Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 23

La danza delle stagioni, su Lakshmi, era un’altalena sospesa tra due estremità: il fresco moderato e il caldo ributtante. Il fresco moderato era la fase che, da quelle parti, passava per inverno, mentre il caldo ributtante era ovviamente l’estate. A fare da cuscinetto tra i due estremi, si collocavano due periodi di caldo meno ributtante, venato di un fresco incerto, quasi tentativo, che poteva colorare il generico caldo con pennellate più o meno frequenti. Quando il fresco è più frequente e diffuso, si ha l’autunno; quando lo è di meno, invece, si ha la primavera.

La primavera è la stagione in cui si fa iniziare l’anno lakshmita. E il secondo anno lakshmita di Matteo Kori gli aveva portato cambiamenti, che non si sarebbe aspettato. Normalità? Non proprio. Non come l’avrebbe desiderata lui, quantomeno.

La primavera del nuovo anno era nata, cresciuta e adesso si avviava verso la calda vecchiaia della sua estate, in un risveglio di insetti più o meno nocivi e fastidiosi. Il profumo dei fiori era forte per le vie di Varshi, come forte era il ronzio dei pishacha dopo il tramonto, quando giardini e parchi si coloravano di primi studenti, al ritorno dalle lezioni. Gli esami si avvicinavano, come sempre fanno nel samsara universitario, e lo studio all’aperto era una sana abitudine per alcuni, per altri un lusso, di cui avrebbero goduto ancora per poco. Fino al giorno venti di Estate, quando il Muro li avrebbe sepolti vivi negli edifici. Ma il futuro era ancora futuro e adesso si godevano il fresco serale tra gli alberi, mentre nelle loro orecchie si ripeteva il mantra delle lezioni da imparare.

Fra quegli studenti c’erano anche Sharma, Chakra, Indira, Lin Yutang e il resto del loro gruppo. A volte assieme, ma più spesso separati per luogo di residenza e materie da preparare, spendevano il tempo libero studiando o ripassando in vista della sessione estiva, che sarebbe arrivata col Muro. C’era tempo, certo, ma pochi lo volevano sprecare: questione di responsabilità, si potrebbe dire.

Matteo non era con loro. Non sempre, almeno. Non alla sera, soprattutto. Dopo quel messaggio di Bogdan, in cui accennava a incidenti e altri problemi nella zona mediterranea, sulla Terra, Matteo si era sorpreso a spendere sempre più tempo nell’unico luogo, di sua conoscenza, in cui sapesse di poter ricevere informazioni e notizie su ciò che avveniva a casa. A casa casa, si intende: sul suo pianeta natale, dove madre e fratello vivevano ancora, almeno per quanto ne sapeva lui.

E le notizie non erano entusiasmanti.

C’era aria di una blanda crisi tra Terra e Lakshmi. Una crisi moderata, che galleggiava soltanto tra gli strati più alti delle due società, senza sfiorare la grande massa della popolazione. E perché mai avrebbe dovuto, in fondo? La grande massa della popolazione, su entrambi i pianeti, non era toccata neppure per sbaglio dai motivi della crisi e dalle sue conseguenze. Mancava una preoccupazione personale, insomma, e una crisi senza motivazioni personali poteva essere solo blanda, in società di quel tipo. Ma anche in società di altro tipo, molto spesso.

La causa, ovviamente, era la quarantena. La quarantena imposta sui contatti tra Lakshmi e Madre, la colonia terrestre, perché gli studiosi lakshmiti presenti sul pianeta erano sospettati di aver introdotto una contaminazione ambientale. Di essere la causa di una contaminazione ambientale, se si voleva poi entrare nello specifico. Causa involontaria, è chiaro, causa inconsapevole, ma pur sempre causa. Quindi, fino a che non si fosse trovato un rimedio, ulteriori contatti tra Lakshmi e Madre sarebbero rimasti sospesi.

Ciò che rendeva la crisi così blanda e poco interessante era il fatto che, in concreto, non ci fossero contatti tra Lakshmi e Madre, almeno al di fuori dell’ambito accademico. Perché mai ci sarebbero dovuti essere, in fondo? Madre era una nuova colonia, un pianeta che i suoi nuovi abitanti stavano ancora cercando di addomesticare, un pianeta grezzo, rozzo, mediamente povero di materie prime e che non produceva alcunché di interessante, almeno per una società evoluta come quella lakshmita. E il turismo? Visitare Madre era come visitare un cacatoio per gatti, lo sapevano tutti.

Il discorso cambiava per gli accademici. Alcuni accademici, se non altro. Perché su Madre avevano rinvenuto rovine aliene, o almeno rovine di una civiltà non umana, molto antica e molto estinta, da almeno due o tre milioni di anni. E questo era il primo motivo di interesse, principalmente per le facoltà di archeologia, essendo rimaste soltanto poche pietre e resti di altre strutture artificiali, quasi del tutto consumate dai secoli.

