Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 14

Anche la vacanza a Bishapur si era ormai conclusa, in un modo o nell’altro, e fortunatamente senza altri fuochi d’artificio, se non in un senso strettamente letterale. Li avevano guardati sulla spiaggia, giusto il giorno prima della partenza, e per un attimo Matteo si era potuto addirittura dimenticare degli spruzzi selvaggi, che salivano senza sosta sull’orizzonte. Era stato un spettacolo tranquillo, pacifico, quasi domestico: lo aveva fatto sentire a casa e per questo aveva cercato di trattenerne il più possibile nella memoria, così da riesumarlo ogni tanto, in caso di bisogno o intensa nostalgia, e controllare che non si fosse danneggiato.

Perché non era stata una vacanza del tutto rilassante, almeno non per lui, e i momenti in cui poteva dimenticare il resto, abbandonandosi alla corrente, erano un dono prezioso.

Non aveva più rivisto quella pazza, che voleva infiltrarsi clandestinamente su Madre, fingendo di essere terrestre, ma lei lo aveva contattato più volte, per chiedere altri dettagli sul fantomatico Circo di Oklahoma, per discutere il modo migliore in cui approcciarlo, annotarsi suggerimenti utili per il suo ruolo di terrestre e così via. Ogni volta, per Matteo era una fitta al fegato. Chiudeva il contatto con un profondo respiro di sollievo, si guardava attorno nervoso, temendo che qualcuno lo avesse notato, poi scuoteva la testa e si sforzava di rientrare in modalità vacanza. Non ci riusciva molto bene, ma gli altri non commentavano mai, per cui forse non vi badavano.

O forse se ne fregano, perché in fondo sono affari miei, si disse in una occasione. Probabile, stando a ciò che aveva capito sul principio di responsabilità. Qualunque cosa lui stesse facendo di nascosto, erano solo affari suoi e nessuno si sarebbe intromesso, a patto che lui fosse pronto a pagarne tutte le conseguenze.

Non era del tutto sicuro di esserne pronto, in realtà, perché ancora non aveva idea di quali potessero essere tutte le conseguenze. Bogdan sarebbe tornato comodo, in effetti, ma Bogdan non c’era e non se la sentiva di parlarne con Sharma. Solo un altro terrestre avrebbe potuto capire la scemenza in cui lui si era andato a infilare. Anche Chakra, forse, ma Chakra... beh, chiedere un consiglio a lui, su un problema serio, era una prospettiva da considerare soltanto se, e quando, l’alternativa era il suicidio.

Così Matteo sedeva in silenzio, e pensieroso, mentre il viaggio li riportava a Varshi, con lo sparuto bagaglio che avevano ritenuto necessario portare, e le chiacchiere dei compagni riempivano l’aria attorno a lui, sfiorandolo soltanto. Sospirò.

«Beh, ti è morto il gatto?»

Matteo alzò gli occhi e incrociò quelli di Chakra, che sedeva davanti a lui e lo fissava, col suo solito sorrisetto impresso sulla bocca. Il sole del mare sembrava averlo reso un poco più abbronzato, ma non era facile da determinare; molto più facile, invece, determinare le bruciature, che Matteo aveva rimediato in varie parti del corpo.

«Sono solo un po’ stanco,» gli rispose, sperando senza speranza di poter chiudere lì il discorso. «Il mare, il viaggio, tutto quanto.»

«Sei veramente un nonno! Neanche il tuo filosofo da compagnia è così moscio.»

Il che era vero, perché Sharma stava chiacchierando a voce bassa con Lin Yutang e un altro tizio, di cui Matteo ricordava vagamente la faccia, ma non l’identità. Erano seduti poco lontano e la loro voce giungeva soltanto come un sottile brusio, fatto di parole indistinguibili.

«Sharma ci sarà abituato, io no.»

«Sì, immagino. Tu sarai abituato a stare tappato in casa e lavorare di braccio, vero? Come ogni buon letterato inutile.»

Matteo sospirò di nuovo. Doveva essere una prova, ordita da qualcuno o qualcosa per testare le sue capacità di sopportazione. Con un poco di pazienza, Chakra si sarebbe di sicuro stancato e avrebbe lasciato perdere, dedicandosi invece a qualche preda più accessibile. O almeno, decise di sperarlo. Bastava reggere ancora un poco e avrebbe avuto la quiete che desiderava.

«Non so a cosa ti riferisca col lavoro di braccio, ma ammetto di preferire restare in casa. Non sono mai stato un tipo da esterni,» disse.

