Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 52

Quando ricevette la risposta del ministro Hass, Bogdan Stratos non ne fu contento. Anzi, fu così lontano dall’esserne contento che quasi raggiunse la contentezza all’estremità opposta dello spettro, ammesso e non concesso che ne esista una. Hideki Einarsson lo poteva capire, umanamente e molto a grandi linee. Poteva capire l’insoddisfazione davanti a quello che il planetologo percepiva come un gran rifiuto o qualcosa del genere, almeno, ma ciò non cambiava una realtà ben più profonda, che inficiava ogni possibile solidarietà da parte sua. Quel tizio che gli era stato affidato dal ministro era fastidioso. Insopportabile. Fastidiosamente insopportabile e insopportabilmente fastidioso. Che fosse pure un giorno di pioggia, poi, non migliorava le cose.

Bogdan aveva ricevuto l’avviso di prima mattina, nel loculo sotterraneo dove era alloggiato. Non lo aveva svegliato, perché era persona mattiniera e perché comunque sarebbe stato alquanto difficile descrivere il suo sonno come lungo e piacevole, su quel pianeta e in una stanza di quel tipo, ma lo aveva costretto a modificare il piano per la giornata e modificare il tuo piano per la giornata mentre ti preparavi a fare colazione era un pessimo modo per cominciare, almeno secondo il suo personale punto di vista. Arrivata risposta dalla Terra, scendi e ne parliamo: avviso laconico, ma in linea con quanto aveva imparato a conoscere di Einarsson. Con un sospiro, Bogdan era sceso.

Avrebbe voluto poter descrivere il proprio stato d’animo come calmo e rilassato,mentre scendeva la collina su cui si acquattava la sede della fondazione Chen-Cohimbra. Avrebbe voluto poter dire di guardare con serenità al futuro, anche se il sereno quel giorno doveva essere da qualche parte al di sopra delle nuvole. Avrebbe anche voluto poter dire che non lo infastidiva fare due passi all’aperto e bagnarsi un poco i piedi, se era per una buona causa, e difendere la paternità della propria scoperta era una ottima causa, che coinvolgeva il bene della scienza, la suprema libertà della ricerca, dovere di informare il pubblico e blablabla. Avrebbe voluto poter dire tante altre cose, ma le uniche che gli riuscisse di pensare, calando verso la città di Guan Yu e la sede dell’ambasciata, sarebbero state censurate in nove pubblicazioni su dieci, come minimo.

Perché la discussione col professor Hu Chen gli bruciava ancora, e parecchio. Quel professor Chen, capo della fondazione quasi omonima, che un tempo aveva ammirato e che adesso apprezzava più o meno quanto apprezzi una zanzara che ti gira attorno alla testa alle due di notte, nell’afa di agosto; il professor Chen che voleva rubargli la scoperta sui giganti gassosi di Madre per regalarla a Muzafar Chang, tutore teorico di Bogdan e dipendente reale della fondazione. Vero, c’era una ragione per cui Chen voleva farlo ed era passabilmente sensata, se la esaminavi con equanimità, ma Bogdan non la voleva esaminare con equanimità. Voleva solo che gli fosse riconosciuto ciò che era suo. Punto. Per questo aveva segnalato il problema a Hideki Einarsson, che lo aveva inoltrato al ministro Hass, suo sponsor, il quale avrebbe dovuto dare una risposta, possibilmente non quarantadue e magari prima di sette milioni di anni, grazie. La risposta era arrivata, la pizia aveva parlato. Ma cosa aveva detto la pizia? Qual era stato il suo oracolo?

Bogdan Stratos sedeva nell’ufficio di Einarsson, i vestiti ancora bagnati dall’ultima favolosa folata di vento traditore, che gli aveva regalato una fantastica doccia orizzontale proprio quando era ormai all’ingresso dell’ambasciata. Ahaha, che tempo spiritoso! Ma il tempo non era l’unico spiritosone, se di spirito si voleva parlare. Bogdan non ne voleva parlare. Spirito e spiritosaggini erano quanto di più lontano ci potesse essere dalla sua mente, al momento. O quasi. In effetti c’erano cose molto più lontane dalla sua mente, come i problemi psicologici degli armadilli in cattività o le fluttuazioni del prezzo dello yogurt sui mercati delle regioni australi di Indra, ma la spiritosaggine era la più lontana tra quelle che, al momento, si trovavano almeno nelle vicinanze della sua coscienza.

«Questo messaggio è uno scherzo, vero?» disse. Fissava Einarsson come se volesse aprirgli la gola a morsi, il che era abbastanza vicino alla verità. Non per qualcosa che quel tizio gli avesse fatto, ma per qualcosa che aveva detto. Letto, per la precisione. Recitato. Ambasciator non porta pena e palle varie, vero, ma al momento Bogdan aveva voglia di fare del male a qualcuno. Hideki Einarsson era il solo qualcuno a portata di mano. Ergo...

«No, non è uno scherzo. È la risposta del ministro Hass e sì, posso immaginare che a te non piaccia, ma se ci pensi a mente fredda, e ti invito a pensarci a mente fredda, perché reagire a caldo potrebbe darti problemi sul lungo termine, capirai che è anche l’unica risposta che ti potessi aspettare da lui, soprattutto in vista del suo obiettivo.»

«Sai cosa me ne frega del suo obiettivo?»