Il secondo motivo di interesse era riservato agli exologi, cioè a tutti coloro che studiavano forme di vita non terrestri: campo di studi nato coi primi viaggi interstellari e in fase di enorme sviluppo, ora che gli umani si erano diffusi su undici pianeti, ognuno dei quali era stato programmato per esseri viventi molto diversi dagli umani. Madre era l’undicesimo e ultimo pianeta a diventare una colonia e le sue forme di vita autoctone presentavano una caratteristica piuttosto interessante: tutte, vegetali o animali che fossero, possedevano un identico tratto di DNA, come se discendessero tutte da un antenato comune, col quale avevano mantenuto buoni contatti genetici. Una teoria che non si poteva escludere del tutto, al momento.

Per questo, le uniche istituzioni lakshmite a risentirsi davvero per quarantena e conseguente blocco furono le università; più nello specifico, le facoltà universitarie di archeologia ed exologia, mentre le altre facoltà si limitarono a un vago e poco convinto sostegno, in nome della libertà di ricerca e cose simili, ripescate alla bisogna dal calderone dei luoghi comuni. Un sostegno più convinto venne da quanti sarebbero stati curiosi di indagare la presunta contaminazione ambientale, ma anche in quel caso non si andò oltre le parole di circostanza e le pacche sulle spalle, scuotendo la testa.

Tutto ciò non interessava minimamente Matteo, che invece cercava notizie sugli avvenimenti nella zona mediterranea, ma le comunicazioni ricevute al centro culturale erano blande in quel campo, il che poteva forse essere interpretato come un buon segno. Nessuna nuova, buona nuova, giusto? A Matteo avrebbe fatto maggiormente piacere qualche informazione reale, invece di doversi affidare a proverbi, ma per il momento non aveva avuto molta fortuna.

«Io comunque sarei curioso di saperne di più su questa contaminazione,» disse Steve Dingledine, sistemandosi meglio nella sedia. Aveva davanti una tazza di qualcosa che poteva passare per caffè, a uno sguardo distratto, ma che alle papille gustative ricordava soltanto quanto fosse difficile trovare caffè vero, su quel pianeta. Caffè terrestre, almeno.

«Per me è solo una scusa, non esiste nessuna contaminazione,» pontificò Roger Snyder, che sedeva di fronte a lui e giocherellava con un bicchiere di una qualche bevanda locale. «Avranno motivi ben più seri, per non volere altri lakshmiti fra le palle. Probabilmente stanno preparando qualcosa, là su Madre, e devono tenerlo segreto.»

«Le contaminazioni ambientali non sono da sottovalutare. È già successo anche su altri pianeti, per cui i precedenti ci sono e ben documentati. Ricordi le spore di Indra? Le abbiamo studiate proprio quest’anno, in facoltà, anche se è un argomento che sfiora soltanto noi exologi. Era più che altro per darci un esempio di cosa può succedere, quando si introduce una nuova varietà in un ambiente che non è adatto a supportarla. Potrebbe essere successo qualcosa di analogo anche su Madre,» concluse Steve, con le smorfie di incertezza e alzate di spalle che accompagnano spesso affermazioni su cui si è incerti, soprattutto quando lo si vuole manifestare ai propri interlocutori.

«E quindi questi archeologi lakshmiti avrebbero portato spore di funghi su Madre?»

«Era solo un esempio, non va preso alla lettera. Potrebbero essere stati altri microorganismi, di un qualche tipo. Per questo sarei curioso di saperne di più. Tutto ciò che è stato reso noto, almeno fino a oggi, è che ci sarebbe stata una moria di mosche, su Madre. Ma per cosa? Boh.»

«Non proprio una moria,» lo corresse Maelle Prsic, che occupava la terza sedia a quel tavolo. «Non sono state così tante. Almeno in proporzione, è ovvio.»

«Lo so, e se proprio vogliamo fare i pignoli, non si tratta neppure di mosche, ma solo di una forma di vita locale che, all’interno del proprio ecosistema, occupa una nicchia analoga a quella delle mosche terrestri. Data anche una generica somiglianza di tratti, le chiamiamo mosche per comodità, proprio come parliamo di pesci per gli abitanti degli oceani di Lakshmi e altre colonie, anche se non sono poche le differenze tra questi pesci e quelli terrestri. Siccome però vivono in acqua e sembrano essersi evoluti lungo direttrici simili a quelle seguite dai colleghi terrestri, li chiamiamo pesci. Lo so che non è stata tecnicamente una moria, ma il numero di esemplari morti è stato comunque elevato, a quanto affermano i comunicati ufficiali. Dunque, per non complicare troppo le cose, ho scelto di utilizzare il termine moria, per descrivere il fenomeno.»

Alla fine della lunga tirata, Steve Dingledine svuoto la tazzina di pseudocaffé, con apprezzamento quasi nullo. «È solo per essere precisi, ovviamente,» aggiunse. «Niente di personale.»

«Dopotutto, se cammina come un’anatra, starnazza come un’anatra e nuota come un’anatra, la puoi anche chiamare anatra,» filosofeggiò Roger Snyder, agitando nell’aria il bicchiere. «Giusto?» chiese a Steve, il quale si strinse nelle spalle senza rispondere.