«Sì, sì, ok, nessun dubbio, col tuo fisico da formaggino scaduto. Almeno avrai accumulato buone memorie per le tue amene attività solitarie, giusto? Ho notato come facevi funzionare gli occhi, non credere. E scommetto che lo hanno notato pure loro,» aggiunse, godendo nel notare la smorfia sulla faccia di Matteo.

«Non so cosa intendi.»

«Sì, sì, ne parleremo un’altra volta.» Sempre sorridendo, o ghignando, Chakra si decise finalmente a lasciarlo in pace, girandosi verso il povero sventurato che gli sedeva a destra. Matteo si concesse un istante di compassione per la nuova vittima, poi tornò a sprofondare nei propri pensieri.

La sua prima estate lakshmita era alla fine, ormai. Non ufficialmente, certo, perché restavano ancora giorni a sufficienza, e non certo meteorologicamente, perché il caldo era ancora tutto il mondo, in ogni direzione, ma su un piano esistenziale... sì, in quel caso sì. C’erano stati gli esami, c’era stato il Muro, c’era stata la vacanza al mare: i riti estivi erano completati nell’ordine prestabilito e la nuova stagione poteva adesso cominciare, nascendo dalle ceneri della precedente. Una stagione di nuove lezioni, forse nuovi compagni di cui, quasi sicuramente, avrebbe ricordato i nomi solo al termine dei corsi stessi, nuove esperienze più o meno piacevoli, nuovi impatti di naso contro quel mondo alieno e la sua cultura non meno aliena, per un terrestre. E così via.

E la colossale piaga di quella pazza, Kemala, che voleva infiltrarsi su Madre, passando per la Terra, e aveva scelto proprio lui come suo complice. Alla faccia della fortuna.

A ripensarci, non ricordava di preciso quando quella tizia si sarebbe dovuta laureare, per poi tentare la sua folle impresa: in inverno, probabilmente, ma non ne era sicuro. Bogdan, invece, sarebbe di sicuro partito a fine inverno, con la sua laurea specialistica in tasca e un posto di lavoro assicurato presso l’Ufficio per la Colonizzazione. Chissà se quei due avrebbero viaggiato assieme, sulla stessa nave per la Terra? Sarebbe stato inquietante...

In un modo o nell’altro, gliene avrebbe dovuto parlare, a Bogdan. Sapeva che era una pessima idea, se lo sentiva nelle ossa, ma non credeva di poter reggere da solo. Se non altro, aveva bisogno di più informazioni sul Circo, sul metodo di reclutamento, sugli eventuali esami da sostenere: Bogdan gli aveva fornito qualche notizia generica e generale, durante il viaggio verso Lakshmi, ma non erano sufficienti. Non poteva però scoprirsi troppo, questo lo sapeva: il suo amico avrebbe di certo avuto problemi, visto anche il suo futuro lavoro, se avesse collaborato in qualche modo con un immigrato clandestino. E dunque?

L’arrivo a Varshi lo trovò ancora immerso in riflessioni, lontano da ogni risposta definitiva e solida. La città universitaria era una collezione di cupole dorate, nella luce del tramonto, e luccicava in mille punti differenti. Le strade erano piene di vita, vita tranquilla, sì, senza eccessi, ma pur sempre intensa e rumorosa a modo proprio, in un sottofondo che rendeva ogni cosa un cuscinetto opaco di suoni e mormorii. Gruppi e gruppetti a piedi, che in apparenza passeggiavano senza meta, e risciò che scorrevano da una strada all’altra, schivandoli con un’agilità che poteva essere solo artificiale, e in effetti lo era. Matteo conosceva i veicoli a guida automatica, ma quelli di Lakshmi possedevano una eleganza unica, che lo incantava sempre.

Caldo e musica avevano solidità e sostanza, tra gli edifici. Nelle sere estive, per qualche ragione a lui ignota, le fontane di Varshi diffondevano anche una specie di musica locale, che Matteo trovava mediamente lagnosa, ma che comunque sopportava, e le note avevano lo stesso ritmo degli spruzzi di acqua. Forse. Non ne era del tutto certo, perché non possedeva proprio un orecchio da musicista, ma la sensazione era quella e il risultato era gradevole. Un concerto di acqua e note, visivo e uditivo assieme: idea simpatica, doveva ammetterlo.

«Prendiamo la metro?» chiese Mei qualcosa, accanto a Indira. Aveva un’aria piuttosto stanca e, dal rossore della faccia, doveva anche soffrire parecchio il caldo, Matteo la poteva comprendere.

«Ah, ma che gioventù!» esclamò Chakra, alzando le braccia in modo inutilmente enfatico, alla sua classica maniera. «Dobbiamo portarti in spalla fino all’ospizio?»

