Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 84

La città si ammassava in ogni direzione attorno a loro, temporale che soffoca il cielo e minaccia di scatenarsi da un momento all’altro. Ma non si scatena: rimane lì, a intasare gli spazi, a soffocarti nel muro di un orizzonte di palazzi, alti su ogni lato, quasi a toglierti l’aria, per restituirtela poco dopo a brandelli, usata e appestata. O qualcosa del genere. Vista a volo di uccello, era anche un puzzle dove quasi tutti i pezzi sono stati sistemati e soltanto pochi vuoti rimangono: un parco, una piazza, forse il giardino di un campus, più un fiume che fluisce lutulento come se non ci fosse un domani, il che è spesso il caso per le forme di vita che vi abitano in quel breve intervallo che le separa dal diventare forme di morte.

Ma la città è anche un organo, di quelli che si suonano. Le sue canne salgono ovunque attorno a te e spesso sembrano persino regolari, come se un disegno intelligente esistesse davvero e, per varie e imperscrutabili ragioni, avesse deciso di dedicarsi all’urbanistica. Non è così: i soli disegni a fare la città sono stati quelli di architetti e affini, sulla cui intelligenza c’è poco da dire, se non che hanno sigle attorno al nome e pezzi di carta assai decorati e retro appesi alle pareti degli studi. Ma le canne si alzano attorno a un osservatore casuale, perso per le sue vie, e contro il profilo di un cielo fatto di vedo e non vedo possono davvero dare l’illusione di un organo, suonato da milioni di mani, clacson e altro, in una cacofonia disarmonica che risale il profondo e spalma di marmellata acustica tutto ciò che esiste, ma anche una buona parte di ciò che è soltanto immaginato.

Il vecchio e il ragazzo non vi badavano. Camminavano adagio nel torpore di una domenica mattina, aromatizzato alla periferia pacifica e indifferente: poche persone li incrociavano per strada, pochi i veicoli, pochi i rumori. Il pulsare vigoroso della vita era altrove, lontano il cuore e le arterie vaste e un poco intasate della città, lontane anche le sue vene. Lì, dove i due passeggiavano assieme, erano solo capillari, piccoli e trascurati, più qualche pallina nera rimasta incrostata tra le metaforiche dita dei piedi del mondo. Era un posto in cui esistere, per un poco, ai margini della vita; un posto per chi se ne sta come in prestito a fare tappezzeria nel grande party della galassia, guarda e commenta, con le risate, le urla, le danze e la musica che succedono altrove, ad altri. Luogo da cui fuggire all’inizio o in cui rimanere arenati alla fine, quando l’età ti lascia in secca. Luogo per vecchi e per ragazzini.

E il vecchio e il ragazzo camminavano, sotto frammenti di cielo color candeggina usata. Erano mesi ormai che si conoscevano, da quando si erano incontrati mentre facevano la spesa, il vecchio per se stesso, il ragazzo per conto della madre, obtorto collo e anche un paio di dita della mano sinistra. Il ragazzo aveva cercato di passargli davanti alla casa, il vecchio lo aveva trascinato indietro, con una presa da tenaglia e un rimprovero, brontolii su “ai miei tempi” e un accenno alla cortesia che ancora si conosceva su altri pianeti. Che aveva conosciuto su altri pianeti, proprio lui, di persona. Ed ecco l’amo a cui il ragazzo era rimasto agganciato, dopo aver mangiato l’esca. Perché non ne aveva mai visti di altri pianeti, lui, ma li aveva sognati spesso. Non li aveva mai visti e non li avrebbe veduti mai, gli sussurrava la vita che gli viveva attorno. Pure, lui li sognava. O almeno li fantasticava da sveglio, perché i sogni che faceva dormendo tendevano a essere molto più confusi e insensati.

Il vecchio gliene aveva parlato, allora e in seguito. Prima per pura cortesia, quando il ragazzo gli era venuto vicino, a testa bassa, e si era scusato per l’incidente alla cassa. Scuse accettate, ma bada, che non succeda più. Non era più successo. Era successo invece che il ragazzo gli aveva chiesto di quei mondi che lui sosteneva di avere visitato, e il vecchio ne aveva parlato, prima un poco burbero, poi a poco a poco più cordiale, mentre i giorni passavano e l’interesse del ragazzo pareva farsi autentico e solido, massa enorme che distorceva lo spazio attorno a sé e attirava le parole del vecchio. E così gli aveva raccontato storie della vita su Agni, dove sosteneva di avere speso quasi dieci anni quando era più giovane, perché anch’io sono stato giovane, eh, cosa credi? Mica sono nato vecchio, figurati un poco. Il ragazzo sorrideva e annuiva. I vecchi facevano sempre così, ma le storie gli piacevano.

Ma poi aveva dovuto abbandonare Agni, sosteneva il vecchio, per problemi di coabitazione nei cui dettagli non voleva scendere. Non che servisse: li integrava il ragazzo, con la sua fantasia, che gli accenni stimolavano e lasciavano correre verso orizzonti diversi, forse migliori: orizzonti che non si fermavano alle pareti del piccolo alloggio in cui abitava o alle poche strade che frequentava, in una periferia che le maree sociali avevano prima trascinato e poi abbandonato sulle rive del niente. Così tornava al vecchio, a intervalli quasi regolari, nei fine settimana e in alcuni pomeriggio di vuoto e di nulla, quando il tempo lo consentiva e la madre era in tutt’altre faccende affaccendata.