Maelle Prsic li guardò male e basta, per una volta forse a secco di argomentazioni per ribattere. Si girò poi verso il quarto occupante del tavolo, che era rimasto silenzioso fino ad allora. «E tu? Niente da dire, barbaro letterato?»

Matteo aveva seguito il dibattito con l’entusiasmo di chi attende il proprio turno dal medico. Aveva sperato in notizie che non erano arrivate, per cui non aveva molto altro da fare, lì, a parte spendere un poco di tempo e fingere di essere a proprio agio in compagnia di quei tre, che erano i terrestri a lui più noti lì a Varshi, adesso che Bogdan era tornato a casa. Conoscenti, a volte colleghi di lavoro, ma mai e poi mai li avrebbe definiti amici. Erano... persone più o meno della sua età, con cui faceva passare il tempo, quando si trovava al centro culturale.

«Mah, non me ne intendo molto,» rispose, scrollando le spalle. «Ma come hanno fatto a sapere che sono stati proprio i lakshmiti a portare quella contaminazione?»

«Le contaminazioni non si portano, non è il verbo corretto da utilizzare,» lo corresse Steve. «A ogni modo, quelle mosche avevano avuto qualcosa a che fare con gli archeologi lakshmiti, o così dicono. I dati ufficiali probabilmente se li saranno scambiati i governi dei pianeti, ma nei notiziari non è stato spiegato molto. Per questo sono curioso, come ho già detto più volte.»

«Come hai già detto troppe volte,» disse Maelle. «Ma ti senti, quando parli? “Sono curioso! Sono curioso! Sono curioso!”, in continuazione. Sembri uno di quei vecchi giocattoli, che ripetevano la stessa frase, ogni volta che tu gli facevi qualcosa.»

«Non esiste contaminazione, è solo una scusa, vedrai.»

Matteo sospirò. Potevano anche essere una compagnia interessante, anche se doveva ancora trovare qualcuno che lo affermasse, ma quei tre sapevano essere piacevoli come una colite, quando erano assieme e avevano una buona scusa per punzecchiarsi. Se almeno quella sera si fosse fatta vedere Indira, lui si sarebbe potuto risparmiare quella tavolata, ma invece no, aveva scelto di rimanere a studiare con gli altri. Buon per lei e peggio per lui.

A Matteo non era del tutto chiaro perché Indira avesse scoperto tutto questo interesse per la Terra e il centro culturale, anche se ne poteva sospettare almeno una possibile ragione, ma di recente aveva spesso deciso di accompagnarlo, alla sera. Non che lei facesse molto, di solito: se ne stava lì seduta, sorseggiando qualcosa e seguendo i notiziari dalla Terra, chiacchierando di tanto in tanto di quel che capitava, ma era sempre una compagnia piacevole. Più delle alternative, di sicuro.

È cominciato col messaggio di Bogdan, si disse Matteo, mentre intorno gli altri tre continuavano a battibeccare su scemenze assortite. È cominciato col messaggio di Bogdan e la storia di incidenti sulla Terra. Nella zona nordamericana, ma soprattutto nella zona mediterranea. A casa mia.

Una storia rimasta senza seguito. Dopo ciò che aveva raccontato Bogdan, Matteo aveva cominciato a seguire con attenzione (o anche solo a seguire, cosa che prima non faceva) gli scarni notiziari che raggiungevano il centro culturale. Erano pochi, erano brevi, erano irregolari e ti lasciavano con più domande che risposte, ma erano qualcosa. Peccato che parlassero quasi sempre di politica, per lo più interplanetaria, e di come cambiassero di volta in volta le alleanze e i rapporti di forza. Il che era arabo, almeno per Matteo. Nonché noioso.

E parlare di ciò che succede a casa? No, eh? Magari a qualcuno potrebbe interessare, soprattutto se è a svariati anni luce di distanza e ha una famiglia che lo aspetta, laggiù. Ma gli affari domestici non trovavano la via dei notiziari, in apparenza, a meno che non fossero incidenti davvero grandi, e quelli si augurava che non accadessero. Non nella zona mediterranea, almeno.

«Oltre alla quarantena, però, mi piacerebbe sapere qualcosa di ciò che succede sulla Terra,» provò ad accennare, immaginando come sarebbe stato accolto dagli altri tre.

«E cosa vuoi che succeda, sulla Terra?» disse Maelle. «È un mortorio, ormai. L’unica cosa di cui ci possiamo ancora vantare è l’arte. Quella non manca e porta sempre novità. Gli eventi, però...»

Arte, già. Come il mirabolante Maestro Uris e le sue fantasmagoriche sculture, con cui Maelle gli aveva ammorbato l’anima, mentre lavoravano all’allestimento della famosa mostra. Ora più che mai si sentiva pronto a prendere tutta l’arte e metterla da una bella parte, senza specificare quale parte fosse e di chi. Che tipo di incidenti c’erano stati nella regione mediterranea? Bogdan vi aveva solo accennato, nel suo messaggio, e sembrava che fosse poca cosa. Averne una conferma, però...

