Adriano - racconti e altro

Pecore smarrite

Aulo Clodio Liberato aveva un problema. In qualità di pastore apprendista assunto in prova, di problemi ne aveva parecchi, non ultimo dei quali la sua scarsa attitudine per un lavoro in mezzo agli animali, ma fra tutti ce n’era uno che lo infastidiva ben più degli altri. Un problema che rispondeva al nome di Lucio Fauno.

Rispondeva anche a svariati altri nomi, più o meno offensivi, con cui lo chiamavano i pastori più anziani, ma Lucio Fauno era quello che gli apparteneva. In teoria. Quello con cui si presentava ai colleghi, se non altro, e che usava tra gli umani. Perché Lucio Fauno, pastore apprendista proprio come Aulo e approssimativamente suo coetaneo, aveva un piccolo particolare, che lo differenziava dagli altri pastori della zona: era un fauno. Un fauno fauno, con le gambe da capra, le orecchie da capra e le corna da capra. E un vago odore da capra, anche se si lavava spesso, presumibilmente per mascherarlo. Un fauno.

Aulo non aveva mai creduto ai fauni. D’altro canto, anche Lucio Fauno sembrava non credere molto ad Aulo, per cui le due cose si compensavano, da un certo punto di vista. Aulo non credeva ai fauni, perché erano creature delle leggende, di quando c’era ancora la repubblica o addirittura i re: storie che i vecchi raccontavano ai nipoti, per farli divertire. Certo, adesso li vedevi un po’ dappertutto, in campagna, ma questo era un altro discorso: erano comunque immaginari, anche se lavoravano come gli umani, e spesso anche meglio degli umani, specialmente quando c’erano greggi di mezzo. Lucio invece non credeva ad Aulo, perché era un pastore svogliato e incompetente, e non era stato molto contento, quando il pastore capo li aveva appaiati, per concludere il tirocinio.

Pessima storia, il tirocinio. Aulo non avrebbe voluto fare il pastore, ma lì dove viveva, l’appennino dietro Velleia, non c’erano molte alternative, specie per chi non era proprio brillante. Aveva scelto il pastore, perché si trattava solo di guardare un gregge di stupide pecore: persone ben più primitive di lui c’erano riuscite senza problemi, per secoli. Non doveva essere poi così difficile, giusto?

Sbagliato. Le pecore erano stupide, certo, ma Aulo non era proprio il nuovo Aristotele, a dire la verità. Non è che le pecore lo battessero in intelligenza, d’accordo, ma aveva grandi problemi a farsi ascoltare da loro. Lo ignoravano. Lo deridevano, di questo era quasi sicuro: si capiva da come quelle beste maledette ghignavano, attorno a lui. E poi c’era Lucio.

Lucio era bravo con gli animali. Lucio sapeva farsi ascoltare. Lucio sapeva farsi obbedire, anche senza bisogno di dare ordini. Le pecore amavano Lucio. E anche i pastori anziani e più esperti, dopo aver brontolato un poco, avevano accettato Lucio nel loro gruppo e lo insultavano solo per vezzo, senza cattiveria. Aulo gli avrebbe strappato le corna a morsi. Quando il tirocinio era giunto all’ultima fase, avevano diviso gli apprendisti in gruppi di due e a ogni gruppo avevano assegnato una ventina di pecore, per vedere come se la sarebbero cavata da soli, sul campo (letteralmente). E ad Aulo era toccato proprio Lucio. Lo avevano invidiato, gli altri. Beoti!

Per i primi due giorni, tutto era andato abbastanza bene. Si erano divisi il lavoro in turni, così da potersi riposare a sufficienza e vedersi il meno possibile; le pecore brucavano pacifiche sul monte, il sole splendeva e Aulo poteva quasi credere che, nonostante tutto, il suo tirocinio si sarebbe concluso con successo, fauno o non fauno. Non stava facendo un lavoro perfetto, questo era anche disposto ad ammetterlo, e ogni tanto doveva inseguire qualche pecora. Lucio lo aveva sgridato un paio di volte, perché non sapeva curare gli animali. Nel complesso, però, era andato bene.

Fino al disastro.

È vero, era il suo turno. È vero, si era seduto all’ombra di un albero, per fare un rapido spuntino. È vero, si era distratto. Forse si era anche appisolato, ma solo per un momento. Due momenti, forse. Non aveva certo dormito per tutto il tempo! Sarebbe stata una calunnia, accusarlo di questo. Ma era l’accusa che Aulo leggeva, negli occhi di Lucio.

«È sparita una pecora.»