Dopo Agni c’era stato Shakti, il pianeta dalle tre lune, sassolini che gli ruotano attorno e splendono come biglie nella notte. «Ma non molto, non pensare alla luna che abbiamo noi qui sulla Terra: sono come stelle, ma un poco più grosse e luminose. Pensa a, sì, pensa a biglie, ecco, biglie di metallo e viste da lontano, ma non troppo lontano, che poi non le vedi proprio. È un po’ come...» E i racconti si facevano confusi, di tanto in tanto, ma anche questo era normale. Era un vecchio, dopotutto, e dai vecchi ti devi aspettare un poco di confusione, quando ti va bene. Il ragazzo lo sapeva, o pensava di saperlo, e sopportava con un sorriso. Avrebbe sopportato quasi ogni cosa con un sorrise, se serviva a strapparlo alla quotidianità e al suo vuoto pneumatico di stimoli mentali.

Le storie di pianeti lontani ci riuscivano. Poteva immaginarsi a camminare sotto stelle diverse, che poi in realtà erano più o meno sempre le stesse, ma distribuite in forme diverse perché diverso era il punto da cui le osservavi e quindi sembravano diverse anche loro, pur non essendolo. Poteva quasi sentire gli odori di piante che sulla Terra non sarebbero mai cresciute, almeno non spontaneamente e lontane da serre, e ascoltare i rumori di animali misteriosi che si muovevano tra le foglie, a volte volando, a volte strisciando, a volte su quatto, sei zampe, o qualunque altra cosa utilizzassero per i loro spostamenti. Poteva assaggiare cibi che non avrebbe mai mangiato, perché sì, li potevi trovare a volte anche sulla Terra, ma non erano la stessa cosa e comunque costavano ben più di quanto lui si sarebbe mai potuto permettere in tre vite almeno. Poteva... beh, poteva fare più o meno di tutto nelle storie del vecchio. Non essere se stesso, tanto per cominciare.

«Ma bada, che non è tutto così facile come potresti pensare tu,» gli diceva spesso il vecchio alla fine di un’altra storia. «Perché sì, nuovi mondi ti offrono nuove possibilità, è vero, lo so bene io con tutti i viaggi che ho fatto e i posti in cui sono stato, ma, vedi, alla fine, beh, non è facile.» E annuiva col suo testone scuro e rugoso, coperto da una matassa di capelli color ferro, striati di bianco. «Non è la vita da sogno che pensi tu. È difficile, bisogna adattarsi e, beh, non sempre ti vogliono. Prendi i sei anni che ho passato su Varuna, per esempio...» E una nuova storia cominciava, fatta di nomi strani e panorami ancora più strani. Il ragazzo ascoltava e beveva tutto.

Lo rimuginava e ruminava poi durante le lunghe sere e le notti ancora più lunghe, da solo, in camera e in un silenzio rotto solo dai brusii remoti della città che viveva altrove. Andare. Lasciarsi indietro l’unico posto che avesse mai conosciuto, che aveva sempre chiamato casa per carenza di alternative, concrete o immaginate. Vivere lontano, su un altro pianeta. Come sarebbe stato? Fantastico nonché difficile, difficilmente fantastico e fantasticamente difficile. Così lo descriveva il vecchio e così lo amava pensare il ragazzo. Una sfida. Una vita che non era soltanto strisciare dall’alba al tramonto, e da una nuova alba a un nuovo tramonto, sempre uguali, sempre lì, fino a quando albe e tramonti non fossero finiti, almeno per lui. E poi l’oblio, il nulla. La fine della partita.

Su un altro mondo, invece? Non molto diverso nella sostanza, gli sussurrava una parte della mente, la parte che amava pensarsi come razionale, logica, realistica. Una vita completamente diversa, nel bene o nel male: forse peggiore, ma forse, forse migliore. Questa era la risposta che gli dava l’altra parte della sua mente, che al momento deteneva la maggioranza relativa e che un giorno, forse, chi lo sa, avrebbe saputo conquistare alla propria causa anche tutti i segmenti che oscillavano incerti in una palude di dubbi e indifferenza, quelli che non sapevano se fidasi o non fidarsi. A quel punto, se il ragazzo ci fosse riuscito davvero, un governo sarebbe stato formato e allora via, via, lontano dalla Terra, dalla madre, dal resto di una vita che era sopravvivenza ai margini, come un fungo.

Ma partire costava, e costava molto. Il ragazzo non se lo sarebbe mai potuto permettere, non verso uno di quei mondi di cui il vecchio gli parlava. Mondi dai nomi fiabeschi come Agni, Varuna, Indra, Shakti. Avevano un accesso limitato, quei posti, e a limitarlo erano i soldi. Oh certo, potevano pure esserci eccezioni, di tanto in tanto, e una parte dei soldi poteva sublimarsi in merito, se eri giovane e ti accettavano come studente in una qualche università. Ma non era strada per lui, non per il ragazzo e non per chi viveva così ai margini dell’esistenza. Altri, forse. Non lui. Lo sapeva.