«Sarebbe meglio prendere la metro, in effetti,» disse Lin Yutang. «Non tanto per la stanchezza, ma per il clima. Fa ancora parecchio caldo, qui.»

Ne seguì un dibattito su meriti e demeriti del clima, sulla possibilità di camminare e godersi la sera, sui vantaggi di rincasare in fretta e riposare e su mille altri argomenti. Alla fine, il gruppo rientrato si divise in due: alcuni in metro, altri a piedi. Matteo scelse di camminare.

I parchi erano pieni. Questo è un dettaglio che avrebbe sempre ricordato, delle serate lakshmite, lì a Varshi: i parchi erano pieni. Nella bella stagione, che in apparenza comprendeva la maggior parte dell’anno solare, i lakshmiti amavano recarsi nei parchi cittadini, sedersi sull’erba, chiacchierare, bere e svolgere qualunque altra attività si possa svolgere in pubblico su un prato. Sembravano un popolo da esterni, fatto per stare all’aria, così diversi dalla gente della sua città natale, nella regione mediterranea della Terra: qualunque fosse il clima, la prima scelta sulla Terra sembrava essere un locale, o altri luoghi chiusi. Qui su Lakshmi, invece, era tutto all’aperto, tutto in pubblico.

O così pensava, mentre i piedi lo riportavano verso l’alloggio e le orecchie si perdevano nei suoni della città circostante. La sua opinione sarebbe certo cambiata, più avanti, ma le opinioni cambiano sempre, più avanti, perché è parte della loro natura. Per adesso, Matteo si sentiva in pace, anche se solo per un momento, e Lakshmi gli sembrava il giardino dell’Eden. E forse, da un certo punto di vista, lo era davvero.

Due giorni dopo il suo ritorno a Varshi, Matteo stava lavorando al centro culturale terrestre, dove la mostra di un artista terrestre, presumibilmente famoso, era in fase di allestimento. Lui non ne aveva mai sentito il nome, né ricordava di avere mai visto una delle sue opere, ma non era un dettaglio fondamentale, considerata la propria allergia alle arti figurative. Maelle Prsic, una sua compagna di lavoro lì al centro, sosteneva però che l’artista rappresentasse uno dei vertici attuali della corrente escapistico-prassitelica, e chi era lui per contraddirla?

«Ma davvero non conosci le opere del Maestro?» gli chiese Maelle, fissandolo come se fosse uno strano esemplare di bruco, appena scoperto all’interno di un panino.

«Ehm... no. È grave?»

«Grave? Il Maestro Uris è colui che, nella nostra epoca, meglio ha colto la fondamentale dicotomia dell’uomo spaziale, plasmandola nel candore del marmo metamorfico, dove la drammatica tensione sociostrutturale si sublima in un caleidoscopio di curve spasmodiche, che lascia ogni osservatore semplicemente senza fiato! Come puoi non notarlo?»

Posso molto bene, pensò Matteo, ma l’istinto di sopravvivenza lo avvertì che, in quel momento, un commento spiritoso avrebbe potuto condurre a sviluppi drammatici. «Beh, è che non sono mai stato molto interessato alle arti figurative,» si limitò a rispondere. «Preferisco la letteratura, sai...»

Maelle Prsic lo spazzò via con un gesto seccato della mano. «Carte prive di vita e di spessore! La vera arte è fisica, tangibile, unica, come i capolavori che ci circondano.»

«Ma sono repliche, giusto? Quindi non è proprio unica...»

Se gli occhi di Maelle avessero potuto sparare raggi della morte, in quel momento lo avrebbero fatto di sicuro. «Gli originali sono troppo preziosi, per rischiarli in un viaggio spaziale. Quelle che qui possiamo esporre sono comunque copie perfette, per cui nulla è perso. Il genio del Maestro Uris non ne esce certo ridotto, anche se bisogna ammettere che ammirarne l’originale rimane una esperienza di livello ineguagliabile.»

«Maestro Uris.»

«Sì, il Maestro Shimon Uris. Non dirmi che non conosci neppure il nome dell’artista, vero?»

Matteo non lo disse. Quando una persona pronuncia anche i sostantivi comuni con una chiara lettera maiuscola, come Maestro, è più saggio astenersi da qualunque discussione. E poi, quegli sgorbi di similmarmo biancastro, sparpagliati come larvoni giganti nel salone, seguendo un qualche percorso artistico a lui ignoto, lo attiravano come una gastroscopia. Meglio tacere e lavorare.

