Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 44

Attorno a Matteo Kori il tempo si arrotolava pigro, lento e polveroso. Un tempo fatto di lezioni e di studio, di camminate per le strade fresche di Varshi e ore interminabili in biblioteche, aule, mense e altri luoghi di perdizione. Un tempo che sembrava non passare mai, proprio mentre passava troppo in fretta. Un tempo senza scopo, perché senza scopo si sentiva il proprietario del suddetto tempo, ossia Matteo stesso, la variabile guida che ne misurava lo scorrere. Ammesso che il tempo scorra.

Era autunno, ma sarebbe potuta essere più o meno qualsiasi altra stagione. Che differenza faceva, in fondo? Una valeva l’altra, e una valeva nessuna. Dopo che Chakra gli aveva esposto e imposto un progetto insano e curioso, quel fantomatico anno sabbatico (ma sabbatico da cosa?) da spendere in giro a visitare altri mondi coloniali, ogni possibile urgenza residua era evaporata da Matteo. Sempre che una qualche urgenza ci fosse ancora, cosa di cui lui stesso dubitava.

Una volta aveva avuto un piano per il proprio futuro. Un piano rozzo e approssimativo, d’accordo, e fatto di molti balzi di fede, ma pur sempre un piano: studiare letteratura dei mondi coloniali lì su Lakshmi, laurearsi, tornare sulla Terra, lavorare come insegnante, fine. Così entusiasmante che la gente faceva la fila per fuggire, non appena lui lo esponeva, ma era un piano. Era il suo piano. A lui piaceva. Più o meno. Per un dato valore di piacere.

Poi c’era stato il viaggio a Nuova Kalighat, l’incontro coi due funzionati dell’ambasciata terrestre, la notizia che sua madre era morta e suo fratello era una specie di mezzo latitante su Madre, una spruzzata di paranoia che fa sempre bene e infine... E infine non aveva più un piano, perché quello originario presupponeva l’esistenza di una famiglia che lo attendesse, al ritorno a casa, ma adesso la suddetta famiglia non esisteva più, esplosa come un petardo, e lui cosa avrebbe dovuto fare?

Pensare a quello che voleva fare lui con la propria vita, gli aveva detto Chakra. Bello, ottimo, anzi fantastico. Peccato solo che Matteo non lo sapesse. Così alla fine Chakra gli aveva imposto di fare un anno di vacanza e lui aveva accettato. O non aveva rifiutato, il che è pressappoco la stessa cosa, se la si guarda dalla giusta angolazione. E adesso Matteo poteva soltanto lasciar passare il tempo in attesa della fine dell’inverno e della partenza per il viaggio, che aveva passivamente accettato di farsi imporre, qualunque cosa ci fosse di preciso e dovunque li avrebbe portati.

In almeno quattro o cinque occasioni, in mensa e all’università, aveva incrociato da lontano quello che era stato il suo gruppo di amici, fino alla primavera precedente, ossia Sharma, Indira e gli altri, ma sempre aveva cambiato posto, strada o semplicemente aveva simulato un improvviso, supremo interesse per qualcosa che si trovava nella direzione opposta e da cui non riusciva proprio a scollare gli occhi, ma pensa un po’ che bizzarra coincidenza, te lo dico io. Il che era stupido. Era stupido sia come comportamento che come idea. Era stupido soprattutto perché lui non era più un bambino da scuola elementare, ma uno studente al secondo anno di università, secondo tendente alla fine, e da una persona della sua età ci si sarebbe dovuto aspettare un comportamento più maturo, giusto? Non fare finta di niente, ma affrontare le persone con cui aveva un problema, discuterne e risolvere tutto in modo diretto, deciso, semplice, chiaro. Risolvere o almeno dissolvere. Giusto?

Aspetta e spera. Matteo sapeva di comportarsi da stupido; non avrebbe potuto non saperlo, non con Chakra che glielo ripeteva ogni volta che notava il suo atteggiamento. Sapeva che, se proprio si era stancato di loro (ma si era stancato di loro? E perché?), avrebbe almeno dovuto dirlo, dirlo chiaro, invece di giocare a nascondino. Ma non lo faceva. Non sapeva neppure cosa avrebbe dovuto dire. E poi, se lo attendeva un anno in giro con Chakra, non valeva neppure la pena di perdere tempo così, a risolvere eventuali problemi personali rimasti in sospeso, giusto? Tanto sarebbe partito a breve. Era meglio lasciare che fosse il tempo a dissolverli, invece di risolverli.

O forse no, forse erano solo scuse per svicolare e sgusciare, ma in fondo erano fatti suoi, no? Quindi non aveva niente di cui preoccuparsi. E senza preoccuparsi di niente, o almeno sostenendo con se stesso di non preoccuparsi di niente, Matteo Kori entrò al centro culturale terrestre, nel pomeriggio del cinquanta di autunno, e si preparò a un altro periodo di niente in mezzo alle solite facce, in un clima da ospizio polveroso, sentendo senza ascoltare i soliti scambi di battute pessime e gli eterni battibecchi tra altri studenti sfaccendati come lui, e poi e poi. Un entusiasmo da tagliarsi le vene.

