Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 27

Erano passate quasi tre settimane dalla partenza, quando Madre apparve per la prima volta sugli schermi del Teatro di Oklahoma, o più precisamente sugli schermi della nave appartenente al Teatro su cui viaggiava Davide Kori. Era soltanto un punto luminoso, uno sputo di pixel colorati nel nero sconfinato dello spazio, ma per Davide e tutti gli altri neocoloni fu un momento storico lo stesso. Si erano lasciati alle spalle il proprio pianeta e le vite che avevano vissuto là, per lanciarsi in quella che, a tutti gli effetti, era un’avventura senza ritorno, perché il biglietto del Teatro era di sola andata, e adesso potevano guardare in faccia il luogo che li avrebbe ospitati per il resto della loro vita, dopo averlo fantasticato e basta. Guardavano in faccia il futuro, in un certo senso.

E il futuro era un punto di luce intensa, non distante dal suo sole.

«Così, quella è Madre,» disse Davide Kori, novello Lapalisse incollato allo schermo, come molti altri attorno a lui. Aveva pensato spesso e a lungo ai propri compagni, in viaggio, chiedendosi come fosse andata, se Zeke fosse riuscito col suo progetto o se lo avessero arrestato (o peggio), ma ogni memoria degli Isolazionisti sbiadiva, adesso, mentre osservava Madre. Mentre osservava dal vivo il suo primo pianeta alieno, che non sarebbe rimasto alieno ancora per molto.

Aveva davvero partecipato alle riunioni, assieme ad Amir e gli altri? Aveva davvero discusso di una serie di attentati, da coordinare tra la varie cellule, per destabilizzare il governo terrestre? Certo, doveva essere successo, perché altrimenti lui non sarebbe lì, adesso, ma tutti quei giorni erano un film proiettato all’estremità sbagliata di un telescopio. Giorni reali, certo, ma giorni che sembravano appartenere a un’altra persona, una di cui lui aveva solo sentito parlare. Il che in parte era vero, se si voleva essere pignoli: quella era stata la vita di Davide Kori, un Isolazionista, mentre lui adesso era Bruno Kitzis, aspirante colono in viaggio verso Madre. Sempre meglio ricordarlo, per sicurezza.

«Certo che è Madre! Cosa credi che sia, un asciugamano spaziale?» gli rispose Olaf Selke, da un punto alla sua destra. Era un ragazzo poco più grande di lui, come età, ma molto più grande di lui come dimensioni: una scrivania accanto a un armadio, così li descriveva Tunde, scherzando ma non troppo. Ma Olaf era una brava persona, nonché suo vicino di alloggio. Si erano conosciuti il primo giorno, all’ora di pranzo (o cena? A Davide non era ancora chiaro come funzionasse il tempo sulla nave), quando Olaf aveva quasi rovesciato il proprio vassoio in testa a Davide. O a Bruno Kitzis, come si era presentato subito dopo, in un dialogo di scuse incrociate. Da allora, quel ragazzone dai capelli quasi bianchi e un sorriso a quaranta denti lo aveva adottato, trascinandolo nel proprio gruppo di amici. Che Davide lo volesse o meno.

«Beh, non credo che saprei distinguere un pianeta dall’altro, da qui,» disse Davide. «Sai com’è, non è che i puntini siano molto diversi, da lontano...»

«È Madre, è Madre, non ti preoccupare. E domani ci parcheggeremo i nostri culi, vedrai!» La pacca con cui sottolineò la frase fece tremare Davide, che strinse i denti e annuì. Non aveva ancora deciso quale fosse l’aspetto peggiore di Olaf, se la sua delicatezza pachidermica o il suo accento del nord, cantilenante, ma entrambi diventavano poco piacevoli, se assunti in larghe dosi.

«Domani. Poi ci spiegheranno loro dove andare, giusto?»

«Più o meno,» intervenne Sebastian Hahn, un altro membro del gruppo in cui Olaf aveva trascinato Davide, durante il viaggio. A differenza di Olaf, però, Sebastian era alto e magro, con una barbetta tagliata in modo strano e una matassa di capelli ricci e castano chiaro. Stesso accento, ma sembrava uscito da un covo di artisti da strada, invece che da una fucina degli dèi. «All’arrivo avremo tutte le informazioni che ci serviranno, ma immagino che per un po’ ci terranno assieme, tanto per abituarci al nuovo mondo e spiegarci come funzioni. Poi, ognuno per sé.»

«Ci divideranno per mandarci nei posti in cui hanno bisogno di noi, vedrete. Altrimenti, perché tutte le domande sulle nostre capacità e le nostre specializzazioni? Dovranno pur servire a qualcosa.»

A parlare era Tunde Bohr, quella delle scrivanie e degli armadi, che aveva forse l’aspetto più civile di tutto il gruppo, perché sembrava proprio ciò che era: una ragazza appena uscita dal liceo, che aveva scelto di prendersi una laurea molto speciale. Studiare? Lasciamolo agli altri! Colonizzare un pianeta è molto meglio. Davide era d’accordo, perché in fondo aveva fatto la stessa cosa anche lui. Da un certo punto di vista.

«Non ci divideranno, vedrai,» le rispose Sebastian. «È nel loro interesse che si formino gruppi, così sarà più facile collaborare. Magari ci spediranno come gruppo, ma non come singoli. Tanto, in ogni posto ci sarà lavoro per tutti. È un pianeta intero, guardalo!» e indicò lo schermo.

Lo guardarono, in silenzio. Si stava avvicinando, anche se sembrava sempre nello stesso punto. Tra qualche ora ci saremo anche noi, pensò Davide. Prima che Matteo partisse, l’idea di andare su un altro pianeta non lo aveva mai sfiorato, neppure come sogno d’infanzia. Sulla Terra stava bene, era un luogo che conosceva e lo spazio sembrava così nero e lontano... Invece eccolo lì, a trenta anni luce da casa, su una nave piena di sconosciuti, con un nuovo mondo che lo attendeva. Nello spazio anche lui, alla fine, come Matteo e come quell’Ercole Cori che era stato suo padre, ma che lui non aveva mai conosciuto. E, come suo padre nel racconto di Zeke, anche lui sarebbe finito su Madre.