«Lo posso immaginare, sì. Ciò non toglie che sia il suo obiettivo e il ministro Hass subordinerà ogni altra cosa al suo raggiungimento. Una mente brillante come la tua lo dovrebbe capire.» Sorrise.

Bogdan non rispose al sorriso. «E se io lo ignorassi? Cosa mi farebbe il tuo ministro?»

Dal sorriso al sospiro. «Bogdan, capisco l’entusiasmo per la scoperta, il desiderio che tutto il merito ti sia riconosciuto subito e senza sconti, eccetera eccetera, ma la situazione non ti consente di fare tanto lo schizzinoso, il nobile paladino dei tuoi interessi personali o quello che ti pare. Il professor Vihersalo, il tuo diretto superiore all’Ufficio, ti ha già detto almeno una volta di abbandonare questa ricerca. Il suo superiore effettivo, che è anche tuo superiore effettivo, sebbene in modo molto meno diretto, ti ha intimato di non diffondere i risultati della ricerca, senza la sua autorizzazione. Giusto?»

Bogdan Stratos incrociò le braccia, sfoggiando una imitazione quasi perfetta di broncio da bambino in castigo che deve sorbirsi la predica dal papà. «Sì...»

«Inoltre, tu hai potuto venire qui a studiare e proseguire la tua ricerca solo perché il ministro Hass te lo ha consentito, giusto? Ha saputo ciò che stavi studiando, ha ritenuto che i tuoi risultati potevano essere interessanti per lui, e ti ha concesso di raggiungere la fondazione. Giusto?»

«Mi ha fatto molto bene, proprio.»

«Ma hai proseguito la tua ricerca, giusto? E hai ottenuto risultati. Ha verificato che la tua ipotesi era corretta, o almeno hai verificato che non era sbagliata, finora. La tua ricerca è progredita, giusto?»

«La mia ricerca. Questa è la mia ricerca, la mia scoperta. Perché devo lasciare che se la rubino quei due vermi di Svarga? Perché il lavoro l’ho fatto io, ma il merito deve andare a loro?»

Einarsson sospirò di nuovo. Non sarebbe stata una mattinata facile. Non sarebbe stata soprattutto una mattinata piacevole, non con quel planetologo che sembrava conoscere e concepire soltanto la prima persona singolare e rifiutava di capire le intenzioni del ministro Hass. Perché sì, Bogdan rifiutava di capire. La risposta non era quella che lui voleva e il discorso finiva lì. O come voglio io o come voglio io. Anche le mantidi della Farrell sarebbero state più ragionevoli.

Che sarebbe andata a finire così era chiaro dal momento in cui la risposta era arrivata dalla Terra. Il dottor Leonardi aveva vietato di diffondere i risultati dello studio sui giganti gassosi, fino a che l’Ufficio non avesse potuto approfondire, verificare, eccetera eccetera. Il professor Chen, presidente della fondazione, gli aveva suggerito un modo per aggirare il blocco: pubblicare i risultati, ma col nome di un altro. Il nome del professor Muzafar Chang, nello specifico, ossia il tizio che faceva da tutore a Bogdan lì su Svarga. Soluzione non bella ma comprensibile. Bogdan non l’aveva voluta comprendere, così insistito per inviare una specie di petizione al ministro Hass, a difesa del suo sacro diritto a essere osannato della comunità scientifica interplanetaria. Il ministro aveva risposto.

«Ascolta, è la stessa cosa che ti ha spiegato anche il professor Chen, vero? La tua scoperta è molto importante e...»

«Rivoluzionaria. Storica.»

«Rivoluzionaria, storica, come vuoi. La planetologia è il tuo campo, non il mio. Comunque, tu sei alle dipendenze dell’Ufficio per la Colonizzazione, giusto? I risultati delle tue ricerche saranno resi pubblici a discrezione dell’Ufficio. O non saranno resi pubblici, a seconda dei casi. Era nel contratto che hai firmato, ricordi? È nel contratto che firmano tutti i dipendenti. Il merito ti sarà riconosciuto sempre e comunque, ma è l’Ufficio a decidere come e quando una ricerca dovrà essere pubblicata.»

«Non hanno mai fatto storie! È sempre stata una formalità, no? Perché solo con me?»

«Vero, di solito è una pura formalità. Presenti la tua ricerca alla commissione, la commissione la approva e tu la pubblichi. Fine. Smette di essere una formalità, però, quando la ricerca ha a che fare con Madre, il pianeta o il suo sistema solare. Non chiedermi perché, ma è così. Te lo avrà spiegato anche la tua collega, credo. Quella che è venuta qui con te.»

«Sì, me lo ha spiegato anche Anna. Fanno storie solo per Madre. Ma è la mia ricerca e...»

Hideki Einarsson alzò una mano. «Calma. Il dottor Leonardi ha deciso che la tua ricerca non potrà essere resa pubblica, non adesso. In altri termini, tu non la potrai pubblicare a tuo nome. Tuttavia, è possibile pubblicarla a nome di qualcun altro, uno che non sia dipendente dell’Ufficio e non debba quindi accettare le loro regole. È la via che ti ha proposto il professor Chen, a quanto mi dici, ed è la via che ti invita a percorrere anche il ministro Hass. Il ministro Hass, quello che ti ha permesso di venire qui e completare la prima parte della tua ricerca.»

«E lasciare che il merito se lo prenda qualcuno che non ha fatto niente!»