«E comunque dovresti davvero farti una cultura artistica,» disse Maelle. «È inammissibile che una persona voglia studiare una disciplina creativa, come la letteratura, senza avere neppure una minima base artistica. È semplicemente barbarico.»

Pazienza, si disse Matteo, mentre correggeva l’inclinazione di un faro, seguendo le indicazioni del loro supervisore. Quella Maelle Prsic sapeva avere la simpatia di una piaga purulenta sui glutei, se si impegnava; se non si impegnava, invece, era piacevole come una colite mentre aspetti il treno. Ci sono cose che puoi evitare e cose che devi sopportare: Maelle apparteneva alla seconda categoria e così Matteo la doveva sopportare, quando la sventura li portava a collaborare, nel centro culturale.

E dire che quella tizia non aveva niente a che fare con l’arte. Era una studentessa di medicina, o di una qualche branca medica che lui al momento non ricordava, ed era poco più vecchia di lui, se la si valutava in termini strettamente biologici; come carattere, però, di anni ne doveva avere accumulati almeno trecento, portati male. Quella specie di insalata di capelli ricci e scuri, che aveva sulla testa, non contribuiva a renderla più gradevole, neppure alla vista.

«Ricordati di partecipare ad almeno una visita guidata della mostra, quando sarà aperta,» lo incalzò Maelle. «Ti farà solo bene.»

«Me ne ricorderò, non ti preoccupare,» mentì Matteo. «E inviterò anche i miei amici.» Sì, tre volte li invito, stai sicura. Anzi, facciamo pure quattro. Sospirò, asciugandosi la fronte. Nel salone non faceva davvero caldo, ma quei maledetti fari lo cuocevano vivo e sopportare la sua collega di lavoro era uno sforzo che tassava seriamente la sua resistenza. Responsabilità, giusto? Non si era informato prima e adesso ne pagava le conseguenze, sprecando tempo con quel lavoro ignobile, mentre tutti i compagni si riposavano, studiavano o si divertivano in vari modi. Bella roba!

No, uno no. In fondo, Bogdan stava ancora lavorando alla tesi specialistica, giusto? O almeno così gli aveva detto, il giorno prima, quando lo aveva contattato. Il suo relatore aveva trovato qualcosa da correggere e così stava rifacendo il terzo capitolo, per la quarta volta. Spiacente, ma non avrebbe avuto tempo per un incontro: magari più avanti, quando avrò chiuso con questa solfa. Ciao. Matteo ne era rimasto un poco deluso, ma meno di quanto si sarebbe aspettato. Probabilmente era meglio che l’amico restasse fuori dalla storia del Circo di Oklahoma ed era sicuramente meglio che Bogdan non incrociasse mai Kemala: non avrebbe mai voluto avere la sua carriera sulla coscienza.

Potrei chiedere qui, pensò. Non ci aveva badato subito, anche perché il centro culturale terrestre lo faceva sempre pensare a un vetusto supermercato, più che a un luogo di cultura, ma in effetti era terrestre, ci lavoravano terrestri e serviva a pubblicizzare la cultura terrestre, almeno per un certo valore di cultura. Con un poco di fortuna, le informazioni che Kemala chiedeva le avrebbe potute trovare anche qui. Meglio ancora, avrebbe potuto indirizzare Kemala al centro culturale, e che poi si arrangiasse da sola. Giusto!

Il passaggio da idea ad azione avvenne durante la pausa, mentre sedeva nel bar del centro, assieme ad altri studenti terrestri. I soliti altri studenti terrestri, in effetti: non si vedevano molte facce nuove, da quelle parti, anche nelle migliori occasioni. Ammesso e non concesso che ci fossero migliori occasioni, cosa che Matteo non aveva ancora appurato in via definitiva.

«Il Teatro di Oklahoma?» ripeté Steve Dingledine, appoggiando la tazzina vuota. I suoi capelli oggi sembravano avere assunto una curiosa piega da cuscino, su cui era probabilmente meglio non fare domande.

«Sì, il Teatro di Oklahoma,» spiegò Matteo, giocherellando col proprio bicchiere di tè freddo, o di ciò che su Lakshmi era spacciato per tè freddo e ne aveva vagamente il sapore. «Quel baraccone per reclutare emigranti terrestri verso Madre, no? Lo avrete visto anche voi, alla stazione...»

Steve scrollò le spalle. «Non ci ho fatto molto caso. Quando sono partito, era già tanto se riuscivo a stare sveglio, dopo una settimana di insonnia... Ero piuttosto nervoso, sai com’è.»

«Sì, beh, anch’io lo ero, ma ci sono proprio passato davanti ed era impossibile non notarlo. Sai, con gli angeli sui trampoli, la musica, i giocolieri e tutto il resto.»

