Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 47

La sera su Madre non scendeva in modo molto affascinante, almeno nei dintorni di Oklahoma City e almeno a parere di Erika Freire. Non lo faceva perché non è che ci fossero scenari particolarmente suggestivi su cui calare, o anche suggestivi e basta, senza avverbi di mezzo, e non lo faceva perché, paragonato a un qualsiasi tramonto terrestre, i tramonti madriani erano... blandi, sì. Smorti. Sbiaditi. Sciatti. Vogliamo aggiungere anche insapori? Erika lo aggiungeva spesso e volentieri.

Il sole attorno a cui orbitava Madre era più debole rispetto al sole della Terra. Non molto più debole, ovviamente, altrimenti sarebbe stato alquanto difficile abitare sul pianeta, ma un poco sì. Era di una classe leggermente inferiore, almeno a sentire quanto dicevano gli astronomi, cosa che Erika Freire faceva di rado. Erano piuttosto noioso, gli astronomi, almeno quelli che aveva conosciuto lei fino a quel momento, e ascoltare le loro tiritere sulle varie classi in cui si potevano suddividere le stelle era un ottimo antidoto all’insonnia, secondo il suo forse non modesto, ma informato parere.

Fosse come fosse, dal sole arrivava meno luce di quanta ne fornisse il cugino terrestre, e quella che arrivava sembrava usata, consunta, come se qualcuno l’avesse lavata troppe volte. Immaginare poi qualcuno che potesse lavare la luce solare era parecchio arduo, ma le similitudini tendono a glissare allegre su problemi di questo tipo. A ogni modo, tutto ciò comportava che il tramonto su Madre non era proprio un evento affascinante, poetico o simile. Per chi aveva visto normali tramonti su altri pianeti, la versione di Madre sembrava un film a basso budget, con effetti speciali casalinghi e la cugina del regista come attrice. Un tramonto alla candeggina.

Non che si sarebbe potuto ottenere molto di più, col paesaggio che ti ritrovavi. Se il tuo sfondo era una città grigia, squadrata e scialba come Oklahoma City, la ridente capitale della colonia, anche il più affascinante e mozzafiato dei tramonti sarebbe andato sprecato. Condiscila pure come vuoi, ma la trippa resta sempre trippa: non la trasformerai in caviale, a forza di aggiungere salsine delicate.

Quando poi il tramonto era il preludio a una imperdibile lezione che i tuoi superiori accademici ti avevano imposto di svolgere, a beneficio di gruppi di coloni diversamente profumati e dall’interesse che si poteva misurare con un righello rotto, senza bisogno di usare l’intero frammento, allora non restava che abbracciare un albero e lasciarsi morire, sotto l’affresco scadente della sera in arrivo. Il morale di Erika Freire si trovava più o meno da quelle latitudini, mentre camminava a passo fiacco verso la stanza in cui il suo personale supplizio l’attendeva.

Non era giusto, ecco. Erika non avrebbe saputo dire esattamente perché non fosse giusto, ma non lo era. Ovviamente. Palesemente. Perché aveva trascorso cinque anni a studiare su Varuna, postaccio che avrebbe raccomandato soltanto al suo peggiore nemico, se ne avesse avuto uno e se fosse stato di una cultura non gradita nel continente di Varuna in cui era finita a vivere lei. Cosa non difficile, dato che tutte le culture sembravano non gradite. Ma fin lì passi: esperienza sgradevole, che non avrebbe ripetuto volentieri, ma era servita a qualcosa, no? Ne aveva ricavato una laurea, una buona preparazione di base e una gran voglia di cambiare pianeta. Cosa che era avvenuta subito, in effetti, anche perché lo prevedeva la sua borsa di studio.

Così era tornata sulla Terra, carica di conoscenze e di voglia di fare, almeno per un valore moderato di carica. Aveva anche un titolo di studio che l’avrebbe spinta molto probabilmente a viaggiare di nuovo, il che non era poi così male. Se sei exologa, studiosa di forme di vita non terrestri, la Terra non ti offre grandi opportunità di lavoro, al di fuori dell’insegnamento, e viaggiare per espandere le proprie competenze poteva essere un bene. In fondo, nessun posto poteva essere peggiore della zona di Varuna in cui aveva vissuto e studiato per cinque anni, giusto? Voglio dire, neppure una muta di cani randagi l’avrebbe potuta guardare e trattare così male, come avevano fatto gli abitanti umani di quella regione, giusto?

A questa domanda Erika Freire non aveva ancora trovato una risposta definitiva. Perché la sua tappa successiva era stata proprio Madre, dove era riuscita ad aggiudicarsi un posto da ricercatrice più per fortuna che per altro. O per sfortuna, forse. O uno stato intermedio tra i due poli. Perché ok, adesso era su Madre, lavorava presso l’istituto diretto dal professor Thoreau, era stipendiata (poco, è vero, ma poco è sempre più di niente) per compiere ricerche su quella che, di fatto, era una sottospecie di scarafaggio anfibio che non interessava a nessuno altro, e insomma aveva trovato una parvenza di sistemazione. Peccato che l’avesse trovava su un letamaio di pianeta, divertente come una ortica.

