Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 68

Bogdan Stratos era felice. Non è vero. Bogdan Stratos si sforzava di indossare una espressione di pacifico e comprensivo benessere, almeno in pubblico, ma il tentativo non gli stava riuscendo molto bene, se si voleva essere generosi. Se si voleva essere meno generosi ma più sinceri e aderenti alla realtà, invece, il suo ghigno era quello di un teschio a cui sono successe cose assai brutte e che, con ogni probabilità, hanno incluso mazze di metallo, forme di vita affette da grave incontinenza e cose simili. Fissava la larga sagoma che gli sedeva di fronte, perso in blandi sogni di torture medievali, e si sentiva i minuti ammuffirgli sulle ossa e nelle intercapedini, disperso tra i suoni e i rumori dei commensali impegnati nella nobile arte dell’ingozzarsi: posate, bicchieri, sedie, mandibole, altro.

Karsten Lösing lo fronteggiava dal lato opposto del tavolino, anche perché soltanto dal lato opposto lo avrebbe potuto fronteggiare. Quello era il primo problema. Il tavolino era piccolo, proprio come suggerisce la presenza del diminutivo, ed era reso ancora più piccolo dalla stazza di Karsten e dalla quantità di cibo che vi aveva distribuito. Quello era il secondo problema. Ma non finiva lì.

Perché Karsten Lösing parlava. E mangiava. No, non era il termine corretto. Mangiare non bastava a descrivere l’azione che si svolgeva di fronte a Bogdan. Il suo non desiderato compagno di pasto si ingozzava, si rimpinzava come un’oca che nel futuro prossimo diventerà pȃté de foie gras, volente o nolente. Karsten Lösing pareva volente e macinava con la pervicacia e implacabile efficienza di un qualche macchinario industriale, fermandosi solo per respirare e per parlare. E spruzzare frammenti di cibo, il che di solito accadeva in concomitanza con l’espulsione di parole. Bogdan si sforzava di schivarne il più possibile, non sempre con successo.

Perché sono qui?, si chiedeva. E perché era lì? Perché aveva scelto il momento sbagliato per uscire dal suo studio, se ci si voleva limitare al puro dato oggettivo e verificabile. Aveva speso una magica mattinata a girare i pollici, fissando uno schermo e giocherellando con solitari e affini, poi un vago brontolio di stomaco gli aveva ricordato che l’ora del pranzo incombeva e, sebbene non fosse la più divertente delle attività, era almeno qualcosa da fare, no? Qualcosa di produttivo, per un dato valore e un dato tipo di produzione. Aveva spento tutto, si era alzato con un sospiro e uno schioccare di ginocchia, aveva aperto la porta e bam! La sventura lo aveva guardato fisso negli occhi. Inclinando un poco la testa verso l’alto, in quel caso specifico.

Karsten Lösing stava passando per il corridoio, blandamente mogio: un’apparizione da sogno, ma di quei sogni da cui ti svegli urlando, almeno nelle storie. Basso, grasso, sovrastato da una pettinatura che definire assurda sarebbe stato un atto di umana misericordia: era praticamente una parrucca da diciassettesimo secolo alla corte del re di Francia, ma nel suo caso specifico a peggiorarne l’effetto (se mai lo si poteva peggiorare) era il colore dei capelli, un rosso acceso, quasi da mal di pancia. Un uomo che non conosce la parola vergogna, così lo aveva sempre considerato Bogdan nei rari casi in cui gli capitava di pensare a quel tizio. Era costretto a farlo proprio adesso.

Karsten Lösing si era fermato, aveva sorriso, allargato le braccia e così via, nella pantomima che il buffo scimpanzé dal pelo corto, meglio noto a se stesso come essere umano, è solito improvvisare quando vuole denotare sorpresa gioiosa alla vista di qualcosa. Ma come va, ma come non va, ma è tanto che non ci si vede, ma quando sei tornato, ma come è andata su Svarga, ma era Svarga, vero?, no perché sai, ogni tanto mi confondo anch’io, eheheh, sto invecchiando, lo so, ma che ci vuoi fare, è la vita, è così per tutti, e qui e là, e su e giù. Bogdan Stratos aveva contratto i muscoli facciali, tra un monosillabo e l’altro di risposta, e uno sforzo quasi eroico gli aveva impedito di commettere un reato a sangue freddo, quando l’omuncolo gli aveva afferrato il braccio e si era incamminato verso la zona mensa, trascinando con sé il più giovane e più leggero collega.

Il professor Biff non c’è oggi, spiegava Lösing, e io cercavo proprio qualcuno che mi facesse un po’ di compagnia, mentre mangio. È così triste mangiare da soli, non trovi? Neanche gusti quel che hai nel piatto, a momento. Ah, che fortuna averti incontrato, eh? Che poi è da tanto che non ti vedo, sei stato in giro, chissà quante cose avrai da raccontare, eh? Ma adesso che sei di nuovo a casa, qui all’Ufficio, vedrai che tutto sarà a posto, vedrai. Bogdan sentiva senza ascoltare, sperando invano che sarebbe arrivato il settimo cavalleggeri a salvarlo, ma sapendo che lì, nella sede dell’Ufficio per la Colonizzazione, di cavalleggeri non ce n’erano proprio. Al massimo qualche cavalpesante, come il sacco di lipidi che gli aveva arpionato il braccio. Bentornato a casa, davvero.