«Hai ragione, sai. È così in ogni tempo e ai miei tempi, beh, era anche peggio,» gli aveva risposto il vecchio, un giorno in cui il ragazzo gli aveva parlato dei propri desideri per il futuro. «Quando ero giovane io non te lo potevi neppure sognare di partire, guarda, e ai quei tempi si stava molto peggio sulla Terra. Tempi brutti, ma brutti davvero. A scuola ti avranno parlato dei Trattati, no?»

Il ragazzo aveva annuito. Sì, c’erano state lezioni sui Trattati, la solita vecchia solfa, questo e quello e quell’altro ancora. Lezioni che erano cominciate con l’alba della colonizzazione, con la guerra tra i blocchi di potere, l’estinzione di massa che accelerava in un mondo dove i ghiacci polari erano un ricordo o poco più e le maggiori città costali si ammantavano di dighe; le minori, invece, finivano a offrire nuovi alloggi alla fauna ittica. Tempi di chi parte e chi resta, di una umanità spaccata in due, che aveva continuato per secoli a litigare, qualcosa del genere. Il ragazzo non aveva ascoltato molto. Erano lezioni noiose e sapevano soltanto guardarsi alle spalle, mentre lui voleva guardare avanti.

«Io sono stato uno dei fortunati, che è riuscito a partire poco dopo i Trattati,» continuava il vecchio. «Sono partito, ho studiato altrove, ho visto nuovi mondi. Esperienze, guarda, sono esperienze che ti cambiano la vita, ti allargano la mente. Non solo la mente, secondo certe storie, ma guarda, ti posso dire che a me non è mai capitato nulla di male. Su Varuna, forse, ma Varuna è un caso a parte. Non ci andare mai su Varuna, mi raccomando. Ci sono posti migliori, te lo assicuro. Li ho visti.»

«Non ci vado di sicuro, su Varuna. Mica ce li ho quei soldi.»

«Già, già. Soldi ovunque, soldi per fare qualsiasi cosa. Oh, ne ho fatti di lavori strani, per potermi mantenere. Ne ho fatti tanti che neppure te lo immagini. Non una vita facile, ma interessante, sì.»

«Me lo hai già detto,» aveva sorriso il ragazzo. Si ripeteva spesso il vecchio, ma ascoltarlo era bello lo stesso, perché anche quando si ripeteva ci infilava sempre qualcosa di nuovo nel mezzo. Spesso, almeno, se non proprio sempre. «Mi piacerebbe anche a me poter girare come hai fatto te, solo che io mica me lo posso permettere, lo sai. E così...» Aveva scosso le spalle, in silenzio.

Anche il vecchio era rimasto in silenzio per un poco, forse perso in un mondo tutto suo, o forse solo perché si sa, la testa dei vecchi ogni tanto se ne va in giro per conto suo e si dimentica che c’è anche un corpo da qualche parte. Succedeva. Ma il ragazzo ci era abituato e lo aveva lasciato vagare. Alla fine tornava sempre con qualcosa di interessante da raccontare. Ne valeva la pena.

Quel giorno il vecchio era tornato dal viaggio mentale con qualcosa di strano. «Domenica vieni con me. C’è un posto che devi vedere, se non lo hai ancora visto. Ho una idea.»

Non aveva voluto aggiungere altro. Il ragazzo aveva scosso di nuovo le spalle ed era rimasto incerto per un poco, ma alla fine aveva accettato. Cosa aveva da perdere? Niente. E forse niente aveva da guadagnare, vero, ma forse no, forse qualcosa c’era. Col vecchio non lo sapevi mai.

Così quella domenica mattina si erano incontrati come al solito, avevano camminato un poco per la periferia in cui entrambi vivevano, parlando di questo e di quello, ma mai di ciò che il vecchio forse aveva in mente. Perché lo aveva invitato? Che idea aveva? Il ragazzo non lo avrebbe saputo, almeno non allora. Cominciava anche a sospettare che non ci fosse nessuna idea, che il vecchio avesse già dimenticato tutto, perché beh, si sa, agli anziani succede. Succedeva spesso a sua nonna, fino a che due anni fa non aveva cominciato ad andare in giro nuda, dicendo di essere l’imperatore del grande Mozambico, qualunque cosa fosse un mozambico, e alla fine l’avevano portata via, perché da sola non ci poteva più stare e la mamma non aveva tempo per pensarci. Adesso a casa non ne parlava più nessuno e nessuno sembrava sapere dove fosse finita, ma al ragazzo non interessava molto: per lui era sempre stata la vecchia mezza matta, che sbatteva la scopa contro il soffitto e si lagnava perché i vicini erano rumorosi e lo facevano apposta, veh, per farle dispetto.

Ma il vecchio non era così. «Oggi andiamo in centro,» aveva detto alla fine. «C’è una cosa che devi vedere, se non l’hai già vista. Poi ti dirò. Puoi andare su altri pianeti anche tu, sai?»