Abbastanza a sorpresa, il pomeriggio non trascorse come lui aveva immaginato. Fu tutta colpa del notiziario, forse, o forse sarebbe successo ugualmente. Forse era nell’aria, o forse era scritto in quel posto in cui tutte le cose sono scritte, almeno secondo i teorici del destino e delle cose scritte. Forse erano tutte seghe mentali, come avrebbe dichiarato Chakra. In ogni caso, in principio fu il notiziario dei mondi coloniali, in versione ridotta per andare incontro alle capacità mentali degli spettatori. Il notiziario e la pagina di Varuna.

Erano i soliti, veramente. Matteo, Roger Snyder coi suoi lineamenti da topo e i capelli un poco più lunghi e un poco più luccicanti, Steve Dingledine che invece aveva cercato con poco successo di domare i capelli rossicci e renderli più presentabili, forse per la tesi in avvicinamento o forse per un barlume di amor proprio, infine Maelle Prsic con la sua testa da lattuga, che non aveva avuto alcuna mostra d’arte da preparare, stavolta, ed era stranamente mogia. Più indietro, nel locale, c’erano altre persone, giusto quattro gatti, e il posto era avvolto dalla classica aura di desolazione spirituale, che Matteo aveva percepito fin dal suo primo ingresso e che, in seguito, non lo aveva più abbandonato.

Fu in quel clima da mercoledì pomeriggio in un bar sport di provincia che il notiziario dei mondi coloniali lasciò cadere la storia del calamaro di Varuna, recuperato morto ma quasi intero dalla rete di un peschereccio locale e riportato a riva in condizioni ancora buone. Da un peschereccio di etnia estremo-orientale, si affrettò a specificare l’annunciatore. L’etnia era una questione seria, su Varuna. Molto seria. Quasi ridicola. Era probabilmente l’unico pianeta dove l’origine dei tuoi antenati più remoti avesse ancora una qualche importanza, a parte forse la Terra, ma la Terra era vecchia, era un mondo all’antica, lo sapevano tutti. Varuna no, Varuna era teoricamente moderno, ma la modernità non lo aveva vaccinato contro quella strana infezione, contratta chissà dove, che ancora imponeva di differenziare in base alle origini dei propri abitanti. Ma il punto non era il pedigree degli abitanti: il punto era il calamaro.

Calamaro per modo di dire. Li chiamavano così soltanto per un’affinità concettuale con gli animali terrestri. Come l’annunciatore procedette poi a spiegare, in uno di quegli inserti educativi tanto poco apprezzati dal pubblico dei notiziari, ma tanto apprezzati da chi li montava, il calamaro rinvenuto su Varuna era di grandi dimensioni, circa dieci metri tentacoli inclusi, ma ancora non si era giunti a determinare se fosse un esemplare grande o piccolo, giovane o vecchio. Aveva una testa affusolata, a forma di cono stretto, e sprovvista di occhi. I tentacoli erano quattordici, più un tentacolo centrale più corto, di funzione ancora ignota. E poi via, con la storia di tutti gli avvistamenti che c’erano stati fino ad allora, le testimonianze di marinai che sostenevano di averne incontrati di vivi, nel corso dei loro viaggi, le interviste a pseudoscienziati che esponevano varie teorie, e bla, e bla, e bla.

«Non vale neppure la pena di ascoltarli, » brontolò Steve qualche minuto dopo. «Loro per primi non sanno di cosa stiano parlando. Dovrebbero intervistare exologi veri, semmai, invece di catturare il primo fesso che passa con un cartellino di una università.»

«Sei anche esperto di calamari?» chiese Maelle. «Ma già, tu eri maniaco delle mosche, quando c’era la quarantena su Madre. Adesso ti sei dato all’ittica, finalmente. O sei anche tu un sommo esperto delle notizie del momento, come quelli che si fanno intervistare là?»

«I calamari di Varuna sono famosi. Mi sorprende che una come te non li conosca, davvero.»

«Cosa significa una come me, scusa?»

«Ascoltate, ma i calamari di Varuna sono quelli che si pensa siano intelligenti?» disse Matteo, in un tentativo di impedire la solita discussione inutile. Ricordava di aver sentito qualcosa sui calamari, o almeno su esseri strani che vivevano nei mari di Varuna, durante la vacanza a Bishapur: che fossero le stesse schifezze di cui aveva appena parlato il notiziario?

«I calamari sono intelligenti, sia su Varuna che su qualunque altro pianeta,» rispose Steve. «Quelli di Varuna sono ritenuti essere civilizzati, almeno sotto certi aspetti. È questa la differenza.»

«Calamari civilizzati!» sbuffò Maelle.