No, non lui, si corresse. Ci sarebbe finito Bruno Kitzis ed era meglio che se lo ricordasse, se voleva evitare ogni possibile guaio. Davide Kori era rimasto sulla Terra, a fare qualunque cosa stessero facendo gli altri Isolazionisti. Nascondersi o marcire in galera, con ogni probabilità. Al centro di reclutamento si era presentato Bruno Kitzis, sulla nave era salito Bruno Kitzis e su Madre sarebbe sbarcato Bruno Kitzis.

«Comunque, vedrete che resteremo assieme,» diceva Tunde. «Siamo partiti come un gruppo e lo resteremo anche all’arrivo. Da soli non possiamo combinare niente su un pianeta, ma assieme sì.»

«Ma io non sono partito con voi,» disse Davide. «Mi avete raccolto per strada. Conto lo stesso come membro del gruppo?»

«Ma certo che sì,» gli rispose lei. «Ormai ti abbiamo adottato, no?»

«Non ti lasciamo andare, altrimenti chissà cosa ci combini!» rise Olaf, accompagnando la frase con una nuova pacca a Davide. «Tu vieni con noi perché sei uno di noi. Capito? Altrimenti la prossima volta non ti beccherai in testa un vassoio, ma qualcosa di peggio, se non ti controlla qualcuno.»

«Se a te va bene, ovvio,» corresse Tunde. «Non sei costretto, ma a noi farebbe piacere. Più siamo e meglio ce la caviamo, giusto? O almeno credo. Spero.»

A Davide andava benissimo. La cosa che più lo aveva spaventato, al momento della partenza, era proprio essere lì da solo. Non era mai stato da solo, sulla Terra, e non gli piaceva esserlo. Aveva avuto suo fratello Matteo, prima, e i suoi amici, come Amir. Alla fine, aveva avuto un intero gruppo attorno a sé, quando si era messo con Zeke Boodie e gli Isolazionisti. Essere da solo, invece, era tutta un’altra storia. Una brutta storia, una storia pessima. Una storia che non faceva per lui. Da solo era vulnerabile, da solo non aveva un tetto sopra la testa.

Così, a bordo, si era lasciato trascinare da Olaf Selke, accettando la sua compagnia irruenta, perché Olaf aveva qualcosa di cui lui sentiva il bisogno. Aveva un gruppo, che lo aveva accompagnato in viaggio. Un gruppo di cui adesso faceva parte anche Davide. Era bello pensare che sarebbe rimasto una parte di quel gruppo anche una volta atterrati su Madre, che non lo avrebbero scaraventato da solo su un pianeta sconosciuto. Perché sì, è vero, Zeke gli aveva lasciato un incarico, e lui stesso si era trovato una propria missione da compiere, sul pianeta, ma sapere di avere un gruppo attorno a te, su cui contare, era ancora più importante di tutte le missioni dell’universo. Almeno, per Davide funzionava così.

«Ci sarò, ci sarò,» disse. «Finché mi volete, ci sarò.»

«E noi ti vogliamo,» concluse Tunde, sorridendo. «Sei il più giovane, ormai sei la nostra mascotte. E poi il tuo accento del sud ci mancherebbe, giusto?»

Vero o non vero, nel gruppo di Olaf provenivano tutti dalla regione nordeuropea, e si sentiva. Lui, il mediterraneo Davide, era l’unico intruso e anche in quel caso si sentiva, nell’accento prima ancora che nelle abitudini. Era anche il più giovane, in effetti, anche se non c’era poi grande differenza: chi più chi meno, roteavano tutti attorno ai venti anni ed erano anche il classico gruppo di giovani che, non contenti della loro vita, cercano la fortuna sotto altri cieli, prima che lavoro, abitudini e famiglia arrivino a inchiodarli in una qualche città. Pionieri del futuro, che viaggiavano nello spazio invece che su strade polverose. Era anche un po’ come essere di nuovo con Matteo e i suoi compagni di liceo, quando lo avevano scortato all’ascensore.

Olaf Selke era stato un giovane meccanico, Tunde Bohr una giovane diplomata, Sebastian Hahn un giovane disoccupato, piuttosto bravo nei lavori manuali (o così sosteneva lui). Niente di definitivo, soltanto un primo bozzetto a matita, brutta copia di ciò che un giorno sarebbero potuti diventare. Un profilo di futuro, che avevano cominciato a scrivere ma poi abbandonato, per diventare coloni dello spazio. Il bozzetto cancellato, la brutta copia stracciata, le prime righe della storia date alle fiamme. Cosa sarebbero diventati, adesso? Davide a volte ci pensava, ma cercava di non farlo: erano pensieri a boomerang, che lo avrebbero costretto a pensare anche a se stesso.

Perché cos’era lui, in fondo? Un niente. Se gli altri erano stati almeno un bozzetto, lui era ancora una fumosa e vaga idea nella mente di qualcuno. Suo padre non lo aveva mai conosciuto, la mamma era morta da pochi mesi, suo fratello era su un altro pianeta, perso a fare chissà cosa, di certo ormai plagiato dalla gente che gli viveva attorno, gli Altri. Lui, Davide, era un ragazzo disperso, che non aveva finito le superiori, aveva complottato con gli Isolazionisti e adesso era stato spedito via, su un altro mondo, a fare chissà cosa. Che cosa era, lui?

«Beh, domani avremo le nostre risposte,» disse Sebastian, alzando le spalle. Si piantò la mani sui fianchi e inarcò la schiena all’indietro, per farla scrocchiare. Tunde lo osservò con disgusto, come sempre. «So che ami molto questo suono,» le disse lui, «per questo non te lo faccio mai mancare.»

«Crepa.»

Risero, tornando verso le cabine.