E adesso le avevano pure rifilato quell’incarico di educare i coloni. Lezioni serali per tutti i nuovi arrivati che volevano saperne di più sul mondo dove avrebbero speso (o sprecato) il resto della vita. Un modo per farli sentire parte della nuova società. Per aiutare l’integrazione. Per diffondere le conoscenze su Madre. Per imparare ad amare la terra che li aveva accolti. Per sapere e capire. E così via, di retorica in retorica.

E chi puoi scegliere, per un lavoro tanto schifoso e non retribuito? Ma è ovvio: una ricercatrice che non serve a molto. Non vorrai mica sprecare uno scienziato vero, no? Figuriamoci! E poi sono tutte esperienze, si farà le ossa sul campo, imparerà cose nuove anche lei, tutto materiale per arricchire il curriculum, dovrebbe solo ringraziarci per l’opportunità che le offriamo, farà di lei una persona migliore, non c’è dubbio.

Erika non ringraziava molto, ma nella solita, vecchia scelta tra minestra e finestra il risultato era lo stesso, sempre: vittoria della minestra, alla quarta ripresa. Così adesso l’attendeva una nuova serata di lezione, in cui avrebbe parlato a una classe svogliata di argomenti preparati lo stesso pomeriggio, perché mica poteva riciclare i propri studi, ovvio. Dovevano essere lezioni generali, sull’ecosistema di Madre nel suo insieme, una spolverata di storia (ma che storia poteva avere una colonia con poco più di venti anni?), due dita di geografia, palle varie a volontà per insaporire la polpetta. E la sua ricerca sui protoscarafaggi anfibi avrebbe dovuto attendere tempi migliori.

Quella sera, in un’aula scolastica tra tante altre, in contemporanea con altri colleghi più o meno non contenti di essere stati selezionati, Erika Freire parlò per quasi un’ora e mezza dei principali insetti nocivi presenti nella loro zona, al cospetto di una piccola platea di coloni poco più giovani di lei. E poco più interessati di lei all’argomento, se le loro espressioni erano un valido fattore su cui poter basare un giudizio. Erano anche molto più odorosi di lei, in media, e non proprio di un odore che si potesse definire piacevole, o anche solo che si potesse definire deodorante spray. Appena smontati dal turno di lavoro, con ogni probabilità, e da un lavoro molto fisico. Un lavoro in cui polvere e sudore avevano un ruolo di primo piano. Manuale, dunque. O manovale.

Solo uno sembrava realmente interessato. Un ragazzino che doveva essere scappato dalle superiori, a occhio, sognando forse un luogo migliore e meno studioso, più rilassante, più divertente delle aule scolastiche. E hai beccato proprio bene, pensò lei. Quanti ne aveva già visti di ragazzini come lui, arrivati su Madre pieni di entusiasmo e di panzane pubblicitarie, sognando chissà quali avventure gloriose, solo per finire poi schiantati da un lavoro che, nel mondo reale, precede qualunque volo pindarico e onirico? Non molti, in effetti, perché lei stessa era arrivata da poco e aveva speso la maggior parte del proprio tempo in edifici sigillati o terrari, ma qualcuno lo aveva visto, ok, e quel ragazzino ne era di certo un esemplare. Un esemplare piuttosto emaciato e smunto, a dire il vero.

Ma un esemplare interessato agli insetti. Mentre lei parlava, quel ragazzino aveva ascoltato, aveva seguito e adesso si stava addirittura preparando a fare domande. Aveva alzato la mano per chiederle qualcosa. Voleva sapere altro sugli insetti nocivi. Pazzesco. Pazzesco anche per chi gli stava attorno, in apparenza, perché lo fissavano come se si fosse appena sfilato una baguette dalla narice destra e avesse poi cominciato a mangiarla con un poco di prosciutto.

Oh beh, anche quello era il suo lavoro (non retribuito). «Sì?» disse Erika, accennando al ragazzino con la mano alzata e soffocando un sospiro interiore di spleen baudelaireano.

«Ecco, volevo sapere, lei ci ha indicato cinque tipi di insetti nocivi presenti nella nostra zona, come ha spiegato, e tutti diurni, ma... sono solo qui in città o anche nei dintorni? Cioè...»

«Ancora non è stato possibile stilare un quadro preciso del comportamento di queste cinque specie di insetti, come ho detto, ma in linea di massima possiamo presumere che siano collegati alla fascia climatica in cui ci troviamo, ossia alla fascia equatoriale, e non siano attrezzati per spostamenti sulle grandi distanze, né che possano sopravvivere in zone climatiche diverse da questa. Non sono insetti migratori, in altri termini. Non possiamo escludere che, in futuro, con l’allargamento progressivo di una fascia che potremmo definire antropica, anche le loro abitudini cambieranno e li ritroveremo ad accompagnare l’uomo nei suoi spostamenti sul pianeta, ma per il momento li possiamo trovare solo qui, nella fascia equatoriale. Sia in città che fuori, purché sia entro questo limite climatico.»