Così si erano lasciati trasportare fino in centro, attraverso luoghi che il ragazzo non aveva mai visto di persona, ma solo in immagini e storie altrui. Ed era triste. Non perché fossero tristi i posti, o quel loro viaggio, ma perché se neppure aveva mai visto tutta la propria città, dove era nato e cresciuto, a cosa serviva sognare di mondi lontani anni luce, distanze che neppure sapeva calcolare? Non aveva senso, giusto? Era, beh, era come sognare di vincere una supermaratona quando non riesci a correre neppure per un chilometro. Puoi sognarlo, d’accordo, nessuna legge te lo vieta, ma prima o poi la realtà ti tirerà un mattone in testa e farà male, farà tanto male. E lui era un ragazzino che sognava di soli lontani senza avere neppure mai visto cosa ci fosse in fondo alla strada.

Viaggiarono in superficie, forse perché il vecchio voleva che vedesse qualcosa. Ma il ragazzo non sapeva cosa fosse eventualmente quel qualcosa, così guardò tutto giusto per stare sul sicuro, nonché perché tutto era nuovo e favoloso, almeno per lui. Poi scesero e camminarono per un poco, sempre in silenzio. Accanto a loro si intravedeva di tanto in tanto lo scintillio distante dell’oceano Atlantico, nei pertugi tra un edificio e l’altro. Dove stavano andando? E perché? Il ragazzo non lo sapeva, ma era tutta una sorpresa e non la voleva rovinare con domande, soprattutto perché in parte temeva che neppure il vecchio gli avrebbe saputo rispondere. Poteva essere come con la nonna, giusto? Non che si sarebbe messo a girare nudo, dichiarandosi il re o l’imperatore di questo o quello, d’accordo, ma qualcosa tipo che non c’era più molto con la testa e non sapeva neppure lui cosa stesse facendo, no? Poteva essere così, giusto? Almeno in teoria. Forse.

Ma non lo era. La loro camminata si concluse di fronte a un agglomerato di palazzi, racchiusi da un muro che, per quanto elegante e lussuoso, indicava anche in modo parecchio chiaro che il mondo si divideva in un dentro e un fuori e loro, chiunque fossero, sarebbero rimasti fuori, perché dentro non c’era posto, non siete invitati, circolare, non ce l’avete una casa, eh? Non che il ragazzo desiderasse entrare: la struttura era ricca, luccicante, in parte anche attraente, ma lo era in un modo freddo e un poco impersonale, indifferente. E poi cosa gli fregava di andare a visitare un qualche palazzo?

«Lo riconosci?» chiese il vecchio, indicando l’edificio con un dito scuro e segnato dagli anni.

Il ragazzo scosse la testa. Perché lo avrebbe dovuto riconoscere? Era famoso? Ok, c’erano bandiere che sventolavano attorno al cancello principale, o a quello che sembrava un cancello principale, e le pareti erano decorate di tanto in tanto con simboli che non ricordava di avere mai visto ma che forse un qualche significato lo dovevano avere, se li avevano messi lì. Accanto al cancello poteva vedere una targa che luccicava nel sole del primo pomeriggio, ma era troppo lontana per poterla leggere. Il vecchio però continuava a fissarlo, in attesa, così il ragazzo aggiunse anche una scrollata di spalle, a sottolineare il concetto che no, non sapeva cosa fosse e, almeno per il momento, non gli interessava.

«È la sede dell’Ufficio per la Colonizzazione,» disse il vecchio. «Questo lo avrai sentito nominare, giusto? Magari nelle pubblicità. Ce ne sono tante, di questi tempi.»

Il ragazzo scrollò di nuovo le spalle. Lo aveva sentito nominare, certo che sì. Tutti avevano sentito nominare l’Ufficio, di solito con lettera maiuscola e un sottinteso tono di rispetto, con spruzzate di reverenza. Nella zona in cui viveva, almeno. Altrove, come a scuola o in certe vie che la mamma gli raccomandava sempre di non visitare e che proprio per questo lui aveva visitato regolarmente negli ultimi anni, il rispetto tendeva a evaporare e la reverenza non si era proprio mai vista. Erano i ricchi che se ne stavano tutto il giorno a far niente e dare ordini, professoroni e altra gentaglia percepita in genere come una razza di parassiti sociali, che non facevano niente di utile o interessante. Perché il vecchio lo aveva portato lì? Perché gli mostrava quei palazzi?

«Capirai,» gli spiegò. «Oggi ti volevo solo far vedere come è vicina a te un’altra strada, una che può portarti alle stelle, se lo vuoi. Proprio qui, nella tua stessa città, a poco più di un’ora di viaggio. Non è molto, vero? È praticamente dietro l’angolo. Anzi, di più: ci sei praticamente sopra.»

Il ragazzo osservò il vecchio, sorriso bianco nella faccia scura. Che senso aveva? Cioè, se proprio si voleva andare in fondo alla questione: che cosa gli stava dicendo? Poteva essere una specie di prova o, non so, un modo per spiegargli qualcosa, per dimostrargli qualcosa, ma nel modo tutto strano e in gran parte contorto che gli adulti e i vecchi usano sempre. Non te lo dico, ma ti faccio vedere questo e tu lo devi indovinare da solo. Divertente, eh? Non lo era, non per il ragazzo. Non proprio come la storia della nonna, ok, ma... Beh, magari anche il vecchio qualcosa di fuori posto ce l’aveva. Dentro la testa, soprattutto. Oh beh, era stato comunque un viaggio interessante e gratis.

