Adriano - racconti e altro

Invisibile

Era seduto nel suo solito angolino quando vide arrivare l’uomo invisibile. Come quasi tutti i giorni, seguendo quasi sempre lo stesso percorso. Era davvero una persona costante, l’uomo invisibile.

Spuntava dal lato destro del campo, uscendo da una piccola macchia di alberi striminziti che non la potevi definire boschetto neanche con tutta la buona volontà di questo mondo. A volte spuntava dal limitare più basso degli alberi, a una decina di metri da lui, ma più spesso sceglieva di emergere più in alto, a ridosso della pista ciclabile rialzata. Pista ciclabile per mountain bike, d’accordo, ma erano dettagli secondari. Non ne vedevi molte, non a quell’ora. Vedevi l’uomo invisibile.

Che non era invisibile, ovvio, altrimenti non lo avrebbe visto. Lo chiamava così perché era vestito come il personaggio del romanzo di Wells, grossomodo. Cappello a falde larghe in testa, giacca che gli arrivava sotto la vita, pantaloni da lavoro, stivaloni di gomma, maschera a coprire la metà bassa della faccia, occhiali scuri a coprire la metà alta. Doveva esserci una qualche persona lì sotto, ma lui non l’aveva mai vista. Così era diventato l’uomo invisibile.

Camminava piano nel campo incolto, aiutandosi con un lungo bastone da escursionista. Aveva l’aria di essere vecchio, o almeno si muoveva come un vecchio, e il suo corpo faceva pensare a un uomo più che a una donna, per quanto si poteva vedere, ma in realtà poteva essere qualunque cosa. Era un mistero, a modo suo. Non uno molto interessante, ma buono per passarci qualche minuto di noia, se non avevi di meglio da fare. Lui di solito non aveva di meglio da fare.

Era un angolo di erba e vegetazione ai margini del paese. Non ancora campagna e non parco, solo il frammento vuoto e abbandonato lasciato forse indietro da epoche migliori, quando le coltivazioni si stendevano ovunque e i rifiuti un po’ meno. Forse era stato il campo di qualcuno, anni prima, ma al momento era una terra di nessuno, dove potevi portare il cane, pedalare un poco e dedicarti ad altre attività per cui non volevi un grande pubblico. Suonare male uno strumento musicale, per esempio.

Non c’era mai grande pubblico, a quell’ora. Qualche ciclista ogni tanto, magari un tizio col cane, la poca brigata che fa la vita beata. C’erano soprattutto lui, con la sua ocarina, e l’uomo invisibile, che quasi ogni giorno passeggiava da solo nel campo, attraversandolo da un lato all’altro e ritorno. Passi lenti, appoggiato al bastone. Camminava e poi spariva. Era fatto così.

Aveva pensato di salutarlo, un paio di volte. Aveva anche avuto l’impressione che si girasse verso di lui, quando usciva dalla parte più bassa del boschetto miserabile. Un semplice cenno con la mano, a indicare che sì, lo aveva visto e sì, lo aveva riconosciuto. Io sono qui e tu sei li, io sono sempre qui e tu passi quasi sempre lì. Un modo per marcare il territorio, forse.

Ancora non lo aveva fatto. Smetteva di suonare, quando spuntava l’uomo invisibile, aspettava che si fosse allontanato a sufficienza e poi ricominciava. Si vergognava un poco a farsi ascoltare. Non era molto bravo e i pezzi che suonava, beh, non c’era niente di male, d’accordo, ma non gli piaceva che altri li ascoltassero. Avrebbero potuto, non so, fraintenderlo. Pensare male dei suoi gusti. Così anche quel pomeriggio attese che l’uomo invisibile si fosse allontanato e poi riprese a suonare. Suonava l’Ave Maria di Schubert, in un adattamento non malvagio ma con una esecuzione scialba. Era certo che prima o poi sarebbe migliorato.