«Civilizzati, sì. Mancano ancora prove documentarie, ok, perché è piuttosto difficile condurre studi accurati sulle profondità in cui quei calamari vivono, ma è ipotizzato che abbiano costruito un tipo di civiltà sul fondale degli oceani di Varuna. Un qualche tipo di civiltà, almeno.»

«Sul fondale di un oceano la pressione è piuttosto alta,» disse Roger. «Sicuro che abbiano davvero potuto costruire qualcosa? È parecchio difficile anche produrre il fuoco, sul fondale di un oceano, e il fuoco è alla base di ogni tipo di civiltà, per quanto ne sappiamo noi.»

Steve scrollò le spalle. «Ogni tipo di civiltà di superficie, vorrai dire. E di civiltà di superficie vere e proprie ne abbiamo trovate soltanto due: la nostra e quella estinta su Madre. Un po’ poco per poterci costruire ipotesi su cosa sia necessario per definire una civiltà, non trovi?»

«Ci sono anche gli insetti di Svarga, se la metti su questo piano.»

«Ci sono anche gli insetti di Svarga, giusto, e neppure loro utilizzano il fuoco, vero? Quindi, come puoi vedere, il fuoco non è poi un requisito necessario per poter parlare di civiltà. Potrebbe essere un requisito necessario per parlare di tecnologia, questo te lo concedo, ma civiltà? No, non abbiamo prove sufficienti per affermarlo. La tua obiezione è pertanto respinta, per il momento. Ritenta, sarai più fortunato. O sfortunato, a seconda dei casi.»

«Calamari e insetti! E la prossima civiltà da cosa sarà formata? Da batteri?» Maelle rise. «Un poco di serietà, per favore. D’accordo fantasticare e usare le parole con una certa libertà, ma prima o poi si deve anche tornare sulla terra e attivare il cervello. Che civiltà vuoi che ci sia sul fondo del mare o nelle tane di insetti? Organizzazioni sociali sì, ok, quelle le accetto, ma civiltà?»

«Libera di accettare o rifiutare quello che preferisci. Quando i risultati degli studi condotti su questo esemplare saranno disponibili, allora probabilmente dovrai rivedere le tue opinioni,» concluse Steve con un mezzo sorriso. «Fino ad allora, divertiti pure, cara mia.»

Matteo sospirò. Niente di nuovo sul fronte occidentale. Qualunque cosa accadesse, e qualunque tipo di argomento o pretesto ci fosse, i magnifici tre del centro culturale finivano sempre a improvvisare il loro solito siparietto tragicomico. «A ogni modo non li hanno mai studiati direttamente, i calamari di Varuna? Voglio dire, capisco che è difficile, non so a che profondità vivano...»

«Almeno duemila metri, per quanto ne sappiamo.»

«Almeno duemila metri, ok, grazie Steve, ma voglio dire, ok, non li potrai studiare direttamente, se vivono a quella profondità, però...»

«Li puoi studiare direttamente, è che loro non vogliono.»

«Ah, ok, li puoi studiare direttamente anche a più di duemila metri di profondità, ma non lo fanno perché loro non vogliono. Cosa significa che loro non vogliono, scusa? Loro chi?»

«Loro i calamari. Non vogliono. O, per essere più precisi, non sembra che apprezzino molto essere avvicinati dai droni che finora sono stati utilizzati nelle esplorazioni subacquee su Varuna.»

«Scusa ma... spiegamela, per favore,» disse Matteo.

«Sì, meglio che lo spieghi anche a me,» aggiunse Roger. «E suppongo che anche la nostra amica Maelle vorrà la sua bella dose di spiegazioni, già che ci siamo.»

«Supponi bene, anche se non ho mai dichiarato di essere tua amica. Conoscente è già fin troppo, per i miei gusti. Cosa significa che loro non apprezzano i droni?»

Steve si sistemò meglio sulla sedia, per quanto fosse possibile migliorare la propria posizione su sedie che, in apparenza, dovevano essere state progettate per anatomie non umane. «Voglio dire, lo sapete che i droni sono stati utilizzati più o meno dappertutto per l’esplorazione dei fondali marini, no? Soprattutto sui mondi coloniali, dove la conoscenza delle specie autoctone era pressoché nulla e sarebbe stato troppo rischioso utilizzare mezzi con equipaggio umano. Sì? Bene, lo hanno fatto su Varuna, proprio come qui su Lakshmi, su Svarga, Rudra, Indra, eccetera. Almeno nei tratti di mare più vicini alla costa e in quelli che dovevano essere utilizzati dalle rotte commerciali e non. Il resto è ancora in gran parte inesplorato, per cui in effetti potremmo anche trovarci più o meno di tutto, se un giorno avremo il tempo di setacciare con cura...»

«Taglia, Steve. Va bene che non abbiamo altro da fare, ma passare un pomeriggio ad ascoltare la tua storia delle esplorazioni marine non coincide con la mia idea di divertimento,» disse Maelle.