«Non lo capisci, vero? No, immagino di no.» Il vecchio scosse la testa. «Neanche a me piacevano i giochetti come questo, quando avevo la tua età. Li trovavo pallosi. Peggio, li trovavo stupidi. E tu hai ragione a non apprezzarli, ma vedi, c’ un motivo per cui ti ho voluto portare qui. Tu lo sai a cosa serve l’Ufficio per la Colonizzazione? Se non lo sai, dimmelo subito, così non la tiriamo in lungo e te lo spiego io per bene. Più semplice per tutti, vero?»

«Beh, non lo so di preciso,» rispose il ragazzo. «Qualcosa coi viaggi spaziali, penso. Poi c’è pure un pianeta da colonizzare o qualcosa del genere. Ha un nome strano. Mamma, Papà, qualcosa così.»

«Madre. Il pianeta si chiama Madre. È la nuova colonia terrestre, la prima colonia della Terra dopo i Trattati. Non è un pianeta molto entusiasmante, al momento, perché c’è ancora quasi tutto da fare e la vita è un poco rozza, difficile, lo sai anche tu, ma è un pianeta interessante a modo suo. È molto, molto interessante. Conosci la storia delle rovine aliene, vero?»

«Ho sentito parlare di qualcosa del genere, sì, ma non è che so molto bene cosa sono.»

Il vecchio sorrise. «Nessuno sa molto bene cosa siano, in realtà, anche se molti di quelli che stanno lì dentro,» e puntò il pollice verso i palazzi dell’Ufficio, «ti diranno che lo sanno benissimo, tutto è chiaro, tutto è ovvio, qui e là, e lo diranno con paroloni lunghi e complicati, che non vogliono dire niente. Sono come le seppie che sputano inchiostro per nascondersi e scappare, hai presente?»

Il ragazzo non aveva presente, ma annuì lo stesso. Qualunque cosa fossero quelle seppie, erano cose che si nascondevano e scappavano. Animali estinti da qualche secolo, forse, o roba simile. Pure, ciò che gli interessava davvero era il senso del discorso del vecchio e quello ancora non lo vedeva. Che anche lui stesse facendo la seppia? Sputa parole strane e scappa?

«Ma torniamo agli alieni,» disse il vecchio. «Dicono che siano vissuti su Madre tre o quattro milioni di anni fa. Nessuno sa come fossero fatti, ma hanno lasciato resti, rovine di edifici o altre strutture la cui origine è chiaramente artificiale. Chiaramente per loro, almeno.» Nuovo pollice verso i palazzi, con leggero sbuffo di accompagnamento. «Comunque Madre è un mondo in costruzione, adesso: un mondo vecchio ma anche in costruzione, per gli umani, e i mondi in costruzione hanno sempre un grande bisogno di tante, tante persone. Hanno bisogno di tutti quelli che ci vogliono andare. Capisci cosa significa? Cosa significa per te, soprattutto? Pensaci bene.»

Il ragazzo ci pensò bene. Cosa poteva significare per lui? Poi lo capì, o credette di capirlo. «Di tutti hanno bisogno? Vuol dire che chiunque ci può andare? Se vuole, ecco.»

«Di tutti, sì. Di tutti quelli che ci vogliono andare. Non è una vita facile, come ti ho detto, e il lavoro sarà tanto e duro, ma se davvero sei così interessato a visitare un altro mondo, per di più un mondo su cui in passato una civiltà aliena è nata e cresciuta... Non è come i mondi coloniali che ho visitato io, non come Agni, o Shakti, o gli altri di cui ti ho raccontato, ma un giovane come te, che desidera fare nuove esperienze, deve anche sapersi adattare e accontentare, almeno un poco. E poi un mondo che è stato abitato da alieni nasconde di sicuro qualche segreto...»

Il ragazzo ascoltava con metà cervello, mentre il resto era perso lungo altre strade. Madre! Aveva sì visto e sentito le pubblicità, di tanto in tanto, ma non le aveva mai collegate a se stesso. Erano cose che accadevano agli altri, cose che riguardavano gli altri, e comunque si sapeva che le pubblicità da sempre erano soltanto balle per fregare i polli. Così diceva la mamma. A scuola, però, c’era sempre qualcuno che scherzava su rubare qualcosa o ammazzare qualcuno e poi fuggire su Madre. Non uno scherzo molto divertente, ma comunque una cosa che si diceva, così, tanto per fare. Poteva andarci davvero, se lo voleva? Poteva andare a vivere su un altro mondo, vivere e non solo sopravvivere sui margini della società? Poteva? E c’erano le rovine aliene, poi...