Così adesso sedeva al tavolo con Lösing, il tecnico che collaborava col reparto di planetologia per filtrare le immagini dei telescopi. Un lavoro importante, da un certo punto di vista, articolazione che congiungeva gli operai della mente e i manovali della tecnologia, come lo descriveva Vihersalo, un punto di incontro tra chi fa con le mani e chi pensa col cervello, eccetera eccetera. Peccato solo che il tecnico in questione fosse anche un ciccione pettinato da scemo, che sembrava aver appreso i suoi rudimenti di buona educazione a tavola da un scarabeo stercorario lobotomizzato.

Bogdan non si era aspettato un piacevole ritorno sulla Terra, quando era partito da Svarga, e infatti non lo aveva ottenuto. Ma era tornato, aveva ripreso il proprio posto d’angolo nell’Ufficio e adesso le sue giornate si riempivano di attesa, sperando in tempi migliori. Sarebbero arrivati, gli assicurava Vihersalo, e in effetti le premesse c’erano: Leonardi era rientrato dal lungo soggiorno in ospedale e la malattia sembrava avergli avvelenato ulteriormente il morso, soprattutto nei confronti di Svarga. Il che era positivo, da un certo punto di vista. Avrebbe accelerato tutte le procedure che, Bogdan ne era sicuro, si sarebbero concluse con lui che otteneva un modo per studiare da vicino i nuclei dei due giganti gassosi, in cambio della obbedienza ai diktat della madre patria (che gli erano costati il furto della scoperta da parte di quel verme di Muzafar Chang, per inciso). Si sarebbe accontentato di poter studiare da vicino anche un solo gigante gassoso, come inizio. Uno qualunque dei due.

Ancora non era successo. Peggio, ancora non se n’era neppure parlato. Così le giornate passavano in un vuoto valzer di nulla, chiuso in ufficio, e si accumulavano come polvere negli angoli che non pulisci mai, perché tanto non li guarda mai nessuno. Fino a che non usciva per andare a mangiare e si trovava di fronte persone indesiderate, tipo Karsten Lösing. Erano davvero il sistema migliore per dare vita alla sua esperienza sul posto e incentivarlo a cercarsi nuovi posti in cui avere esperienze di tipo migliore. Peggiori sarebbe stato difficile immaginarne, almeno lontano da Svarga.

«Comunque, come ti dicevo,» sputacchiò Lösing, «vedrai che prima o poi ti spediranno da qualche altra parte, se ti serve davvero per i tuoi studi, le tue ricerche o quello che sono. È nell’interesse del nostro Ufficio, capisci? Ma adesso Leonardi è appena rientrato, ha montagne di arretrati e poi, beh, lo sai anche tu, adesso ha altre cose a cui pensare, con la storia del direttore e il resto, no?»

«La storia del direttore?» Bogdan non sapeva anche lui. Non aveva proprio deciso deliberatamente di autoescludersi dalla vita all’Ufficio, non proprio, non in questi termini, ma una cosa e l’altra, una preoccupazione qui e una impazienza là, un fastidio per questo e uno per quello, alla fine era andata più o meno così. Sarebbe anche stato una persona socievole, di suo, ma il problema era l’ambiente, il clima, le facce: tutto stimolante, ovvio, ma grossomodo quanto lo era un lassativo. E poi, quando le tue giornate trascorrono chiuse in ufficio a fissare uno schermo e attendere tempi migliori, non hai poi molte occasioni di tenerti aggiornato sulla politica interna del posto, o anche soltanto per ricordare a te stesso che sei un essere umano, teoreticamente animale sociale.

«Gemelos, sì. Lo sai anche tu cosa è successo, no? Dico, che ha disobbedito a Leonardi, no?»

Bogdan dovette prendersi una pausa per riorganizzare i pensieri. George Gemelos, mister Gelatina Molle, aveva disobbedito a Leonardi? Doveva aver sentito male, non c’era altra spiegazione logica. Quanto alle spiegazioni illogiche... «Scusa, ma ho avuto diverse cose da fare per riambientarmi, dopo il ritorno, e credo di essermi perso qualcosa strada facendo. Il direttore Gemelos avrebbe disobbedito a Leonardi?»

Karsten Lösing gli regalò un sorriso a dentatura piena, che mostrò anche alcuni frammenti di cibo rimasti impigliati tra i molari. «Ma come? Davvero non lo hai sentito? È la notizia del giorno, qui!»

«Credo di essere rimasto indietro di qualche giorno, allora.»