Kemala Kexin, imbarcata col falso nome di Karla Koch, sedeva sul letto in una rilassatezza da rigor mortis. Era arrabbiata. Tesa e arrabbiata. Arrabbiata e tesa. E anche un poco impaurita, sì, lo doveva ammettere. Adesso che la destinazione era distante pochi passi, almeno in senso figurato, ecco che i ripensamenti arrivavano. I dubbi. I sospetti di aver fatto una scemenza. Cosa che Matteo le avrebbe confermato fin dal primo incontro o giù di lì, ma che solo adesso si affacciava all’orizzonte dei suoi pensieri. Ne aveva motivo, dopotutto.

Era stato un viaggio stressante come pochi, per lei. Con un falso nome, una falsa identità, una falsa storia e varie altre cose false, non si era potuta permettere molta vita sociale. Non se n’era proprio potuta permettere. Tutto il tempo chiusa in cabina, a ripetere ciò che sulla Terra aveva appreso sulla Terra, ad allenarsi a fingersi terrestre, a meditare sul suo piano e tutti i possibili intoppi, che erano più di quanti ne avesse visti su Lakshmi, mesi e secoli prima. E perché quella buffonata? Perché la Terra aveva deciso che su Madre c’erano già troppi archeologi lakshmiti e non ne volevano altri. Così, tutte le sue richieste ufficiali erano state cestinate, anche quelle a nome dell’università. E la storia della quarantena aveva solo peggiorato la situazione.

Partire per la Terra. Fingersi terrestre. Imbarcarsi col Teatro di Oklahoma, come colona terrestre. E tutto per poter accedere a Madre, un pianeta quasi deserto che avrebbe dovuto accogliere a braccia aperte ogni nuovo abitante. Invece, accoglieva solo i terrestri; il resto della galassia poteva andare a farsi friggere all’inferno. Simpatici, niente da dire. E adesso la sua avventura stava per concludersi, nel bene o nel male. Era nervosa a sufficienza da sradicarsi le unghie a morsi.

Perché dovevano essere proprio lì le rovine? Se lo era chiesta almeno seicentotredici volte, ma non c’erano risposte. Le rovine erano lì, su Madre. Punto. Erano lì perché la civiltà che aveva edificato le attuali rovine, o meglio ciò che era diventato oggi una rovina, si era sviluppata proprio su Madre. La prima civiltà extraterrestre che fosse stata scoperta dall’uomo. Si era estinta da circa tre o quattro milioni di anni, ma aveva lasciato svariati resti sepolti su quel pianeta. Resti preziosissimi. E come potevano negarle il diritto di studiarli? Erano un patrimonio dell’umanità, non solo del frammento di umanità che abitava sulla Terra!

Giusto, in linea di principio. Restava il fatto, però, che Madre era una colonia terrestre, apparteneva al territorio terrestre e il governo terrestre poteva farci quello che voleva. Incluso distruggere le rovine, se proprio avesse voluto. Certo, in quel caso gli altri pianeti si sarebbero fatti sentire, ma non lo avrebbero potuto impedire, non per vie legali. Questo era il punto. In più, lei aveva violato la legge, usando una falsa cittadinanza. Kemala sospirò, fissando il pavimento metallico.

Cosa avrebbe dovuto fare, adesso? Il piano iniziale consisteva nel raggiungere la Terra, viaggiare da lì fino a Madre fingendosi terrestre e poi, sul pianeta, svelare la propria identità e annunciarsi come archeologa lakshmita, chiedendo che le fosse concesso di rimanere lì e unirsi agli altri archeologi, che costituivano una vera e propria comunità. Lo aveva messo a punto assieme a Matteo Kori, su Lakshmi (anche se lui sembrava piuttosto distratto mentre lei gliene parlava, in realtà, e aveva dato un contributo pressoché nullo) e, sebbene forse debole nel finale, le sembrava un buon piano.

Non lo sembrava più, adesso che era quasi arrivata. Adesso che Madre era davanti a lei, la parte finale del piano non era soltanto debole: era supremamente stupida, una bambinata, una roba che si poteva accettare in un fumetto, o in un film con più effetti speciali che trama. Nella realtà? No, non riusciva a immaginare una combinazione di eventi che avrebbe portato il suo piano a funzionare.

Fosse stata solo archeologa, forse qualcosa si sarebbe potuto aggiustare. Ma archeologa e lakshmita era una combinazione perdente, al momento. Ai lakshmiti era vietato l’accesso a Madre, per quella storia di contaminazione ambientale che nessuna fonte aveva ben chiarito: insetti morti in seguito al contatto con agenti patogeni portati dagli archeologi di Lakshmi, o giù di lì. Puzzava di balla anche a tre chilometri di distanza, ma così era e finora nessun brontolio lakshmita aveva convinto la Terra a rimuovere la quarantena. Governo di molluschi.

Una possibilità era continuare a fingersi terrestre, fino alla rimozione della quarantena: vivere per un po’ come colona e poi ritornare al piano originale, una volta sparita quella immensa rottura di scatole del blocco agli accessi lakshmiti. Ma ci sarebbe riuscita? Sarebbe riuscita a fingersi terrestre così a lungo? Perché potevano volerci mesi, prima che qualcosa cambiasse. Ne dubitava. No, era più che sicura di non farcela. I controlli al Teatro di Oklahoma erano stati blandi, quasi nulli, ma al loro arrivo sulla stazione orbitale sarebbe stata tutta un’altra storia, di sicuro. Avrebbero scoperto che la sua identità era falsa.

Che cosa le sarebbe successo, sulla stazione di Madre? L’avrebbero arrestata già in orbita, oppure avrebbero atteso che fosse scesa dall’ascensore spaziale? Prima o dopo l’avrebbero arrestata e lo aveva messo in preventivo fin dall’inizio. Mi arrestano come clandestina, io protesto, interviene la professoressa Choi e ne facciamo un bel caso interplanetario. Nel piano originario, tutto si sarebbe poi dovuto risolvere in un qualche modo, ma la quarantena aveva complicato il piano originario e rafforzato la posizione terrestre, che sarebbe stata più che giustificata a respingerla.