Suonò, mentre nuvole e schiarite si alternavano nel cielo di primavera. Era un giorno come tanti, un pomeriggio come tanti, e come in tanti altri giorni e pomeriggi lui non stava facendo alcunché. Non il modo peggiore per passare il tempo, ma neanche il più soddisfacente. Pure, era ciò che faceva.

L’uomo invisibile, adesso. Che persona poteva essere? Perché era sempre così imbacuccato? Non ne potevi vedere un solo centimetro, non almeno da una certa distanza. Da vicino magari sì, un pezzo di pelle poteva anche essere visibile, ma da lontano era solo un fagotto di vestiti. E un bastone, già. Poteva anche essere uno strano Odino timido, volendo.

Che idee stupide che gli venivano! Le scacciò suonando ancora un poco l’ocarina, mentre la sagoma dell’uomo invisibile si allontanava nel campo, diventando sempre più piccola. Era solo una macchia poco più grande di un insetto sul parabrezza, ormai, ma presto avrebbe completato il giro e sarebbe tornato indietro. Lo faceva sempre. Era regolare, l’uomo invisibile.

Abbassò l’ocarina e ne asciugò distratto l’imboccatura. Era davvero regolare, l’uomo invisibile. Era quasi il personaggio di un videogioco, uno di quelli che ha un suo percorso ben definito e continua a ripeterlo, qualunque cosa tu faccia. In quei giochi di solito tocca a te interrompere la sua routine, per arrivare a un qualche tipo di risultato: recuperare l’oggetto a cui fa la guardia, raggiungere una porta o un corridoio, cose così. Che cosa sarebbe successo se lui avesse provato a interrompere la routine dell’uomo invisibile? Era un pensiero. Era una curiosità.

Non sarebbe successo alcunché di particolare, ovvio. Non era un videogioco, ma la realtà, e la realtà segue raramente le regole dei videogiochi. Qualcosa però sarebbe potuto cambiare davvero. Niente di trascendentale, ovvio, ma un piccolo cambiamento ci poteva essere. Tipo?

Ci pensò, ricominciando a suonare.

Beh, se avesse interrotto l’uomo invisibile con un saluto, che era la cosa più realistica da fare, niente di particolare sarebbe accaduto. Poteva rispondere, poteva non rispondere. Poi avrebbe tirato dritto, fine della storia. Avrebbe però stabilito, non so, un tipo di contatto tra loro. Invece che due perfetti sconosciuti e basta, sarebbero diventati due perfetti sconosciuti che si salutano cordialmente. O giù di lì, ci siamo capiti. Sarebbe stato...

Inutile, sì, d’accordo, ma forse non così inutile. A volte era lui convinto di non esistere. Se ne stava seduto lì in un campo, ai margini, e suonava l’ocarina. Si fermava quando si avvicinava qualcuno e ricominciava quando il pericolo era passato. Non che si avvicinassero in molti, ma i pochi che ogni tanto si avvicinavano gli davano sempre la sensazione di, non so, di ignorarlo. Come se lui neppure ci fosse. Gli andava bene, da un lato, ma lo infastidiva anche.

C’era un ciclista, per esempio. Di tanto in tanto passava sul sentiero lì davanti, pedalando per i fatti suoi, e non si girava mai a guardarlo. C’era anche un tipo col cane, una specie di piccolo bulldog o variazione sul tema, bianchiccio e piuttosto ridicolo da vedere: lo incrociava raramente, ma quando gli capitava il risultato era sempre lo stesso. Cioè nulla. Lo ignoravano sia il tizio che il cane. Era un sollievo, perché molti cani hanno il brutto vizio di saltarti addosso con le zampe sporche di fango, e lui era pure seduto nel prato, una preda facile facile. Ma il cane lo ignorava. Neppure si avvicinava a dargli un’annusata, come fanno i cani. Era strano, già.

E quindi?

