola aynu, peraltro, significa “uomo, persona” e ha grossomodo il medesimo valore dell’italiano “uomo” o dell’inglese “man”: può indicare sia gli umani in generale, sia un maschio nello specifico. Gli ainu4, dunque, identificavano se stessi come “persone”, semplicemente, ed è un termine che troviamo spesso nelle loro storie, usato come noi useremmo “uomo” in italiano.
Le parole enciw e aynu, in sintesi, avrebbero grossomodo lo stesso significato e indicherebbero uno o più esseri umani. A distinguerle, almeno a parere di Piłsudsky, è il fatto che enciw sarebbe stato usato per indicare gli umani come contrapposti ai kamuy5, ossia alle divinità, quindi solo in un caso molto specifico. Così almeno avveniva a Sachalin nel periodo in cui Piłsudsky vi rimase in esilio, cioè tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Non ci è dato però sapere quanto antica sia questa distinzione, né quanto diffusa fosse. Forse enciw è stata usata fin dall’inizio per indicare gli umani in contrapposizione alle divinità, forse è un significato che ha acquisito strada facendo, forse altro ancora6. Sia come sia, la parola esisteva e significava “essere umano”.
Se enciw è l’origine, come si è arrivati alle parole giapponesi che, apparentemente, ne sarebbero derivate, ossia Ebisu, emishi ed Ezo? Osserviamo dunque il percorso di trasformazione, almeno così come ci è indicato dai giapponesi. È la loro lingua, dopotutto. Una prima proposta l’abbiamo dallo stesso Kubodera, che ci indica le evoluzioni che, a suo parere, la parola enciw avrebbe subito per trasformarsi nei tre vocaboli giapponesi. A suo dire, il percorso sarebbe: enchiu > emchiu > emishi; enchiu > enju > enzo > ezo. Sempre utilizzando la sua grafia, sia chiaro. Da emishi, poi, deriverebbe la parola ebisu, seguendo questo percorso: emishi > emisu > ebisu. Questo era il suo parere, quantomeno.
Un percorso simile lo troviamo anche nel dizionario di giapponese classico pubblicato dalla Iwanami, ossia lo 『岩波古語辞典』, dove l’etimologia della parola Ezo ci è descritta come emisi > emzi > enju > enjo > ezo. Il dizionario è anche categorico nello specificare che questo nome, ezo, sarebbe stato il vecchio nome della popolazione che si spostò dal Tōhoku7 a Hokkaidō; in subordine, Ezo era anche il vecchio nome dell’isola di Hokkaidō, proprio dal nome del popolo che vi si trasferì a vivere. Sempre nello stesso vocabolario, possiamo leggere che ebisu sarebbe una variazione di emishi, ma senza specificarne il percorso, mentre emishi deriverebbe dalla (ipotetica) parola *emichiw, con cui gli ainu indicavano se stessi e che significava “uomo, persona”8. Questa parola sarebbe poi stata modificata in emishi ed ezo, ma di nuovo non sono specificati i passaggi intermedi che avrebbero portato da un vocabolo all’altro.
Sulla ipotetica parola emichiw non sappiamo alcunché, ma la parola enciw esisteva davvero ed è attestata sia nei vocabolari ainu, come abbiamo visto, sia in alcune storie registrate da Piłsudsky a Sachalin. I filologi giapponesi sembrano concordi nel far partire tutto da qui; se non tutti i filologi, almeno una quantità sufficiente per far comparire questa etimologia come “ufficiale” sui dizionari di giapponese classico. Per noi può anche bastare, al momento, dato che non è la filologia il mio interesse principale. Ebisu, emishi ed ezo, in origine, sarebbero stati tutti e tre termini con cui si indicava la popolazione che oggi conosciamo come ainu e che conviveva coi giapponesi, in modo non proprio e non sempre pacifico, sulle isole dell’arcipelago: dapprima nella parte nordorientale dello Honshū, poi in Hokkaidō.
La parola emishi non ci causa grandi problemi. Nei testi giapponesi dell’ottavo secolo era usata per indicare i barbari che non accettavano l’autorità dell’imperatore. Vivevano nelle province orientali, dalla zona dell’attuale Kantō in poi, e nelle cronache giapponesi erano le vittime designate delle campagne di “pacificazione” condotte dall’imperatore di turno. Anche l’eroe Yamato Takeru partì per combattere contro di loro, in quella che sarebbe poi diventata la sua ultima avventura. Non che sia morto in battaglia contro gli emishi, sia chiaro: quegli scontri li ha sempre vinti. È morto per quello che possiamo descrivere come un peccato di hybris, da un certo punto di vista, ma è un altro discorso e non ci riguarda, almeno in questa sede.
Descrizioni di combattimenti contro gli emishi le troviamo anche in alcuni Fudoki, dove sono però chiamati più spesso tsuchigumo, ossia “ragni di terra”. Avevano anche nomi ben poco ainu, a meno che quelli riportati in giapponese non fossero traduzioni molto libere e creative. Sia come sia, emishi era utilizzato per indicare genericamente i “barbari” che vivevano sull’arcipelago giapponese, ossia tutti quei popoli che non erano ancora stati civilizzati dall’imperatore e non ne avevano accettato l’autorità. I futuri ainu erano di certo una componente di questo gruppo, forse anche una componente maggioritaria, ma di più non possiamo dire con certezza.
La parola emishi deriva dalla lingua ainu, d’accordo, ma non è detto che ai tempi la lingua ainu fosse parlata dai soli ainu. È almeno possibile che fosse estesa anche ad altre culture e che gli ainu siano solo gli unici a essere sopravvissuti fino a noi. È altrettanto possibile che quelli che oggi conosciamo come ainu siano il prodotto di una mescolanza di culture diverse, che avevano in comune il rifiuto di sottomettersi ai giapponesi, preferendo magari continuare a vivere seguendo le antiche tradizioni fatte di caccia, pesca e raccolta, ben diverse da quelle dei giapponesi, che avevano abbracciato la rivoluzione agricola e tutto ciò che comporta, come la vita cittadina e i governi centralizzati. Ci torneremo poi.