Dovrò contare sulla professoressa Choi, si disse. Lei sa che domani arriveremo e sa anche che, se io non mi farò sentire, sarà perché qualcosa è andato storto.

L’appendice al suo piano prevedeva, in quel caso, che la professoressa Choi Jaewon, sua relatrice di laurea e sua complice in quella follia, si mettesse in contatto con l’ambasciatore lakshmita sulla Terra, per informarlo e chiedergli di intervenire. Una specie di polizza di sicurezza, che Kemala si era premunita di inserire: era senza dubbio pazza, per essersi infilata in quella situazione, ma pazza non significa sempre sprovveduta. Col suo pianeta ad appoggiarla, aveva qualche speranza in più di piegare la testardaggine della Terra. Forse. Sperabilmente.

Adesso che Madre era comparsa sullo schermo, però, non ne era più così sicura. Adesso cominciava davvero a temere che tutto si potesse concludere in un carcere, su qualche mondo lontano dal suo, e l’ipotesi non era tra le migliori. Lakshmi l’avrebbe davvero appoggiata? O avrebbe lasciato che la Terra facesse ciò che voleva, in nome del principio di responsabilità? L’avventura le sembrava di minuto in minuto più simile a un azzardo che a una scommessa. Per Lakshmi sarebbe stato facile lavarsene le mani e scaricarla, in caso di bisogno: molto più che facile. Ha agito di sua spontanea volontà, consapevole dei rischi che avrebbe costo, e dunque è giusto che adesso ne paghi tutte le conseguenze. Quando avrete finito, rispeditecela pure, grazie. Ecco come avrebbe potuto rispondere Lakshmi e, sul piano giuridico, sarebbe stata una risposta legittima. Anzi, la risposta che chiunque si sarebbe aspettato. Perché mai l’avrebbero dovuta aiutare?

«Perché adesso è diverso,» rispose alla cabina vuota. «Perché stavolta non ci sono solo io, ma anche il blocco che la Terra ci ha imposto.»

Poteva andare? La cabina taceva e Kemala lo prese per un assenso. La politica interplanetaria non era il suo campo, né l’aveva mai interessata; anzi, diciamo che non ne sapeva proprio nulla. Sapeva però che c’era tensione tra Terra e Lakshmi, a livello di governi, quasi un braccio di ferro, e sapeva che nessuno dei due pianeti avrebbe accettato di cedere all’altro. Questione di orgoglio e prestigio, soprattutto, perché in realtà al novantanove per cento dei lakshmiti non poteva fregare di meno di Madre, e gli abitanti avevano accolto la quarantena con una scrollata di spalle. Chi ci vuole andare su quel letamaio primitivo? Nessuno, a parte una manciata di studenti.

La professoressa Choi le aveva spiegato che la Terra aveva già commesso un abuso, bloccando ogni scambio tra Madre e Lakshmi, o almeno così la pensava il governo lakshmita. Che non ci fossero poi stati molti scambi da bloccare era un altro paio di maniche ed era irrilevante. Avrebbe dunque potuto approfittare della situazione e spacciare anche il suo caso per un altro abuso della Terra nei confronti di Lakshmi? Difficile, certo, ma se proprio i due governi l’avevano presa come una sfida a chi piscia più lontano, forse...

«Però non ho niente da perdere e ci proveremo,» disse. «Ormai che sono qui, le proverò tutte, pur di arrivare alle rovine. Voglio studiarle e me le lasceranno studiare.»

Si alzò, decisa, e con la stessa decisione raggiunse il minibagno. Lo specchio le restituì un volto ben poco deciso, ma a questo poteva rimediare. Anzi, doveva rimediare. Era tempo di risistemare il suo trucco, forse per l’ultima volta: bastava che la credessero terrestre ancora per un giorno, cioè quanto restava prima dell’attracco alla stazione. Aggiungiamo anche il viaggio in ascensore, giusto per stare sul sicuro. Poi, coi piedi per terra, avrebbe potuto mostrare la sua vera identità. Si, avrebbe fatto così.

Si risciacquò il viso, poi cominciò a lavorare sul contorno degli occhi, come aveva imparato a fare durante i mesi passati sulla Terra. Erano il problema principale, gli occhi, perché sulla Terra un taglio come il suo pareva essere parecchio raro, ormai, e non voleva attirare attenzioni inutili. Il resto era a posto, inclusa l’altezza, che invece su Lakshmi l’aveva sempre distinta tra le amiche. E l’accento...

«L’accento è a posto,» disse allo specchio. «Vero?»

Qualunque fosse l’opinione dello specchio, non la conosceremo mai. Aveva imparato a correggere i toni che ogni tanto si affacciavano sulle vocali e aveva eliminato le gutturali che caratterizzavano la parlata lakshmita: la sua voce suonava un poco robotica, ma nel complesso era accettabile. Nessuno le aveva mai fatto osservazioni, né al lavoro né durante il colloquio all’ufficio del Teatro. Sì, poteva sembrare davvero una terrestre, una normale colona.

Peccato che fosse tutta una maschera.

«Ho recitato bene per mesi, reciterò bene anche nell’ultimo giorno che mi resta. E poi, vedremo sul palcoscenico, quando mi arresteranno.»

Pensò di sfuggita a Matteo Kori, che aveva quasi costretto ad aiutarla su Lakshmi. Era stato lui che le aveva parlato del Teatro, lui a correggerle la pronuncia e spiegarle come funzionasse la vita sulla Terra (un inferno costosissimo!), lui infine a dirle come truccarsi, per sembrare terrestre. Ci sarebbe andato di mezzo anche lui? Possibile, probabile, ma niente di serio. Nel peggiore dei casi, giusto una sgridata e un rimprovero alla sua balia, ma niente di più. Non era lui a rischiare qualcosa, nella situazione attuale.