«Sarà una soluzione temporanea, te lo hanno spiegato entrambi. Leonardi vuole nascondere e noi vogliamo diffondere. Una volta che avremo diffuso e Leonardi sarà stato costretto ad accettare la situazione, che non gli piaccia o che non gli piaccia, allora sarà possibile riconoscerti tutti i meriti.»

«Sì, certo. Come se qualcuno mi ascolterà.»

«Lì faremo ascoltare noi. E comunque il professor Muzafar Chang ti ha aiutato nella ricerca, giusto? Una parte del merito è anche sua. Si tratterebbe solo di prestargli tutto il merito, provvisoriamente, in attesa del momento giusto per riconsegnarlo al legittimo proprietario, cioè tu.»

«Muzafar non ha fatto niente, ci ha messo solo gli strumenti. I dati sono miei. La ricerca è mia. Il modo in cui interpretare i risultati è mio. Il modello è mio. E adesso devo regalare tutto?»

«Prestare, non regalare. È la mossa che ti suggerisce il ministro Hass. La priorità adesso è rendere pubblica la scoperta con ogni mezzo possibile. Se lo avessimo potuto fare a nome tuo, tanto meglio. Se dovremo farlo a nome di un altro, pazienza. Ma lo faremo. È questo che vuole il ministro.»

«Non me ne frega un cazzo di quello che vuole il ministro!» Il pugno di Bogdan sulla scrivania fece cadere una specie di statuetta, che doveva essere un soprammobile o qualcosa del genere. Esempio di arte locale, o almeno copia di. Secondo il modesto parere di Bogdan, farla cadere avrebbe portato solo progressi al mondo dell’arte, aumentando di una frazione la bellezza media della galassia. «È la mia ricerca, è la mia scoperta! Perché la dovrei regalare a un altro?»

«Prestare, non regalare. E comunque le alternative sono due: pubblicarla in un futuro imprecisato a tuo nome, come vuole Leonardi, oppure pubblicarla subito a nome di un altro, come ti ha proposto Hu Chen e come ti suggerisce di fare il ministro Hass. La scelta è tua.»

«E se la pubblicassi subito a nome mio, eh?»

«Fai pure. Poi te la dovrai vedere da solo con Leonardi e l’Ufficio, nonché tutti i suoi avvocati, ma un giovane intelligente come te, che sa sempre tutto e ha sempre la risposta giusta, non avrà di certo alcun problema, giusto? Naturalmente, se soltanto quel giovane avesse letto tutte le clausole di un contratto, prima di firmarlo, alcuni di questi problemi non si sarebbero neppure posti, ma noi miseri mortali non possiamo pretendere che menti così superiori si abbassino a contemplare questi piccoli, insignificanti dettagli dell’infimo mondo materiale. Giusto?»

Bogdan uscì senza rispondere, ma sbattendo la porta come da copione. Hideki Einarsson scrollò la testa, osservò la statuetta caduta e sospirò. Aveva perso la pazienza, vero, e non era stato proprio un buon diplomatico, ma lui non era un diplomatico, né per carattere né per formazione. Stava ancora imparando a esserlo e quel tizio che il ministro gli aveva ordinato di controllare non rendeva certo il suo lavoro più semplice. Oh beh, che si arrangiasse. Il suo compito era di fare rapporto sulle attività di Stratos e le sue eventuali scoperte; fargli da balia o da consulente psicologico spettava ad altri.

Sì, gli insetti di Svarga erano decisamente molto più simpatici e interessanti di quel planetologo quasi trentenne. Più civilizzati, anche. Con l’ennesimo sospiro di una giornata che minacciava di averne ancora parecchi da parte, Hideki si chinò e cominciò a raccogliere dal pavimento i pezzi del modello di mantide svarghiana. Sarebbe riuscito a ricomporlo? O era meglio cestinare tutto e procurarsene uno nuovo? La seconda, probabilmente.

Piuttosto diverse erano le preoccupazioni di Bogdan, che vagava sotto la pioggia per le vie di Guan Yu, come si confaceva a chiunque fosse arrabbiato col mondo ingiusto e i suoi soprusi. Come poi si confaceva a una persona che accettava sì le convenzioni letterarie, ma le reinterpretava per adattarle a una vita sana e possibilmente lunga, aveva anche aperto l’ombrello e aggiunto all’abbigliamento un nuovo strato impermeabile, comprato in un negozietto lungo la strada. Come infine si confaceva a chiunque possedesse una mentalità scientifica, si era anche chiesto come mai la pioggia non fosse trattenuta dalle cupole trasparenti che coprivano la città e che potevano essere oscurate per simulare la notte. Se bloccavano la luce, dovevano poter bloccare anche l’acqua, almeno a prima vista o a un primo pensiero. Pareva di no, perché la pioggia passava. Dunque le cupole non erano vetro, ma un qualche altro materiale, tipo un campo di forza che bloccava solo le onde luminose o roba simile.

O forse chissenefrega delle cupole. Fisica e ingegneria non erano i suoi campi di studio e comunque non si trovava certo nello stato d’animo più indicato per riflettere sul funzionamento delle città svarghiane, la loro architettura e i cazzi di suo nonno. Non si trovava in uno stato d’animo indicato per niente, se non forse attaccare briga col primo che passava. Siccome però attaccare briga col primo che passava avrebbe soltanto peggiorato la situazione, aggiungendo anche una certa quantità di ferite fisiche alle ferite psicologiche già ricevute, Bogdan si accontentò di pensare pensieri molto aggressivi e crudeli verso tutti i passanti. Era molto più sicuro, sul lungo termine.