Qualunque fosse di preciso l’etnia degli emishi, soltanto ainu oppure mista, è certo che la lingua più diffusa nei territori fosse quella che oggi conosciamo come lingua ainu, o più probabilmente una sua versione arcaica. Già Chamberlain nel 1887 pubblicava uno studio in collaborazione con Batchelor dal titolo “The language, mythology, and geographical nomenclature of Japan, viewed in the light of Aino studies”, in cui analizzava la toponomastica di diverse aree del Giappone, in cerca di una etimologia in lingua ainu per tutti quei nomi che non sono molto facili da spiegare in lingua giapponese. Alcune delle sue proposte erano abbastanza verosimili, tutto sommato. Nel Tōhoku, i luoghi con un nome di apparente origine ainu sono piuttosto numerosi9; con un poco di fantasia, si possono immaginare etimologie non troppo azzardate anche per regioni più occidentali e meridionali. Che nell’antichità una forma molto arcaica di ainu fosse parlata in una vasta zona del Giappone non è una ipotesi così surreale, almeno come punto di partenza.
Molto più difficile è descrivere in dettaglio come potesse essere la popolazione che parlava quella lingua, al di là di un generico “cacciatori e raccoglitori”. Le più antiche fonti pseudostoriche giapponesi li chiamavano di solito emishi, a volte tsuchigumo, suggerendo che vivessero in buche nel terreno. Non è improbabile che fosse davvero così: anche i giapponesi avevano abitazioni temporanee seminterrate, ai tempi. Il significato più antico della parola giapponese muro è proprio questo: un rifugio scavato nel terreno, oppure nel fianco di una collina. Più una tana che un alloggio vero e proprio, insomma. Sappiamo anche che gli ainu di Sachalin trascorrevano parte dell’anno in rifugi seminterrati, fino a un centinaio di anni fa circa. Non sarebbe stato troppo difficile per i giapponesi ricavarne un insulto etnico come tsuchigumo, “ragni di terra”, soprattutto considerata l’aperta ostilità tra i due popoli e il senso di superiorità dei giapponesi nei confronti dei “cugini”.
Sia come sia, gli emishi si sono spostati sempre più verso nord, per sottrarsi all’impero di Yamato, fino ad arrivare sull’isola di Hokkaidō, che proprio da loro avrebbe preso il nome: Ezo, in quanto isola degli emishi detti anche ezo, proprio come molti altri paesi nel mondo hanno preso il nome del popolo che li abitava o che vi è emigrato10. Abbiamo già visto il percorso che avrebbe portato all’origine della parola Ezo, per cui non ci ripeteremo qui. L’archeologia ci fornisce anche indicazioni sul periodo in cui questa migrazione è avvenuta. La cultura Satsumon, che era una prosecuzione del tardo Jōmon ed è l’antenata diretta della cultura ainu che conosciamo noi, si colloca tra l’ottavo e il tredicesimo secolo e la distribuzione dei suoi reperti ci dice che si è spostata dal Tōhoku a Hokkaidō in questo arco di tempo. Quelli che sarebbero diventati gli ainu, dunque, sarebbero arrivati in Hokkaidō attorno al cambio di millennio, grossomodo. Da lì, poi, si sarebbero diffusi anche a Sachalin e sulle Curili, con insediamenti anche sulla costa siberiana.
Non che l’isola fosse disabitata, ovvio. Non mancano resti di insediamenti umani nel corso del periodo Jōmon, ossia la preistoria giapponese11, mentre verso la metà del primo millennio la popolazione okhotsk proveniente da Sachalin (e prima ancora dal continente, possiamo supporre) si diffuse in Hokkaidō e in parte del Tōhoku, lasciando tracce della propria presenza anche a livello di reperti archeologici. Il popolo che noi conosciamo come ainu è probabilmente il risultato della mescolanza degli emishi provenienti da Honshū, degli okhotsk rimasti e dei popoli che abitavano l’Hokkaidō in epoca preistorica. Non che questo avesse molta importanza per i giapponesi. Per loro erano tutti emishi, barbari, e l’isola su cui si erano ritirati aveva preso nome proprio da loro, almeno in lingua giapponese: Ezo, il paese degli ezo/emishi/enciw.
I barbari nemici dei giapponesi, però, non erano chiamati soltanto emishi ed ezo. Un altro termine usato per etichettarli era ebisu, che deriverebbe proprio da emishi, a parere dei filologi. Una ipotesi ragionevole, a modo suo. Che la lettera “b” possa diventare “m”, o viceversa, è una mutazione che ha diversi precedenti nella lingua giapponese. L’arcaico hemi (“serpente”) è diventato hebi, in lingua moderna, mentre keburi (“fumo”) è diventato kemuri, proprio come neburu (“dormire”) è diventato nemuru. Un passaggio da emishi a ebishi/ebisu, dunque, è più che possibile. Fin qui, tutto a posto. Qualche problema in più ce lo dà il significato della parola. Come è stato possibile passare da ebisu, etichetta per un popolo considerato barbarico e nemico, a Ebisu, il nome di una delle divinità più famose e amate in Giappone?
Prima di preoccuparci dell’origine del suo nome, però, è meglio procedere con una breve presentazione della divinità, giusto per avere chiaro l’argomento del discorso. Ebisu è oggi uno degli Shichifukujin, ossia le sette (shichi) divinità (jin) della fortuna (fuku). Questo gruppo risale al diciassettesimo secolo ed è composto da divinità che portano ricchezza e abbondanza in vari settori della vita umana. Originariamente non avevano alcuna connessione tra loro, ma questi kami sono stati raccolti assieme per comodità sia delle persone, sia dei santuari che ne avevano probabilmente intuito le potenzialità di marketing12. A ogni modo, il punto è che gli Shichifukujin sono un insieme costruito a tavolino, privo di fondamenti mitologici o rituali.