Ma anche Matteo era lontano, adesso. A essere vicina era Madre, la sua meta, e il suo sogno che si poteva realizzare nel giro di qualche giorno. Studiare i resti di una civiltà aliena, studiare forme di vita che non erano umane e non avevano mai neppure conosciuto l’esistenza dell’uomo. Ecco cosa era Madre, per lei: la patria dell’unica altra intelligenza che fosse stata scoperta fino ad allora. Una intelligenza estinta, d’accordo, ma pur sempre una intelligenza. Cosa avrebbe avuto da insegnare, al genere umano?

«Lo saprò tra poco,» si disse, e sorrise allo specchio, che fu costretto a ricambiare.

Col passaggio delle ore, Madre divenne sempre più grande negli schermi. Da semplice punto di luce a biglia luminosa; da biglia luminosa a pallone; da pallone a disco, su cui si delineavano con un tocco leggero i volti dei continenti e il profilo delle coste. Era un mondo, adesso.

Prima comparve la stazione militare, sospesa sul luogo dei primi scavi, lo stesso luogo su cui erano scese le due spedizioni esplorative: quella fallimentare, di trentuno anni prima, e la seconda, dieci anni dopo, che aveva dato il via alla colonizzazione. Poco dopo quella militare, ecco le luci della stazione civile, sospesa sulla zona equatoriale del pianeta. Lì si fermavano le navi dei coloni e lì, quasi cinquantamila chilometri più in basso, erano sorte e stavano tuttora sorgendo le prime città.

La zona del primo approdo umano era oggi un’area militare, con la sola eccezione delle rovine. Kemala sperava di poterle vedere, ma già sapeva che non le sarebbe mai stato concesso: anche tra gli archeologi, solo pochi avevano il permesso di avvicinarsi a quel settore e tutti erano terrestri. Si sarebbe dovuta accontentare delle altre aree di scavi, che non mancavano.

«Purché mi lascino entrare,» aggiunse tra sé.

L’agitazione fu grande, sulla nave, quando il profilo della stazione prese forma dallo spazio e le luci verdi li accolsero, come un faro verso casa. Lì finiva il viaggio, lì finiva la loro vita da terrestri, e la nuova vita da coloni incominciava: una grande avventura, verso cui correvano con entusiasmo, incoscienza o disperazione, a seconda dei casi. Un mondo li attendeva e avevano abbandonato ogni cosa per raggiungerlo, puntando tutto sul futuro che vi avrebbero potuto trovare. Aspettavano, adesso, con le borse da viaggio accanto ai piedi, gli occhi attaccati agli schermi. Mancava poco, mancava poco.

Quanto poteva essere cambiata Madre, in quei venti anni dall’inizio dell’era coloniale? Avevano tutti ascoltato le storie del personale di bordo, uomini e donne del Teatro di Oklahoma che decine di volte avevano compiuto quel viaggio, scortando chissà quanti passeggeri prima di loro, ma erano storie vaghe, imprecise, perché in fondo neppure loro erano mai scesi sul pianeta. Loro viaggiavano da una stazione all’altra, caronti dello spazio, ma non scendevano all’arrivo. Era un onore riservato ai passeggeri, quello, se onore era davvero.

Era ricca, Madre? Certo che era ricca. E c’era cibo per tutti? Certo che ce n’era, per tutti e anche di più. E com’era l’aria? Fresca e ospitale, proprio come un giardino. E la terra, com’era la terra? Era fertile e accogliente, quello che serve per una colonia. E le città? Erano grandi le città? Non ancora grandi, non ancora, ma lo diventeranno. Qui sotto, all’arrivo, troverete tutto ciò che vi serve e anche di più. Chiedete e vi sarà detto. C’è una vera città, in fondo all’ascensore, e vi darà il benvenuto!

Le gente annuiva e sorrideva, credendo e non credendo alle risposte. Sapevano che erano esagerate, proprio come sapevano che non ci si deve mai fidare delle parole di un venditore, ma avevano già scelto il prodotto, lo avevano già acquistato, e adesso volevano soltanto sognare un poco, finché c’era spazio per i sogni. Adesso, prima di scendere sul pianeta.

Davide e i suoi amici ascoltavano, in parte credendo e in parte sognando, proprio come tutti gli altri viaggiatori, e ognuno aggiungeva ciò che avrebbe fatto all’arrivo. Era il gioco preferito dei coloni e loro vi partecipavano con entusiasmo, un sorriso e un’ombra di consapevolezza: la consapevolezza che era soltanto un gioco e che la realtà sarebbe stata ben diversa. Ma sognare si doveva pure, ogni tanto, e nessun momento poteva essere migliore di quello, quando il risveglio era a un passo.

«Un tuffo in piscina, ecco cosa farò!» «No, meglio in mare. Dicono che sia tranquillo.» «Meglio una lunga doccia, fresca e rilassante.» «Giù a bere tutto quello che troviamo, per dare il benvenuto a Madre!» «No, una corsa, per sgranchirmi le gambe. Non ne posso più di stare chiuso qui dentro.»

E così via, sotto gli occhi divertiti dell’equipaggio. Davide si sentiva più leggero, adesso, ma anche un poco preoccupato. La stazione militare gli aveva riportato il ricordo del padre, un padre mai visto né conosciuto, dal quale aveva ereditato ben poco. A parte Madre, certo. L’unica storia su suo padre, quel fantomatico Ettore Cori sparito prima che lui nascesse, gliel’aveva raccontata Zeke, alla morte della mamma. Era stato un militare, un tempo, e aveva servito su Madre durante la celebre seconda spedizione. Poi vi era tornato ancora, qualche anno dopo, e lì la traccia svaniva.