Attraversando le strade bagnate di pioggia, attraversò anche diversi stati d’animo, più o meno logici e razionali. Non tutti gli piacquero, specie verso la fine del viaggio, quando la razionalità tornò alla guida, ringraziando l’impulsività per per il contributo ma invitandola ad accomodarsi fuori, in attesa di tempi migliori. Fu più o meno allora che fu costretto ad ammettere, con un collo molto obtorto, che quello Einarsson non aveva poi del tutto sbagliato, per certi versi. Grossomodo. Concedendogli un poco di beneficio d’inventario e di buona volontà.

Sì, avrebbe dovuto leggere tutte le clausole del contratto di lavoro con l’Ufficio. Anche quelle più piccole e nascoste. E sì, avrebbe dovuto prendere sul serio quello che leggeva. Ricordava la storia dell’Ufficio, che doveva dare il consenso alle pubblicazioni, ma l’Ufficio dava sempre il consenso alle pubblicazioni, no? Quasi sempre. Nella maggior parte dei casi. Adesso che ci pensava bene, e ci stava pensando bene, altroché, ricordava anche un caso in cui l’Ufficio non aveva dato il consenso. Per uno studio geologico su Madre. E aveva sentito parlare anche di altri casi, più vecchi, in cui non era arrivato il consenso alla pubblicazione. Ricerche sull’ambiente di Madre, sul sistema solare di Madre, sulla formazione di Madre, sulle placche continentali di Madre.

Riassumendo, ricerche su Madre.

Per un qualche motivo, l’Ufficio sembrava avere difficoltà a dare il consenso alla pubblicazione di diverse ricerche concentrate su Madre, pianeta e sistema solare. Ricerche come era la sua, dunque. Il dottor Leonardi non voleva che fossero pubblicate, perché questo era il punto: quando l’Ufficio ti negava il consenso, era Leonardi che te lo stava negando. Tutti gli altri, a cominciare dall’attuale direttore Gemelos, erano soltanto numeri, nomi, comparse. Dunque, in quel sistema solare, c’era un qualcosa che Leonardi sapeva, ma non voleva far sapere ad altri.

No, stupido. Era un ragionamento stupido. Perché permettere gli studi e vietare la pubblicazione, se vuoi tenere segreto qualcosa? Vieta direttamente gli studi. Se lasci che lo studino, prima o poi uno dei tuoi dipendenti pubblicherà i risultati, che tu lo voglia o no. Se non direttamente, li diffonderà lo stesso, per altre vie. Non aveva senso vietare la pubblicazione, ma permettere gli studi. Quindi che cosa ne doveva dedurre?

Ma tutto questo poteva attendere. Il punto era un altro: accettare il silenzio richiesto da Leonardi, o accettare la pubblicazione a nome di Muzafar? Difendere la paternità della scoperta, sperando che un giorno sarebbe stata resa pubblica, oppure cedere onore e gloria a Muzafar adesso, sperando che un giorno i suoi meriti gli sarebbero stati riconosciuti? Orrende entrambe le ipotesi, ma prendere la via dell’autopubblicazione sarebbe stato ancora peggio, soprattutto sul piano legale. Così rimase a vagare sotto la pioggia, ma con l’ombrello aperto, fino a che lo stomaco non guidò i suoi passi verso la sede della fondazione e la mensa che lo attendeva. Meglio riflettere a pancia piena, anche se non era proprio haute cuisine a riempirla.

Verso sera aveva raggiunto una specie di compromesso, molto provvisorio. Avrebbe sentito anche il parere di Anna, già che c’era. Non si aspettava granché da lei, ma almeno era pur sempre un muro contro cui lanciare opinioni e guardare in che modo rimbalzavano. Gli sembrava anche abbastanza ferrata in fatto di questioni legali, almeno relative all’Ufficio, per cui poteva anche dare un qualche consiglio utile. Forse. Con tanto ottimismo. Non avrebbe peggiorato la situazione, se non altro.

La trovò nella sala di ricreazione, dopo cena, seduta a un tavolino assieme a quel suo svarghiano da compagnia, Fung Mei o quello che era. Un tizio con capelli scuri e corti, fronte scura e corta, occhi scuri e corti, che emanava tutta la simpatia di un moscone. Bogdan gli aveva rivolto la parola due o tre volte, sempre in risposta a una qualche domanda, e lo aveva trovato interessante come un bagno pubblico il giovedì pomeriggio. Non sapeva neppure cosa studiasse o ricercasse, di preciso, ma non gli interessava, per cui tutto si bilanciava, più o meno. Era un mister Anonimo, che occupava spazio e consumava ossigeno. Uno che nessuno avrebbe mai ricordato, un secolo o due più avanti. O anche solo cinque minuti più avanti, a dirla tutta.

Bogdan sedette al loro tavolino, ordinò da bere, schivò le domande e i tentativi di conversazione col piglio del dribblomane professionista e fissò Fung Mei senza parlare, fino a che il terzo incomodo non ebbe ricevuto il messaggio. Si allontanò con una scusa su un qualcosa da controllare, risultati da ritirare, cose così. Svicolò e Bogdan non lo vide più, con una certa soddisfazione.

«Potresti cercare di essere un poco più gentile, però,» lo rimproverò Anna Lindtner. «Sei tu che ti sei venuto a sistemare qui tra noi. Non ti chiedo di essere amichevole, ma almeno gentile.»