«Ah,è quello il Teatro?» intervenne Roger Snyder, «Credo di averlo visto, allora, ma non è che mi interessasse molto della stazione. Pensavo solo al viaggio e allo studio su Lakshmi, io.»

«Dicono che quello spettacolo sia usato per attirare gente, ma non so quanto funzioni» disse Matteo. «Magari voi ne sapevate qualcosa di più, visto che siete in giro da più tempo...»

«Una classica baracconata, come hai detto tu,» commentò Maelle. «Uno spettacolo semplicemente indegno. Se proprio volevano realizzare qualcosa di affascinante, avrebbero almeno potuto seguire i canoni della danza a gravità zero, come proposti da...»

«Non penso che gliene fregasse molto,» la interruppe Steve. «Vorranno fare qualcosa di vistoso, che possa attirare l’attenzione dei passanti. Il valore artistico della esibizione non è certo tra i principali motivi di interesse, per chi lo organizza.»

«Il che dimostra che sono barbari, punto.»

«Comunque, mi chiedevo se voi ne sapeste qualcosa di più su come funzioni quel Teatro,» disse Matteo, cercando di riportare il discorso in carreggiata. «Ci stavo pensando di recente e...»

«Pensavi a emigrare su Madre? Curiosa scelta, per uno che sta studiando letteratura qui.» Roger lo fissò con un certo disgusto. «Quel pianeta è buono solo per contadini e altra bassa manovalanza, al momento. Non c’è spazio per accademici.»

«Non è vero! Di spazio per gli accademici ce n’è in abbondanza, è solo che non è uno spazio molto comodo, per adesso» disse Steve. «In alcuni settori, Madre è il posto ideale in cui lavorare.»

«Archeologi, certo, ma poco altro.» Maelle si sistemò i capelli, senza che il tentativo portasse ad alcun risultato visibile. Continuavano ad assomigliare a un piatto di insalata.

«Non solo archeologi. Anche per noi exologi è un posto molto interessante e, ti confesso, non mi dispiacerebbe poterci lavorare, in futuro. Dopo una specializzazione, magari.»

«Sono così interessanti gli animali del posto?» chiese Roger, con una curiosità che sembrava quasi sincera. «Ho sentito che ce ne sono pochi e hanno dovuto importare quasi tutto, ma non vedo cosa possa esserci di tanto interessante in loro.»

Steve strinse le labbra, mentre i suoi occhi si perdevano in chissà quali abissi di riflessione. Dopo una certa pausa, risposte, quasi misurando le parole a una a una. «Ciò che rende così interessanti le forme di vita autoctone di Madre è una caratteristica che, almeno a quel livello, non è finora stata riscontrata su nessun altro pianeta. Per farla breve, e per non addentrarmi in dettagli tecnici troppo complicati, tutte le forme di vita, sia vegetali che animali, condividono uno stesso segmento di dna, come se fossero imparentate tra loro. Come se discendessero tutte da un antenato comune, se così vi è più chiaro.»

«Ah, interessante...» disse Maelle. «E la spiegazione quale sarebbe?»

«Ancora non c’è, ed è questo a renderla così interessante. Non sappiamo molto su come si sia svolta l’evoluzione su Madre, o per meglio dire non ne sappiamo alcunché, ma scoprirlo è qualcosa che io troverei molto importante. E non solo io, ovviamente,» aggiunse Steve.

«E quindi vorresti andare in quella topaia, per studiarlo?» chiese Roger. «Lo scopro adesso.»

«Non me lo hai mai chiesto. A ogni modo sì, è uno dei miei progetti per il dopo laurea. Non so se ne avrò la possibilità, è ovvio, ma mi piacerebbe.»

«Tornando al Circo di Oklahoma,» ritentò Matteo, sapendo ormai che la discussione non gli sarebbe servita a nulla. Quando partivano per una tangente, era quasi impossibile fermarli, e poi pareva che davvero non avessero informazioni sul Circo.

«Vuoi emigrare anche tu, barbaro?»

«No, non voglio andarci io,» rispose Matteo, soffocando l’impulso di scagliare qualcosa in faccia a Maelle Prsic. «Mi chiedevo solo come funzionasse il processo di selezione. Quando sono partito, mio fratello sembrava essere un poco interessato e così, magari, se avessi saputo qualcosa per lui, gli avrei potuto fare una sorpresa.»

«Tuo fratello? Minore, per caso?»

«S, minore. È ancora al liceo, ma...»