In questo gruppo, Ebisu aveva l’incarico di portare prosperità nel campo della pesca, almeno agli inizi. La sua rappresentazione classica è infatti quella di un uomo vestito con abiti del periodo Heian, un copricapo, una canna da pesca impugnata in una mano e un grosso pesce tenuto sotto il braccio con l’altra. Può anche trovarsi seduto su un qualche tipo di imbarcazione, ma non è strettamente necessario. In seguito, la prosperità portata da Ebisu si è estesa anche ad altri settori, diventando un patrono di agricoltori e commercianti, non solo dei pescatori, ma questo a noi non interessa. Il punto da tenere presente è che, in origine, Ebisu portava l’abbondanza dal mare, sotto forma di una pesca molto ricca. L’apoteosi di questa ricchezza venuta dal mare era la balena spiaggiata, che a propria volta poteva essere chiamata ebisu e identificata con la divinità.
Quando in epoca successiva è stato composto il gruppo delle sette divinità della fortuna, si è anche cercato di collegarle a figure divine che comparivano nella mitologia ufficiale, presumibilmente per conferire loro maggiore autorità o almeno una storia che giustificasse la loro presenza. Ebisu, per la sua natura marittima, è stato collegato a divinità che venivano dal mare, o almeno che avessero una imbarcazione nel proprio passato. Troviamo così Ebisu che diventa la forma adulta di Hiruko13, il figlio deforme di Izanami e Izanagi, abbandonato su una barchetta di giunchi e scomparso in seguito dalle storie ufficiali. Un’altra versione identifica Ebisu con Sukunabikona, il nano arrivato dal mare a bordo di una specie di baccello per aiutare Ōkuninushi nella sua opera di consolidamento del paese. In seguito, Sukunabikona sparì di nuovo via mare, diretto verso Tokoyo no Kuni14. Un terzo candidato al ruolo di Ebisu è Kotoshironushi, un figlio di Ōkuninushi che fa la sua prima apparizione nella cronaca del Kojiki mentre è impegnato a pescare, in barca.
Tutti e tre questi kami, come possiamo vedere, sono connessi al mare. Due di loro hanno anche un legame particolare con Ōkuninushi, divinità che a propria volta sarà identificata con Daikoku15, un membro degli Shichifukujin che compare spesso assieme a Ebisu ed è a volte considerato suo padre o il suo maestro. Tutti e tre, inoltre, sono kami che appaiono e scompaiono. Se Hiruko è abbandonato dai genitori e portato via dalle correnti marine, Sukunabikona va e viene di propria spontanea volontà, sempre via mare, mentre Kotoshironushi scomparirà subito dopo l’unica scena in cui ha una qualche rilevanza, diventando una delle “divinità nascoste”, qualunque cosa si intendesse di preciso con questa espressione all’epoca in cui fu redatto il Kojiki, un punto su cui il dibattito non è ancora giunto a una conclusione definitiva e accettata da tutti (morte? Invisibili? Altro ancora?).
Questa caratteristica di apparire e scomparire ha portato alcuni a considerare Ebisu come uno dei marebito, categoria di divinità e variazioni sul tema molto amata da Orikuchi Shinobu. I marebito sono figure soprannaturali che, in certi periodi dell’anno, arrivano dal mare sulla spiaggia, per un poco si fermano e poi prendono nuovamente il largo. Il loro nome deriverebbe proprio da questa loro abitudine di visitare periodicamente le isole giapponesi: significherebbe infatti mare ni kuru hito (稀に来る人), ossia “persone (hito) che vengono (kuru) di rado (mare ni)”. A volte sono considerate kami, a volte sono considerate le anime dei morti, a volte si mette in dubbio che esista una reale differenza tra le due categorie. Sia come sia, ad accomunare Ebisu ai marebito è la sua abitudine di andare e venire via mare, portando doni e/o fortuna ai meritevoli.
Più nello specifico, Orikuchi ipotizzava che i marebito appartenessero a un’arcaica cosmologia orizzontale, propria dei giapponesi in un’epoca molto antica (a suo parere). Lontano nel mare, oltre l’orizzonte, si troverebbe Tokoyo no Kuni, il paese eterno dove vivevano gli spiriti dei morti; da qui, periodicamente, arriverebbero in barca dei visitatori soprannaturali, che non sarebbero altro che gli spiriti dei morti, divenuti adesso divinità. Questi visitatori, i marebito, sarebbero arrivati in due occasioni particolari: al tempo del raccolto e al tempo del nuovo anno, ammesso che i due momenti avvenissero in giorni diversi16. Giungendo sulle coste del Giappone, i marebito avrebbero ricaricato di energia il paese, portando la primavera, raccolti abbondanti e così via. Questo è in sintesi il parere di Orikuchi Shinobu, ricostruito sulla base di certi elementi del folklore di alcune regioni e le interpretazioni creative che lui stesso ne aveva ricavato.
Sukunabikona, che arriva dal mare, aiuta Ōkuninushi a consolidare il paese e poi riparte sempre via mare, diretto a Tokoyo no Kuni, sarebbe quanto di più vicino a un accenno all’esistenza dei marebito si possa trovare in testi antichi. Siccome Sukunabikona è una delle divinità che in seguito sono state sovrapposte a Ebisu, questo comporterebbe che anche Ebisu sarebbe stato un marebito, o almeno che il suo culto presentava elementi comuni con quello (ipotetico) dei marebito. Plausibile? Volendo, forse. Sia come sia, marebito o meno, Ebisu veniva dal mare e dal mare portava i suoi doni. Basta anche solo l’iconografia scelta per lui a confermacelo al di là di ogni dubbio: ha una canna da pesca, ha un grosso pesce sottobraccio e spesso è seduto in barca.
Essendo in origine un pescatore, adorato da pescatori lungo le coste del Giappone, il dono portato da Ebisu era una pesca abbondante. Meglio ancora, Ebisu poteva scaricare una grande massa di cibo direttamente di fronte ai villaggi, sotto forma di un grosso animale marino spiaggiato. La balena era il dono per eccellenza, una vera e propria manna dal mare che poteva sfamare a lungo l’intera comunità. Nel culto giapponese, Ebisu era sia il dono che il donatore, in questi casi. La balena che si arenava sulla spiaggia era un dono di Ebisu, ma anche la balena stessa era Ebisu: il kami donava dunque se stesso ai propri fedeli, da un certo punto di vista, e la comunità che aveva ricevuto questo dono enorme lo celebrava e lo ringraziava appropriatamente.