Ma non l’avrebbe avuta, non lì e non quel giorno: su questo non aveva dubbi. Così abbandonò la sala, mentre i tre dibattevano ancora di aria fritta e si divertivano a punzecchiarsi a vicenda, senza il buon gusto o l’onestà di ammettere il divertimento. Stava solo perdendo tempo, tempo che avrebbe potuto impiegare in maniera migliore studiando per gli esami estivi. Eppure, l’attrazione del centro culturale, quella noiosa e cadente scatola di mattoni, restava troppo forte. Quella, e la promessa mai mantenuta di sapere qualcosa sulla sua casa.

«Faresti davvero meglio a studiare per gli esami, invece di venire qui ogni sera,» gli disse Indira, in occasione di un’altra visita al centro, diversi giorni dopo. Si era presentata anche lei, quella volta, e il clima era decisamente migliorato, almeno per Matteo. Nel peggiore dei casi, aveva una scusa per non sedersi al tavolo coi soliti, una scusa che valeva anche davanti alla propria coscienza, o a quello che poteva essere spacciato come coscienza.

«Ma mi piacerebbe sapere qualcosa di più su quegli incidenti. Sono successi proprio nella zona in cui abita la mia famiglia, nel caso non ti fosse chiaro.»

«Mi è chiaro, ma evidentemente non si è trattato di nulla di grave, altrimenti Bogdan te lo avrebbe detto, no? O non ti fidi più di lui?» Indira gli indirizzò uno sguardo da maestra che parla al bambino più stupido della classe. Quella sera aveva scelto un trucco lieve, come al solito, e i capelli pettinati all’indietro, come non al solito. Matteo si chiese se su Lakshmi potesse avere qualche significato, la sua pettinatura. Presumibilmente no. Era una idea stupida.

Stupida invece non era stata la sua obiezione, che però non gli bastava. Sarebbe servita anche una qualche notizia, oltre alla logica, ma di notizie non ne arrivavano. Quella sera, poi, avevano ricevuto soltanto il notiziario terrestre destinato a Rudra, pianeta distante solo pochi anni luce da Lakshmi: il notiziario per Lakshmi non era disponibile, sfavorevole la posizione astronomica, in quel periodo, e difettose pure le comunicazioni interstellari, in quei giorni. Haha. Una serata persa, in breve.

«Se almeno si fosse fatto sentire di nuovo, con qualche dettaglio...» borbottò Matteo, scuotendo la testa e fissando il tavolino, coi due bicchieri e un contenitore pieno di cose che, su Lakshmi, erano spacciate per salatini, almeno in apparenza.

«Sarà impegnato col nuovo lavoro, pure lui. Non so quanto abbia da fare un planetologo, al vostro Ufficio per la Colonizzazione, ma lui è il nuovo arrivato e probabilmente gli avranno rifilato un qualche corso di addestramento, o robe simili. C’è quasi sempre qualcosa del genere, per quanto ne so,» concluse Indira, stringendosi nelle spalle.

«Esperta di lavoro? Non mi pare che qui su Lakshmi se ne faccia molto.»

«Spiritoso... Il lavoro c’è, ma è organizzato in modo molto diverso rispetto a pianeti primitivi, come il tuo. A ogni modo ne aveva accennato Bogdan, prima di partire, ma non gli ho fatto domande. Non me ne fregava niente, sai com’è.»

Poteva immaginare, in effetti. Dalla Terra aveva ricevuto tre messaggi, dall’inizio dell’anno: due li aveva spediti Kemala ed erano inutili, pieni di domande e richieste di spiegazioni sulle abitudini e le usanze terrestri, mentre il terzo era il famoso messaggio di Bogdan, che era servito solo a stuzzicare il suo appetito. Per il resto, silenzio. Come stava Davide? Bene? E come stava la mamma? Sempre a lavorare come un mulo, o come una scema? Mistero.

Non lontano da loro, Steve, Roger e Maelle continuavano a discutere del sesso degli angeli, sospesi tra un poco di insano complottismo, ipotesi sulle contaminazioni ambientali e lamentele sul declino generale e generico della Terra, complicato dalla scomparsa delle mezze stagioni. Nell’ambiente semivuoto del bar, le loro voci viaggiavano liberamente, ospiti non graditi a tutti i tavolini occupati. I pochi tavoloni occupati.

«Che ne pensi?» chiese Indira, accennando ai tre poco distanti. «Anche tu pensi al complotto, per la storia della quarantena?»

«Francamente non me ne può fregare di meno. Se hanno messo una quarantena, dovrà pure essere successo qualcosa, no? Che senso avrebbe bloccare i collegamenti tra due pianeti per niente?»

«Qualcosa di tanto grave, da richiedere un blocco totale tra Lakshmi e Madre?»

«Ma boh... Magari non è stato poi così grave, ma ci hanno marciato un po’ sopra, anche se non so perché mai dovrebbero averlo fatto. Voglio dire, che contatti ci sono tra Lakshmi e Madre? Giusto qualche studioso, niente di più. Ok, magari ne hanno approfittato per dare più spazio ai terrestri, con questa scusa, ma in fondo chissenefrefa, se permetti.»