Lösing raccontò. Secondo la sua versione della storia, che magari poteva anche portare una qualche somiglianza all’originale, ma Bogdan non ci avrebbe giurato, tutto era cominciato con la pietra che avevano trovato su Madre. E fin qui nulla di nuovo. La storia della pietra la conoscevano tutti ed era arrivata anche nel microcosmo intracranico in cui Bogdan Stratos spendeva le proprie giornate. Uno scavo per un museo o qualcosa del genere aveva disseppellito una pietra quasi identica a quella che, una decina di anni prima, era stata trovata su Agni. Interessante, ma non rilevante per lui.

Solo che poi c’erano stati problemi. Da Agni erano arrivare richieste di permessi per uno studio più approfondito e comparato del reperto. Gente che sprecava tempo a studiare sassi su quel pianeta si era messa in testa che c’era un legame tra il reperto in loro possesso e quello trovato su Madre. E fin qui pazienza, Bogdan lo poteva anche accettare: roba inutile, secondo il suo modesto parere, ma in fondo non esistevano limiti verso il basso a ciò che certe persone si mettevano in testa di fare. Però il direttore Gemelos si era recato nella clinica in cui Leonardi era ricoverato e gli aveva chiesto che fare. Hah, il solito mollusco smidollato! Bogdan lo poteva vedere, strisciante ai piedi del letto in cui giaceva il Grande Capo, a implorarlo di dargli un ordine, un ordine qualsiasi, irrorandolo della sua imperitura sapienza e saggezza.

«E Leonardi ovviamente gli ha detto di mandarli a quel paese, i tizi di Agni,» spiegò Lösing. «E ci mancherebbe altro, voglio dire! Con quello che ci hanno appena combinato da Svarga, figurati se il boss ha voglia di fare un favore a quella gente. Neanche morto, lui!»

Solo che poi Gemelos non li aveva mandati a quel paese. O meglio, li aveva autorizzati ad andare a quel paese, ma quel paese era Oklahoma City, capitale della colonia di Madre. Leonardi aveva detto di no e Gemelos aveva deciso arbitrariamente di dire di sì. Pazzesco. Pure, era successo, per cui così pazzesco non era: era reale, anche se spesso è difficile distinguere tra pazzia e realtà. In quel caso, la distinzione era... c’era una distinzione?

«Perché lo ha fatto?» chiese Bogdan. «Voglio dire, ok, è il direttore, dunque l’ultima decisione è sua e non deve certo seguire per forza le indicazioni dei suoi consiglieri e collaboratori, se la vogliamo mettere su un piano strettamente formale, ma sappiamo tutti come funziona, no? Leonardi dice e il direttore obbedisce. Perché ha fatto di testa sua?»

«Ma è questo il mistero, no? E il problema, ovvio, perché adesso Leonardi è tornato e vedrai cosa si inventerà. Ancora non ha detto niente, ma pare che adesso non chiami più Gemelos nel suo ufficio e lo sai anche tu cosa significa, no? Leonardi non gli dà più ordini, oppure li dà a qualcun altro. Sono un po’ come quelle coppie separate in casa, per adesso, ma per quanto lo saranno ancora, eh? Dico, si sa che non durerà molto, no? Prima o poi Leonardi scoppia, per forza.»

«Quindi è per questo che è tutto fermo, insomma.»

«È la quiete prima della tempesta, eh,» disse Lösing, con quella che probabilmente considerava una espressione di profonda scaltrezza, da buon signor “Eh, ma lo sono bene io come funzionano queste cose”. «Ma è chiaro che alla fine avremo un nuovo direttore, dai. Non può andare avanti così e tra i due quello che salterà sarà ovviamente Gemelos, figurati. Te lo immagini un Ufficio senza Leonardi sulla poltrona a dare ordini?»

Bogdan se lo immaginava. Non regolarmente e non in pubblico, ma di tanto in tanto si concedeva il pensiero, quando era certo che nessuno lo potesse captare: certo con la certezza di chi ha speso anni su Lakshmi e sa per esperienza a cosa possa arrivare il controllo sociale, tecnologico o meno. Pure, lo immaginava e l’immagine gli pareva positiva. Un Ufficio senza Leonardi. Un Ufficio senza il suo creatore, ma anche senza il grande tappo che lo bloccava, il macigno che lo ancorava al passato. Un Ufficio che, magari, si sarebbe dovuto trovare un direttore competente, d’accordo, ma di questo ci si poteva occupare in seguito. Avrebbe già potuto cominciare uno studio ravvicinato delle due strutture organiche, senza Leonardi a bloccare la strada? Possibile, ma un’altra cosa era certa, una molto più rilevante: il merito della scoperta sarebbe andato a lui, non a quel verme di Muzafar Chang. Perché era stato il rifiuto di Leonardi a costringerlo a fare un passo indietro.

«Beh, in effetti sarebbe difficile immaginare un Ufficio senza Leonardi,» disse pubblicamente. «È al comando da decenni, ormai, in una forma o nell’altra...»