«Quindi, voglio dire, noi abbiamo lavorato in un cantiere stradale a qualche centinaio di chilometri da qui e siamo stati punti da parecchi insetti. Sono quelli di cui ci ha parlato lei, no? Oppure sono un altro tipo di insetti?»

«Non è facile poterli dire con certezza, non avendo visto nessuno di questi insetti che vi avrebbero punto, ma sì, diciamo che è probabile che fossero gli stessi insetti. Gli esemplari di cui ho trattato oggi sono tutti caratterizzati proprio da punture particolarmente dolorose e irritanti, a volte anche infettanti, ed è proprio per questo che sono stati categorizzati come nocivi. Inoltre, sembrano essersi adattati molto bene e molto in fretta a noi umani, forse per carenza di altri grandi animali su questo pianeta, e le loro punture sono una delle cause principali di ricoveri o richieste di cure mediche tra i coloni, almeno secondo le ultime statistiche. Come vi ho detto, si nutrono di sangue e sotto questo aspetto non sono molto diversi dalle zanzare o dai tafani a cui siamo abituati sulla Terra. Senza dubbio più dannosi, in gran parte perché noi non siamo abituati alle loro punture, ma non diversi.»

E adesso non chiedermi altro, perché sto esaurendo la mia riserva di informazioni, pensò Erika. Sì, era stato un errore non documentarsi a sufficienza, ma l’argomento era noioso, non le interessava, il lavoro alla sua ricerca era in ritardo e poi, che diamine! Non chiedevano mai niente, quelli. Perché il ragazzino continuava a fare domande? Cosa gliene fregava degli insetti nocivi? Quanta pazienza!

«E questi insetti vivono dappertutto nella fascia equatoriale? Anche, non so, vicino alla rovine, dove c’è l’altro ascensore, quello militare? Dove sono atterrati per la prima volta gli umani, voglio dire.»

«Anche quell’area si trova lungo l’equatore, per cui sì, ne sono stati individuati esemplari anche nei pressi delle prime rovine e dell’ascensore militare. In fondo ci vivono e lavorano parecchi umani, e all’aperto, per cui è normale che sia anche una zona di raccolta per insetti che si nutrono di sangue. Tra gli archeologi ci sono stati diversi ricoveri per punture, ma nessuno caso davvero grave, almeno fino a questo momento.»

«Quindi sono stati ricoveri precauzionali, soprattutto,» disse una ragazza seduta poco distante, dalla pelle scura e i capelli corti. Più vecchia del ragazzino, ma di tre o quattro anni al massimo.

«Sì, possiamo dire che i ricoveri, nel casi degli archeologi, sono stati soprattutto precauzionali,» le rispose Erika, che ormai raschiava il fondo delle proprie conoscenze e si preparava alla fase di tiro a casaccio, sempre apprezzata da grandi e piccini.

«Avevano voglia di riposare e hanno usati gli insetti come scusa,» rise un altro tizio, che esibiva una improbabile cresta di capelli verdi. Erika Freire non voleva neppure provare a immaginare l’orrido abisso inesplorato da cui poteva essere emerso quel particolare colono. Avrebbe però gradito che il suddetto orrido abisso lo inghiottisse di nuovo: odiava gli aspiranti spiritosoni.

«No, no, calma: le punture sono una cosa seria,» disse un altro ancora, un ragazzo con una barbetta che pareva tagliata alla cieca e un cespuglio di capelli castano chiaro. Quello invece doveva essere emerso da un buco nello spaziotempo, collegato direttamente alla rive gauche di Parigi a cavallo tra diciannovesimo e ventesimo secolo, o giù di lì. «Sulle punture non si scherza,» continuò. «Se sono stati ricoverati, un buon motivo c’era. Evitare il lavoro è un buon motivo, lo riconosco, ma in questo caso specifico c’era sicuramente anche una spiegazione medica, vero?»

«Ehm, sì, infatti. Come dicevo, sono insetti catalogati come nocivi proprio perché le loro punture sono particolarmente dolorose e irritanti, a volte anche infettive. Infettive in casi rari, sia chiaro, ma è sempre meglio non sottovalutarli. Dovrebbero anche avervi distribuito appositi repellenti, se avete lavorato all’aperto per lunghi periodi di tempo, soprattutto se sotto il sole e sudati...» Il silenzio che invase l’aula indusse Erika a fermarsi. «Vi hanno distribuito appositi repellenti, giusto?»

«Mai ricevuto niente,» rispose il tizio col look da artista antiquato. «A meno che non si sia mangiato tutto il nostro responsabile. Avrebbero dovuto distribuire repellenti?»