«Non hai un senso civico, eh?» sorrise Indira.

«L’ho lasciato a casa, in valigia non ci stava.»

«Considerata la storia della vostra Terra, però, non sarebbe strano se fosse davvero così. Partire da un evento da niente e montarci sopra una tragedia, per strapparne un qualche vantaggio economico o far approvare leggi che danno più potere di controllo... Sì, è un’abitudine terrestre, direi.»

«Guarda che sei terrestre anche tu. Da dove credi che siano arrivati i tuoi antenati?»

«Umana, non terrestre, grazie. Anche se siamo arrivati tutti dalla Terra, ormai siamo qui da qualche tempo, abbiamo costruito una nuova società e siamo diventati lakshmiti.»

Matteo scrollò le spalle. «Comunque, lo facevano anche i tuoi antenati, quindi dovresti parlare di nostra abitudine, anziché di vostra. Sarebbe più corretto. E poi scusa, perché continuate a studiare la storia terrestre, se adesso non siete più terrestri ma lakshmiti? Sulla Terra non ci fanno studiare la storia delle colonie. Quella te la puoi sorbire all’università, semmai, se scegli studi specifici.»

«Perché voi siete barbari e incivili, no?» rispose Indira sorridendo. «Scherzi a parte, è perché non è che abbiamo molta storia, di nostro. Sono due secoli e mezzo che la nostra società esiste e nel primo periodo si è preoccupata solo di sopravvivere e diventare autosufficiente, sul piano alimentare e su quello energetico. Non è che sia successo un granché. Possiamo memorizzare le date del primo insediamento, della prima fabbrica, della prima centrale energetica, quando il tizio A è arrivato nel posto B, cosa ha scoperto, eccetera eccetera. Tutto ciò che abbiamo fatto finora è stato espanderci e crescere: non abbiamo disturbato nessuno e nessuno ci ha disturbati. Non è che si accumulino molti eventi storici, così. Non c’è storia, se non ne ammazzi qualche vagonata.»

«E quindi vi rifate studiando gli eventi della Terra.»

«In mancanza di meglio, sì. Il grosso della storia umana, finora, è stato sulla Terra: le nostre colonie spaziali sono solo il capitoletto di appendice, a fine libro. Dovrai aspettare che ci sia almeno una guerra tra due o più pianeti, prima che i nostri fatti ricevano l’onore di essere promossi al livello di storia. Fino ad allora, saremo solo gente che vive per i cavoli propri.»

Il che, a ripensarci, assomigliava abbastanza a quanto gli aveva detto un anno prima il presidente Jarkovska: la Terra è la storia, il passato, il vecchio. E i coloni vogliono che sia così, è quello che sono abituati ad attendersi da noi. «Mi auguro che non stiate sperando in un incidente diplomatico con la Terra, adesso, per la vostra guerra interplanetaria che vi farà entrare nella storia,» disse.

Indira sbuffò. «Solo un idiota spererebbe in qualcosa del genere. No, quello che non voglio è che i rapporti tra Terra e Lakshmi peggiorino, ma pare proprio che sia quello che vogliono molti dei tuoi governanti. Sono loro che se ne sono usciti con la storia della quarantena, blocco dei collegamenti e così via. Sembra solo una scusa, per cambiare i rapporti di forza tra i pianeti.»

«Ma anche voi li vorrete cambiare, no? O almeno qualcuno di voi, tipo quelli che sono interessati a studiare Madre. Li ho sentiti lamentarsi, perché i posti andavano quasi tutti ai terrestri.» Era quanto si potesse avvicinare a parlare di Kemala, senza fare il suo nome. Lei sì avrebbe voluto cambiare le regole, a proprio vantaggio. E adesso era sulla Terra e a breve avrebbe tentato di infilarsi su Madre, violando chissà quante leggi e trattati. Ma era un pensiero sgradevole e lo cancellò.

«Noi non siamo un popolo che ama il cambiamento e le novità. Abbiamo trovato la nostra giusta sistemazione e adesso vogliamo solo mantenerla. Vogliamo che niente cambi. Siamo una civiltà di tradizionalisti, vedi? Se ci lasciate continuare come siamo, non sentirete neppure una lamentela da Lakshmi, questo te lo posso assicurare.»

«Vallo a dire al nostro ministro degli esteri, allora. O all’Ufficio per la Colonizzazione, già che ci sei. Tanto adesso c’è Bogdan che ci lavora: un contatto lo hai, no?»

«Come planetologo neoassunto! Sarà l’ultima ruota del carro e comunque non è certo uno di quelli che si occupano di politica interplanetaria. Non è né un politico né un diplomatico: è uno scienziato, più o meno, e starà tutto il giorno a lavorare in un qualche ufficio, presumibilmente davanti a uno schermo o roba simile. Non proprio la leva giusta, per cambiare i rapporti tra due pianeti, no?»