«E lo resterà ancora, non ti preoccupare. Gemelos salterà, vedrai. Se ancora non lo ha cacciato, deve essere perché sta aspettando di trovare qualcun altro che sia abbastanza molle e inutile da sedere sul trono di direttore e obbedire a tutti i suoi ordini. Ma non sarà difficile, te lo garantisco io. Conosco parecchi qui da noi che si rotolerebbero sulla pancia, se qualcuno gli offrisse una poltrona comoda e un bello stipendio per un lavoro in cui devi soltanto sorridere e annuire, come un deficiente.»

Bogdan non conosceva poi così tante persone, all’Ufficio, ma poteva immaginare che fosse proprio come diceva Lösing. Suonava realistico, almeno per l’idea che si era fatto dell’umanità (escluso se stesso, beninteso). «Quindi prima dovevamo aspettare che Leonardi tornasse dall’ospedale e adesso dobbiamo aspettare che finisca di litigare con Gemelos. Non è che stiamo aspettando un po’ troppo, magari? Mi piacerebbe anche cominciare a fare qualcosa.»

«Eh, la gioventù!» esclamò Lösing, fisicamente poco oltre i quaranta ma spiritualmente senza età. «Il tempo è tempo, non c’è niente da correre, lo sai. Riposati fin che puoi, che poi ti lamenterai del troppo lavoro. Lo so come siete fatti, voi nuovi.» Sorrise benevolo.

Prima di potermi lamentare del troppo lavoro dovrei lavorare. A voce altra, la risposta fu molto più diplomatica e domata. «Il problema è che ci sono molte cose da fare, sai, e mi piacerebbe poterle cominciare subito, così da non doverne accumulare troppe più avanti. Ho una ricerca in corso...»

«Oh, sì, i tuoi giganti gassosi, già. Ma vedrai che si risolverà tutto, non c’è problema. Tanto ormai il grosso lo sta facendo quel tizio di Svarga, no? Quello che va in giro a fare conferenze e roba simile. Gli abbiamo anche fatto causa, mi pare, ma non so come stia andando. Ci vorranno anni, comunque, e ti puoi anche sedere comodo mentre aspetti. La fretta fa male alla salute, lo sai.»

Bogdan si avvalse della facoltà di non rispondere. Concluse il pranzo alla massima velocità che il suo apparato digestivo gli consentisse, si alzò, si inventò un impegno urgente e inderogabile, lasciò la sala, si lavò con cura mani e faccia, infine rientrò nel proprio ufficio, barricando la porta. Solo al riparo della scrivania si rilassò, in parte. Davvero, che esperienza fantastica! Ma qualcosa ne aveva ricavato, a voler cercare col setaccio una briciola di ottimismo. Se adesso era fermo ad ammuffire in una stanzetta, senza niente da fare, la colpa era del vecchietto Gemelos e dell’invincibile vecchione Leonardi, che avevano litigato o giù di lì. Gli riempiva di gioia il cuoricino.

Non c’era proprio niente che potesse fare, in apparenza. Poco dopo essere arrivato sulla Terra aveva anche tentato di contattare il ministro Hass, con la vaga speranza che un pezzo grosso del governo terrestre gli avrebbe potuto accelerare le cose, ma la sua richiesta non era andata oltre il segretario, o forse solo la segreteria che riceveva i messaggi. Le faremo sapere noi, non ci contatti di nuovo, la ringraziamo, fuori dalle palle, tanti saluti. C’era da stare proprio allegri. Pure, adesso era sulla Terra, all’Ufficio, e qualcosa si sarebbe dovuto inventare, se davvero desiderava che la sua prossima tappa fosse il sistema solare di Madre. E lo desiderava, lui.

Bogdan Stratos meditava ancora su cosa potersi inventare, tra una perdita di tempo e l’altra, quando il professor Vihersalo gli inoltrò qualcosa che si presentava come una curiosa via di mezzo tra un messaggio personale e un comunicato ufficiale: troppo formale e rigido per essere il primo, troppo rilassato per essere il secondo. Esisteva un nome per descrivere quello stile? Apparteneva magari a una qualche categoria? Dettagli ininfluenti, soprattutto quando il contenuto era tanto più rilevante del puro contenitore. Proveniva originariamente da Leonardi, o da qualcuno nelle sue vicinanze, ed enunciava al mondo, o almeno al ristretto circolo dei destinatari, la ferma intenzione di istituire un gruppo di ricerca per preparare una missione esplorativa, finalizzata a svelare il segreto dei giganti gassosi di Madre. Bogdan ne sarebbe stato parte.

Non specificava esattamente come avrebbero svelato il suddetto segreto, né scendeva nei dettagli su fondi, mezzi e tempi, ma era secondario. O meglio, non era secondario, ma di certi aspetti ti potevi occupare dopo, strada facendo. Perché, e quello era il punto, stavano cominciando a muoversi. Un gruppo di ricerca, per preparare la missione. Ottimo. Era vago, era politichese e suonava più o meno come un comitato in cui scaricare tutti i rompipalle per levarseli dai piedi, ma quelli erano pensieri negativi, pessimistici. Meglio guardare al lato positivo, meglio guardare alla luce.