«Sì, sì, un’altra volta. Sai, no, che avevo inviato un messaggio al ministro Hass, per chiedergli un consiglio su come comportarmi nella questione della ricerca da pubblicare sotto altro nome? Bene, è arrivata la risposta, oggi. Bella risposta, proprio.»

«Ah.» Anna si sistemò meglio. «E quale sarebbe la risposta, allora?»

Bogdan glielo spiegò, in una versione relativamente imparziale e oggettiva. Aveva avuto ormai tutto il giorno a disposizione per rifletterci ed era riuscito ad assestarsi su posizione meno aggressive e irritanti, rispetto alla mattina. Non troppo meno aggressive, ma era un progresso. Descrisse anche le due opzioni che aveva di fronte, adesso: non pubblicare e attendere tempi migliori, oppure regalare a un altro la sua scoperta e attendere tempi migliori. Attendere in ogni caso, insomma, e prenderselo in una determinata parte della propria anatomia in ogni caso. La differenza stava solo nel decidere se rendere nota anche la scoperta, oppure lasciarla ad ammuffire.

«Ma sei davvero sicuro che ci sia ancora una scelta da fare? Mi pare che tu ne abbia già parlato a un bel numero di persone, no? Non dico proprio a tutti, ma a tanti sì. Come puoi pensare che il risultato della tua ricerca possa rimanere davvero un segreto, anche se deciderai di non pubblicarla?»

«Perché è un risultato che non ha senso, almeno secondo la percezione comune. È un risultato che sembra impossibile, capisci? Per farlo sembrare possibile dovrei anche aggiungere parecchi dati da confrontare e verificare, più parecchio altro materiale. I modelli che ho realizzato sono solo il primo passo e non è detto che basteranno. Per questo adesso stavamo lavorando alla preparazione di una conferenza. Perché convincere che sia seria e non una buffonata è un lavoraccio. Anche quando ne parlo con qualcuno, qui, tutto ciò che ricevo sono sorrisini e parole gentili. Come se fossi pazzo, lo capisci? Perché è una pazzia, senza prove convincenti. Una montagna di prove convincenti. E io non le ho, non ancora. Ho indizi. Suggerimenti. Dovrebbe essere così, ma per verificarlo ho bisogno di molti altri studi. Studi sul campo, soprattutto.»

«Quindi hai bisogno di una pubblicazione completa, seguita da presentazioni e conferenze, se vuoi rendere accettabile la tua scoperta presso la comunità scientifica e non solo in un sottobosco di casi umani disperati, come complottisti, mezzi matti e affini.»

«Sì, fondamentalmente sì. Se ne parlo e basta, attiro solo i matti. Devo anche portare prove.»

«Ma il dottor Leonardi ti ha chiesto di aspettare a pubblicare lo studio, perché prima vuole che sia il suo Ufficio a verificarlo e ad approfondirlo. Incluse tutte le possibili implicazioni sul piano della sicurezza planetaria, suppongo.»

«Ehm, sì, qualcosa del genere, anche se chiedere non è proprio il verbo adatto per descrivere il suo intervento. Ordinare rende molto meglio l’idea. Anche imporre funziona bene.»

«Dettagli. La trovo una posizione ragionevole, non ti pare? Prima verificare, anche attraverso studi ed esami sul campo, e poi pubblicare il tutto. In questo modo eliminerai ogni possibile dubbio, e ti assicuro che ne resterebbero comunque, non importa quanto accurato sua il tuo modello o quanto i tuoi dati siano completi, e in più avrai l’appoggio dell’Ufficio. Non vedo cosa ci sia di male. Ok, lo so che non apprezzi molto il professor Vihersalo, ma non è detto che dovrai collaborare proprio con lui, se non lo vuoi. Credo che il dottor Leonardi sarà disposto a venirti un poco incontro, nella scelta dei tuoi colleghi e assistenti.»

No, la discussione stava prendendo una brutta piega, che non concordava col suo progetto. Bogdan si mosse un poco sulla sedia, trattenendo un impulso a rosicchiarsi le unghie, un vizio che riteneva di avere superato ai tempi delle superiori. «Non è questo il punto, capisci? Se accetto la richiesta di Leonardi, poi dovrò attendere anni prima che mi sia riconosciuto qualche merito per la scoperta, e in questi anni chissà quanti mi potrebbero precedere. Gente come Muzafar, per esempio. Se non la presento io adesso, la presenterà lui subito dopo. Ha già tutti i dati, li abbiamo sistemati assieme, e ha le copie dei miei modelli e della mai ricerca. Oh, sì, certo, tra dieci anni magari io mi presenterò con le prove definitive, ma la scoperta sarà riconosciuta a lui, non a me. Sarà riconosciuta al primo che ne ha parlato, non all’ultimo.»

«Quindi non ti fidi del tuo tutore.»

«Ti ho già detto della proposta che mi ha fatto Chen. Se rifiuto, probabilmente non succederà nulla finché io sono qui, ma non appena saremo tornati sulla Terra...»

«E quale credi che sarà la tua posizione, invece, se accetti la proposta e lasci pubblicate tutto sotto il nome di un altro? Perché è a questo che stai pensando, no?»

«La mia posizione farà schifo uguale. Qualunque cosa scelga, ci perdo io e basta. Se però accetto lo scambio, avrò almeno qualche possibilità che un giorno, in futuro, mi sarà riconosciuto un qualche merito, magari. O magari no. Probabilmente no. Però...»