La conversazione si trascinò ancora per un poco, passando dai problemi politici a Bogdan, alla sua vita sulla Terra, alla vita sulla Terra in generale e ad argomenti vari ed eventuali. Alla fine uscirono dal centro culturale e si ritirarono, senza aver concluso alcunché o scoperto qualcosa di nuovo. Il che era più o meno quanto accadeva ogni altra sera: si usciva sperando in qualche notizia, si tornava a mani vuote. Cosa stava combinando Davide, sulla Terra?

La sera del Sessanta di Primavera, anche quell’anno, al centro culturale ci sarebbe stata la serata speciale, che era un anniversario, o qualcosa di simile: Matteo non lo aveva ancora scoperto, anche perché non si era mai preoccupato di chiedere. Avrebbe fatto molta differenza? Era la ricorrenza di qualcosa, festeggiavano qualcosa e al centro ci sarebbe stata la classica sceneggiata all’antica, per fare contenti i visitatori. Tutto il resto era interessante quanto un vespasiano intasato.

La presidente Jarkovska aveva annunciato che, per quell’anno, la manifestazione si sarebbe svolta in chiave minore, visti i perduranti attriti diplomatici tra alcuni settori dei due pianeti: celebrazioni troppo fastose o sgargianti sarebbero potute suonare come una provocazione, o almeno come una dimostrazione di cattivo gusto. In chiave minore! C’erano state anche feste in chiave maggiore, in passato? Matteo trovava difficile crederlo, ma evidentemente era così.

«Niente di così fastoso, sia chiaro,» gli spiegò Roger Snyder. «Non credo nemmeno che conoscano la parola, da queste parti, ma al mio primo anno era stata un po’ più... come dire... vivace. Non così ingessata come quella che hai visto tu, l’anno scorso. Ma è stata comunque una rottura di palle.»

Matteo gli credette sula fiducia. Fosse come fosse, almeno quella sera non lo avrebbero costretto a vestirsi da paggetto e i suoi compagni avevano preferito restarsene a casa, o uscire per i fatti propri. L’esperienza precedente non doveva essere stata così positiva. Inoltre, pioveva. Anzi, diluviava.

In piedi accanto all’ingresso, poco prima dell’apertura ufficiale, Matteo ammirava quanto fossero sgradevoli le condizioni meteo e si chiedeva, con nobile distacco, quanta gente avrebbe avuto voglia di sfidarle, per godersi le patetiche rappresentazioni che il centro aveva preparato. Pochissimi, a suo modesto parere. Nessuno, almeno su un pianeta sano.

La pioggia era intensa, battente, rimbalzante, così calda che poteva quasi vedere il vapore alzarsi dal manto stradale, in una vaga nebbiolina ad altezza caviglie. Non che fosse davvero vapore, di questo si sentiva quasi certo: per quanto calda, la pioggia non lo era così tanto. Però... forse lo era quanto bastava, per generare un qualche tipo di foschia, dove colpiva il suolo ben più fresco. O una roba simile: le sue competenze meteorologiche e fisiche erano inferiori a quelle di un attaccapanni, ma la noia generale lo stimolava a inventarsi spiegazioni, per far passare il tempo.

Perché era sempre un problema far passare il tempo, lì al centro. Nelle sere normali, almeno, potevi sederti nella sottospecie di bar che avevano, assieme a qualche altro studente terrestre, e guardare i notiziari, commentare le novità, lamentarti di lezioni e acciacchi e insomma fare quello che tutti i vecchi fanno, radunandosi al bar: tirare sera, quando la sera sembra non voler mai arrivare. Ma quel giorno c’era la festa e avrebbero dovuto aiutare. Con entusiasmo. Con gioia. E pioveva.

«Quest’anno è arrivata prima,» disse Roger, fermandosi lì accanto. Fuori, la pioggia assomigliava ormai a una doccia dimenticata aperta e la strada era vuota, fin dove si poteva vedere.

Matteo si girò verso di lui. Roger fissava la strada bagnata come se fosse una offesa personale, coi capelli lunghi e luccicanti che già cominciavano a incresparsi di umidità. Sembrava un topo con la permanente. «Che cosa è arrivata prima?»

«La stagione delle piogge,» gli rispose. Matteo annuì senza capire. «L’anno scorso l’hai scampata, non si è fatta vedere,» continuò l’altro, «ma quest’anno è arrivata prima. Mai sentito parlare?»

Matteo scosse la testa. «No, non credo. Non che io ricordi, almeno. Magari qualcuno me ne avrà anche parlato, ma...» e agitò una mano nell’aria, accanto alla propria testa.

«Volata via, già. Beh, eccola!» Roger indicò le fitte colonne di pioggia, che colpivano la strada. «Ci toccheranno altri dieci, quindici giorni così, vedrai. Prima piove, poi smette, poi ricomincia, poi di nuovo smette, e si va avanti fino all’estate, più o meno. Non arriva tutti gli anni, dicono, ma quando arriva è una martellata sulle palle.»