«Beh, non è ancora passata una legge che li renda obbligatori, ma è caldamente consigliata la loro distribuzione, specie tra i lavoratori che trascorrono molte ore all’aperto, come dicevo. O almeno mi pare sia così. Il diritto non è proprio il mio campo, dovreste chiedere al vostro responsabile.»

«Oh, lo chiederò, lo chiederò. Se c’è qualcosa che tiene lontani quei maledetti insetti e non lo hanno distribuito, ne chiederò parecchie di cose, e non solo a quel bue del nostro responsabile.»

Da lì in poi il momento delle domande degenerò in allegria, abbandonando ogni residua parvenza di legame col contenuto della lezione appena conclusa. Insetti nocivi? Sì, di tanto in tanto qualcuno li nominava, ma ormai si stavano dedicando tutti allo sport più amato dai lavoratori di ogni luogo e tempo. Nonché in generale dagli umani di ogni luogo e tempo, in effetti. Una fantastica sessione di tiro al colpevole e trova il responsabile, dove il bersaglio era sempre qualsiasi altra forma di vita che non fosse il parlante stesso. Il cuore di Erika Freire si riempì di gioia al pensiero che, nel giro di una decina di minuti, si sarebbe potuta dimenticare il gruppo di pseudostudenti per un’altra settimana. Bastava sopportare ancora per un poco e poi il tempo sarebbe scaduto, liberandola.

E il tempo scadette, senza altre domande rivolte a lei. O senza che qualcuno desse la sensazione di ricordare che nell’aula c’era anche lei, la loro presunta insegnante. Poco male: se le risparmiava di doversi inventare risposte che non sapeva, tanto di guadagnato per lei e anche per loro, in fondo. E sembravano essersi dimenticati davvero di Erika. A parte uno. Il ragazzino che aveva lanciato la prima pietra, aprendo il dibattito tra i colleghi, se di dibattito si poteva parlare.

Non soltanto quel tizio non si era unito alle lamentele e alle battute degli altri, ma aveva continuato a fissarla, in silenzio, bocca stretta e occhi che sembravano volerla fucilare al muro. Cosa voleva? Il suo cervello si era ingrippato in un qualche modo, oppure era così di natura? Ce l’aveva con lei? A Erika non interessava particolarmente, ma trovava fastidioso il suo continuo fissare.

Poi le due ore si conclusero, come si diceva, e poté finalmente congedare il gruppo con tanti saluti e un arrivederci alla settimana seguente. La lezione è finita, andate in pace. O andate dove cavolo vi pare, basta che non sia vicino a me. Andarono, mentre anche dalle altre aule uscivano coloni, quasi tutti giovani, quasi tutti poco interessati, quasi tutti poco profumati. Erika trovò lo stesso entusiasmo che la animava, o quasi lo stesso, riflesso sulle facce degli altri insegnanti di fortuna, giovani pure loro, ricercatori e assistenti sottopagati pure loro. Ma era così che funzionava, su Madre.

Erika Freire sarebbe stata la prima ad ammettere che sulla nuova colonia le classi non produttive, se così le si voleva definire, erano troppo grandi per essere sostenute senza problemi dall’economia in via di sviluppo del pianeta. O, messa in altri termini, c’erano troppi scienziati, ricercatori, studiosi e compagnia bella. E pochi lavoratori. E poche industrie. E poche centrali energetiche. D’accordo, la situazione era migliorata, rispetto ai primi anni, ma dipendevano ancora parecchi dagli aiuti della Terra. O dalla sua elemosina, sempre a seconda dei punti di vista. C’era troppa gente che mangiava, senza fare nulla per guadagnarsi materialmente il pane.

Così l’aveva messa il Governatore Rossi, anche se in termini molto più eleganti e politichesi. Tolta la glassa, però, il ripieno era quello. Per questo motivo aveva deciso che il surplus delle classi non produttive doveva rendersi utile alla comunità, a costo zero, per ricambiarla dei benefici che traeva dalla suddetta comunità. Siccome tutti quegli studiosi non sapevano comunque fare nulla di pratico, e siccome molti dei coloni erano giovani, spesso fuggiti dalle scuole, il caro Governatore (che poi era una cara Governatrice, ma esigeva l’utilizzo della forma maschile, per motivi noti forse soltanto a lei) aveva deciso di organizzare quei corsi serali per nuovi arrivati, e in generale per tutti gli altri che volessero approfondire le proprie conoscenze del pianeta, nonché la propria cultura.

Così parlò Maureen Rossi, Governatore di Madre, tirapiedi di Leonardi e probabilmente la persona meno amata nella colonia. E così fu, purtroppo. Erika Freire non aveva nulla contro l’insegnamento e l’istruzione, in linea generale, ma aveva molto contro il dover essere lei a insegnare, soprattutto se le toccava insegnare cose su cui non era poi così preparata lei stessa. Sentimento che condivideva con molti altri colleghi, in effetti, mentre alcune mosche bianche sembravano invece apprezzare la decisione e divertirsi nel nuovo ruolo che avevano ricevuto. Oh beh, tutti i gusti sono guasti.