«Però credi forse che ti sarà permesso di studiare sul campo, se ignori le richieste di Leonardi? Che ti piaccia o meno, è lui a decidere gli accessi a Madre e chi può studiare cosa. Ignoralo adesso e non avrai più alcuna possibilità all’Ufficio. Svarga non ti può permettere di accedere al sistema solare di Madre: è una colonia terrestre, sotto l’autorità della Terra.»

«Grazie per avermi complicato ancora di più le cose!»

«Non ti ho complicato nulla, io. Ti ho solo descritto la situazione, anche dalle angolazioni che tu non avevi considerato all’inizio. Mi dovresti solo ringraziare. E questo nonostante la scortesia con cui ti sei comportato al tuo arrivo qui, facendo scappare il mio amico.»

Bogdan sbuffò e non ringraziò. Finì di bere e si alzò, stanco di quel luogo, stanco della gente che lo riempiva, parlava, rideva, camminava avanti e indietro. Stanco di intrighi, di complicazioni inutili, di dispetti tra pianeti, clausole in piccolo sui contratti e vecchiacci con fissazioni assurde. Tutto ciò che voleva era studiare, proseguire le ricerche e ottenerne i giusti riconoscimenti, ovvio, ci mancava altro, mica lavorava per la gloria altrui. Perché si doveva contorcere tra le beghe politiche di mezza galassia, per riuscirci? Perché doveva sgomitare tra ruderi che rifiutavano anche solo il pensiero di un pensionamento? Pazzesco. Per forza che l’umanità non faceva progressi.

«Io comunque ti suggerisco di ascoltare il dottor Leonardi,» gli disse Anna Lindtner. «È quella che ti offre i maggiori benefici sul lungo temine, tra le alternative che hai.»

Bogdan non rispose e abbandonò la sala a testa bassa. Quella notte non dormì molto a lungo e non dormì molto bene, nel suo alloggio sotterraneo. Non sognò alcunché di particolare, almeno che lui si ricordasse, ma oscillò per ore tra lunghe fasi di meditazione e dubbi e brevi periodi di incoscienza confusa, che probabilmente corrispondevano al sonno, oppure a uno stato sufficientemente simile da poterne fare le veci. E forse anche le feci. Notte di merda, davvero. Notte che lo lasciò quasi più stanco di quando si era coricato, e sicuramente più confuso. Cosa scegliere? La minestra in cui tutti sputavano, oppure la finestra al ventesimo piano?

Non scelse né l’una né l’altra, almeno per il momento. Scelse di prendersi una giornata di riposo, via da studi e ricerche, via da laboratori e tutto. Senza bisogno che qualcuno lo costringesse a farlo, come era successo in precedenza. Riposo spontaneo, volontario, non riposante. La pioggia che gli aveva offerto lo sfondo migliore il giorno prima, così adatta al suo morale, oggi era diventata aria fresca e sole smorto, una luce fioca come era raro trovarne lì, su Svarga. Raro ma non impossibile, se l’orbita del pianeta collaborava con la sua meteorologia. Quel mattino lo stava facendo, almeno in apparenza. Così Bogdan uscì, nel giardino della fondazione, e guardò la città, là in basso.

Non una grande vista. Poteva essere poetica, se la volevi pensare in quei termini, ma un cielo color candeggina, un’aria umida che ti si appiccicava alla faccia e una luce che faceva sembrare sbiadito ogni colore non avevano niente di poetico, per lui. Avevano molto di deprimente, semmai, e anche un poco fastidioso. Là in basso, da qualche parte, c’era l’ambasciata terrestre, con Einarsson che si faceva gli affari suoi, di sicuro aveva già spedito al ministro Hass una relazione sul loro colloquio e adesso non aveva altro lavoro per chissà quanto. Vita comoda, la sua. Vita senza preoccupazioni.

Un insetto gli ronzò attorno alla testa. Bogdan lo scacciò distratto. L’insetto ronzò di nuovo, adesso più vicino. Bogdan lo scacciò di nuovo, sempre distratto. Quando l’insetto tornò per la terza volta, Bogdan smise di essere distratto e diventò irritato, tendente all’incazzoso. L’insetto era quella specie di libellula deforme, che aveva già visto durante il suo riposo forzato. Non lo stesso esemplare, di sicuro, ma uno quasi uguale. Stessa razza, stessa specie, stesso quel che era. E gli girava attorno.

Bogdan lo lasciò svolazzare ancora un poco, prese bene la mira e lo schiaffeggiò al suolo, con forza. Quasi una schiacciata da pallavolo, haha. La libellula precipitò nell’erba e sparì dalla sua vista. Che fosse morta? O solo stordita? Sperò nella prima, ma la seconda era più probabile. Erano proprio dei cancheri, quegli insetti. Duri da rompere. Per sicurezza calpestò un poco il prato, a casaccio, con la vaga speranza di spiaccicare qualcosa, ma ne ricavò una sola certezza: si era bagnato la scarpa.

Guardò l’erba schiacciata, guardò l’edificio della fondazione dietro di lui, infine guardò di nuovo la città, ai piedi della collina. Oh beh, visto che tanto aveva deciso di non fare niente, per quel giorno, si poteva anche dedicare a qualcosa di più costruttivo che calpestare le aiuole e schiacciare insetti. Un giro per Guan Yu probabilmente non sarebbe stato molto più costruttivo, ma almeno gli avrebbe impegnato qualche ora. Forse anche tutta la giornata, con un poco di fortuna. E poi, da quando era lì su Svarga, aveva trascorso quasi tutto il tempo chiuso in una qualche stanza, davanti a uno schermo. Poteva anche guardare un poco come fosse fatto il pianeta, no?