«Conosci il Teatro di Oklahoma, vero?» continuava intanto il vecchio. «Lo organizzano loro, quelli dell’Ufficio, e non è poi una delle cose peggiori che abbiano fatto. Ha quasi senso, questa. È per chi vorrebbe lasciare la Terra e cercare fortuna su un altro pianeta, ma non si può permettere il viaggio sui mondi coloniali. Il Teatro ti porta solo su Madre, è vero, ma è comunque fuori dalla Terra, no? È facile, veloce e soprattutto è gratis

«Gratis...»

«Gratis, già. Significa che non costa nulla. Anzi, si occupano di tutto loro e quando arrivi su Madre ti trovano anche un lavoro, almeno per il primo periodo. Se poi non ti piace lo puoi cambiare, ovvio, nessuno ti obbliga a continuare a farlo, e molti lo cambieranno di sicuro, perché sono lavoro un po’, come dire, di basso livello, sai. Costruire, riparare. Lavori da operaio, ma anche da contadino. Però è un inizio, no? E poi, una volta che sei su un altro pianeta, le occasioni non mancano mai.»

Il ragazzo aveva ormai abbandonato la fase di ascolto per passare alla pura fantasticheria. Andare su un altro pianeta! Andarci davvero! Salutare tutti e via, cercare la fortuna altrove. Era bello. Forse un po’ troppo bello per essere reale, forse una qualche fregatura c’era, da qualche parte, ma era davvero più fregatura di restarsene lì sulla Terra, a raschiare il fondo in un buco di periferia?

Rimasero ancora un poco di tempo fermi davanti ai palazzi dell’Ufficio per la Colonizzazione, col vecchio che parlava e il ragazzo che fantasticava. Ci furono spiegazioni su Madre, il pianeta, la vita sul posto, le cose che il vecchio aveva sentito raccontare, i misteri che forse si nascondevano lassù, reali o meno che fossero. Perché tante erano le voci e nessuno sapeva distinguere realtà e menzogna o, almeno, nessuno che non fosse stato davvero su Madre. Chi invece c’era stato, chi aveva vissuto là come colono, aveva visto più cose di quante un qualunque altro terrestre ne sapesse immaginare. Perché è ovvio, no? Succede sempre così a chi è andato lontano e ha sperimentato vite diverse.

Quando si separarono, nel tardo pomeriggio, il cranio del ragazzo era in fiamme. Fiamme virtuali e indolore, beninteso, ma fiamme erano e lo divoravano. Sognava forte, sognava in grande. Sognava i paesaggi di Madre, i suoi segreti, i suoi pozzi. Sognava di raggiungerli e vederli, toccarli. Molto più calmo era il vecchio, mentre si lasciava cadere nella sua poltrona sformata, in una stanza stretta del buco di periferia in cui viveva Matthew Ajibade, nuova identità della persona che Davide Kori forse avrebbe riconosciuto come Zeke Boodie, ma più probabilmente non lo avrebbe riconosciuto, perché di Zeke Boodie non restava nulla. Svanito il suo aspetto fisico, svanita la sua maschera, svanita pure l’anima di quell’individuo, ammesso e non concesso che anime esistano davvero. Esisteva qualcosa e quel qualcosa era passato da Zeke Boodie a Matthew Ajibade, come già aveva attraversato identità in passato. Tante? Poche? Neppure lui lo avrebbe saputo dire. Non aveva rilevanza, dopotutto.

Aveva rilevanza continuare col proprio lavoro e spedire un altro ragazzino stupido su Madre. Uno lo aveva già fatto partire qualche mese prima rifilandogli una fandonia colossale sulle ultime parole di un fratello morente, e un altro si sarebbe convinto a breve. Lo aveva scritto in faccia, mentre fissava senza vederla la sede dell’Ufficio per la Colonizzazione e ascoltava storie di civiltà aliene e misteri da scoprire. Al vecchio Matthew Ajibade era bastato parlare e inventare, e poi inventare e parlare. Il ragazzo si era bevuto ogni cosa. Facile. Una passeggiata. Anche molto più semplice di quando Zeke Boodie aveva riesumato i cadaveri delle idee Isolazioniste, stupide come poche, durante il periodo nella Europa che fu. Allora era stato costretto a lavorare in gruppo, a coordinarsi con altri, a gestire, a preparare, e in generale a sorbirsi fastidi che non solo non erano necessari, ma tendevano spesso al dannoso. Troppa fatica per pochi risultati, in concreto.

Ma Zeke Boodie era fatto così. Gli Isolazionisti erano stati la sua mania, la sua fissazione, e a quella scemenza era rimasto attaccato e fedele, non proprio nei secoli ma nei decenni. Bisognava giocare con le regole della personalità, purtroppo, e così era nato l’inutile tentativo Isolazionista. Nato e poi fallito, come era ovvio, e col fallimento era sparito anche Zeke Boodie e le sue idee balzane. Adesso era l’epoca di Matthew Ajibade, vecchietto pacifico che ai suoi tempi aveva girato per la galassia, o almeno per la minuscola frazione di galassia su cui gli uomini avevano lasciato una qualche traccia, per poi ritirarsi nella quieta senilità terrestre, di nuovo a casa, a vivere di ricordi.