«Gli passerà molto in fretta la voglia. Meglio che se ne resti sulla Terra e si trovi un lavoro normale, invece di andare in giro per la galassia a fare chissà cosa.»

E su questo Matteo era d’accordo, ma aveva deciso di utilizzare Davide come scusa, per raccogliere informazioni in un modo che, a suo parere, non sarebbe sembrato sospetto, e avrebbe continuato per quella strada, fingendosi un fratello maggiore che vuole aiutare il minore. La semplice idea che suo fratello potesse davvero desiderare di partire per Madre, un pianeta ancora in gran parte brullo e da colonizzare, era semplicemente folle, per lui. Non sarebbe mai successo. Non a uno come Davide, che non sapeva neppure riordinare i propri cassetti. Impensabile, appunto. Ma una scusa utile.

«Sì, sì, beh, si sa come sono i giovani,» rispose. «La voglia non gli durerà molto. Anzi, se magari tra voi c’è qualcuno che sa dirmi qualcosa di più sul Circo e su come funzioni, magari basterà a fargli passare subito l’idea di emigrare.» E rise, perché una risata funzionava sempre, in quei casi, anche dopo aver usato due “magari” nella stessa frase.

«Non ne so niente, mi spiace.» Steve si strinse nelle spalle. «Non mi sono neppure informato, se è per questo. Tanto, se mai riuscirò ad andare su Madre, non sarà certo come colono.»

Neppure gli altri due gli furono di aiuto. «Magari puoi chiedere alla Capa,» disse Roger, «oppure a un altro del personale, qui. Ne sapranno sicuramente più di noi.»

Il che era vero, senza dubbio, ma anche pericoloso. Gli studenti non avrebbero fatto molte domande e, comunque, le avrebbero dimenticate in fretta. Un funzionario no. I funzionari erano lì apposta per fare domande, ricordare e in genere rompere le scatole, come, dove e quando potevano. E poi, a chi si sarebbe dovuto rivolgere? Al dott. I. Brünnel, con cui aveva parlato il suo primo giorno? Ancora non aveva scoperto per cosa stesse la I, fra le altre cose, ma mentalmente lo aveva battezzato “Idiota Brünnel”, per ragioni di per sé evidenti. O si sarebbe dovuto rivolgere davvero al presidente Ana Jarkovska? Dopo quella chiacchierata estemporanea, durante lo spettacolo a fine primavera, l’aveva solo incrociata un paio di volte, al centro, e dubitava che si sarebbe ricordata di lui.

Era necessario pensare a una strategia differente. Oppure, in modo molto più radicale ed efficace, era necessario dire a Kemala di arrangiarsi da sola, perché lui non voleva avere niente a che fare con la sua follia. Mettersi nei guai con la legge, mentre era studente su un altro pianeta, sarebbe stato da pazzi, con l’aggravante che lui neppure conosceva le leggi che avrebbe violato.

«Ma me le dirà Chakra, che è dirittista,» e quella idea sembrava ancora più folle di tutto quello che aveva fatto dall’inizio della vacanza a Bishapur. Poteva immaginare benissimo la faccia di Chakra, dopo aver scoperto i casini in cui lui si stava certamente infilando. Poteva immaginare anche meglio la faccia di Sharma, nelle stesse circostanze, e non era un bel pensiero. Avrebbe causato problemi a lui, in quanto sua balia? Possibile. Col modo strambo in cui funzionava quel mondo, nulla avrebbe potuto sorprenderlo, ormai.

«Chiudiamo qui e non pensiamoci più,» si disse, mentre camminava verso la mensa, nella luce del tramonto lakshmita. La prossima volta che Kemala si fosse fatta sentire, le avrebbe detto in modo chiaro e deciso che non poteva fare altro per lei. Le avrebbe indicato il centro culturale, se proprio ci teneva, e le avrebbe fornito tutte le informazioni che aveva potuto raccogliere, ossia quasi niente. E poi, basta. Libero! Che facesse pure tutte le pazzie che voleva, quella ragazza. Lui chiedeva solo una vita tranquilla, normale, pacifica, e l’avrebbe ottenuta. Senza ripensamenti.

In fondo, a ripensarci, a voler essere onesti con se stessi, erano stati solo gli ormoni a fargli provare un certo interesse per Kemala. Se l’avesse incontrata in circostanze diverse, come ad esempio non in costume da bagno, l’idea di collaborare a un progetto illegale non lo avrebbe mai sfiorato. Uno come lui, poi? Che non aveva mai copiato i compiti a scuola, perché lo riteneva disonesto? Schiavo dei colpi di calore e dell’estate. Schiavo del costume. Ma adesso l’estate era alla fine, adesso tutti indossavano abiti normali: non c’era più spazio per le pazzie, bisognava tornare alla normalità e alla sanità. Lo avrebbe fatto, di sicuro.