Fin qui, niente di strano. Lungo tutte le coste del Pacifico settentrionale, tanto in Asia quanto in America del Nord, troviamo questo motivo: la balena spiaggiata come grande dono concesso dalla figura divina preferita da quel particolare popolo. Compare in Giappone, compare tra gli ainu, compare tra i popoli artici attorno allo stretto di Bering e compare presso le tribù nordamericane che vivevano lungo la costa occidentale. I dettagli variano a seconda della popolazione, ovvio, ma l’idea di fondo rimane la stessa: una balena che finisce arenata sulla spiaggia è un dono dal cielo e come tale va ricevuto e celebrato, rispettosamente.
Tra gli ainu, le balene spiaggiate erano considerate un dono concesso da Repun Kamuy, la divinità che vive in alto mare, ossia l’orca. Non era divina la balena in quanto tale, ma era un dono portato agli uomini da una figura divina. Quando trovavano una balena sulla riva, gli ainu organizzavano una vera e propria festa, per ringraziare Repun Kamuy del dono che aveva concesso loro: c’erano danze attorno alla carcassa, c’erano canti, c’erano offerte di inau e di alcolici a volontà, e tutto per ricambiare la divinità che aveva concesso loro quella manna. Descrizioni di queste celebrazioni le troviamo anche in alcuni canti ainu, come in due kamuy yukar contenuti nella raccolta curata e tradotta in giapponese da Chiri Yukie, ma non sono importanti i dettagli di come si svolgesse la festa. Ci basta solo sottolineare che, nel caso degli ainu, il dio non era la balena arenata, ma l’orca che l’avrebbe spinta a riva, come dono agli umani. Dono e donatore sono qui distinti17.
Se ci spostiamo un poco più a nord, lungo la costa della Russia, troviamo la popolazione dei koryak, che viveva nell’estremo nordest della Siberia, a due passi dallo stretto di Bering. A differenza degli ainu, i koryak non attendevano che le balene fossero recapitate sotto casa come dono divino, ma le andavano a cercare direttamente in mare, cacciandole loro stessi. Nel loro caso, la cattura di una balena era un evento simile alla cattura di un orso per gli ainu: quando i pescatori koryak riuscivano a tornare al villaggio con la loro preda marina, la cerimonia che ne seguiva era una festa per tutti, a cui erano invitati anche gli abitanti dei villaggi vicini. Non molto diversa dallo iyomante ainu, sia come svolgimento che come ideologia, anche se molto diverse erano le premesse.
La festa della balena, per i koryak, si divideva in due parti. Dapprima si dava il benvenuto alla balena, trasportata nel villaggio dai pescatori: era accolta come un ospite di altissimo riguardo e la sua venuta era celebrata con danze, canti, torce sventolate e così via. Questa fase della festa durava per alcuni giorni, in modo simile a come il cadavere di un orso era intrattenuto dagli ainu con canti, danze, recite di storie e libagioni; al termine di questo periodo, era tempo di passare alla seconda fase, ossia al congedo. La balena era salutata con tutti gli onori, era invitata a tornare in visita al più presto e si preparavano doni di ogni tipo, che l’avrebbero accompagnata nel suo viaggio di ritorno verso il suo luogo d’origine, comunque fosse immaginato. Dato che la gente l’aveva trattata così bene, avrebbe di certo invitato altre balene a visitare il villaggio18.
Come possiamo vedere, i koryak condividevano a grandi linee le stesse idee degli ainu, almeno per quanto riguarda la caccia. Gli animali abbattuti erano ospiti di riguardo, che dovevano essere prima intrattenuti e poi congedati col massimo onore. Di ritorno al loro paese, questi animali avrebbero mostrato i doni ricevuti dagli umani, raccontando ad amici e parenti come fossero stati trattati bene; in questo modo, altri animali sarebbero stati invogliati a farsi catturare dagli umani, sapendo che ne avrebbero ricavato tutti quegli onori. Nel caso dei koryak, l’ospite di massimo riguardo era la balena, mentre per gli ainu era l’orso, ma la narrazione di base non cambia sensibilmente. Una differenza, per il discorso che stiamo facendo in questa sede, è che per i koryak la balena era sia il dono, sia il donatore, mentre per gli ainu era soltanto un dono e i donatori erano le orche. Gli ainu non erano balenieri, dopotutto19.
I pescatori giapponesi lo erano e infatti possiamo vedere che, per loro, la situazione era molto più simile a quella dei koryak, mutatis mutandis. L’epiteto “ebisu” era utilizzato per indicare qualunque tipo di grosso animale marino: non soltanto la balena, ma anche lo squalo, l’orca, lo squalo balena e così via. Erano di grosse dimensioni, provenivano dal mare e potevano essere trovati sulla spiaggia in casi fortunati, quindi erano tutti Ebisu. Un trattamento particolare era riservato in apparenza allo squalo balena, soprannominato ebisuzame, ossia “squalo ebisu” o “squalo di Ebisu”, e alla balena, che era semplicemente il dono più grande che si potesse ricevere dal mare e dunque era lo “ebisu” supremo. Qualunque dono portato dal mare, però, poteva ricevere questo nome.
Ebisu non era dunque un animale specifico o anche solo una cosa specifica, ma più che altro era una idea. Era un dono portato dal mare, un dono inaspettato, che ricevevi senza bisogno di faticare più di tanto per riuscire a conquistarlo; perché le onde lo hanno deposto sulla spiaggia, oppure perché è finito quasi da solo dentro le tue reti. Una manna piovuta dal mare, insomma, anche nel suo senso proverbiale. Non è troppo difficile immaginare perché sia passato a rappresentare uno degli Shichifukujin, le sette divinità della fortuna: cosa può esserci di più fortunato di un dono che ti piove in mano senza che tu abbia fatto qualcosa di particolare per meritartelo? Cosa potrebbe meglio incarnare la benevolenza delle divinità? Ciò che ancora ci manca, però, è un collegamento diretto tra gli ainu, o i loro antenati, e il dio giapponese Ebisu. Perché utilizzare il nome affibbiato a una popolazione ostile e diversa da te, per indicare una delle tue divinità più amate?