Era una buona personalità, a modo suo. C’era sempre turbolenza ai margini, quelle zone dove colori si mischiano e confini si fondono, e lui puntava ai margini dei margini, ricorsivi, quasi frattali, più e più confusi, più e più incerti. Bersagli che non erano più ragazzini ma non ancora adulti, e vivevano in aree non più città ma non ancora vuoto esterno, famiglie non proprio inesistenti ma frantumate, e poi e poi. Erano facili da trattare, facili da manovrare, facili da convincere. Potevi quasi farne un tuo passatempo, se non era già un lavoro. E per Matthew Ajibade era un lavoro, o almeno qualcosa che assomigliava a sufficienza a un lavoro da poterti far credere che lo fosse davvero, nella giusta luce.

Raccogliere ragazzi giovani e stupidi a sufficienza da essere malleabili e plasmabili, per poi spedirli verso Madre, spararli uno dopo l’altro verso il bersaglio. Alla lunga avrebbe fatto centro. Non aveva importanza quanti proiettili gli sarebbero serviti o quanto tempo avrebbe dovuto impiegare: la sola cosa che contasse, per lui, era il risultato e il risultato doveva essere un centro. E il bersaglio erano i pozzi, naturalmente. I pozzi nascosti su Madre.

Esistevano, di questo era sicuro. Non li aveva mai visti di persona, anche se alcune delle sue identità si erano inventate storie di contatti diretti e palle varie, ma sapeva che i pozzi c’erano e sapeva che dentro i pozzi c’era qualcosa. Di importante, senza dubbio; di vitale, forse. Così sparava un ragazzo dopo l’altro, puntandoli tutti verso Madre, e attendeva che qualcuno portasse buone notizie. Notizie di un centro, tanto per cominciare. Prima o poi sarebbe successo, Matthew Ajibade non ne dubitava.

Quel Davide Kori ci era andato vicino. Il ragazzino scemo che si era bevuto le panzane Isolazioniste e aveva inseguito lo spettro di un padre inventato al momento da Zeke Boodie: era persino entrato nella base militare che sorgeva nella zona della seconda spedizione, apparentemente, ma poi aveva perso contatto. Quindi non vi era entrato, ma ce lo avevano fatto entrare, in arresto o giù di lì. E poi lo avevano perquisito e setacciato, trovando la sorpresina che Zeke Boodie aveva lasciato, ai tempi in cui il ragazzino era rimasto da solo e lui gli aveva fatto quasi da padre adottivo. Oh, commovente davvero! Ma non aveva funzionato e Davide Kori adesso non contava più. Il proiettile aveva colpito altro, il bersaglio era rimasto immacolato. Tempo di mirare meglio e sparare di nuovo.

Il fine settimana seguente il vecchio Matthew Ajibade incontrò di nuovo il ragazzo, che sempre lo veniva a trovare per ascoltare nuove storie, per sognare di mondi che non avrebbe mai visto. Ma le storie non lo interessavano, quel giorno. Quel giorno il ragazzo voleva realtà, dettagli su quel Teatro di Oklahoma, che offriva a tutti una possibilità di vivere come coloni su Madre, cercare la fortuna e un luogo migliore, percorrere la via delle stelle, quello che era. La retorica cambiava di pubblicità in pubblicità e il ragazzo ne aveva seguite il più possibile durante l’ultima settimana, espandendo ogni volta sogni e fantasticherie, fino a che il suo cranio non li poteva più contenere e la pressione pareva volergli frantumare la testa. Come si fa a partire? Ma prendono davvero tutti? Come funziona? Ma è proprio così? Non ci sono fregature? E si può andare a qualsiasi età? È vero?

Matthew Ajibade sorrideva e rispondeva, a volte mentendo, più spesso raccontando la verità, o quel che la mitologia ufficiale del Teatro spacciava come verità: balle in giacca e cravatta, sbarbate e ben pettinate, col sorriso smagliante e uno sguardo sicuro. Pur sempre balle, nonostante tutto, però erano ufficiali e le potevi verificare, quindi facevano funzione di verità. Certo che si può partire a ogni età, anche se in teoria dovresti essere maggiorenne, d’accordo, ma se ti aggiungi un anno o due non ci fa caso nessuno, per cui praticamente non c’è problema, lo hanno già fatto in tanti (vero). Basta che tu vai in uno dei centri di reclutamento, li chiamano così, ma non sono proprio reclutamento, niente di militare, sia chiaro, ce n’è uno anche qui in città, e dovrai sostenere un piccolo colloquio, giusto per definire le tue specialità, sapere a cosa ti potranno destinare, ma accettano tutti, davvero, i colloqui sono solo per dividere in gruppi gli aspiranti coloni.

Solo, giusto, davvero. Parole chiave rassicuranti, tranquillizzanti, che Matthew Ajibade lasciava qui e là cadere, canditi nella pasta di spiegazioni, per addolcirla, per insaporirla. Il ragazzo mangiava e chiedeva il bis. Sarebbe partito, certo. Come potevi non partire, quando praticamente ti pregavano di farlo e di offrivano tutto ciò che volevi? Bisognava essere pazzi per restare a casa. Pazzi, oppure persone con una casa migliore della sua. Ma Matthew Ajibade sorrideva e il ragazzo non pensava a pro e contro, a casi limite, se e ma, e forse: pensava a un pianeta da colonizzare, quasi vuoto, dove a tutti era offerta una possibilità, c’erano misteri da scoprire, rovine aliene da esplorare, ricchi premi e cotillons. E pozzi enormi, sconosciuti, che affondavano negli abissi del pianeta.