Inoltre, se lui non fosse stato un terrestre, Kemala si sarebbe comportata come qualsiasi altra bella ragazza e lo avrebbe ignorato. Tempo di ricambiare e lasciarla a cuocere nel proprio brodo, giusto.

Fu dunque molto sorpreso di se stesso quando, il mattino successivo, Kemala lo contattò e lui non seppe annunciarle la propria decisione di abbandonare l’impresa. Non ci riuscì proprio. Per quanto fosse determinato, per quanto si fosse autoconvinto che quella era la sola via possibile, Matteo non poté sbatterle la porta in faccia. Evidentemente, possedeva la forza di volontà di un asparago.

«Capisco, grazie dell’informazione. Non sapevo ci fosse un centro culturale terrestre, qui a Varshi. Non vi impegnate molto nel pubblicizzarlo, eh?»

«Non è che sia poi tutto questo gran centro,» rispose Matteo. «Ma magari potresti riuscire a trovare qualche notizia in più. Ne dubito, perché comunque è rivolto alla diffusione della cultura terrestre, ma è sempre meglio di niente.»

«Oh, questo sì: qualunque cosa è sempre meglio di niente. Tu intanto continua pure a informarti sul Circo, fingendo di doverlo fare per tuo fratello. Sei terrestre, avrai sicuramente più fortuna di me in questo senso. Potrebbe suonare sospetto che una lakshmita come me vada a chiedere notizie su un programma di colonizzazione riservato ai terrestri.»

«Farò quel che posso,» rispose Matteo, odiandosi con passione. Perché doveva essere così debole? Non avrebbe avuto tanti problemi, se fosse stato Chakra, anziché una bella ragazza. Probabilmente non ne avrebbe avuti neppure se fosse stato Sharma, anche se in quel caso ci sarebbe stato un vago senso di colpa, dato che Sharma era responsabile per lui. Ma mettimi davanti un bel volto e un bel corpo ed ecco che mi trasformo in una medusa! La vita sa essere davvero ingiusta, a volte...

«Grazie di nuovo. Aspetto i prossimi aggiornamenti, allora.»

Più tardi, Matteo tornò a studiacchiare Filologia Lakshmita, un esame che non aveva superato nel primo periodo e che avrebbe dovuto ritentare alla prossima occasione, ma la sua mente non era in grande sintonia con la materia. Non che in circostanze normali la filologia rientrasse tra le letture da lui preferite, se non forse in caso di grave imbarazzo intestinale, ma quella mattina non entrava nella sua testa neppure la prima volta, figurarsi poi rientrarci.

Tempo sprecato. Una bella passeggiata all’aria aperta, forse, lo avrebbe aiutato a tornare in linea coi propri pensieri, o almeno lo avrebbe aiutato a distrarsi, il che era già qualcosa. Quel comportamento da mollusco, che aveva tenuto durante la conversazione con Kemala, non aiutava la sua moribonda autostima e avere quel peso ancora attaccato alla caviglia (virtualmente) peggiorava la situazione e basta. Staccare, sì.. staccare e riposare. Ecco cosa gli serviva. Gli sarebbe servita in realtà una nuova vacanza, in effetti, per recuperare dalle conseguenze della sua prima vacanza, ma si sarebbe dovuto accontentare di una passeggiata palliativa.

Come se non bastasse, mentre era in giro per le vie di Varshi si sentiva osservato. Il che era in parte vero, dato che molti bambini si giravano a guardare il forestiero, così cromaticamente diverso dalla media locale, ma non era quel tipo di sguardo a infastidirlo. Era.. paranoia, ecco. Senso di colpa, in parte, perché sapeva di essersi lasciato coinvolgere in qualcosa di non legale. Quindi, in base alla più vecchia delle leggi, o almeno a una legge abbastanza vecchia, era convinto di avere la propria colpa impressa in fronte, ben visibile a tutti.

«Eccolo, lo straniero non responsabile!» si sentiva additare dalla propria fantasia. «Eccolo, quello che sceglie di violare le leggi e poi cerca scuse.» Frasi che nessuno gli rivolgeva, ovviamente, anche perché erano realistiche e naturali come un cavatappi di burro, ma lui le sentiva lo stesso.

«Qualcosa non va?» gli chiese Sharma in mensa, all’ora di pranzo. Erano soli, al momento, ma di lì a poco sarebbe dovuta arrivare anche Indira, forse accompagnata da una qualche amica, con cui era andata a studiare. Una delle tante di cui Matteo non ricordava il nome.