Gusti guasti o meno, il nuovo incarico le faceva sprecare tutte le serate, che doveva spendere nelle aule di quell’edificio, insegnando a rotazione vari argomenti a vari gruppi di coloni. Aggiungete poi il tempo necessario per preparare le lezioni, nel pomeriggio, e sarà facile capire perché i suoi studi sui protoscarafaggi anfibi languissero così tanto. E dire che erano così affascinanti...

Sette giorni dopo, il gruppo di coloni era di nuovo lì, coi suoi elementi più caratteristici a fare bella mostra di sé, oppure brutta mostra, a seconda dei punti di vista. Il tizio con la cresta verde, l’artista o artistoide con barbetta sghemba, il ragazzino fissatore, eccetera eccetera. Tutti lì, tutti al proprio posto, tutti pronti per un’altra affascinante lezione su altre categorie di insetti. Erika avrebbe voluto parlare di animali un poco più interessanti, nonché meno infestanti, ma il programma lo avevano stilato altri: lei lo aveva solo ricevuto e lo doveva eseguire. E dunque, sotto con gli insetti.

Andò meglio, stavolta. Ci furono meno domande, nessun dibattito inutile tra gli studenti, qualche sbadiglio qui e là a testimoniare che lei non era la sola ad avere dubbi sulla bontà del programma, e insomma le due ore passarono non in fretta e non piacevoli, ma almeno senza problemi. Quelli ci furono dopo, quando i coloni se n’erano già andati e le restava solo di chiudere tutto e incamminarsi verso l’alloggio. In teoria. In pratica, però, il suo percorso si interruppe dieci metri dopo il portone dell’edificio, in strada, dove vide che non proprio tutti i coloni studenti se n’erano andati. Uno si era fermato. Ad aspettarla? Sì, ad aspettarla. Ed era il ragazzino fissatore, pallido e nervoso.

«Hai bisogno di qualcosa?» gli chiese senza avvicinarsi. Non sarebbe stato saggio. In strada non erano soli e la sorveglianza nella colonia era buona, secondo alcuni anche troppo stretta, ma perché rischiare? Quello strano tizio poteva avere in testa di tutto, incluso forse un frammento di cervello, e un vantaggio di qualche metro poteva fare la differenza.

«Volevo farle una domanda,» rispose il ragazzino. Che sì, a vederlo così, nella sera di una strada la cui illuminazione lasciava parecchio a desiderare, sembrava ancora più giovane. Scappato dal liceo, di sicuro, ma da che anno del liceo?

«Potevi farla durante la lezione. Lascio sempre uno spazio per le domande, alla fine.»

«È una domanda privata. Preferirei non parlarne davanti agli altri.»

Il che non tranquillizzò Erika. Adesso che guardava ancora meglio, non aveva gli occhi da persona sana, quel ragazzino. Erano febbricitanti, lucidi. Poteva solo sperare che la sua malattia fosse fisica e non mentale: qualche germe poteva anche accettarlo, ma tutto il resto... No, la vita era molto più semplice, quando era nel terrario assieme ai suoi protoscarafaggi madriani.

«Se credi che io possa aiutarti, chiedi pure.»

Il ragazzino avanzò di due passi, abbassando la voce. «Ha mai sentito parlare dei pozzi?»

Aveva agito d’istinto, Davide Kori, ma aveva anche agito bene? Difficile dirlo. O meglio, era facile dire che non aveva agito bene, guardando ai precedenti. Lui e agire bene erano solo lontani parenti, quando si muoveva in base all’istinto, o quando si muoveva senza avere pensato prima alle proprie azioni. E stavolta non ci aveva pensato. Non del tutto. Non prima di avere aperto la bocca, almeno.

Voleva chiedere soltanto degli insetti, quei fantomatici e misteriosi insetti che, secondo la storia di Zeke, erano usciti dal pozzo e avevano punto suo padre. Gli stessi insetti che aveva ritrovato più di recente, nel racconto molto più circostanziato di quel vecchio colono, Bissonette qualcosa, o forse qualcosa Bissonette, non ricordava bene. La tipa dai capelli grigi che faceva lezione parlava spesso di insetti, giusto? Sembrava intendersene. Era possibile che sapesse qualcosa anche sul particolare tipo di insetti che interessava a lui. Non un argomento di cui parlare davanti agli altri, soprattutto dopo che già una volta lo avevano sentito delirare di insetti misteriosi, ma in privato sì, in privato avrebbe chiesto volentieri.

Solo che poi gli era uscita la domanda sui pozzi e tutto aveva preso la piega sbagliata. Ammesso e non concesso che esistesse anche una piega giusta.