Sarebbe partito, sì. Matthew Ajibade gli parlò ancora un poco, sventolando sotto al suo naso le tante e indescrivibili meraviglie che la galassia offriva a ogni esploratore coraggioso, le possibilità che ai giovani schiudeva, le speranze di vita migliore e palle varie. Aggiunse anche una storia di come era stata la sua vita su Agni, con un riferimento alla pietra misteriosa che era custodita là: già, il vecchio non l’aveva potuta vedere di persona, perché l’avevano scoperta molti anni dopo la sua partenza, ma ne aveva sentito dire grandi cose e adesso, pare, ne avevano trovata una quasi uguale su Madre, ma non si sapeva bene cosa fosse, era un enigma. Un enigma. Il ragazzo aveva abboccato come la più stupida delle trote e sorrideva beato, contemplando le avventure che il vecchio faceva balenare.

Sì salutarono e ognuno andò per la propria strada, quando il pomeriggio cominciava già a diventare sera, poco alla volta, un granello di oscurità dopo l’altro. Matthew Ajibade viaggiò di nuovo verso il centro della città, come era sua abitudine fare almeno una volta alla settimana, se tempo e impegni lo permettevano, e di nuovo si fermò davanti alla sede dell’Ufficio per la Colonizzazione, grumo di palazzi di varie altezze e varie profondità, con un occhio sull’oceano e un altro sulla zona d’affari. E lì, nel viavai di pedoni e veicoli, il vecchio guardò in faccia il suo nemico, anche se una faccia non l’aveva e, se proprio si voleva essere pignoli, non è che ci fosse poi un nemico vero e proprio. C’era l’Ufficio, però, e c’era chi lo occupava, ma soprattutto chi lo controllava; e chi controllava l’Ufficio controllava anche Madre, e i suoi segreti. E il controllore era Leonardi.

O così era stato per più di venticinque anni, fino ad allora. Adesso? Adesso c’erano voci, voci a cui era meglio non credere troppo, ma che era anche saggio non ignorare. Matthew Ajibade raccoglieva tutto ciò che poteva, quasi per passatempo: una chiacchierata qui, una bevuta in compagnia là, due o tre mance di tanto in tanto ai dipendenti più bassi della compagnia di pulizie, magari anche toccate e fuga col personale più umile della mensa. Niente pesci grossi, quelli nuotavano troppo lontano dalla sua portata e ignoravano le esche che poteva lanciare, ma il mare non era fatto solo di pesci: c’erano tante e tante forme di plancton umano, zooplancton o antropoplancton, chiamalo come ti pare che il risultato è lo stesso. Granelli di polvere, poco più di batteri, che i grandi capi non vedevano più, se li avevano mai visti davvero, ma che filtravano ovunque, oliavano la macchina per farla funzionare e oliavano le macchine che oliavano la macchina, in una ricorsione che presto o tardi finiva ancora in un essere umano. E alcuni di quegli esseri umani parlavano con Matthew Ajibade.

Era un vecchietto, era solo, era pronto a offrire qualcosa da bere o da mangiare in cambio di un po’ di compagnia, due parole in amicizia. Nonno Ajibade, ahaha, ridiamoci assieme: un poco suonato, ma un bicchiere gratis non si rifiuta mai, eh? Così mangiavano, bevevano, scherzavano, e Matthew Ajibade raccattava le briciole di informazione, preziosi frammenti che poi ricomponeva nel proprio alloggio, da solo, in silenzio. E l’umile mosaico che ne usciva gli diceva qualcosa. Gli diceva molto.

Era turbolento, l’Ufficio, con Leonardi che invecchiava sempre più e i vassalli, valvassori e pure i valvassini che si litigavano i diritti di successione, col nemico alle porte e pronto a invadere, quel ministro Hass di cui nessuno si fidava, ma che nessuno criticava, perché non si sa mai, metti che. Le voci dicevano di una grande ribellione del direttore Gemelos, che poi così grande non era, va bene, ma era grande lo stesso, grande dentro, perché era ribellione contro il creatore, Leonardi. Dicevano di un gruppo di studio che da Agni o un qualche altro mondo coloniale sarebbe andato su Madre ma Leonardi non era contento, figurati, quello lì se li mangia tutti. Ma non se li era mangiati. Anche il consiglio pareva contro di lui. E la causa contro quelli di Svarga stagnava.

Matthew Ajibade ascoltava, raccoglieva, riordinava, comparava, analizzava e alla fine sorrideva. Sì, era epoca di confusione, incertezza, e dove c’è confusione può accadere più o meno di tutto. Se mai c’era un tempo giusto per centrare il bersaglio dei pozzi, quel momento lo aveva davanti. Bastava il proiettile adatto, quello che avrebbe colpito. Lo possedeva? Poteva essere il nuovo ragazzo?

Soltanto il tempo glielo avrebbe detto. Nel mentre, avrebbe continuato a sparare.