Con nessuna voglia di fare il turista, ma con un vago desiderio di dedicarsi a qualunque cose non fosse la sua ricerca e i problemi che portava con sé, Bogdan Stratos scese per la collina, ignorando i trasporti pubblici e quelli privati della fondazione Chen-Cohimbra. Aveva voglia di camminare, sì, di stancarsi fisicamente, di privare il cervello di energie, così da farlo pensare il meno possibile. Un po’ di chilometri a scarpinare lo avrebbero aiutato, giusto? Giusto o sbagliato, valeva la pena di fare un tentativo. E chissà, magari alla fine ne avrebbe anche ricavato una qualche idea. Non buona, ok, ma passabile poteva bastare. Era sempre meglio di niente.

La città era animata, come solo la capitale di un pianeta sa esserlo, anche quando il tempo è brutto e si starebbe molto meglio al chiuso. Doveva essere stata animata anche il giorno prima, anche sotto la pioggia, ma Bogdan aveva altre cose per la testa, sia all’andata che al ritorno, e aveva cercato di stare all’aperto il meno possibile. Adesso no. Adesso aveva tutto il tempo che voleva per guardarsi attorno, e ne aveva ancora di più per distrarsi e pensare ad altro. E poi non pioveva, il che non era necessariamente un bene per sé, ma nel caso specifico era un vantaggio. Per gli umani, almeno.

Bogdan guardava le strade e vedeva ovunque esemplari di quello scimpanzé dal pelo corto, che per una qualche convenzione siamo soliti chiamare “homo sapiens”: molti a piedi, gambe in movimento rapido per spostarsi dal punto A al punto B, e molti di più su mezzi di trasporto di ogni tipo, sempre impegnati in quella buffa danza che li trasferiva da un luogo all’altro, e ritorno. Gruppetti di umani di varia età e vario stato sociale (almeno a giudicare dall’abbigliamento, poi magari le differenze di ceto e stato esistevano solo nella mente dell’osservatore) si formavano nelle piazze, nei punti in cui il marciapiede si allargava, davanti ad alcuni locali. Si formavano, rimanevano stabili per un breve periodo e poi si scioglievano di nuovo, tornando a mischiarsi al fluire continuo di viventi. Niente di strano, niente di anomalo, niente che Bogdan non avesse già visto sia sulla Terra che su Lakshmi.

A parte un piccolo dettaglio. Gli umani non erano la sola forma di vita a spostarsi per le strade e di tanto in tanto a riunirsi in crocchi di elementi. Lo facevano anche gli insetti.

Non li aveva notati all’arrivo in città, oltre sei mesi prima. Non li aveva notati nelle sue brevi e rare spedizioni all’ambasciata, per tenersi in contatto col suo osservatore personale. Troppa luce fuori, troppi pensieri nella testa, poco o nessun interesse per la fauna locale. Ma quel giorno era diverso. La luce era poca, quasi normale, e non aveva bisogno di nascondersi dietro occhiali tanto fastidiosi quanto ridicoli: in altri tempi Guan Yu era la capitale della luce, d’accordo, ma al momento non era diversa da qualunque altra città su qualunque altro mondo, con sentiti ringraziamenti alle nuvole. E poi lui non aveva fretta. Non pensieri particolari, a livello conscio. Non aveva paraocchi a chiudere il suo mondo. Quel giorno... sì, aveva voglia di vedere Svarga per quello che era. E lo vide.

Bogdan aveva notato le strutture che ospitavano gli insetti. Era impossibile non notarle, all’inizio. Dopo un poco, però, erano diventare parte del paesaggio e aveva smesso semplicemente di vederle, proprio come smetti di vedere il tuo naso, che torreggia dritto al centro del campo visivo. Perché è sempre lì, perché non cambia, perché è un dettaglio tra tanti e il tuo cervello lo può ignorare senza problemi. Sarà sempre lì, se mai dovessi aver bisogno di vederlo. Ciò che Bogdan non aveva notato prima, invece, era il modo in cui quegli insetti vivevano la città umana. Non come sulla Terra, dove svolazzavano, strisciavano e zampettavano qui e là, indifferenti a tutto. Su Svarga, o almeno a Guan Yu, gli insetti abitavano davvero assieme agli umani, a fianco degli umani, a volte sgomitando per farsi spazio tra gli umani. In senso figurato, quantomeno, dato che gli insetti non possedevano cose che si potessero definire gomiti, almeno non in senso umano.

Sui marciapiedi e ai bordi delle strade erano tracciate piste di colore diverso, nonché di un materiale diverso, piuttosto gommoso. Potevano ricordare vecchie piste ciclabili, ma non erano per biciclette e affini. Erano per insetti. Erano le strade riservate agli insetti. E gli insetti le usavano, rispettavano le linee di demarcazione, persino i punti di attraversamento. Era surreale, eppure era anche reale.