Ci sono molti modi spiacevoli, per essere svegliati da un sonnellino pomeridiano: un fauno che ti fissa e pronuncia queste parole, per un pastore apprendista come Aulo, si posiziona al sesto posto, a sgomitare col quinto.

«Le hai contate?», aveva chiesto Aulo, raddrizzandosi e spazzandosi i vestiti. Non stava dormendo, era solo immerso in riflessione. Anzi, in preghiera. Ecco. Pregava. Non c’è niente di male a pregare.

«Due volte. Erano venti e adesso sono diciannove. Ne hai persa una.»

Aulo era stato costretto a convenire. Diciannove. Ne mancava una. E l’aveva persa lui. «E adesso?» aveva chiesto a Lucio, col terrore che si faceva strada nella sua mente, divorando ogni cosa.

«La cercherò io, non preoccuparti», gli aveva risposto il fauno. E aveva accompagnato la frase con un gesto della mano, come a volerlo liquidare, come a volergli dire lascia perdere, umano inutile, ci penserà un professionista a sistemare i tuoi disastri. Non mi aspettavo altro, da uno come te. O almeno così lo aveva voluto interpretare Aulo, sospeso tra vergogna e rabbia per il suo errore. Ogni tanto, sapeva essere sorprendentemente creativo.

«No, lo faccio io» aveva obiettato. «Tu controlla le altre.» Ed era partito, Aulo, e aveva camminato per tutto il pomeriggio, su e giù per la montagna, in cerca di quella maledettissima pecora, che Orco se la pigliasse e ci si strozzasse! E adesso era il tramonto ed era stato inutile: era stanco, arrabbiato, infangato, ma quella pecora latitava ancora. Per colpa sua. Perché si era appisolato sul lavoro. E cosa gli avrebbe detto adesso, quel fauno? Che risate si sarebbe fatto sulla stupidità degli umani?

Calava già una sera tiepida, di tarda primavera, quando Aulo raggiunse di nuovo il gregge. Lucio si girò verso di lui, con una speranza che cambiò subito in tristezza negli occhi, quando lo vide tornare a mani vuote. «Niente da fare?» chiese, tanto per dire qualcosa. La risposta era ovvia.

«Niente» mugugnò Aulo, fissandosi i calzari. Il suo viso cambiò diversi colori, per stabilizzarsi su un rosso tenue, venato di bianco. Aveva fallito e lo doveva ammettere proprio di fronte alla persona che meno sopportava. Un fauno, uno che neppure sarebbe dovuto esistere, in un mondo sensato. Un tizio spuntato dal nulla, per umiliare gli umani e rubare loro il lavoro.

«Rimani qui con le altre, vedrai che la troverò io» disse Lucio, con un sorriso. «So come fare, in casi come questo.»

«Perché tu sei un fauno?» chiese Aulo, con una smorfia.

«Sì. E perché una pecora si è persa e noi ne siamo responsabili.» Detto questo, Lucio Fauno se ne andò, risalendo a grandi passi l’appennino. Aulo poté solo fissare la sua schiena, che si allontanava nella luce morente. Poi si girò verso le altre diciannove pecore, sospirando, cercando di non pensare che quelle bestie schifose stessero sghignazzando alle sue spalle. «Guardalo, l’umano incapace» si dicevano di sicuro. «Non troverebbe neppure l’acqua nel Po.» Maledette!

Noi ne siamo responsabili, aveva detto Lucio. Perché “noi”? Perché non aveva dato la colpa solo a lui? Perché era stata tutta colpa sua, se la pecora si era smarrita, e il fauno lo sapeva benissimo. Ma aveva detto noi. Voleva sembrare generoso, per farlo sentire ancora più responsabile, ancora più in colpa? Possibile, sì. In fondo, non ci si poteva attendere molto altro, da un tizio col culo da caprone. Perché non avevano continuato a non esistere, come prima? Da dove erano spuntati, quei fauni? E perché lui si era andato proprio a infilare in un lavoro come quello? Pastore, di tutte le cose!

Aulo Clodio Liberato era disceso come una meteora nel pozzo di gravità dell’autocommiserazione e ormai prossimo all’impatto col terreno, quando Lucio tornò dalla sua cerca. Il buio non era ancora completo, ma la sua cerca sì: in un tempo spaventosamente breve, almeno agli occhi dell’umano, era tornato con la pecora smarrita, che camminava al suo fianco. Lo avrebbe quasi abbracciato, se non gli avesse fatto schifo abbracciare un mezzo caprone.

«Come hai fatto?» riuscì solo a chiedergli, non certo la più originale delle domande, ma per sempre efficace, quando volevi sapere come avesse fatto qualcuno a compiere una certa operazione.