«Ok, tagliamo. Comunque, dicevo che anche su Varuna hanno utilizzato i droni per esplorare i mari. E fin qui tutto bene, almeno nei pressi delle coste. I mari di Varuna, però, hanno la caratteristica di essere parecchio profondi, come media, e sono pieni di fosse oceaniche e roba simile, i dettagli non li so, non è il mio campo, io sono exologo, non oceanografo o geologo o altro, e...»

«Non divagare, che ti ho già detto che non ci interessa.»

«Ok, ok, allora, i mari sono estremamente profondi, di media, e così anche le esplorazioni nei pressi delle coste finiscono molto presto per diventare esplorazioni di abissi e roba simile. È così che sono stati trovati i primi calamari, capite? Droni che esploravano i dintorni delle coste sono scesi oltre la soglia che vi ho detto, cioè duemila metri. Hanno trasmesso alcune immagini, di cose con tentacoli e poco amichevoli, e subito dopo sono stati distrutti. Stritolati, pare. Dall’esame di alcuni relitti, poi, hanno determinato che a stritolarli erano stati esseri dotati di molti tentacoli, e tentacoli forti quanto basta per spezzare leghe metalliche costruite per reggere a pressioni enormi.»

«La tua civiltà di calamari superintelligenti, insomma,» disse Roger.

«Sì, proprio loro. Anche se subito non si sapeva che fossero superintelligenti o avessero un qualche tipo di civiltà, capisci? Erano solo cosi enormi, forzuti e un poco mostruosi, da film horror. Cugini di Cthulhu o giù di lì, per chi ha questi interessi.»

«Neanche adesso si sa che abbiano una civiltà, non lo hai detto prima? Non è stato provato.»

«Non è stato provato, vero, o almeno non in modo diretto. In modo indiretto, invece, abbiamo un certo numero di prove indiziarie. Tutti i droni inviati sono stati distrutti, indipendentemente da come fossero progettati o programmati, o anche da come fossero armati. Pare che abbiano provato anche con un paio di droni killer dell’esercito, ma pure quelli sono stati stritolati. Come niente, davvero.»

Matteo stava scoprendo nuove dimensioni di orrore marino che, misericordiosamente, fino ad allora gli erano rimaste celate. E lui si era fatto spaventare dai pesci di Lakshmi, che soffiano acqua? «Ma scusa, se su Varuna vivono affari tanto pericolosi e forti, perché lo hanno colonizzato? Colonizzato senza prima sterminarli, dico. Non mi pare molto sensato, no?»

«Perché quando i primi coloni sonno arrivati, nessuno sapeva che esistessero i calamari. Comunque devi anche ricordare che i calamari vivono solo negli oceani e anche lì soltanto a grandi profondità: la terra è sicura, proprio come lo è sugli altri pianeti colonizzati. E poi i calamari hanno attaccato i droni penetrati nel loro territorio, il che è normale: non sono usciti ad attaccare, ma si sono soltanto difesi da intrusi a loro sconosciuti. Non è diverso da quello che avremmo fatto noi umani.»

«Uhm. Io comunque non ci andrei su quel pianeta,» disse Matteo.

«Io invece non ci andrò proprio, senza condizionale,» disse Maelle.

«E sono tutte qui le prove indiziarie su una loro presunta civiltà?» chiese Roger. «Perché, se è così, mi spiace ma le trovo alquanto deludenti: difendersi da potenziali aggressori non mi sembra proprio un segno di civiltà, ma il normale comportamento di ogni specie animale.»

«Infatti, ma le prove indiziarie sono altre. Visto che studiarli direttamente è impraticabile, se non si riesce prima a convincere i calamari ad accettare i droni, gli exologi del posto hanno collaborato coi militari per studiarli indirettamente, attraverso satelliti, raggi, onde e altra roba che io non ti saprei spiegare. Non credo che la saprebbero spiegare neppure gli exologi di Varuna, per questo si sono fatti aiutare da esperti in altri campi. Comunque, negli anni hanno potuto mappare più o meno tutti i settori in cui i calamari sono concentrati e hanno disegnato una cartina dei loro territori. Che da un certo punto di vista si potrebbero anche chiamare stati, in effetti, ma non divaghiamo.»

«Hai divagato anche troppo,» disse Maelle. «Di questo passo sarà notte prima che tu ci abbia detto una sola parola per spiegarci perché li dovremmo considerare civilizzati.»

«Ci stavo arrivando, se voi non mi interrompeste di continuo. Comunque, ci sono edifici sul fondo del mare. È questo che hanno scoperto.»

«Edifici.»

«Cose che sembrano edifici. O almeno costruzioni. Potrebbero anche essere un prodotto accidentale della natura, d’accordo, ma la loro distribuzione e le concentrazioni di calamari in quelle zone fanno propendere per interpretare quelle strutture rocciose come edifici. O comunque il prodotto di attività intelligente e determinata, non uno scherzo della geologia o altro.»