La novità delle strutture organiche era stata recepita, digerita e forse metabolizzata. Adesso persino Leonardi aveva deciso di muoversi. E lui, lui Bogdan, sarebbe stato parte del movimento. Cosa altro poteva chiedere alla vita? Parecchio, in effetti, ma si poteva accontentare. Per adesso.

Al poi avrebbe pensato poi. Una volta avviati i lavori, magari.

In un ufficio molto più in alto, sia su un piano strettamente fisico che su uno gerarchico, il direttore George Gemelos contemplava il grigio dell’Atlantico sotto il grigio di un cielo nuvoloso. Panorama da allegria infinita, al momento, ma anche panorama piuttosto adatto al suo stato d’animo, o a quel gomitolo di pensieri più o meno consci che si è soliti etichettare come stato d’animo, in mancanza di termini migliori e presupponendo arbitrariamente l’esistenza di un qualche tipo di animo, nonché di stati in cui si potrebbe trovare. Grigio, fermo, quasi smorto. Un po’ come lui, lui George.

Aveva osato l’inosabile, Gemelos, disobbedendo all’ordine del convalescente Leonardi. Il Capo gli aveva imposto di rifiutare le richieste di Agni, che di fatto erano soltanto le richieste del centro studi di Shtoma, una porzione assai minuscola del pianeta, ma quella porzione era parte di Agni e quindi la richiesta era di Agni e quindi andava rifiutata. Perché sì. Chiaro? E niente domande. Ma lui aveva accettato. Aveva autorizzato la spedizione. Aveva colto il frutto proibito, aveva imbrattato il muro, aveva suonato il campanello ed era fuggito, aveva disegnato i baffi sulla copertina della rivista di papà. In breve, si era comportato da bambino cattivo. Che ormai avesse settant’anni era un dettaglio secondario e comunque non interessava a nessuno.

Si era aspettato una punizione, in parte aveva anche sperato in una punizione, così da scaricare quel lurido posto di direttore a qualche altro sciagurato. Vivere da zerbino lo puoi anche sopportare, per un poco, ma quando quel poco si comincia a misurare in anni... beh, allora smetteva di essere poco e diventava molto. Diventava troppo. Ma non era successo niente. Leonardi era tornato, aveva preso di nuovo possesso del proprio ufficio, e ancora non era successo niente.

Vero, gli aveva praticamente tolto il saluto e anche la parola. Vero, adesso non c’erano più chiamate quotidiane per somministrargli una robusta dose di ordini e catechismo, più qualche sputo in faccia tanto per favorire. Vero, tutti gli altri dipendenti gli passavano a rispettosa distanza, gli parlavano in toni gentili e lo trattavano più o meno come un appestato moribondo. Vero, probabilmente Leonardi stava studiando la punizione peggiore che potesse concepire ed era solo questione di tempo.

Ma la vita era solo questione di tempo, se proprio volevi andare fino in fondo. Tu vivi, e prima o poi ti succederà qualcosa di brutto; prima o poi morirai. Sono certezze, separate dal presente soltanto da una mera questione di tempo. Ma il trucco, e Gemelos stava cominciando proprio adesso a capirlo, era godersi la parte intermedia. Il durante. Il prima o poi si sarebbe preso cura di se stesso, non c’era bisogno di farne una malattia. Lui non ne faceva più. In teoria. In pratica avrebbe avuto bisogno di parecchio esercizio extra, prima di interiorizzare e applicare quella nuova filosofia, ma la base era stata posta, le fondamenta ben piantate nel terreno e qualcosa ne sarebbe pure venuto, no?

Per adesso ne venivano attesa e silenzio.

Il ministro Hass era stato il primo a contattarlo, quando la notizia del suo piccolo atto di ribellione non era ancora diventata di pubblico dominio. Lo aveva contattato la sera stessa, quando era appena rientrato a casa, e Gemelos non aveva capito bene come avesse fatto a sapere già tutto, uno che non era neppure parte dell’Ufficio. Ma Hass era ministro, quindi doveva pur disporre di vie preferenziali per arrivare alle notizie, no? Ministro della difesa, poi: servizi segreti, spionaggio, varie agenzie più o meno governative... si sa come vanno queste cose, no? Gemeloso non lo sapeva, in realtà, ma la sua fantasia gli aveva suggerito varie possibili soluzioni e lui le aveva accettate.

Il ministro lo aveva contattato, si era congratulato, aveva affermato che era stata la scelta giusta, la più saggia, aveva avuto parole gentili per un direttore che sa decidere con saggezza anche quando la sorte avversa gli ha negato avveduti consiglieri, pepperepè, papparapà. Gemelos aveva ringraziato, ricevendo e comprendendo solo in parte le parole dell’interlocutore. Si trovava ancora in uno stato alterato di coscienza, in alto mare psicologico, a galleggiare tra panico e ribellione, e ogni contatto col mondo reale avveniva come attraverso uno spesso strato di ovatta rosa confetto. Il ministro Hass sembrava un possibile alleato e qualcosa gli suggeriva che avrebbe avuto bisogno di tutti gli alleati possibili, adesso, anche se doveva ancora focalizzare il perché. Meglio annuire e tenerselo buono.