Abbassò di nuovo l’ocarina. Quindi non lo sapeva neppure lui. Poteva salutare l’uomo invisibile, se davvero ci teneva, e magari da quel momento avrebbero cominciato a notarsi a vicenda, due tizi che passano nella stessa zona e si scambiano un cenno quando si incrociano.

Non sembrava molto interessante, messo così.

Rimase seduto a suonare ancora un poco, poi si alzò al solito orario e si incamminò sulla strada del ritorno, dopo aver riposto l’ocarina nella sua custodia. Non aveva visto passare l’uomo invisibile, e a quell’ora anche lui era sempre sulla strada del ritorno, ma non era un problema. Non era stato così attento e poteva essergli sfuggito. A volte succedeva, quando si concentrava di più sulla musica. O i suoni che produceva, quantomeno: non proprio musica, in effetti, non quando il fa alto non ti usciva mai intonato. Chiamiamolo rumore e sarà meglio per tutti. Comunque non aveva visto il ritorno del nostro uomo invisibile, ma non se ne preoccupava. Poteva succedere.

Lo vide mentre rientrava lui.

Era fermo dietro una curva, quasi nascosto da bambù striminziti e malati, e non era solo. Se ne stava lì assieme al tizio col cane e forse parlavano, di sicuro gesticolavano. Peccato che fossero lontani: la voce dell’uomo invisibile lo incuriosiva e gli sarebbe piaciuto sentirla.

Non accadde, non quel pomeriggio. Passò oltre, a distanza di sicurezza. Nessuno dei tre diede segno di averlo notato, neppure il cane, che aveva l’aria di annoiarsi parecchio. Oh beh, niente di nuovo. A essere nuovo era il fatto che l’uomo invisibile avesse un, ok, magari non amico, ma conoscente sì, e il suo conoscente era proprio il tizio col cane. Normale. Giravano entrambi nello stesso posto, anche se non sempre negli stessi giorni. Era realistico che si conoscessero.

Perché non conoscevano lui?

Perché lui li aveva sempre ignorati.

Così decise che il giorno dopo avrebbe cambiato. Sarebbe tornato a sedersi al solito posto e avrebbe suonato l’ocarina, sempre come al solito, ma all’arrivo dell’uomo invisibile avrebbe fatto qualcosa di diverso. Lo avrebbe salutato. Giusto un cenno con la mano, tanto per cominciare, ma lo avrebbe fatto. E poi... ma al poi avrebbe pensato poi, se necessario.

Non che ci potesse essere un gran poi.

Non che fosse davvero un gran problema. Solo un cenno con la mano, per carità!

Armato del suo proposito più saldo, il giorno dopo sedeva nel solito angolo del campo abbandonato. Sole e nuvole si alternavano sopra di lui, l’ocarina era una solida e piacevole presenza di terracotta tra le sue dita, le note non erano proprio così solide e piacevoli come suono, ma tutto procedeva nel migliore dei modi possibili, o almeno il migliore che lui si potesse realisticamente aspettare. Era un giorno come gli altri, ma allo stesso tempo non lo era. Era il giorno.

O qualcosa del genere, ci siamo capiti.

L’uomo invisibile apparve al solito orario, sbucando dallo sputacchio di alberi striminziti che non si sarebbe mai potuto descrivere come un boschetto, non senza vergognarsi della menzogna. Politici e giornalisti lo avrebbero potuto fare senza problemi, in altri termini, essendo due categorie incapaci di vergogna per selezione professionaturale. Ma non è rilevante. È rilevante l’uomo invisibile.

Camminava a passo lento, appoggiandosi al bastone. Avvolto da cappotto, cappello, guanti, stivali, mascherina, occhiali e quant’altro, era una figura indecifrabile come sempre, ma era un umano, un normale umano. Giusto il giorno prima lo aveva visto parlare e gesticolare assieme al tizio del cane. Se parlava e gesticolava con quel tizio, poteva risparmiarsi un cenno di mano anche a lui, giusto?