Matteo annuì, entusiasta come pochi. «E ovviamente hanno scelto proprio questo periodo, per fare la loro festa, qui al centro. Invoglia gli spettatori, senza dubbio.»

«Qualcosa ci devi pur mettere, per riempire il tempo. E poi è un qualche anniversario, no? Mica ti puoi spostare la data, solo perché la sfiga ha deciso che in quel periodo debba sempre piovere.»

«Ma anniversario di cosa, a proposito?»

«Boh. Di qualcosa. Non che me ne freghi molto.»

Su quel punto Matteo era d’accordo. Un anniversario valeva l’altro, in fondo, e se nessuno di quelli che frequentavano il centro si ricordava che razza di anniversario fosse, era evidente che non era il più importante degli eventi. E nemmeno il secondo o il decimo.

«Non grattatevi la pancia, voi due!» chiamò Maelle, da qualche punto alle loro spalle. «È così bella da guardare, la pioggia?»

«Come una statua di Uris,» non riuscì a non rispondere Matteo, ben conoscendo le conseguenze. E le conseguenze arrivarono, con tanto di interessi: per il resto della serata, a ogni occasione, Maelle continuò a provocarlo e rompergli le scatole in generale, criticando i suoi gusti letterari, deridendo la sua scarsa o nulla attrazione per le arti figurative, ironizzando su ogni cosa che lui dicesse o facesse e insomma si rese simpatica come quella amabile zanzara che ti ronza attorno alla testa, alle tre di notte, in agosto.

La festa al centro culturale, poi, fu tutt’altro che un successo. Ben riuscita, certo, e ben organizzata, su questo non c’erano dubbi; peccato solo che si fossero presentati quattro gatti in croce, a essere molto generosi coi conteggi. Il tempo, ovvio: chi poteva aver voglia di uscire, con quel diluvio? Ma la leggera tensione tra i due governi aveva contribuito, anche su questo non c’erano dubbi.

«Me lo aspettavo,» disse il presidente Jarkovska a fine serata, «Ma è sempre un dispiacere doverlo vedere di persona. È anche un peccato, con tutto il lavoro che avete fatto.» Mormorio di assenso dai vari lavoratori e volontari del centro. Annuì anche Matteo, pur limitandosi a un vago borbottio.

Volendo guardare al lato positivo, come decise di fare mentre si cambiava e si preparava a sfidare il diluvio, per tornare all’alloggio che divideva con Sharma, quell’anno non ci sarebbe stata neppure la temuta uscita per locali, a fine spettacolo, che la volta precedente gli era valsa una sbronza tuttora impossibile da ricordare. Niente Chakra a scegliere il posto, niente Chakra a consigliargli sempre nuove bibite, niente Chakra a far ridere gli altri, perché lasciassero bere in pace il piccolo Matteo... niente Chakra, insomma. E niente notizie dalla Terra, ma a questo era ormai abituato. Una serata tranquilla, dunque, a tratti noiosa.

Poi aprì la porta per uscire e Chakra era lì, luccicante di umidità e di pioggia riflessa.

«Ho pensato che fosse il caso di venirti incontro, per prepararti spiritualmente,» disse, sorridente ma meno del suo solito. A guardarlo meglio, un esperto lettore di espressioni avrebbe forse determinato che Chakra era addirittura serio, con retrogusto di preoccupazione. Matteo non era però un esperto lettore di espressioni, ma neppure un dilettante lettore di espressioni: tutto ciò che fece, dunque, fu grugnire e storcere la bocca, come davanti a un cattivo odore, o un cattivo spettacolo. O anche a una cattiva compagnia, che era un esempio ben più pertinente.

«Prepararmi spiritualmente per cosa? Vuoi farmi ubriacare anche stavolta? Ti avverto che non berrò niente offerto da te. Non mi fido.»

«Sai sempre portare un raggio di sole nel mio povero cuore malato,» disse Chakra. «Davvero, la tua fiducia e la tua confidenza mi abbagliano, luminose come sono.»

«Sei venuto qui solo per deridermi?»

«Sono venuto qui per prepararti spiritualmente, come ho detto, e sono serio.» Adesso la sua voce lo sembrava davvero, seria. Non molto, ma decisamente più del solito. «C’è un casino che ti aspetta ed è meglio per te se ci arrivi preparato. Almeno avrai il tempo per inventarti una scusa.»

«Che casino, scusa?»

«Andiamo a parlarne da qualche altra parte, è meglio.»

Ne andarono a parlare in un locale poco distante, abbastanza tranquillo e parecchio deserto. Oltre a loro due, c’era solo un altro tavolino occupato, dove sedevano tre uomini di mezza età o giù di lì, aria seria e un buon numero di bicchieri vuoti disseminati davanti a loro. La generale penombra e un vago odore di incenso, o di qualcosa che assomigliava all’incenso, ne faceva una parodia perfetta di locale da congiurati, aromatizzato alla blanda criminalità domestica.

«Ricordi il discorso che avevamo fatto, tempo fa, quando c’era quel tricheco che ti seguiva?» gli chiese Chakra, dopo che ebbero ricevuto la prima ordinazione. «A proposito, il tricheco non si è più fatto rivedere, vero?»