Bogdan vide una fila di cose che assomigliavano vagamente a mantidi religiose, magari sottoposte a esperimenti genetici di dubbio gusto e ancora più dubbia riuscita. Procedevano in fila indiana quasi perfetta, ognuna grossa come un terrier, e nessuno dei passati umani le guardava. A parte lui, ovvio. Più avanti, ma camminando in direzione opposta, vide arrivare due cosi simili a ragni, nove zampe e ali ripiegate sulla schiena, ammesso che fosse la schiena e ammesso che fossero ali. Mantidi e ragni si incrociarono, le mantidi si spostarono un poco di lato per lasciare spazio e i due gruppetti proseguirono ciascuno per la propria strada, in piena e soddisfatta indifferenza. Sopra, ad almeno quattro o cinque metri di altezza, altri cosi ronzavano e volavano, indistinguibili e irriconoscibili dal basso, ma raggruppati con un ordine e una precisione che faceva pensare a una parata militare di vecchi nostalgici. Più avanti, nel corso della camminata, vide anche un veicolo fermarsi, per lasciar attraversare altri insetti, che potevano forse essere lontani parenti di coleotteri o una varietà simile. E tutto senza problemi, tutto senza discussioni.

Bogdan scosse la testa. Erano vere le storie sugli insetti che formavano civiltà e comunità? Insetti non solo intelligenti, ma anche evoluti e capaci di comunicare? Possibile. Plausibile. O almeno, era possibile che gli svarghiani le prendessero sufficientemente sul serio da agire di conseguenza. A lui erano sembrate invenzioni per attirare turisti, più che verità scientifica, ma adesso... beh, adesso che le vedeva di persona ed era costretto a valutarle oggettivamente, le storie gli sembravano molto più sensate. Vere forse no, non del tutto, ma una base la possedevano. Comportamento curioso, senza dubbio. E un poco stupido, con tutta probabilità.

Per il resto della giornata libera, Bogdan si dedicò a osservare il comportamento di quegli insetti e il modo in cui abitavano la città. Non era particolarmente interessato, non a un argomento così poco serio, ma avevano qualcosa di affascinante, qualcosa che lo incuriosiva. Gli insetti gli erano sempre sembrati troppo piccoli e troppo malprogettati per poter possedere una reale intelligenza, almeno individuale (ma in gruppo sì, in gruppo potevano essere intelligenti): Terra e Lakshmi gli avevano prima formato e poi confermato quella opinione. Svarga no, Svarga sembrava volerla contraddire. Gli insetti di Svarga erano semplici strutture organiche, quasi sicuramente non molto più complesse dei cugini terrestri o lakshmiti, eppure si comportavano in un modo molto diverso.

E dalle strutture organiche che gli volavano e zampettavano attorno, nelle vie di Guan Yu, Bogdan passò quasi senza accorgersene a pensare ad altre strutture organiche, incomparabilmente più grandi e inspiegabili, nonché incomparabilmente più affascinanti. Le strutture al centro dei giganti gassosi di Madre, almeno secondo i risultati dei suoi studi. Strutture impossibili, eppure reali. Forse.

Gli avrebbero mai concesso di studiarle davvero? Non solo filtrando le immagini dei pianeti, ma inviando droni, sonde, qualsiasi cosa sui due giganti. Qualsiasi cosa potesse sopportare la pressione e la temperatura interna ai due giganti. Un mezzo ci doveva essere, no? Magari sperimentale, o un segreto militare, palle varie. Un mezzo che gli consentisse di vedere cosa ci fosse nel loro nucleo, cosa fosse il loro nucleo. E magari, chissà, anche come si fosse formato e perché si fosse formato. Ammesso che la sua ipotesi non fosse sbagliata, ma quest’ultimo pensiero non valeva neppure la pena di essere contemplato. La sua ipotesi era corretta. Era la sua ipotesi, dopotutto.

E sì, ecco la cosa che desiderava davvero. Più ancora della gloria per la scoperta, era spiegare quella scoperta. Strappare una nuova pagina di ignoranza e sostituirla con la conoscenza. Saper spiegare la natura e il perché delle strutture organiche valeva più che annunciarne solo l’esistenza, giusto? In termini di fama. Gli altri dicano pure che ci sono: io spiegherò perché ci siano. Era un poco come la differenza tra ipotizzare che una civiltà di insetti esistesse e spiegare il funzionamento della civiltà di insetti, giusto? Forse no, ma ci andava vicino.

Quella sera, nel suo alloggio, Bogdan Stratos decise che avrebbe avrebbe seguito i consigli (oppure gli ordini, a seconda dei punti di vista) di Leonardi, almeno in quel caso specifico. Perché Leonardi era l’unico a potergli consentire lo studio diretto dei pianeti, se esisteva un modo per arrivare a uno studio diretto, e lo studio diretto dei pianeti era ciò che al momento desiderava davvero, più ancora della fama per la pubblicazione della ricerca.

Avrebbe accettato, avrebbe taciuto, ma in cambio avrebbe domandato di essere spedito subito su Madre, per cominciare uno studio sul campo. Spedito con tutta l’attrezzatura necessaria. Il ministro Hass poteva attendere. Non avrebbe gradito, poco ma sicuro, ma erano cavoli suoi.

Così inviò un «Obbedisco» all’Ufficio per la Colonizzazione e qualche tempo dopo comunicò pure al professor Hu Chen la propria decisione. Il professore annuì senza commenti e senza un sorriso, ma anche senza proteste. Poteva essere considerato un buon segno, no? Poi, dieci giorni dopo, ci fu l’annuncio ufficiale della scoperta che avrebbe cambiato il mondo, o almeno una certa porzione di mondo accademico: Muzafar Chang presentò i risultati della propria ricerca sui giganti gassosi di Madre. Una scoperta che gli avrebbe dato la gloria.