Lo aveva focalizzato nei giorni successivi, quando la reazione del personale dell’Ufficio gli aveva davvero dato la misura di cosa avesse osato fare. Si era ribellato al Creatore. Come molte mitologie di ogni colore e forma insegnano, c’è un solo destino per chi si ribella al proprio creatore e non è un destino particolarmente piacevole, almeno non quando sei tu a riceverlo. Quando capita a un altro, invece, può essere discretamente piacevole, se sei in buona posizione per goderti lo spettacolo. Puoi guardare e mangiare popcorn, mentre un tricheco viene a divorargli il pancreas ogni mattina o roba simile, qualunque sia la punizione che il dio di turno si è inventato per il reo ribelle e ingrato.

Se gli amici si vedono nel momento del bisogno, George Gemelos aveva verificato presto di avere ben pochi amici all’Ufficio. Praticamente nessuno, a giudicare dal loro atteggiamento generale. Per carità, tutti cortesi, tutti gentili, ma anche tutti a distanza di sicurezza, donne e uomini esperti del mondo, che sanno fiutare il fulmine e preferiscono non farsi sorprendere nelle vicinanze, metti caso che sbagli un poco la mira, non si sa mai. Era quasi un paesaggio sociale postrivoluzionario, quando tutti si scoprono all’improvviso amici del nuovo ordine e nemici giurati del vecchio, anche se fino a due giorni prima ne cantavano le lodi tra una lucidata e l’altra di glutei. Gemelos era già il fu.

E non era successo niente. Leonardi era rientrato dalla clinica, una faccia da limone usato e gettato in mezzo alla polvere, e si era insediato (insidiato) nel proprio ufficio. Una processione di adoranti e dipendenti aveva levigato i corridoi che conducevano al suo antro, convocati in successione rapida dal dottore, già Direttore, sempre padrone. C’erano state parole, c’erano stati ascolti, c’erano state discussioni, c’era stato questo e quello. Gemelos aveva atteso, solo, un poco rannicchiato. Ma non era successo niente. Non aveva ricevuto alcuna convocazione. Come se non esistesse più.

Pure, almeno una volta lo avrebbero dovuto chiamare. La causa dell’Ufficio contro la fondazione Chen-Cohimbta procedeva, in un modo o nell’altro, e a intentarla era stato proprio lui, col pungolo di Vihersalo, mentre Leonardi era ancora ricoverato. Vero, ci sarebbero voluti mesi prima che dalla causa fosse uscito un qualcosa, e forse anni prima di un qualsiasi giudizio. Ma una convocazione? Anche solo per due parole, per farsi indicare la documentazione, per rimproverarlo di qualche errore che indubbiamente aveva commesso, per insultarlo. Gemelos ci contava. Gemelos si era preparato.

Ma non era successo. E continuava a non succedere.

Così, dopo che un altro giorno era passato nel silenzio, George Gemelos abbandonò l’ufficio col suo passo da pinguino imperiale, raggiunse l’appartamento dove viveva da solo, si afflosciò nel divano e si abbandonò ai propri pensieri. Non aveva fretta. Un poco di impazienza sì, perché l’incertezza lo infastidiva e lo seccava, ma fretta no, per carità. La mossa toccava a qualcun altro, adesso. Se poi la mossa consisteva nell’aggirarlo, lasciarlo sulla poltrona da direttore ma senza alcuna rilevanza, una decorazione che raccoglie polvere sul tavolino, allora era una mossa stupida. Sì, lo poteva dire: una mossa stupida. Hah! Sarebbe stato come punire un pesce versandogli un secchio d’acqua sulla testa.

Ma non fu un secchio d’acqua e non fu sulla testa di un pesce. La prima mossa si compì a distanza di qualche giorno e prese la forma di un visitatore all’ufficio occupato da Gemelos. Una visitatrice, se si vuole essere più precisi e più rispettosi del genere, l’etichetta, quello che è. Chi riceveva quella particolare visitatrice, di solito, non era nelle condizioni migliori per badare ai cavilli linguistici e ai riccioli barocchi delle sfumature nel significante. Quando il dottor Leonardi puntava contro di te il suo mastino, i tuoi problemi erano di tutt’altra natura e non li avresti risolti con una frase di cortesia.

Gemelos era tranquillo quando la visitatrice aprì la porta. Il che lo sorprese, ma soltanto in parte: il peggio che gli potesse arrivare era arrivato, ormai, e non sarebbe mai potuto essere peggio delle sue fantasie. A che continuare a preoccuparsi? Meglio abbandonarsi alla corrente, calma e placida, e andare alla deriva nel lago dell’Ormai, patria di chi non aspetta più nulla.