La stranezza deve essere stata percepita anche dai giapponesi, visto che in seguito si sono inventati una storiella per giustificare il nome. Hiruko, il dio deforme abbandonato da Izanami e Izanagi, sarebbe approdato sulle coste di Ezo, dove un ainu di nome Ebisu Saburō lo avrebbe raccolto e allevato. Altrove, Ebisu Saburō è indicato come il nome completo del dio Ebisu, senza spiegazioni dettagliate su come lo avrebbe ricevuto. È quanto possiamo leggere ad esempio nel già citato dizionario di giapponese classico, dove Ebisu Saburō ci è indicato come “nome alternativo del dio Ebisu”20, mentre nel Sumiyoshi Engi l’identificazione è resa molto esplicita: quello che chiamiamo Hiruko è Ebisu Saburō. È comunque un epiteto piuttosto curioso, a modo suo.
Saburō è un normalissimo nome proprio giapponese, usato di solito per il terzo figlio. Almeno, questa è la sua origine. Fra i giapponesi, soprattutto fra gli strati più bassi della società, sembrava essere abbastanza comune l’usanza di dare ai figli un nome “numerico”. Abbiamo Tarō per il primo figlio, Jirō per il secondo, Saburō per il terzo e così via. In tutti questi nomi, il primo carattere è un numero, rispettivamente uno, due e tre. Niente di strano: nomi simili li trovavamo anche nell’antica Roma e si sono conservati anche in italiano, sebbene oggi siano diventati parecchio rari. In questo senso, dunque, Ebisu sarebbe il cognome, che in giapponese viene prima del nome. Un cognome etnico, con tutta probabilità, che lo caratterizzava come ainu. Ebisu Saburō, così, potrebbe essere tradotto come Saburō l’ainu, oppure Saburō degli ebisu.
Il nome della divinità, dunque, deriverebbe dal fatto che Hiruko era approdato sull’isola di Ezo, che era anche nota come Ebisu dal nome del popolo che vi abitava, come abbiamo già visto. Sempre come abbiamo già visto, questa associazione non può essere avvenuta prima del decimo secolo, perché gli ainu non erano ancora arrivati sull’isola di Ezo. Ammesso che con “ebisu” si indicassero proprio gli ainu e non le popolazioni che li avevano preceduti su quell’isola. I giapponesi non andavano troppo per il sottile, quando si trattava di distribuire epiteti etnici: lo stesso emishi era una etichetta generale e generica per chiunque fosse percepito come “barbaro” non sottomesso all’imperatore; i termini che ne sono derivati, come ezo ed ebisu, funzionavano quasi di certo nello stesso modo. Ainu o meno che fosse, Ebisu era dunque chiamato anche “Saburō il barbaro”.
Ma perché proprio Saburō? Come abbiamo visto, è un nome che può essere usato per indicare il terzo figlio. Hiruko, però, nella maggior parte delle versioni è il primo figlio di Izanami e Izanagi. È il figlio difettoso, venuto male, perché la coppia primordiale non aveva celebrato il matrimonio nel modo corretto. Così ce lo presenta il Kojiki e così ci conferma il Nihonshoki, nella maggior parte delle versioni. Esiste tuttavia una versione in cui Hiruko è il terzo figlio della coppia di demiurghi primordiali. La troviamo verso il fondo di pagina 20 nella traduzione di Aston del Nihonshoki21. Possiamo infatti leggere così: “After the sun and moon, the next child which was born was the leech-child. When this child had completed his third year, he was nevertheless still unable to stand upright. The reason why the leech-child was born was that in the beginning, when Izanagi no Mikoto and Izanami no Mikoto went round the pillar, the female Deity was the first to utter an exclamation of pleasure, and the law of male and female was therefore broken”.
Fra tutte le varianti del mito cosmogonico giapponese, ne esisteva una in cui Hiruko era nato per terzo, dopo Amaterasu e Tsukuyomi, ma prima di Susanoo. Ecco una possibile giustificazione del nome Saburō: chiunque lo abbia scelto, potrebbe aver fatto riferimento a questa variante del mito, forse perché era diffusa nella sua zona di provenienza o forse per chissà quale altro motivo. È anche possibile che sia una pura coincidenza, sia chiaro, e che il nome Saburō abbia tutt’altra spiegazione. Quella che ho indicato in questa sede ha una sua logica ed è supportata dai documenti in nostro possesso, ma non è necessariamente quella corretta. Teniamo in considerazione la sua esistenza, ma niente di più, anche perché non ci cambierà davvero la vita. Hiruko, infatti, è solo una delle figure divine “ufficiali” con cui Ebisu è identificato, come già detto, ed è comunque una identificazione tardiva, fatta quando Ebisu esisteva ed era adorato già da secoli.
Abbiamo comunque una divinità che porta doni dal mare e a volte è incarnata dal dono stesso. Questa divinità avrebbe preso il nome da un popolo nella cui cultura esistevano rituali profondi ed elaborati, connessi ai doni ricevuti dal mare. Tutto ciò è una pura coincidenza, o forse lo dobbiamo interpretare come il segno che quei rituali risalgono a un’epoca molto più antica di quella a cui appartiene la divisione tra le etnie che conosciamo oggi? Il culto dei doni portati sulla spiaggia dalle onde risale forse alla preistoria ed è stato in seguito incorporato dai popoli arrivati dal continente, che avrebbero posto le fondamenta dell’attuale cultura giapponese, oltre ad avere fondato l’impero di Yamato? Perché l’origine continentale della cultura dei tumuli diffusa in Giappone nel periodo Kofun, il periodo in cui si costituì l’impero di Yamato, è molto probabile.