Giusto o sbagliato che fosse, era tempo di provare.

Smise di suonare l’ocarina, alzò la testa, fissò lo sguardo sull’uomo invisibile, sollevò la mano che non teneva lo strumento, distese le dita, ruotò leggermente il polso. Là! Cenno di saluto fatto.

L’uomo invisibile passò oltre. Non si girò neppure a guardarlo.

E adesso? Abbassò lentamente la mano, con le dita che si accartocciavano come un ragno colpito a morte. Non lo aveva visto, ovvio. Non era che lo aveva proprio ignorato, non volontariamente. Era solo che non lo aveva visto. Tutto qui. L’uomo invisibile non si era accorto di lui. Forse non avrebbe dovuto smettere di suonare. Se avesse continuato a fare rumore, l’uomo invisibile lo avrebbe notato e, sì, avrebbe anche risposto al cenno. Probabilmente.

E adesso? Lo guardò allontanarsi, rimanendo seduto nel suo angolo di campo. Tentativo fallito. Era il caso di ritentare, magari il giorno dopo? Forse no. Non era una cosa importante, dopotutto. Solo il più piccolo dei cenni di saluto a una persona che lui neppure conosceva. Un passante. E parecchio strano, come se non bastasse. No, non valeva la pena di ritentare. Non ne avrebbe ricavato alcunché.

Pure, lo seccava. Si era divertito a chiamarlo “uomo invisibile”, ma alla fine il più invisibile dei due si era dimostrato lui. Era ironico, ma in un brutto modo, in uno che sentiva di non meritarsi. Non gli aveva fatto niente di male, no? Era solo, beh, così. Qualcosa del genere. Giusto?

L’uomo invisibile si allontanava, diventando sempre più piccolo. Oh beh, era andata. Ricominciò a suonare l’ocarina, ma la concentrazione era svanita e le note ancora più schifose del solito. Non gli sembrava possibile, ma ci stava riuscendo. E c’era chi pensava che l’ocarina fosse facile. Hah! Non avevano mai sentito la sua, ecco.

Nessuno l’aveva mai sentita, in effetti. Smetteva sempre di suonare, quando qualcuno si avvicinava. Di tanto in tanto era possibile che qualcuno lo sentisse, se lui non si accorgeva in tempo, ma non era la stessa cosa e non contava. Non lo sentiva nessuno, ecco. E nessuno lo vedeva.

Era lui il vero uomo invisibile, anche se si vestiva normalmente.

Al solito orario si alzò e si incamminò verso casa. Sul lato opposto del campo si poteva vedere una sagoma col bastone, che procedeva piano lungo la pista ciclabile rialzata. C’era anche qualcuno che pedalava sulla pista stessa, con caschetto che luccicava un poco nel sole pallido. Per un attimo ebbe voglia di alzare una mano, ma sarebbe stato inutile fare un altro cenno. Troppo lontani, nessuno mai lo avrebbe notato. Non lo notavano neppure a dieci metri di distanza, figurarsi a due o trecento, che forse erano anche di più. Chinò il capo e tirò dritto.

Un tizio col cane gli veniva incontro, ma non era il solito tizio col cane. Era più giovane, il cane era una specie di meticcio con una manciata di geni presi da almeno una razza di cani da caccia, il resto venuto da chissà dove. Doveva fargli un cenno? Poteva fargli un cenno? Sì, ma solo se il suo cane si accorge di me, si disse. Se mi annusa, se reagisce in un qualche modo alla mia presenza.

Il cane passò oltre, come se neppure esistesse. Il suo padrone uguale. Ottimo.

Capo sempre più chino, continuò sulla strada di casa, lasciandosi dietro il campo. Esisteva davvero? Non ne era più così sicuro, al momento. Controllerò nello specchio, si disse, e forse lo avrebbe fatto davvero. O forse no. Non aveva poi così importanza. Era lui il vero uomo invisibile, giusto?

Giusto?

di Adriano Marchetti