Anche il famigerato mastino di Leonardi non appariva poi così temibile. Era una donna, che doveva avere più o meno la metà degli anni del grande capo, a occhio: poco sopra i cinquanta, o forse poco sotto, in ogni caso nei dintorni. Capelli corti ma non troppo, scuri con riflessi di grigio che avanzava ma ancora era lontano dal dominare, piuttosto alta, piuttosto snella, il tipo di figura che puoi vedere in ogni ufficio, solitamente dietro una scrivania a dare ordini. Minacciosa? No, non in apparenza. Al contrario, sembrava un poco in imbarazzo. Gemelos la fece accomodare.

Il direttore (ancora per poco?) la conosceva per nome, Ellen Montgomery Elsey, ma come rivolgersi a lei correttamente era un altro discorso e dipendeva in tutto dal ruolo con cui si presentava, ossia il ruolo con cui Leonardi l’aveva inviata. Consigliere Elsey? Avvocato Elsey? Nel dubbio, meglio che fosse lei stessa a parlare e definirlo. Cosa che fece quasi subito, annunciandosi come consigliere. Un buon segno? Gemelos non lo sapeva, ma lasciò che fosse la conversazione a stabilirlo.

«Sono certa che lei sappia già perché sono venuta qui,» continuava il consigliere Elsey. «Possiamo dunque saltare tutti i convenevoli e passare direttamente ai fatti che ci interessano, giusto?»

«Ehm, credo di poter immaginare perché lei sia qui, ma di preciso non lo so. Non ho ricevuto alcun comunicato in merito. Ammesso che ci fossero comunicati, è chiaro.»

«Ah, non ha ricevuto alcun comunicato?»

«Ehm, no. Mi spiace.»

Il consigliere Elsey sembrò cambiare marcia mentale. «La cosa è piuttosto strana. A ogni modo, ciò di cui le dovrei parlare è il risultato dell’ultima riunione del consiglio di amministrazione del nostro Ufficio, una riunione che, come potrà immaginare, ha riguardato molto da vicino il suo lavoro come direttore, soprattutto in seguito ad alcuni fatti recenti, che hanno portato alcuni membri a sollevare più di un dubbio sulla bontà del suo operato.»

«Non sapevo di questa riunione.»

«È anche di questo che dobbiamo parlare. Si è trattato di una riunione straordinaria, organizzata per il diretto interessamento di alcuni membri anziani del... nostro organo consultivo.»

Gemelos annuì. Leonardi. Aveva convocato il consiglio e aveva imposto di cacciare l’incompetente che aveva osato disobbedire ai suoi ordini. Prevedibile. Oh beh, adesso che era accaduto, era molto meno brutto di quanto avesse pensato lui. Davvero meno brutto. Quasi piacevole. Il che gli appariva sorprendente, da un certo punto di vista.

«Comunque, nel corso della riunione sono stati sollevati anche altri punti e, devo dire, ne è uscito un incontro molto più acceso del solito. Se ancora non le ha potute consultare, e poiché ancora non le ha potute consultare, a quanto mi dice lei stesso, provvederò quanto prima a farle pervenire una copia delle minute della riunione. Le troverà... interessanti, suppongo.»

«Sono stato sollevato dall’incarico, giusto? Può dirlo tranquillamente, senza girarci tanto attorno.»

«Sollevato? Ma certo che no! Perché mai avremmo dovuto?»

Stavolta fu Gemelos a dovere cambiare marcia al cervello. Ne dovette cambiare parecchie, in effetti, prima di trovarne una che lo spingesse avanti in un qualche modo. «Penso che sarebbe molto utile se lei mi riassumesse il contenuto della... riunione, ecco. Un poco alla volta, per cortesia.»

Il consigliere Ellen Elsey lo fece, lasciando qui e là alcuni spazi bianchi che il direttore non ebbe difficoltà a integrare. Leonardi aveva convocato la riunione. Non per far cacciare Gemelos, almeno formalmente, ma per discutere di un possibile processo di svecchiamento del personale alle più alte cariche dell’Ufficio, in vista di una ottimizzazione delle risorse, miglioramento generale del lavoro svolto, qui e là, uovo oggi gallina domani, pappappero. E il consiglio di amministrazione ne aveva discusso. A sorpresa, non ne aveva discusso nella direzione in cui Leonardi lo voleva mandare. Era stata valutata a fondo l’attività delle varie sezioni dati alla mano, era stato valutato l’impatto dei ras locali, sia in positivo che in negativo, erano state avanzate proposte di promozioni e spostamenti, erano state eseguite poi tante altre operazioni, sempre rigorosamente in passivo, per non doverci mettere la propria faccia e distribuire al meglio la responsabilità, spalmandola come marmellata sul pane. Una riunione lunga e stancante, a tratti noiosa, al termine della quale era stata proposta (altro passivo, sia ben chiaro) una ristrutturazione dei piani alti dei vari dipartimenti, che li avrebbe senza dubbio snelliti e migliorati. Era per il bene supremo dell’Ufficio, perdiana!