Avrebbe trovato qualcosa, lui? Un segno del padre, un segno qualsiasi che gli dicesse che sì, già un altro Cori era stato lì, un Cori con la ci nel cognome, invece della schifosa kappa lasciata ai figli. Lo avrebbe trovato? Davide non sapeva se valesse la pena di cercarlo, ma sapeva anche che sì, avrebbe cercato. Non sapeva cosa sarebbe successo su Madre, né a lui né al suo gruppo (gruppo! Che bella parola), ma lo avrebbe cercato. In fondo, da un certo punto di vista era lì apposta, no? O almeno, era la missione che si era assegnato lui, accanto a quella ricevuta da Zeke.

«Ma qualcuno di voi sa come funzionerà lo sbarco vero e proprio?» chiese a Tunde, in piedi accanto a lui. Guardava lo schermo, assieme agli altri, e assieme agli altri pareva persa in un mondo tutto suo, non necessariamente il mondo su cui stavano per scendere o un qualunque altro mondo della galassia abitata dall’uomo.

Tunde lo guardò e alzò le spalle. «Forse lo hanno spiegato, ma non mi ricordo. Come funziona lo sbarco, Olaf?» Gli tirò una manica, a sottolineare la domanda e sollecitare una risposta. La risposta venne, ma Olaf non si girò neppure a guardarla, immerso com’era nello spettacolo sullo schermo.

«La nave attracca alla stazione, ci fanno scendere, poi passiamo in una specie di posto, lì, del Teatro, dove ci fanno le vaccinazione e quella roba lì, lo sai anche tu. Poi ci mandano giù un po’ per volta, con l’ascensore. Lo ha detto coso, lì, come si chiama...»

«Parli di Coso, amico di Bagaglio, oppure di Coso, amico di Robo?» intervenne Sebastian. Il suo sorriso storto, abbinato al taglio della barbetta, lo faceva assomigliare in modo inquietante a una specie di pesce gatto. Davide si morse le labbra, per trattenere una risata che gli altri non avrebbero capito. Forse.

«Coso, amico di Robo,» rispose serio Olaf, poi rise. «Ma no, il tizio che va in giro con quella divisa argento, con gli stemmini sulle spalle e il disegnino sul petto. Hai presente, no?»

«Sì, ho presente, e credo che si chiami “Comandante”. Potrebbe anche non essere molto contento, se ti riferisci a lui come “Tizio”. Sai com’è, in certi casi può suonare poco rispettoso, per chi è nella sua posizione a bordo.»

Olaf sventolò via il commento, con un gesto di quel bisteccone che gli faceva da mano. «Quello lì, vabbè, hai capito chi è, insomma. Ha detto che potrebbe volerci parecchio e si è scusato. Non c’eri anche tu, quando abbiamo fatto la riunione?»

«Forse, ma nel caso non ero molto sveglio,» ammise Sebastian. «Mi viene sempre sonno, quando ho davanti un tavolo, con gente che parla. Deve essere una conseguenza del trauma che ho subito in epoca scolastica.»

«Quale trauma?» chiese Davide. Non aveva mai sentito parlare di traumi, non da Sebastian.

«La scuola. Traumatico, tutto quello studio.»

«Capisco perché eri disoccupato, allora,» commentò Tunde. «A ogni modo, eccoti la tua risposta,» disse, girandosi verso Davide. «Soddisfatto o rimborsato?»

«Diciamo soddisfatto, per adesso.»

Sospirò. Non gli avevano detto molto di nuovo, ma doveva accontentarsi. Dopotutto, tempo qualche ora e lo avrebbe scoperto lui stesso. Sullo schermo, Madre era ormai un disco luminoso che copriva tutto lo spazio davanti a loro, segnato dalle spirali biancastre delle nuvole, sotto a cui si scorgeva a tratti il marroncino della superficie. C’era anche verde, e molto azzurro, ma era il marroncino che lo colpiva. Non sembra un mondo molto allegro, pensò.

Il metallo della stazione scintillava e li attirava. Altre luci segnavano il percorso di attracco che la nave avrebbe dovuto seguire, fino al settore dominato dalla scritta “Teatro di Oklahoma”, impressa a lettere che, Davide ne era quasi sicuro, si sarebbero viste anche da uno dei due giganti gassosi che si erano lasciati indietro. Erano parecchio esibizionisti, quelli del Teatro.

Poco lontano, e attenta a non urtare nessuno, Kemala Kexin seguiva la manovra di attracco con la borsa da viaggio stretta al petto e lo sguardo di chi ha esagerato coi tranquillanti, volontariamente o meno. Non era il suo caso, anzi: la calma sonnolenta che cercava di mostrare era naturale, frutto di mesi passati in incognito, sotto falsa identità, a fingere e fingere ancora, sempre e comunque. Era il sistema migliore per coprire le stranezze, mascherandole con una stranezza ancora più grande, ma all’apparenza innocua. Sotto, però, c’era la tensione di chi sa che, di lì a poco, potrebbe trovarsi nel guaio peggiore di tutta la sua vita. O, detta in termini meno raffinati, nella merda fino alla fronte.

E mi ci sono infilata io, per mia scelta, pensò. Era vero e questo la incoraggiava. Le dava anche una certa speranza di poterne uscire vittoriosa, alla fine. Sempre che tutti avessero fatto la propria parte, sia su Lakshmi che sulla Terra. Ma ne valeva la pena. Pur di realizzare il suo sogno, valeva la pena anche di essere arrestata lì, su un pianeta straniero e quasi selvaggio, con tutto ciò che di negativo ne poteva seguire. Evitava di pensarci, ma si sentiva pronta anche in quel caso. O così credeva.

Perché aveva in testa una idea, da molto tempo. Quanto tempo? Non lo ricordava. Forse da quando era bambina, forse da prima ancora. Non era importante. A importare, per lei, era l’idea, l’idea che non erano gli unici, nella galassia. Opinione molto facile da sviluppare, quando sei nata su un pianeta che un tempo non apparteneva alla tua razza, ma che era già abitato da altre forme di vita, che non hanno mai conosciuto la Terra e mai la conosceranno. C’era vita ovunque, nello spazio, come qualsiasi astronomo, exologo, planetologo o comandante di nave avrebbe potuto confermare. La trovavi a un tanto al chilo. Ma non era quel tipo di vita a interessarle. Quella che sognava lei era una vita intelligente. Almeno per un dato valore di intelligenza.