«Ma potrebbero anche essere un equivalente delle dighe dei castori, oppure degli alveari, per quello che ne sanno i tuoi colleghi,» disse Maelle. «Non la definirei proprio una prova che i tuoi calamai abbiano sviluppato un qualche tipo di civiltà.»

«È una possibilità. E comunque gli studi sono ancora in corso.»

«Ti laureerai a fine anno, no? Unisciti ai tuoi colleghi e vai anche tu a studiare questa fantomatica civiltà subacquea di calamari costruttori di grandi edifici. Male che vada, ti farai una grigliata mista tutti i giorni,» rise Maelle.

«Non ho detto che voglio andare su Varuna a studiare i calamari, dopo la laurea: ho detto solo che sono interessanti. E comunque ho già il mio lavoro pronto, per dopo.»

«Davvero? Dove lavorerai?» chiese Matteo, sempre pronto a scattare non appena qualcuno parlava di progetti andati in porto e futuri già instradati e in via di sviluppo. Futuri come non era il suo.

«Beh, non è proprio un lavoro vero e proprio, però so già cosa farò dopo la laurea. È già deciso, in pratica. Ancora non mi pagheranno, ma ho buone prospettive. Dovrò fare un po’ di pratica, ma alla fine sono quasi certo che mi terranno a tempo pieno. Hanno bisogno di gente fresca, sapete.»

«E dove è che ne avrebbero bisogno? A zappare i campi?» rise di nuovo Maelle.

«No, su Madre. La specializzazione la farò là, presso il professor Thoreau. O almeno presso il suo centro di studi. Non so se avrà molto tempo per un nuovo arrivato, però sarò comunque nei paraggi, per cui è anche possibile che lo incontri di persona, di tanto in tanto.»

«Madre? Quindi alla fine andrai davvero a studiare le tue amate mosche,» disse Roger. «È il caso di berci sopra, non trovi?» E si mise avanti coi lavori, svuotando subito il proprio bicchiere.

«Non andrò a studiare le mosche, basta con questa storia! Comunque a fine inverno io mi laureerò e poi via verso Madre e tanti saluti a voi. A proposito, Roger, tu non ti dovresti già essere laureato? O almeno laurearti quest’anno, non so quanto duri il tuo corso.»

«La qualità dello studio non si misura con gli anni, lo sai. È importante essere consapevoli e certi di avere assimilato a fondo la materia, prima di procedere. Io sto portando avanti un piano di studi che si può definire come ambizioso, vedi, per questo non posso preoccuparmi del tempo, mentre dedico le mie energie a risultati più alti. È l’arrivo a contare, non la durata del viaggio,» concluse, con un dito puntato verso il soffitto e uno sguardo nobile proiettato al futuro. Nessuno dei presenti ebbe il coraggio di commentare.

«Su Madre... Mio fratello è finito a fare il colono su Madre,» disse Matteo, prima di ricordarsi che era meglio collegare il cervello e lasciare disattivata di conseguenza la bocca.

«Tuo fratello è andato a fare il colono su Madre? Si vede che ha voglia di lavorare,» disse Maelle.

«Ma non avevi già detto qualcosa del genere, un anno fa? Qualcosa su qualcuno che voleva partire, ma poi secondo te non ci sarebbe andato, o qualcosa del genere, non ricordo. Quando facevi tutte quelle domande sul Teatro di Oklahoma,» disse Roger, muovendo a casaccio una mano. Lontano da qualche parte sullo sfondo, nell’indifferenza totale, il notiziario concludeva la sua dose di novità sui mondi coloniali, questo e quello, e pure quell’altro ancora.

Matteo dragò la memoria, a recuperare i relitti di informazioni che aveva sparso un anno prima, ai tempi in cui era impegnato ad aiutare Kemala col suo stupidissimo piano fallimentare. Aveva detto che suo fratello minore era interessato a Madre, giusto? Una balla che si era dimostrata fin troppo reale, alla fine. Oh beh, tanto di guadagnato per lui, nel caso specifico. «Sì, infatti. Avevo cercato informazioni sul Teatro, perché me le aveva chieste lui, ma pensavo che alla fine non avrebbe fatto niente, sapete anche voi. È giovane, oggi vuole una cosa, domani ne vuole un’altra. Ma alla fine ci è andato davvero, pensa te. Ancora non ci credo neppure io.»

«Ah. Beh, ma dubito che lo incontrerò, mentre sarò là a specializzarmi. È più piccolo di te, giusto? Quindi sarà là come lavoratore generico, non so. Non avrà niente a che fare con le specializzazioni universitarie, o anche con lo studio della fauna locale,» disse Steve.

«No, beh, non penso proprio. Non è mai stato molto bravo a scuola, peraltro. Sarà a fare, non so, il muratore o il contadino, qualcosa del genere. Non lo vedrai mai, non pensarci proprio.»