I tumuli giapponesi, sia come forma che come contenuto, sono estremamente simili ai kurgan che si possono trovare sparpagliati lungo le steppe russe, dalle coste del mar Nero fino alla Siberia nordorientale. La somiglianza potrebbe essere una pura coincidenza, dovuta alla somiglianza dello stile di vita: la classe dominante del periodo Kofun era caratterizzata dal cavallo, proprio come le popolazioni che percorrevano avanti e indietro le steppe russe, dagli Sciti ben noti agli antichi greci fino agli Xiung Nu descritti dagli storici dell’impero cinese. In Manciuria e in Mongolia quello stile di vita si sarebbe conservato fino a epoche molto recenti e in entrambi i casi le popolazioni a cavallo finirono per occupare e governare a lungo la Cina. I loro antenati fecero lo stesso in Giappone, diventando la più antica classe dominante del paese? È una possibilità, o almeno è una suggestione interessante.
I nuovi arrivati avrebbero trovato sulle coste dell’arcipelago giapponese il culto di divinità che portavano doni dal mare, un culto probabilmente poco familiare a un popolo che aveva vissuto percorrendo a cavallo le steppe. Sappiamo che gli ainu, in epoca storica, chiamavano Repun Kamuy le divinità che inviavano i doni dal mare: nel loro caso, le divinità erano le orche, mentre i doni erano soprattutto balene, ma anche altre grosse creature marine erano apprezzate, se succedeva di trovarne una recapitata sotto casa. È possibile che i nuovi arrivati si riferissero a questo culto come a quello della divinità degli emishi/ebisu, ossia le popolazioni barbariche autoctone, e che in seguito sia diventato il culto della divinità Ebisu, una volta metabolizzato, personificando così quello che in principio era solo un appellativo etnico? Ipotesi fantasiosa e basata su molti “se”, ma avrebbe una sua logica. È anche qualcosa di indimostrabile, con tutta probabilità, per cui è meglio prenderla solo per quello che è: una ipotesi fantasiosa, per l’appunto, che possiede una propria logica interna ma non è necessariamente fondata su prove inconfutabili.
Un particolare curioso lo troviamo però nel Nihon Ryōiki, una raccolta di racconti compilata nel IX secolo utilizzando a volte anche storie ben più antiche, che appartenevano al folklore giapponese di epoca pre-buddhista. Obiettivo del Nihon Ryōiki era propagandare la religione buddhista e dunque i racconti contengono tutti un qualche tipo di morale buddhista, a volte molto posticcia. È qualcosa di simile alle storie medievali europee, dove accanto alle vite dei santi troviamo rivisitazioni in chiave cristiana di leggende e racconti pagani, giusto per intenderci. Il racconto numero ventidue del terzo volume del Nihon Ryōiki, però, ci presenta come protagonista un uomo chiamato Osada no Toneri Ebisu. Questo Ebisu viveva nella provincia di Shinano22 e la sua storia si svolge nell’anno quarto dell’era Hōki, ossia il 773. La sua vicenda comporta un viaggio nel paese dei morti, grazie al quale avrà la possibilità di correggere la propria vita e salvarsi, ma questo non è importante per noi. Per noi è importante il suo nome. Osada no Toneri Ebisu. Ebisu.
Nel 773, anno in cui è ambientata la storia, Ebisu era un nome che poteva essere utilizzato da un normale giapponese, a quanto pare. Poteva essere nato come epiteto per etichettare una popolazione barbarica, ma a quel punto della storia era stato assimilato a sufficienza da essere accettabile come nome proprio di un giapponese, almeno nella zona dell’attuale Nagano: qualcosa di simile a quanto accadde in Europa col nome Alain/Alan nel corso dell’Alto Medioevo, passato da essere il termine con cui si indicava un popolo barbarico (gli Alani) a normale nome proprio maschile sia in Francia che in Gran Bretagna23. Verso la fine del nono secolo, dunque, il nome Ebisu doveva aver perso la maggior parte del valore negativo che poteva possedere in precedenza.
Sia some sia, tre parole hanno la stessa origine: emishi, con cui i giapponesi indicavano i popoli non sottomessi al loro impero; ezo, usata sia per indicare l’isola di Hokkaidō, sia la popolazione che vi abitava; ebisu, usata sia per indicare le popolazioni dell’arcipelago giapponese considerate non giapponesi dall’impero di Yamato, sia per indicare la divinità che portava doni dal mare. Tutti e tre i vocaboli deriverebbero dalla parola ainu enciw, ancora in uso agli inizi del Novecento nel dialetto ainu parlato a Sachalin. La parola enciw era fondamentalmente un sinonimo di aynu, termine con cui quel popolo indicava se stesso come “persone”, “esseri umani”, “uomini”, a volte anche per distinguersi dalle divinità, i kamuy. Questo è quanto ci dice lo studio delle lingue giapponesi e ainu.
Gli ainu hanno divinità che portano doni dal mare. I pescatori giapponesi avevano una divinità che portava doni dal mare; esisteva fin da un’epoca piuttosto antica, almeno per quanto ci è possibile ricostruirne la storia. Divinità che portavano doni dal mare o erano loro stesse il dono sono comuni anche ad altri popoli che vivono lungo le coste settentrionali del Pacifico, sia in Asia che in America. La divinità dei giapponesi ha lo stesso nome che, in passato, era utilizzato per indicare i popoli non giapponesi che vivevano sull’arcipelago giapponese: Ebisu. Ebisu è anche considerata l’unica tra le sette divinità della fortuna ad avere una origine interamente giapponese: le altre sono spesso la versione nipponizzata di divinità di origine indiana o cinese, arrivate in Giappone assieme al buddhismo o alla cultura cinese in generale.
Possiamo anche aggiungere un curioso rituale giapponese, che sembra andare in direzione di una visione del mondo ainu, almeno per quanto riguarda il rapporto tra orche, balene e mare. La caccia alla balena era una cosa seria per i giapponesi, seria e regolata da codici ben precisi. Questo fin dall’antichità, fin da prima che ci fossero giapponesi così come li conosciamo noi oggi. In epoca moderna, appositi templi buddhisti si occupavano di eseguire cerimonie funebri per le balene catturate: sonno i kujiradera, ossia i templi della balena. Qui le balene ricevevano una tavoletta funeraria, come gli esseri umani, e i loro resti potevano essere sepolti in “tombe”, kujirabaka, dove avrebbero ricevuto i consueti riti funerari. Tutto molto buddhista e rispettoso degli animali, a modo suo. Più interessante per noi è un’altra cerimonia che si svolgeva nei dontorni.