«No, non si è più fatto rivedere. Dalla fine dell’inverno, direi. Sparito di colpo: prima c’era, poi non c’era più.» E io lo avevo quasi dimenticato, aggiunse tra sé. Grazie tante per avermelo ricordato.

«Ricordi di cosa avevamo parlato, dunque? No, dalla tua faccia direi che non lo ricordi. Ok, te lo rinfrescherò io. Controllo totale, tutti spiano tutti, sorveglianza autogestita...»

Sì, adesso cominciava a ricordare. Era un’altra di quelle cose che, seppure non dimenticate, si erano lasciate seppellire dalla sabbia del tempo e arrugginivano negli strati più bassi della sua coscienza. Un luogo dove le avrebbe abbandonate molto volentieri. «Sì, ricordo: la versione lakshmita di uno stato di polizia, no?» gli rispose, cercando di riordinare il marasma di memorie: nel mucchio c’era di sicuro quella di cui Chakra gli voleva parlare, adesso. Come trovarla?

«Non la metterei in termini di stato di polizia, ma va bene così. Ricordi la tua preoccupazione su chi potesse sorvegliarti? Ti chiedevi, e mi chiedevi, se davvero ci fosse qualcuno interessato a seguire le tue azioni e io ti suggerivo di essere il meno interessante possibile, così da annoiare ogni eventuale spione. Questo lo ricordi, vero?»

«Sì, lo ricordo, e non mi pare di avere avuto una vita molto interessante, negli ultimi tempi. Me ne sarai accorto penso. Non che prima fosse molto più interessante, se è per questo. Non lo è mai stata, in effetti, almeno dal tuo punto di vista.»

«Non ne ho mai dubitato. Eppure qualcuno che ti spiava c’era davvero. Forse anche più di uno, non lo so, ma uno di sicuro. E, sorpresa sorpresa, ha scoperto che hai trovato un fantastico modo nuovo per complicarti la vita e comportanti da perfetto irresponsabile. Non lo avresti mai detto, eh?»

Così era arrivato. Il momento in cui tutta la storia di Kemala sarebbe uscita e lo avrebbe messo nei casini, con gli amici e forse anche con la legge. Sicuramente anche con la legge. Non sapeva se per le strambe norme in vigore su Lakshmi le sue azioni potessero essere considerate favoreggiamento all’immigrazione clandestina, o falsificazione di identità, o come cavolo si chiamassero tutti i reati di quel tipo; sapeva però che gli sarebbe stato chiesto di assumersi la responsabilità delle proprie azioni e delle proprie scelte e quello era decisamente lakshmita.

«Ok, chi è questa persona che mi spiava?»

«Questo lo lascerò scoprire a te. Sappi solo che, al rientro nel tuo alloggio, ti dovrai sciroppare una lunga discussione con qualcuno, che quasi sicuramente si concluderà con una predica e uno sguardo ferito, da cucciolo preso a calci. Se hai qualche balla a tua difesa, ti conviene prepararla adesso ed essere pronto a usarla al primo colpo.»

Matteo sospirò. «Sicuro che non ti sei sbagliato?» chiese, senza convinzione ma tentando lo stesso.

«È arrivato giusto stasera un messaggio per te. Al tuo alloggio. In lakshmita. Dalla Terra. Conosci molte persone che possono spedirti un messaggio in lakshmita dalla Terra? E no, mi dispiace dover fiocinare subito le tue speranze, ma il mittente non è Bogdan. Quanti altri mittenti potenziali restano adesso? Hai tutto il tempo che vuoi per rispondere, anche perché non ne devi rispondere a me.»

Non a lui, ma alla sua balia, ovviamente. Sarebbe stata una sera lunga, molto lunga, sgradevolmente lunga. E alla fine di quella serata, che cosa avrebbe trovato? Niente di bello, poco ma sicuro. «Ok, sono spiritualmente pronto, andiamo pure,» disse infine.

Andarono con un risciò, sotto la pioggia che continuava a essere battente, come lo era stata fin dal tramonto o forse anche qualcosa prima. Percorsero in silenzio il breve tratto di strada, Chakra con un vago sorriso, Matteo con una molto meno vaga nube di depressione che lo avvolgeva. E arrivati all’alloggio, proprio sulla soglia, ecco Sharma che lo attendeva. A braccia incrociate. Serio come di rado lo aveva visto, in precedenza.

«È proprio il caso che parliamo,» disse, quando Matteo fu sceso dal risciò. Il salotto lì all’ingresso della residenza era deserto, a parte loro tre. Dovunque fossero gli altri, quel momento e quel tempo appartenevano soltanto a loro, nel bene o nel male. Chakra li guardò per un attimo, poi salutò e se ne andò, alzando le spalle. Rimasero soltanto Matteo e Sharma, e l’incessante scroscio della pioggia a garantire la peggior colonna sonora degli ultimi due decenni.

Entrarono nella loro stanza a testa bassa, in silenzio. E parlarono.