«Ah, se lo dici tu... Com’è che si chiama, comunque? Metti che mi capiti di sentirlo nominare.»

«Davide. Davide Kori, ovviamente.»

«Oh, bene. Vedremo se lo incontrerò. Ma non penso proprio.»

«Non penso neanche io.»

«Non è una novità che non pensi, Matteo,» disse Maelle. «Comunque, Steve, alla fine te ne andrai su Madre davvero. Da un pianeta all’altro, senza neanche passare dalla Terra?»

«Dalla Terra ci passerò, per forza, ma non mi fermerò. Giusto un cambio di bagagli e roba simile. Il mio corso di specializzazione comincerà quasi subito dopo la laurea qui ed è un po’ un casino, sai, i calendari locali e tutto, ma almeno non si accavallano. Avrò sì e no due settimane da passare a casa, prima di dover ripartire per Madre. Tutto di corsa, insomma.»

«La nostra è una generazione di mosconi che sbattono da un pianeta all’altro, in fondo. Ora qui, ora là e mai che si fermino da qualche parte,» filosofeggiò Maelle Prsic la saggia. «Però in effetti non dispiacerebbe neppure a me andare a specializzarmi altrove, dopo la laurea. Agni, magari. Se parli di medicina e biotecnologie, è probabilmente il pianeta più avanzato, al momento. Ma non ci sono animali molto interessanti, per cui voi exologi lo disprezzate e lo evitate. Scommetto che non lo hai mai neppure considerato, pensando al dopo.»

«Certo che non l’ho mai considerato! Perché avrei dovuto? È una palla mostruosa. Con tutta la roba interessante che c’è su altri pianeti, perché mi dovrei andare a infognare in un mortorio che non ha una sola forma di vita curiosa, a parte forse qualche batterio intestinale e quelli li lascio volentieri a te, grazie? Sono tutte specie banali che più banali non si può.»

«Ma è per questo che hanno dovuto lavorare molto di più nelle biotecnologie rispetto ad altri mondi coloniali, capisci? La natura non aveva concesso molto, così ce lo hanno dovuto mettere i coloni.»

«Oh, va bene, vatti pure a specializzare là, se lo trovi interessante. Io me ne andrò su Madre, invece, e studierò perché tutte le forme di vita locali, siano animali o vegetali, sembrino essere imparentate tra loro. Chissà, magari sarò proprio io a scoprire l’antenato comune che si è evoluto in modi così bizzarri,» concluse Steve, sorridendo.

«Forma di vita che sarà un qualche tipo di batterio, probabilmente. Il batterio Dingledine. Sì, suona bene. Mi raccomando, così un giorno potremo vantarci di aver conosciuto una persona che ha dato il proprio nome a un batterio. Non succede spesso.»

E con l’ultima battuta diversamente divertente di Maelle la discussione si avviò infine verso la più attesa delle estinzioni. Attesa da Matteo, almeno. La notizia che un suo conoscente sarebbe finito su Madre, proprio dove suo fratello stava vivendo da quasi latitante (secondo i due tizi dell’ambasciata terrestre, quantomeno), non lo aveva entusiasmato molto. Vero, con un intero pianeta a disposizione le probabilità che Steve lo incontrasse, o anche solo sentisse parlare di Davide, erano molto vicine a zero, ma metti caso che quel deficiente di suo fratello combinasse qualcosa, eh? Non qualcosa nello specifico, ma qualcosa in generale. Qualcosa come quella cosa che lo aveva spinto a fuggire su un altro pianeta. Anche se era pressoché certo che non avrebbe mai più avuto a che fare con Steve, nel suo futuro, l’idea lo disturbava ugualmente.

L’idea continuò a disturbare Matteo fino alla sua uscita dal centro culturale, poi lasciò il posto a una diversa causa di disturbo, molto più vicina e pressante. Indira.

Fosse uscito di fretta, o almeno al trotto, Matteo le sarebbe andato a sbattere quasi addosso e tutto si sarebbe concluso lì, con un incontro che aveva cercato di evitare a lungo, domande fastidiose che aveva cercato di evitare ancora più a lungo, spiegazioni che non sapeva neppure da dove cominciare o dove arrivare, insomma tutta la paccottiglia da cui si era tenuto a distanza di sicurezza, aggirando, evitando ed eludendo il suo gruppo di prima. Se fosse uscito di fretta.

Matteo però non uscì di fretta, ma lentamente, quasi strascicando i piedi, mezzo perso in pensieri di ipotetici futuri incontri tra due persone che, un giorno non distante, avrebbero occupato uno spazio minuscolo su un pianeta molto grande. Pensava e si perdeva in mille pensieri, ed era lento, ed era sera, sera nuvolosa, poche luci, molte ombre, visibilità approssimativa, e Indira stessa era distratta, a parlare con qualcuno, con qualcuna, e così Matteo la vide per primo e si bloccò, ai piedi dei gradini di accesso al centro culturale. Si bloccò con tutto lo stile e la naturalezza di un animaletto peloso, di fronte ai fanali di un veicolo che lo ha sorpreso in mezzo a una strada di campagna.