L’insegnante lo aveva ascoltato; aveva fatto qualche domanda; era anche sembrata interessata, più o meno. Ai pozzi, se non proprio agli insetti. Con quel suo accento strano, che Davide associava alla regione sudamericana della Terra (o almeno alle parodie che ogni tanto aveva visto in televisione), e una espressione piuttosto nervosa, l’insegnante gli aveva detto che non aveva mai sentito nulla sui pozzi, non così come glieli aveva descritti lui, ma pare che i primi arrivati avessero trovato crateri o altri tipi di spaccature nel terreno, che da una certa prospettiva potevano far pensare a pozzi, e che poi li avevano riempiti e spianati. Potevano essere la la realtà storica alla base del mito dei pozzi a cui si riferiva lui? Sembrava probabile, no?

Davide aveva dato risposte poco impegnative, perché sì, poteva anche essere così, non sapeva bene, ne aveva solo sentito parlare da coloni più vecchi, magari lo stavano prendendo in giro, scherzavano col novellino, cose così. L’insegnante aveva sorriso, sempre un poco nervosa. E gli insetti? Non ne sapeva molto. Non ne sapeva niente, anzi. Non di quelli che Davide le aveva descritto.

«Ma esistono ancora molte specie che non abbiamo potuto identificare e studiare,» aveva aggiunto, a giustificazione. «Siamo qui da poco tempo e finora ci siamo dovuti concentrare prima di tutto sui possibili pericoli nelle zone in cui l’uomo si è insediato. Per quanto ne sappiamo, ce ne potrebbero essere chissà quanti altri a distanze maggiori, ma prima di raggiungerle ci vorrà ancora parecchio. A ogni modo non c’è niente di cui preoccuparsi, perché anche se i civili non le abitano ancora, ci sono comunque insediamenti militari sparsi più o meno ovunque sul pianeta, per tenerlo sotto controllo e assicurarsi che non ci siano problemi per noi.»

«E per proteggere gli archeologi,» aveva aggiunto Davide.

«E per proteggere gli archeologi, sì. Loro sono l’unica categoria a cui è stato consentito di muoversi ovunque sul pianeta, mentre noi dobbiamo procedere pian piano, assieme alla colonia. Non lo trovo molto equo, ma funziona così. Dopotutto sappiamo che sono le rovine aliene il principale interesse del pianeta e il governo le vuole sfruttare il più possibile. Non bello, ma comprensibile.»

Si era offerta poi di fare analizzare eventuali esemplari di insetti strani che lui le avesse portato. Lo aveva detto con un tono che voleva essere calmo e rassicurante, come per tenere tranquillo un matto e non farlo ammattire ulteriormente, ma Davide pensò che probabilmente lo avrebbe fatto davvero, se mai lui le avesse portato uno di quegli insetti. Cosa alquanto improbabile: si era rivolto a lei per saperne di più e ne aveva ricavato un bel niente, a parte una vaga disponibilità ad aiutarlo, nel caso si fosse presentato con qualche elemento più solido di vaghe voci sentite qui e là.

Davide tornò a testa bassa verso l’alloggio, con una leggera pulsazione nelle tempie che non faceva pensare a niente di buono. Neanche l’indolenzimento nelle giunture faceva pensare a qualcosa di buono. Una nuova malattia in arrivo? Possibile. Aveva anche un poco di febbre, se la sentiva senza bisogno di misurarla, e per l’ennesima volta si chiese cosa ci fosse su quel pianeta, che continuava a farlo stare male. Era allergico a qualcosa? Cosa? O le vaccinazioni avevano dato risultati imprevisti e spiacevoli su di lui? Gli altri nel gruppo non avevano più avuto veri problemi di salute, dopo che erano tornati dal cantiere stradale. Soltanto lui continuava ad avere una salute di merda.

E domani nuovo giorno di lavoro alla costruzione di quel maledetto museo, o quello che era. Lavoro più leggero, d’accordo, perché adesso avevano l’autorizzazione a usare i macchinari, ma un lavoro era sempre lavoro e lui non si sentiva proprio nelle condizioni migliori per affrontarlo. Oh beh, ci avrebbe pensato domani. Dopo una bella dormita, possibilmente.

Con un pensiero ai risultati che continuava a non ottenere, Davide Kori entrò nella propria stanza, al suono di accompagnamento del russare costante di Olaf, il compagno di alloggio da cui il destino non lo voleva proprio liberare. Casa, dolce casa. Per un dato valore di dolce.

Erika Freire si sentì meglio, dopo una doccia. Si sentiva sempre meglio dopo una doccia, quando tornava da una serata di lezione (come lo erano tutte le serate, ormai) e poteva finalmente rilassarsi nel suo alloggio, che non era proprio principesco, ma almeno era suo e non lo doveva dividere con nessuno. E non c’erano studenti. Studenti che facevano domande a lezione o che l’aspettavano fuori dalle lezioni per farle domande ancora più strane, in una strada buia. Esperienza che non avrebbe ricordato fra le più piacevoli dei suoi ventisette anni, ma poteva andare peggio.