Fino ad almeno il sedicesimo secolo, sembra che presso questi kujiradera si svolgesse anche un rituale dal sapore meno buddhista, ma più arcaico. Dopo la cattura di una balena, la sua lingua era gettata in mare, che di solito si trovava nei pressi del kujiradera e poteva essere raggiunto tramite un apposito percorso con piccolo molo finale. Era gettata come offerta alle divinità marine, almeno in termini generali, ma le suddette divinità marine assumevano nella realtà l’aspetto di orche, che forse frequentavano quella zona di mare o forse erano attratte prima della cerimonia in un qualche modo. L’importante è che le orche erano presenti nel momento in cui la lingua di balena era gettata in acqua da un sacerdote del tempio.
Perché era così importante la presenza delle orche sul posto? Perché in base alla loro reazione si potevano trarre auspici sulla pesca, apparentemente. Se le orche si affrettavano a mangiare la lingua offerta loro, significava che le divinità marine avevano approvato la cattura della balena, lo scambio era avvenuto e la preda poteva essere smantellata e utilizzata in base alle esigenze alimentari e non solo. Se le orche non si affrettavano a mangiare la lingua, allora significava che le divinità erano scontente e non avevano approvato la pesca. In questo caso, la balena non poteva essere usata e la si doveva tumulare. Così diceva la tradizione, quantomeno. Considerato però che la lingua di balena è un cibo molto amato dalle orche, non so quante volte nella realtà si siano fatte pregare per andare a mangiarne una, dopo che era stata gettata in acqua davanti a loro24.
Sia come sia, una cerimonia di questo genere ci rimanda a un ambiente molto più antico del Giappone buddhista, nonostante fosse svolta da un tempio buddhista. Ci mostra soprattutto due cose: che le orche erano considerate divinità marine, o almeno intermediari delle divinità marine, e che anche tra i giapponesi si conservava il legame tra orche e balene, in forma simile a quello che abbiamo visto presso gli ainu. Se per gli ainu le balene spiaggiate erano un dono delle orche, per i giapponesi del passato le balene pescate potevano essere mangiate soltanto dopo aver ottenuto l’approvazione dalle orche. Approvazione che, come si diceva, era una pura formalità nella maggior parte dei casi, ma questo è secondario: anche se nella pratica i giapponesi potevano imbrogliare un poco, per puro pragmatismo, l’idea di base resta valida in termini generali.
Possiamo considerarli come due sviluppi di un rito più antico? Un rito in cui orche, balene e mare erano uniti tra loro, come manifestazione della volontà divina? Questa volontà divina era quella che in seguito sarebbe stata chiamata Ebisu, la divinità che portava doni dal mare ed era dono lei stessa? Una divinità che per gli ainu assumeva l’aspetto dell’orca e per i giapponesi quello di una balena, pur mantenendo le orche in un ruolo importante per ottenere l’approvazione divina? È almeno una possibilità e questo ci porta a una domanda più fondamentale: Ebisu era di origine giapponese, oppure la sua esistenza precedeva la stessa formazione di quella etnia che oggi conosciamo come “giapponese”? La seconda ipotesi sembrerebbe più ragionevole, alla luce di quanto visto.
Originario dell’arcipelago giapponese Ebisu lo era di sicuro; che fosse anche giapponese in senso etnico, però, è un altro paio di maniche e mi pare meno sicuro, almeno in base a quella che oggi consideriamo come “cultura giapponese”. Apparteneva forse alla preistoria del Giappone; i popoli arrivati nel primo millennio dal continente lo avrebbero trovato già lì, assieme alle popolazioni che abitavano su quelle isole, e lo avrebbero chiamato col nome di quelle popolazioni, con le quali in seguito si sarebbero mescolati, dando origine ai giapponesi moderni. I suoi riti avrebbero assunto una colorazione diversa, a modo suo più civilizzata, con templi che fungevano da mediatori e gestivano anche l’aspetto burocratico, tenendo nota delle balene, ma alla base sarebbe rimasto sempre Ebisu, la divinità che viene dal mare e porta l’abbondanza, magari scortata dalle orche.
È una possibilità, quantomeno. Se la biografia di Ebisu sia davvero questa è tutto un altro paio di maniche, ma il semplice fatto che il suo nome rimandi più al popolo ainu che a quello giapponese ci indica che la sua storia non è stata proprio lineare. Era una divinità che apparteneva alle isole giapponesi, questo sì. Quale etnia l’abbia prodotta nello specifico, però, è molto meno sicuro. Forse i giapponesi, forse gli ainu, forse le popolazioni che hanno preceduto la formazione delle due etnie conosciute in epoca storica. Comunque sia andata, era una divinità ritenuta importante a sufficienza da essersi conservata fino a oggi, in una forma o nell’altra, sotto un nome o un altro. La divinità che porta ricchezza dal mare: per chi vive su un’isola, una figura indubbiamente di grande peso.
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NOTE
1 - Dopo il 1945, gli ainu residenti a Sachalin sono stati trasferiti in Hokkaidō, quando l’isola è passata interamente sotto il controllo russo. Evacuati assieme ai giapponesi che avevano occupato quel territorio, insomma.
2 - Va detto che Piłsudsky non era certo timido, quando si trattava di etimologie creative. Era figlio del suo tempo, dopotutto: prima sceglieva il significato “giusto” e poi cercava radici che potessero condurre nella direzione da lui desiderata. È meglio procedere con cautela, quando si leggono le sue analisi filologiche. Sarebbe interessante confrontare le etimologie proposte da lui e da Batchelor per la parola kamuy, entrambe basate sul modo in cui i due occidentali avevano deciso in anticipo di interpretare il relativo concetto ainu, ma ci porterebbe troppo fuoristrada, almeno in questa sede. Diciamo solo che Batchelor la fondava sul verbo kamu, “coprire, sovrastare”, mentre Piłsudsky preferiva usare come radice la parola kam, “carne”.