Indira. Le aveva rivolto la parola per l’ultima volta più o meno a metà estate, o poco prima, non si ricordava la data esatta. Era stato quando le aveva detto che non sarebbe andato a Bishapur con loro e in quella occasione tutto si era svolto in poche parole. In modo molto freddo, anche. In modo che a Matteo era sembrato offensivo e anche un poco sgarbato. Ok, vero, lui per primo aveva cercato di evitarli il più possibile, d’accordo, dopo la storia di Sharma spione e palle varie, ma non era quello il punto. Era che... non lo sapeva bene, ma un punto c’era e al momento avrebbe evitato volentieri incontri, domande, spiegazioni e altro. O la mancanza di domande e spiegazioni, che da una diversa prospettiva sarebbe stata anche peggio.

Ma Indira era lì davanti e parlava con la sua amica, quella Mei qualcosa, in una strada che, a parte loro due, era praticamente vuota, al momento. Non sembravano essere amanti delle sere autunnali, i lakshmiti, o almeno non amanti delle sere autunnali all’aperto. Troppo freddo per le loro abitudini, con ogni probabilità. Ma Indira stava proprio lì di fronte e ancora non lo aveva visto, e dunque era opportuno che continuasse a non averlo ancora visto.

Così Matteo scelse di proseguire con la propria politica di fuga ed elusione, una politica che certo doveva apparire molto irresponsabile a un buon lakshmita, ma lui non era un lakshmita e quindi se ne fregava. Lui voleva solo il quieto vivere, ignorare ed essere ignorato il più possibile: discussioni a cui non avrebbe saputo rispondere non rientravano nel suo disegno di quieta vita. Sgusciare pian piano alle loro spalle, nella luce scarsa e col passo più silenzioso che sapesse produrre, era invece il disegno più compatibile con la sua idea di quieta vita. E dunque.

«Puoi anche salutare, quando passi.»

La voce lo folgorò in mezzo alle scapole, mentre si apprestava a svicolare scarafaggiamente dietro al più vicino angolo della strada. Lo folgorò e lo spiaccicò, schiantandolo come una mazza chiodata. Gli fece anche svariate altre cose spiacevoli, almeno a livello psicologico; sul piano pratico, però, lo costrinse soltanto a fermarsi e girarsi lentamente, proprio quando ormai si considerava in salvo.

Indira era lì, braccia incrociate, faccia di chi fissa un cane che ha orinato di nuovo sul tappeto. Poco dietro di lei si poteva notare anche la sua amica, a farle da satellite umano, nell’atteggiamento in cui la ricordava e riconosceva meglio, ma Matteo non la notò, non vi badò. Aveva altro per la testa, al momento. Inventarsi una buona scusa, per esempio.

«Non vi avevo viste, sai. Andavo di fretta, abbiamo finito tardi, oggi, e volevo rientrare presto, sai, ho ancora diverse cose da studiare, beh, insomma...» Non concluse neppure la frase, anche perché non sapeva bene come concluderla. Varie ed eventuali, forse. Un commento sul tempo atmosferico, sulla scomparsa delle mezze stagioni, il prezzo dei mirtilli su Rudra, cose così. Indira continuava a fissarlo, in silenzio. Matteo abbassò gli occhi, strusciando un piede. Perché non aveva aspettato due minuti, due maledettissimi minuti in più, prima di uscire? Fare un’altra domanda su quegli stupidi calamari, per esempio? Pazienza, era andata così. Sopportare e poi fuggire: questo gli restava.

«Ehm, hai sentito Bogdan, di recente?» le chiese poi, simulando naturalezza e tranquillità e fallendo su tutta la linea. La strada attorno a loro si ostinava a rimanere vuota e non era bello: vedere almeno un passante o due sarebbe stato d’aiuto, sul piano psicologico. Così, invece, si sentiva davanti a un plotone di esecuzione. Molto piccolo e molto disarmato, d’accordo, ma l’idea restava.

«No, non si è fatto sentire, di recente. E neanche non di recente, se è per questo. Deve essere una strana abitudine di voi terrestri, sai, sparire e non farsi più vivi. Molto curiosa. Culturale, forse?»

Matteo incassò in silenzio. Perché si era infilato in quella situazione? Non lo sapeva, o almeno non voleva indagare a fondo il proprio animo, al momento. Sapeva però di essere in quella situazione, che gli piacesse o no (non gli piaceva, ovvio), e quindi... E quindi doveva uscirne. Sopportare e poi fuggire, come si diceva. Che fosse già possibile fuggire?

«Beh, ecco, è stato un piacere rivedervi, ma adesso dovrei...»