Aveva temuto che potesse andare peggio, quando quel ragazzino dalla faccia spiritata e non del tutto sana si era avvicinato, parlando di pozzi. Lei gli aveva risposto. Poi una nuova domanda; una nuova risposta. E così via, per una discussione che, se non proprio naturale, almeno si era dimostrata meno pericolosa delle possibili alternative.

Si era presentato come Bruno Kitzis e sembrava possedere una qualche fissazione maniacale con i pozzi (che non esistevano) e insetti usciti dai pozzi (di cui non aveva mai sentito parlare). Erika gli aveva spiegato che, sebbene non del tutto impossibile, era almeno molto improbabile che qualcosa del genere fosse successo davvero, almeno in base alle conoscenze attuali sugli insetti di Madre. Di pozzi misteriosi e giganteschi non ce n’erano e di insetti che vivevano dentro quei pozzi... Beh, non era neppure il caso di parlarne, giusto? Se non ci sono i pozzi, non ci possono essere neppure forme di vita che li abitano. Potevano esserci specie simili, ma il loro habitat doveva essere un altro.

Ma gli insetti di cui aveva parlato quel Bruno non corrispondevano a nessuna specie a lei nota. Cosa non strana, dato che quel Bruno non corrispondeva molto a una persona sana di mente, almeno non con quella faccia. Ed era toccato proprio a lei. Era nella sua classe. Se lo sarebbe ritrovato davanti la lezione successiva, a fissarla febbricitante, magari ad attenderla al buio per farle altre domande su cose inesistenti. C’era proprio da stare allegri.

Chissà però da dove erano uscite quelle storie sui pozzi? Non le aveva mai sentite, da quando era su Madre. Non si era mai neppure interessata molto alle leggende metropolitane della colonia, vero, perché il suo campo di studi era un altro e non aveva proprio nulla a che spartire con antropologia, folklore e altre fantasticherie prodotte dalle menti di scimpanzé parlanti. Doveva esserseli inventati il ragazzino, oppure era stato davvero uno dei coloni più vecchi a raccontare una balla al novellino, per divertirsi un poco a spese del primo fesso che passava.

L’insetto che aveva descritto, però, era più interessante. Erika Freire ne abbozzò un profilo, seduta in poltrona e ancora avvolta nell’accappatoio. Era fatto più o meno così, giusto? Qualcosa di simile, quantomeno. Quel Bruno non era stato molto preciso, ma la sua descrizione poteva essere integrata con la struttura di un normale insetto madriano. Non perché l’avesse presa sul serio, sia chiaro, ma solo così, per curiosità. Perché descriveva un tipo di insetto plausibile. Realistico.

Se qualcuno ti dice di aver visto un cane alato a due teste, che sputa fuoco dall’ano, è chiaro che si è inventato tutto, oppure è mezzo matto. Se però ti descrive una variazione possibile di una razza di cane reale, allora potrebbe esserci qualcosa di vero o razionale nelle sue parole. L’insetto descritto dal ragazzino era realistico e plausibile, dunque esisteva almeno una possibilità che avesse visto un esemplare insolito, ma che poi i suoi palesi disturbi psichici gli avessero attribuito origini irreali e balzane. Giusto? Erika non era una psicologa, ma sembrava una spiegazione accettabile.

Il disegno che ne uscì poteva anche essere un identikit di un insetto reale. Non ancora scoperto, ma reale. Realistico, almeno. Le sue abilità grafiche non erano proprio alla Giotto, d’accordo, ma aveva una certa esperienza nell’abbozzare ritratti di insetti, col suo lavoro, e il risultato era passabile. Non bello, ma passabile. E inutile, quasi sicuramente. Perché perdere tempo a disegnare il bozzetto della fantasia di un ragazzino chiaramente non sano?

Perché era una delle cose che Thoreau ripeteva sempre, o almeno una delle cose che aveva detto in quelle rare occasioni in cui lo aveva visto o aveva ascoltato suoi discorsi che non fossero trasmessi da un qualche notiziario. Questo pianeta riserva ancora molte sorprese per noi, e molti sono i misteri che dormono nelle sue profondità. Non trascurate mai alcuna informazione, non ignorate mai alcun indizio, non cestinate come chiacchiere le storie che sentite, non senza averle prima indagate. Dietro a ogni chiacchiera potrebbe esserci una verità, che attende solo voi per uscire alla luce.

O qualcosa del genere, non ricordava bene tutta la pappardella. Ricordava però che Thoreau aveva fatto una gran storia sul non ignorare le voci, per quanto strampalate potessero suonare, senza avere condotto almeno una prima analisi sulla loro fondatezza. Madre era un pianeta nuovo (per la civiltà umana) ed esplorato ancora solo in modo sommario; in più, era anche un pianeta che aveva prodotto una propria civiltà evoluta milioni di anni prima. Poteva esserci di tutto, insomma, ed era compito loro, come scienziati, scoprire, catalogare e spiegare il tutto che poteva esserci.