Ci saranno altre persone, con cui posso parlare? Persone come noi, ma diverse da noi? Questo era il massimo che la sua mente bambina fosse riuscita a formulare, ma andava bene: centrava in pieno il suo problema. Vita intelligente. E la risposta era sì, c’era altra vita intelligente, o almeno c’era stata. C’era stata su Madre. Da quel giorno, aveva deciso che anche lei sarebbe andata su Madre; e se non c’era più quella vita, avrebbe parlato con le sue memorie. Le rovine, appunto.

Ci sarebbe riuscita.

«Dieci minuti all’arrivo.»

La voce incorporea risuonò in ogni angolo della nave, proprio come doveva aver risuonato in ogni angolo delle altre navi che li accompagnavano. Erano in sei, cariche di coloni e di attrezzature per le colonie di Madre, la nuova infornata di doni che la Terra portava alla sua sorellina appena nata, al pianeta che avrebbe accolto la sua gente. Che al pianeta piacesse, oppure no.

Un mormorio attraversò i passeggeri, poi si spense. Chi ancora non aveva finito di preparare la sua borsa da viaggio, ed erano pochi, si affrettò verso la cabina, per assicurarsi di non dimenticare nulla. Chi era già pronto, invece, scambiò uno sguardo coi vicini, strinse la borsa e si preparò alla leggera spinta dell’inerzia, all’arresto della nave. Alcuni sorridevano, altri ghignavano, altri non si sapevano decidere tra la gioia e la paura: un mondo nuovo, un mondo tutto loro, il mondo in cui sarebbero cresciuti, invecchiati e morti, si spera il più tardi possibile, grazie.

Un mondo che non era la Terra.

Per quasi tutti era il primo viaggio spaziale e per quasi tutti sarebbe stato anche l’ultimo. Kemala, la veterana di quella nave, con un viaggio da Lakshmi alla Terra in curriculum, poteva capire la loro tensione e la condivideva almeno in parte, anche se nel suo caso c’era un sovrappiù, che gli altri non avevano. Deglutì, guardò l’orario e strinse più forte la borsa.

Davide Kori si sentiva qualcosa bloccato in un punto incerto dell’esofago. Guardò a destra, verso Tunde Bohr, e la vide più pallida del solito, il che la rendeva simile a una mozzarella. Anche lei doveva avere qualcosa nell’esofago. Sebastian Hahn si masticava un labbro, con poco vigore, e gli occhi gli scattavano da un punto all’altro della sala, come a voler abbracciare tutto in una volta sola. Il più tranquillo era Olaf Selke, che torreggiava sui compagni e donava a tutti un sorriso, che poteva essere da saggio, oppure da idiota. A un certo punto cominciò a canticchiare tra i denti, con quella cadenza altalenante che accompagnava ogni sua parola.

«Cosa canti?» gli sussurrò Tunde, tra il perplesso e l’infastidito.

«Canta che ti passa,» rispose Olaf.

Davide li ignorò. Guardava invece la stazione, che si allargava davanti a loro, spalancando la bocca di metalli e sostanze plastiche, come a inghiottirli. E li inghiottì. Il basso ronzio dei motori, che per tre settimane li aveva cullati, si affievolì fino a svanire. Una scossa, un’altra scossa più lieve. Suoni metallici di qualcosa che scatta, o forse che si aggancia. Poi, il silenzio, seguito dalla voce.

«La manovra di attracco alla stazione è conclusa. Prepararsi alla discesa.»

Come avrebbero scoperto di lì a poco, nei quasi ventidue anni dalla seconda spedizione molte cose erano cambiate, su Madre. Il pianeta descritto dagli scienziati di allora, brullo e inospitale, resisteva nelle aree che la colonizzazione non aveva ancora sfiorato, ma era ormai un ricordo nel settore ai piedi della stazione orbitale. Era difficile scorgere oggi la “distesa piatta e polverosa, che correva da un orizzonte all’altro, sotto un cielo che per noi non provava nulla, né odio né interesse”, come era stata descritta nel diario del Consigliere Khaled Said, stimato membro della Società Interplanetaria di Archeologia, nonché scopritore del primo gruppo di rovine, nonché narratore di dubbio talento.

Se tornasse adesso su Madre, il Consigliere Said vedrebbe una distesa di campi coltivati, con fatica ma con frutto, separati da canali di irrigazione e siepi, per delimitare un possedimento dall’altro. La piatta pianura era adesso coperta da piccoli rilievi, poco più di tumuli, su cui posavano le cisterne e le pompe degli acquedotti, che rifornivano la zona. Il mondo che conosceva lui era arretrato oggi di parecchi chilometri, fuggendo dalla mano dell’uomo colonizzatore. Il risultato non sembrava ancora molto evoluto, d’accordo, ma i progressi erano stati notevoli.

E che dire del “mare grigio, che potevi setacciare per ore, senza che nulla più di una lumaca dei fondali o una sardina denutrita rimanesse impigliato nella tua rete”, di cui tanto si era lamentata la professoressa Kaya Farrell, quando assieme al Capo Responsabile Rafael Thoreau aveva scoperto le prime e uniche forme di vita superstiti? Lo avrebbe ancora riconosciuto, la professoressa? O forse sarebbe rimasta sorpresa nel vedere quanto bene si fossero adattate le alghe terrestri, per tacere delle nuove specie di pesci, che a centinaia erano state importate dalla Terra? Due o tre modifiche al loro DNA ed eccoli che nuotavano felici e si moltiplicavano con gioia ancora maggiore, tanto che le specie originarie rischiavano ormai l’estinzione.

Ma questo non era che l’inizio. In venti anni, il Teatro aveva trasportato oltre sette milioni di umani, i quali non erano certo rimasti a guardare. Avevano un mondo da costruire e si erano impegnati a costruirlo, sotto il controllo della Governatrice Maureen Rossi, che l’allora Direttore Leonardi in persona aveva nominato responsabile dello sviluppo della colonia. L’aveva sviluppata bene, almeno secondo le opinioni più diffuse.