«Se è davvero un piacere, potresti farti vedere più spesso. Sai dove trovarci, no? Oppure te lo sei già dimenticato? Suppongo che sia così, dato che ormai non ti si vede più neanche nei posti in cui ti si dovrebbe vedere, razionalmente. O anche accademicamente, se preferisci. Spendi tutti i tuoi giorni al centro culturale, adesso? Per come te ne lamentavi prima...»

«Beh, no, vengo qui solo di tanto in tanto, sai. Notizie da casa, cose così. Per il resto...» Per il resto cosa? Non lo sapeva, ma lo avrebbe dovuto inventare. In fretta. Improvvisare, dunque, attività che non gli era mai riuscita particolarmente bene. No, via gli eufemismi: era una pippa a improvvisare.

Non ne ebbe bisogno. «Sì, come vuoi,» disse Indira, adesso più annoiata che altro, a giudicare dalla faccia. «Siam passate di qui soltanto per ricordarti che esistiamo e abbiamo una faccia, nel caso te lo fossi dimenticato. Non me ne stupirei, da uno come te. Abbiamo da fare anche noi e ascoltare le tue balle balbettate non rientra tra le cose che abbiamo da fare, e neanche tra le cose che ci piace fare, se è per questo. Grazie tante. E buona serata.»

E se ne andò, così, lasciando Matteo a sentirsi ancora più verme di un verme col pedigree. La sua amica, Mei qualcosa, gli lanciò un’ultima occhiata, indecifrabile, e poi seguì Indira, nel fresco della sera che calava. Fine dell’incontro, uno dei più spiacevoli che Matteo potesse ricordare.

Uno degli ultimi che avrebbe dovuto ricordare, se tutto andava bene. Dopo l’inverno sarebbe partito con Chakra, se ne sarebbero rimasti lontano per un anno e poi... E poi stop. Nel bene o nel male, poi stop. Così svicolò a ritmo di scarafaggio, finalmente solo, e proseguì verso le strade libere che gli si aprivano davanti, verso la residenza in cui era alloggiato con Chakra. Il resto avrebbe atteso, il resto pazienza, il resto non era importante. Andare, e non pensarci più.

Matteo sapeva a livello razionale che non avrebbe potuto evitare in eterno le domande e gli incontri, sapeva che prima o poi gli sarebbe toccato un faccia a faccia vero, in cui avrebbe dovuto dare una risposta, se fosse rimasto lì a Varshi ancora a lungo, ma sapeva anche, sempre a livello razionale seppure forse per un valore di razionalità un poco diverso, che lo avrebbe potuto evitare. In eterno no, ma in eterno è no sempre e comunque, perché l’eternità non appartiene agli umani. Lo avrebbe potuti evitare ancora per un poco, con maggiore attenzione. Un poco bastava. Un poco apparteneva agli umani. Un poco era anche ciò che lo separava dalla partenza. O dalla fuga.

Fine inverno. Evitare altri incontri spiacevoli come quello che aveva appena vissuto, fino alla fine dell’inverno. Poi avrebbe avuto un anno a disposizione, per pensare a cosa fare o ancora meglio per lasciare affievolire il ricordo di sé nella memoria degli altri. Lo avrebbero accettato come un vago conoscente, non più come un amico. Una persona che avevano incontrato e frequentato per un po’, ma che poi si era persa per strada Non proprio un lieto fine, ma lieto a sufficienza, per lui.

Perdersi per strada. Non era come salutarsi, ma poteva bastare. In un anno era facile perdersi per strada, era facile dimenticarsi, era facile tagliare ponti, corde, contatti. Soprattutto se tu per primo tagliavi la corda, in un senso figurato. E perché era arrivato a questo? Perché... per qualcosa, anche se al momento non avrebbe saputo dire cosa. Ma era andata così, e tanto bastava. E poi, che cavolo, non aveva più niente da fare nella vita, poteva almeno inventarsi problemi dove non c’erano, giusto per darsi una direzione. Anche perché poi non avrebbe risolto il problema, ma lo avrebbe soltanto guardato dissolversi, da solo. Come si era dissolto il suo progetto di vita per il futuro. No, lì a Varshi non c’era più niente per lui: meglio svanire a poco a poco e lasciare che gli altri lo capissero da soli.

Sotto la bandiera di una filosofia di vita alquanto discutibile, ma pur sempre una filosofia, Matteo Kori viaggiò così attraverso il resto del suo secondo anno su Lakshmi. Schivando e aggirando, ma anche studiando e provando esami, passandone qualcuno giusto per pura forma, perdendo tempo e chiacchierando al centro culturale terrestre, ricevendo insulti e derisioni da Chakra, preparandosi spiritualmente a cosa avrebbe potuto vedere là fuori, nel futuro di viaggio che il compagno di stanza gli aveva confezionato. E non pensando al resto. Soprattutto, non pensando al resto.

Non uno stile di vita impeccabile, ma a Matteo andava bene così.