«Sono un fauno» rispose Lucio, stringendosi nelle spalle. «Occuparmi degli animali al pascolo è sempre stato il nostro lavoro, no? Per questo i tuoi avi pregavano i miei avi.»

Già, gli spiriti dei campi, protettori del bestiame. Suo nonno gliene aveva parlato di sicuro, anni fa, ma lui aveva rimosso tutto quanto. Era ovvio che quel fauno fosse un pastore così bravo; non c’era proprio alcuna competizione, tra loro. Erano su due livelli completamente diversi.

«Per questo adesso siete venuti qua, a lavorare al posto nostro?» chiese Aulo, con amarezza. L’idea non lo rallegrava molto, ma era chiaro che doveva rassegnarsi. Non poteva competere con lui. «È per questo che siete spuntati fuori di colpi, proprio adesso?»

«No, non è per questo.»

«Perché, allora?»

«Per sopravvivere.»

«Sei sicuro che sia la scelta giusta?»

Aulo Clodio Liberato non ne era sicuro, ma sapeva che quella era l’unica scelta, giusta o sbagliata che fosse. Anche a distanza di due settimane dall’incidente della pecora, non aveva cambiato idea. Ammesso che di idea si potesse parlare.

«È giusto così, non ti preoccupare» gli rispose. «Sei molto più adatto tu di me, per il lavoro. E poi io troverò qualcosa di meglio, in linea con le mie capacità.»

Lucio Fauno non sembrava molto convinto, ma non commentò. Ne avevano già discusso, da quella sera, e non era cambiato alcunché. Lucio aveva proposto di nascondere l’incidente della pecora, così entrambi sarebbero stati assunti come pastori, ma Aulo aveva rifiutato. L’errore era stato suo e lui se ne sarebbe assunto la responsabilità. Giusto? Ne erano responsabili, loro.

Così era andata e il risultato era stato quello che chiunque si sarebbe aspettato: Lucio Fauno assunto come pastore a tempo indeterminato, Aulo Clodio Liberato respinto per incompetenza. Nessuno aveva protestato. E dopo aver ricevuto una benedizione paterna a suon di bastonate, Aulo si era preparato a una nuova svolta nella propria vita, lanciandosi in una folle avventura: sarebbe andato a cercare fortuna in una grande città.

«Potrebbe essere una scelta un po’ troppo azzardata, lo sai?» gli disse Lucio, con un certo disagio. I fauni non sembravano molto bravi con gli eufemismi, né con le bugie misericordiose. O almeno, Lucio non sembrava esserlo. Aulo sorrise.

«Non più azzardata della vostra scelta, dopotutto» gli rispose. «E se ci siete riusciti voi, perché non ci dovrei riuscire anche io?»

A questo, Lucio non replicò. «Fatti sentire, quando ti sarai sistemato» si limitò a dire.

«Non avrò bisogno di farmi sentire; sarà la mia fama a raggiungervi!»

E con quella sparata, Aulo si incamminò verso il futuro incerto della grande città. Sarebbe potuta andare in un modo diverso, certo. Sarebbe potuta andare in mille modi diversi, ma era andata così. Il suo era un sogno folle, ma non più folle di altre cose, che aveva sentito. Non più folle di ciò che Lucio gli aveva raccontato, la sera fatale della pecora. Quel racconto sui fauni e sul perché avessero deciso di mischiarsi agli umani. O sul perché fossero stati costretti a deciderlo. Per sopravvivere.

Se ne era sentito responsabile, in parte. Perché non aveva mai creduto ai fauni, alle ninfe, ai centauri e così via, ridendo delle loro storie. Scemenze, le considerava. Poi quelle scemenze erano entrate nel suo mondo, cambiandolo per sempre. Cambiando anche lui.

«Se ci sono riusciti quei mezzi caproni, perché non dovrei farcela anche io?» si era chiesto. Se loro avevano trovato il coraggio di cambiare la realtà, invece di rassegnarsi alla storia, perché non ci avrebbe dovuto provare anche lui? Il dio Pan era morto, dicevano, ma i fauni erano vivi e vegeti. Se il posto in cui era nato non gli offriva più spazio, Aulo sarebbe andato a cercarselo altrove. Anzi, a scavarselo altrove. E avrebbe dimostrato a Lucio che anche gli umani sanno cambiare, per vivere.

Con un ultimo sguardo alla campagna, imbiancata di pecore, Aulo Clodio Liberato si avviò verso il suo futuro. O almeno, si avviò verso la grande città, con tutto quello che ne sarebbe venuto.

di Adriano Marchetti