Nessuno aveva parlato di cambiare il direttore. Perché? Gemelos lo chiese, quando ormai soffocava nell’anidride carbonica del riassunto e neppure gli sbadigli parevano sufficienti per risvegliare il suo cervello, o ciò che ancora ne rimaneva.

Il consigliere Elroy si mostrò particolarmente a disagio e si esibì in una serie di finte e veroniche da fare invidia al più venezia del calciatori viventi o vissuti. Alla fine, quando il direttore si era ormai rassegnato a non ricevere una risposta che non fosse una cortina fumogena di passivi e avverbi, un barlume di luce lo folgorò, non sulla strada verso una città siriana, ma sulla poltrona dell’ufficio, un posto molto più comodo e pulito dove essere folgorati.

«All’interno del consiglio si è venuta diffondendo una certa insicurezza sull’adeguatezza di fondo al corrente stato della galassia di certe politiche proposte da alcuni personaggi di rilievo del panorama politico interno,» disse infine il consigliere, diretta come un cavatappi storto. «Per quanto legato da forti vincoli di fedeltà e sicuro della bontà di fondo delle intenzioni di chi si è proposto come il caposaldo indiscutibile delle suddette politiche, il consiglio sente che si potrebbe perseguire il bene supremo dell’Ufficio percorrendo strade differenti rispetto a quelle battute negli ultimi anni, le quali non dovranno comunque essere rinnegate o scartate come se fossero inadatte o addirittura errate, sia ben chiaro, ma le si dovrà sottoporre semmai a un processo di ammodernamento e semplificazione, soprattutto a fronte di rapidi e continui mutamenti nel panorama interplanetario, che ci costringono di continuo a rivedere molte tra le nostre posizione avite e tradizionali, per mantenerci al passo con gli altri pianeti e non lasciarci superare, pur sempre senza rinnegare noi stessi e le nostre tradizioni di maggior pregio.» E blablabla, così via, nei secoli dei secoli.

Gemelos ascoltava in silenzio, traducendo uno dopo l’altro i passaggi, ripulendoli da formalismi e il perenne afflato burocratico, troncando ripetizioni e ridondanze, fino a farne brillare il significato più profondo. Che era semplice, anche se difficile da credere: il consiglio aveva sfiduciato Leonardi. Oh già, non formalmente, non in così tante parole, non in termini così bruschi e diretti, non qui e non là, ma la sostanza era quella: dopo decenni, Leonardi non era più l’ultima verità della galassia, il suo perno intoccabile e immutabile nella coscienza dell’Ufficio. Che cosa era successo? No, seriamente: cosa era successo? La guerra di successione si era infine aperta? Era giunto il tempo del supremo cannibalismo, l’epoca in cui squalo mangia squalo?

Non lo domandò. Dubitava di poter reggere alla risposta, se mai ne avesse ricevuta una, magari in meno di settecento parole, seicentonovanta delle quali del tutto inutili. Optò invece per ritornare sui terreni battuti e sicuri della praticità, lontano dagli intrighi. Forse. Cosa volevano da lui?

«Beh, beh, tutto questo è molto interessante, certo, e studierò con la massima attenzione le minute, è chiaro, ma, ecco, in attesa, voglio dire, mentre aspetto di poter avere il panorama completo di questa situazione, magari da più punti di vista, insomma, voglio dire, come mai è venuta da me?»

«Capisco che tutto ciò possa averla lasciata in parte sconcertato, improvviso come è stato, ma come le dicevo all’inizio io ero proprio convinta che le fosse già pervenuto il materiale della riunione e che, per l’appunto, lei fosse già al corrente delle decisioni. A ogni modo, lei è pur sempre il direttore e, come direttore, ha doveri e responsabilità. Per questo le devo domandare di prendere visione delle delibere del consiglio e ratificarle, come richiesto dal suo ruolo.» E gli mollò una carriolata virtuale di documenti, da leggere e siglare, ma soprattutto siglare, anche senza leggerli.

Gemelos si sentì di nuovo padrone della situazione, almeno per quanto era mai stato padrone di una qualsiasi situazione lì all’Ufficio. Volevano che firmasse. Era di nuovo il sorridi e annuisci, il ruolo che Leonardi gli aveva rifilato, nominandolo direttore. Il padrone nuovo sarebbe stato dunque come il padrone vecchio, se mai si fosse arrivati davvero a un cambio della guardia, cosa di cui dubitava. Tanto rumore per nulla, in breve. Poteva andare peggio. Soprattutto, questo gli avrebbe concesso il tempo per pensare e studiare, osservare e analizzare. E poi, alla fine, decidere. Ma con calma, senza agitarsi, senza correre. Prendere tempo e valutare. Gemelos sorrise.

«Dove dovrò firmare, dopo averli letti con attenzione?»