L’agricoltura era stata la prima fase, per assicurare ai coloni l’autonomia alimentare necessaria, se si voleva davvero progettare qualcosa di stabile e duraturo. La Terra lo voleva. Così, per quasi otto anni il Teatro aveva trasportato sementi, macchinari, esperti agronomi, comunità intere di lombrichi e ogni altra cosa potesse servire allo scopo. Thoreau e Rossi avevano lavorato assieme e alla fine, a un prezzo alto ma non troppo, la terraformazione di Madre era cominciata.

Ma se la gente aveva bisogno di cibo da buttarsi in pancia, aveva anche bisogno di tetti sotto cui dormire. I primi insediamenti prefabbricati avevano esaurito ormai il proprio scopo e nuove case sorgevano: case vere, però, non scatole da scarpe troppo cresciute. Ai piedi del secondo ascensore spaziale, destinato alle navi civili, una città si era a poco a poco sviluppata, crescendo quasi da sola sull’onda dei nuovi coloni in arrivo. Era per tutti un punto di ritrovo, un centro, un luogo di aggregazione e di confronto; era ciò di cui avevano bisogno, tutti, per sentirsi davvero abitanti di un mondo e non braccianti in prestito.

In onore del Teatro, a nove anni dalla seconda spedizione era nata così Oklahoma City, capitale provvisoria di Madre.

Con la città erano arrivati i negozi e coi negozi era arrivata la prima, vera industria che il mondo avesse conosciuto, almeno negli ultimi quattro milioni di anni. Una industria alimentare, certo, che si occupava della lavorazione e della conservazione del cibo, ma era un inizio: il primo, concreto passo del pianeta verso il futuro. Adesso, pian piano, anche altre industrie si preparavano a sorgere, crescendo dai negozietti e dalle botteghe che riunivano le forze e le risorse, per produrre di più, per adattarsi alle richieste della gente. Perché altra gente continuava ad arrivare, dalla Terra. E nuove città sorgevano nei dintorni, più o meno grandi, più o meno disordinate.

L’energia era il vero problema. Se tutto il resto si poteva risolvere, magari col tempo e col lavoro, le risorse energetiche erano scarse, come scarso sembrava essere quasi tutto su quel mondo: solo terra e tempo erano risorse abbondanti, con giorni che duravano quasi trenta ore e un pianeta ancora quasi tutto spopolato. Lo aveva risolto la Terra, il problema energetico, almeno per adesso, tramite il suo Ufficio per la Colonizzazione, e una centrale orbitale era quasi terminata, nei cieli sopra Madre: una centrale che, nel giro di un anno, avrebbe garantito al pianeta tutta l’energia solare di cui aveva bisogno, almeno per il momento. E poi? E poi avrebbero provveduto loro stessi a fabbricarne altre, a mano a mano che la domanda fosse aumentata. La Terra forniva la prima spinta, ma poi toccava a Madre correre o cadere.

E Madre correva.

Nuove città erano sorte, oltre a Oklahoma City, e nuove strade per unirle, attraverso le distese di campi coltivati e fino alle sponde dell’oceano meridionale, ancora in attesa di un nome. Un giorno forse avrebbero attraversato l’oceano, verso altri continenti, ma quel giorno era lontano. Avrebbero dovuto riempire quel continente, prima di pensare al resto.

Gli umani si erano insediati nella fascia equatoriale del pianeta, la zona che sulla Terra sarebbe stata definita tropicale, e lì il clima era decente, caldo ma non troppo (non sarebbe mai esistito qualcosa come il “troppo caldo”, su Madre, o almeno così la pensava il Capo Responsabile Rafael Thoreau). Il clima sul resto del mondo, però, era più freddo e meno ospitale: ci sarebbe voluta una civiltà più forte e solida, prima di affrontarlo senza problemi. E poi, perché espandersi troppo? Avrebbero solo aumentato i costi energetici, senza averne in cambio alcun beneficio. Meglio procedere del proprio passo, un gradino alla volta, e restare uniti il più possibile. Solo così ci si poteva radicare su un pianeta sconosciuto.

Gli archeologi erano gli unici a essersi sparpagliati, per inseguire le zone di scavo e le rovine che si potevano trovare un po’ ovunque sulla superficie. Per questo, ufficialmente, anche le basi militari si erano distribuite in vari punti del pianeta: per sorvegliare i lavori, aiutare a localizzare nuove aree di interesse archeologico e presidiare anche i territori abbandonati. Che tutte le aree militari fossero in corrispondenza di una serie di pozzi, poi, era pura coincidenza, giusto?

Non che i coloni sapessero dei pozzi. I militari li avevano raggiunti per primi, avevano recintato i chilometri di terreno in cui i pozzi si spalancavano, quindi vi avevano edificato le proprie caserme e i vari edifici necessari alle proprie attrezzature. I pozzi stessi erano stati mimetizzati e coperti, per nasconderli alla vista di satelliti o altri guardoni indesiderati, amici o nemici che fossero.

Così, adesso, il quartier generale del presidio militare era in corrispondenza della stazione orbitale riservava a loro, ossia nel punto in cui le prime due spedizioni su Madre si erano fermate. Caserme sopra l’area coi nove pozzi, scavi archeologici a cinque chilometri di distanza, verso ovest, e ad altri cinque chilometri di distanza, ma verso nordovest, c’era il punto di discesa dell’ascensore spaziale, che li collegava alla stazione orbitale. Il triangolo delle Bermuda, come lo avevano ribattezzato per scherzo alcuni soldati. Da lì, nessuna notizia sui pozzi era mai filtrata, in oltre venti anni.

Su questo mondo, oggi, il Teatro di Oklahoma si preparava a sbarcare la nuova infornata di coloni. E molte cose sarebbero cambiate, forse.