«No, è solo che devo ritrovare i ritmi da studio, ecco. Ho ancora la testa in vacanza, sai com’è.»

Sharma annuì, col suo sorriso placido. «Succede, non ti preoccupare. Si vede che hai trascorso una vacanza molto intensa, anche se nessuno di noi pare essersene accorto. Buon per te, direi.»

«No, niente di particolare. È solo che... boh, sono un po’ debole al caldo, non lo reggo molto bene.» Il che era parzialmente vero, ma non gli era mai capitato di rammollirsi così tanto, neppure nelle più afose estati mediterranee. Certo, il caldo lakshmita apparteneva a un livello differente, ma si sarebbe baciato i gomiti, se il problema fosse stato solo climatico.

«Debole al caldo? Può succedere, sì, ma in questo caso sarebbe stato molto meglio se tu ci avessi avvertito per tempo. Avremmo evitato di coinvolgerti in tante attività, se queste potevano causare un qualche danno alla tua salute.»

«No, no, nessun problema. E poi l’ho scelto io, giusto? È una mia responsabilità.»

Sharma sospirò. «Mi pare che tu non abbia ancora le idee completamente chiare sulla responsabilità in una ottica lakshmita. Alcune sfumature sono in effetti piuttosto complicate da comprendere, per uno straniero, e può essere necessario anche qualche anno, prima di aver assimilato la prospettiva di un abitante di Lakshmi. Noi ci siamo nati in mezzo e siamo stati educati in questo modo da sempre: non puoi aspettarti di acquisire la stessa mentalità in un paio di stagioni. Se hai dubbi, a ogni modo, lo sai che puoi chiedere in ogni momento.»

E quella sarebbe stata una ottima occasione, per parlare sia di Kemala sia di ciò che gli chiedeva di fare, capire quanto fosse lakshmita e quale fosse la sua percentuale di responsabilità nell’eventuale (ma quasi certo) reato. Eppure non lo fece. Temeva la risposta? Certo che sì, ma non era soltanto la paura a frenarlo. Sentiva che... che qualcosa. Non sapeva spiegarlo, ma non ne voleva parlare. Così non ne parlò.

E c’era sempre la sensazione di essere osservato, anche in mensa.

Sto diventando paranoico? È lo stress a rendermi così? Buone domande, a cui però non possedeva altrettanto buone risposte. Poteva solo cambiare argomento e lasciare che il tempo facesse la propria parte. A fine inverno, Kemala sarebbe partita, in un modo o nell’altro: doveva solo resistere durante l’autunno e poco oltre, che poi erano le stagioni più brevi su Lakshmi, almeno alla latitudine di Varshi. Finito il primo anno, finite le preoccupazioni.

«È che ho anche qualche problema con filologia, in questo periodo,» disse Matteo, per passare ad altro. «Già non avevo superato l’esame al primo appello, e adesso credo che mi stia mandando un poco in confusione.»

«A questo almeno possiamo rimediare. Vuoi che ti aiuti con lo studio, nel pomeriggio? Sono già a un buon punto e posso permettermelo, senza problemi.»

«Mi faresti davvero un grosso favore.»

Studiarono assieme, anche nei giorni successivi, e a poco a poco Matteo rientrò nella normale ottica di studente, lasciando sullo sfondo le paranoie da agente segreto, criminale, irresponsabile e tutto il resto. C’era soltanto spazio per la filologia, che è già una brutta bestia così come è e non avverte il bisogno di essere peggiorata da fantasie sovreccitate, e c’era spazio anche per serate con gli amici, le solite battute più o meno offensive di Chakra, gli scherzi ogni volta che lo vedevano nei pressi di una bevanda alcoolica (o pseudoalcoolica) e la normale vita di uno studente universitario. In un paio di occasioni, c’era anche stato spazio per una comparsata di Bogdan, dal viso più stravolto del solito e la stanchezza di chi, ormai, vede il traguardo all’orizzonte, ma sente le gambe molli.

«Il relatore ti ha fatto qualche altro scherzetto?» aveva riso Indira.

«Dopo la discussione della tesi specialistica, lo impiccherò all’albero più alto di Varshi.»

Una risata catartica, collettiva, si portò via ogni cattivo pensiero, mentre l’estate finiva e le lezioni ricominciavano. Fu proprio in quel periodo che Matteo notò per la prima volta l’uomo coi baffi e le cose cambiarono in peggio, almeno sotto un certo aspetto. Dopo averlo incrociato in libreria, primo di molti incontri che gli avrebbero riguardati.