3 - Kubodera la traduce in giapponese come hito (人).
4 - Aynu è la grafia utilizzata oggi, mentre ainu è quella più “datata”. Se la prima forma è utilizzata soprattutto dai giapponesi, quando ricorrono all’alfabeto latino per trascrivere la lingua ainu (ma di solito preferiscono usare il katakana, con esiti non sempre felici), la seconda forma è tuttora predominante nei testi occidentali, anche per ragioni storiche e per semplicità. La pronuncia non cambia, né cambia il suo significato: usate pure quella che preferite, tanto è irrilevante.
5 - Oppure kamui, come preferite. Anche in questo caso, la grafia ufficiale moderna sarebbe quella con la y, ma quella con la i è tuttora predominante in Occidente, per ragioni storiche e per semplicità.
6 - Questa distinzione per contrasto la troviamo anche in un esempio citato da Kubodera nel suo vocabolario, sempre nella definizione di questa parola, dove parla di arikir kamui, arikir enchiu, che traduce in giapponese come 半神半人, ossia “metà dio e metà persona”.
7 - Il Tōhoku, come dice la parola stessa, era la regione nordorientale dell’isola di Honshū. La zona a nord di Tōkyō e del monte Fuji, per intenderci.
8 - In giapponese, “男, 人”.
9 - Anche Yanagita Kunio ne indica diversi, nel suo Tōno Monogatari, ambientato proprio nella città di Tōno, che si trova nel Tōhoku.
10 - Pensiamo all’Inghilterra, il cui nome deriva dagli angli, che assieme ai sassoni invasero e occuparono l’isola a partire dal quinto secolo, oppure alla Francia, invasa e sottomessa dal popolo dei franchi nell’Alto Medioevo, giusto per fare un paio di esempi vicini a noi e noti a tutti.
11 - Le leggende ainu ci parlano di fantomatici corpokkur, che avrebbero abitato l’isola prima di loro: un popolo che, come il nome stesso ci indica, abitava “sotto”, ossia sottoterra. Potrebbe essere un effettivo ricordo della gente che li aveva preceduti, oppure solo il corrispettivo ainu del “piccolo popolo” tanto caro alle isole britanniche, forse la più famosa tra le numerose “antiche razze primitive” che sarebbero scomparse nel sottosuolo all’arrivo dei nuovi padroni del mondo di superficie.
12 - Oppure è stato assemblato per fornire esempi delle principali virtù umane, se siete più idealisti.
13 - Il “figlio mignatta” che avrebbe avuto l’aspetto di sanguisuga (hiru), come suggerisce il suo nome. Secondo una diversa interpretazione del nome, però, potrebbe essere visto come un “ragazzo solare”, cioè una versione maschile di Hirume, “fanciulla solare”, appellativo attribuito anche ad Amaterasu, la più celebre dea del sole giapponese. Non una ipotesi del tutto peregrina, almeno sul piano linguistico, perché una coppia Hiruko/Hirume seguirebbe lo stesso schema di altre coppie di sostantivi arcaici e moderni, come wotoko/wotome, hiko/hime o musuko/musume.
14 - Il paese eterno, come dice il nome stesso, che si trova da qualche parte al di là del mare.
15 - L’identificazione qui è molto facile. I primi due caratteri del nome Ōkuninushi (大国主), infatti, si possono leggere anche daikoku: da questo deriverebbe la decisione di considerarli come una stessa divinità. Il nome del dio della fortuna Daikoku è scritto di solito con caratteri diversi, ossia 大黒, ma la pronuncia rimane invariata.
16 - Considerato che, anticamente, la parola toshi indicava sia il raccolto (del riso), sia l’anno, e che l’anno coincideva dunque col ciclo delle risaie, il dibattito è aperto. Se è vero che l’inizio dell’anno, in passato, coincideva anche in Giappone con l’inizio della nuova stagione agricola, è altrettanto vero che, oggi, il periodo in cui i morti ritornano (la versione giapponese di Ognissanti) coincide col periodo in cui si raccoglie il riso, in estate. Raccolto, ritorno dei morti e nuovo anno sono periodi che si intrecciano tra loro, insomma, in quanto periodi liminali dell’esistenza, quando i confini tra i mondi sono più fragili e le anime li possono attraversare senza troppe difficoltà.
17 - Qualcosa di equivalente avveniva anche in montagna. Quando gli ainu trovavano un animale ucciso dai lupi, non si facevano scrupoli a servirsi, considerandolo un dono che Wose Kamuy, il lupo divino, aveva concesso loro. Anche l’ululato dei lupi, di notte, poteva essere interpretato come un messaggio inviato dalla divinità: ululando, Wose Kamuy avvisava gli ainu del villaggio vicino che stava uscendo per una battuta di caccia e avrebbe lasciato qualche cosa anche per loro. Gli ainu rispettavano e ammiravano molto i lupi, vedendoli come maestri cacciatori.
18 - Si veda ad esempio “The mythology of the Koryak”, di Waldemar Jochelson, pubblicato su American Anthropologist, vol. VI, num. 4, 1906, pagg. 413-425.
19 - Ma erano cacciatori e nel loro caso era soprattutto l’orso a essere sia dono che donatore, proprio come la balena per i koryak. Per entrambi i popoli, si trattava della preda più ricca offerta dalla montagna (orso) o dal mare (balena) e dunque meritava onori speciali.
20 - In giapponese, “夷神の異名”. Anche un altro dizionario giapponese, il Daijirin, riporta la stessa definizione.
21 - O Nihongi, come lo intitolava lui.
22 - Che corrispondeva più o meno all’attuale distretto di Nagano.
23 - Non che questi siano gli unici nomi di popolo a essere diventati col tempo nomi propri di persona, ma sono solo due esempi che io ho scelto per illustrare un fenomeno più generale, che si è verificato anche in Europa.
24 - Quante probabilità ci sono che un cane randagio rifiuti una bella bistecca, se gliela butti davanti? Ecco.