Di conseguenza, aveva il dovere morale di non considerare stupidaggini le storie raccontate da quel Bruno Kitzis, senza averle prima indagate. Che poi lei si augurasse di non avere più altri incontri ravvicinati col latore delle storie era una questione del tutto diversa, che esulava dall’ambito di una pura ricerca scientifica e che, a suo modesto parere, era difficile biasimare. Dopotutto, il professor Thoreau aveva chiesto solo di valutare le storie, non chi le raccontava.

«Qualche ricerca la potrò anche fare, nei tempi morti,» annunciò alla stanza vuota. «Non che io ne abbia molti, ma ritaglierò qualcosa qui e là. Contento?»

Nessuno le rispose, cosa che di solito succede quando si parla da soli. Salvò il ritratto di insetto, che aveva abbozzato, poi si alzò e controllò che nella stanza del terrario tutto procedesse bene, come lo aveva lasciato prima di uscire quella mattina. Tutto procedeva bene, o almeno tutto era tranquillo e senza spargimenti di sangue. O zampe. Erika sapeva che era sconsigliato portarsi il lavoro a casa, ma non aveva saputo resistere e così aveva riadattato la stanza libera, trasformandola in un terrario dove conservava dodici esemplari della sua ricerca, per osservarne la vita sociale e capire tutto ciò che poteva capire sul loro comportamento in cattività.

Interesse che pochi avrebbero condiviso e apprezzato, almeno al di fuori del suo campo di studi, per quanto indubbiamente meritorio e segno di grande dedizione alla causa. Perché gli esemplari della sua ricerca erano vagamente simili agli scarafaggi terrestri, almeno come struttura generale e colore, e questo era valso loro l’etichetta di protoscarafaggi. Sotto quasi tutti gli altri aspetti, però, avevano ben poco a che spartire col simpatico animale domestico della Terra.

Erano oblunghi, grossomodo a mandorla. Erano schiacciati, quasi piatti. Erano neri. Erano coriacei, tendente al corazzato. Misuravano non più di dieci centimetri, ma spesso meno. E fin qui il parallelo con gli scarafaggi ci poteva stare. Ma quelli di Madre avevano otto zampe, piuttosto larghe e piatte, che terminavano con artigli robusti. Avevano quattro ali sul dorso, che in acqua fungevano da pinne e sulla terra permettevano loro di svolazzare per brevissime distanze, più o meno come le galline. Sulla testa avevano quattro piccole corna, il cui scopo non era ancora stato capito. E sembravano possedere un qualche tipo di vita sociale, almeno per come si muovevano e cooperavano tra loro.

Erano anche anfibi e potevano resistere sott’acqua per quasi un’ora, senza respirare, ma Erika aveva incontrato sorprendenti difficoltà nel simulare un ambiente marino nel proprio alloggio, così si era dovuta accontentare di studiarli all’asciutto. Mentre era a casa. All’istituto, invece, c’era anche una specie di laghetto, in cui le sue cavie potevano sguazzare, e osservarle era molto istruttivo. Sarebbe mai riuscita ad allestirne uno anche a casa? Non certo finché la casa era un piccolo appartamento in un condominio vicino al centro di Oklahoma City, ma un giorno, forse...

Ma basta pensare al futuro. Il presente era la colonia di dodici esemplari, che viveva nella stanza libera del suo alloggio e che, in apparenza, sembrava gradire la sistemazione. Insetti sociali, sì. Non li aveva selezionati, ma li aveva raccolti pressoché alla cieca, per vedere se sarebbero convissuti in pace o se si sarebbero scannati alla prima occasione, come facevano gli umani. Dopo quasi tre mesi, poteva dire che ancora non c’erano stati incidenti e i suoi protoscarafaggi vivevano in armonia tra loro. Felici, anche? Difficile dirlo, ma pacifici sì, per quanto lei ne potesse capire. Registrò con cura i dati del giorno, che avrebbe poi confrontato coi filmati delle loro attività, alla prima occasione.

Ammesso che ci sarebbe stata una prima occasione.

Erika Freire sospirò, sentendosi infelicissima. Troppe cose da fare, troppo poco tempo per farle. E ci si era messo anche quel ragazzino, adesso, che le aveva scaricato la storia di pozzi e insetti strani, sì, ma plausibili, e le sarebbe toccato verificare se vi fosse qualcosa da prendere sul serio. Perché era il capo dei capi a esigerlo, Thoreau in persona: l’uomo da cui, in ultima analisi, provenivano i fondi per le ricerche. Nonché gli stipendi. E dunque.

Aveva qualche possibilità di scaricare il peso addosso a qualcun altro? Improbabile, ma valeva pure la pena di indagare un poco. Buttare qualche accenno in mensa. Vedere se ci fosse qualche fesso con interessi per il tipo di insetti di cui aveva parlato quel Bruno. In fondo la gente strana non mancava proprio, all’istituto; poteva anche esserci un ricercatore che si occupava di insetti volanti sotterranei.

Ma ci avrebbe pensato domani, perché domani è un altro giorno. Secondo il teorema di La Palice.