Adriano - racconti e altro

Un posto pieno di errori

Era notte, era ferito, faceva freddo e si era perso nella foresta. Sarebbe forse potuta andare peggio, e Dario Sforti sapeva anche come, ma non ci voleva pensare. Di problemi ne aveva già a sufficienza e non c’era bisogno di aggiungerne altri. E poi lo smartphone non funzionava.

O meglio, funzionava, grossomodo, ma non c’era campo e la batteria era quasi scarica. Tanti saluti a chiamate di emergenza e navigatori. La cavalleria non sarebbe arrivata, non da quella parte. Poteva usarlo per fare luce, e per un poco ci aveva provato, ma così consumava ancora più carica ed era un genere di spreco che non si poteva permettere. Non mentre era disperso in una foresta, di notte.

Perché era almeno possibile che prima o poi trovasse un punto dove ci fosse una tacca, una misera e maledettissima tacca, e allora lo smartphone gli sarebbe servito per chiamare aiuto. Consumare tutta la batteria come torcia? Roba da pazzi. E lui non lo era. Pazzo, dico. Non credeva di esserlo, se non altro. Anche se, per un momento. Ma no. E ancora no.

Così Dario camminava, senza idea di dove andare. Sapeva di dover scendere, perché aveva passato il giorno a salire, prima che cominciassero i problemi. Se sei su una specie di montagna, scendere è sempre la soluzione giusta, no? In pianura ci sono più paesi, case, strade, tutto. Più soccorsi. E lui sì che aveva bisogno di soccorso. Con quel braccio, poi...

Dario lo controllò. Sanguinava ancora, ma piano. Meglio così. La ferita era brutta, ma non grave, ed era un piccolo sollievo. Forse si stava chiudendo, forse il sangue cominciava a coagularsi, forse quel che era. Dario Sforti era graphic designer, non medico: cosa ne sapeva lui di ferite? Poco o niente.

Abbastanza per sapere che era una brutta ferita. Un brutto morso.

Si fermò a riprendere fiato, schiena contro il tronco di un albero e occhi che cercavano di guardare in tutte le direzioni. Vedevano solo buio, varie tonalità di nero, ma guardavano lo stesso. Quella era un’altra pianta, giusto? Probabilmente sì. Ce n’erano dappertutto. E quella sagoma era una specie di masso, o forse una roccia, qualunque fosse il nome corretto. E... sì, quello un tronco caduto. E tutto era fermo. Niente che si muovesse, niente che si avvicinasse. Probabilmente. Sospirò.

Proprio una brutta storia, già, e non sembrava voler finire. Perché?

Ci aveva riso, in paese. Il monte delle galline lupo? Hah, che scemenza! Come se li inventano certi nomi? Montanari, proprio. Il vecchio dietro il bancone aveva scrollato le spalle e gli aveva spiegato che era una una specie di leggenda locale, niente di importante. Dario aveva sorriso e annuito, più interessato a controllare che il tizio non lo fregasse col peso del salume. Non ti potevi fidare di quei negozianti. Gli chiedevi panini con un etto e mezzo di speck e loro te li preparavano con meno di un etto, per poi fregarti con bilance sballate. Parlami pure di galline, che io intanto guardo cosa fai tu.

E il vecchio aveva parlato, e Dario non lo aveva ascoltato. Si erano salutati civilmente, sorrisi e così via, e alle galline non aveva pensato più. Ai lupi ancora meno. Fino a quando non erano cominciati i problemi, ovvio, ma a quel punto era già troppo tardi. È sempre troppo tardi, quando cominciano.

Uno scherzo, eh? E probabilmente lo era davvero. Peccato che lo scherzo l’avessero fatto a lui.

Doveva essere una normale escursione, come ne faceva di tanto in tanto. Era single, era in ferie, non aveva altro da fare. Perché non una giornata di trekking in montagna? Da ragazzo gli piaceva, più o meno, e se adesso non era più un ragazzo da qualche anno, che importanza aveva? Momento giusto per ritornarlo, almeno per un poco. Una giornata da uomo della frontiera, prima di tornare a sedersi in salotto, davanti a una schiera di stupidi schermi. Qualcosa di sbagliato?

Niente di niente, fin qui. Lo aveva già fatto, qualche volta, con risultati forse non fantastici, ma non gli era mai andata peggio che un pantalone stracciato, scarpe infangate e un raffreddore perché non aveva messo un impermeabile nello zaino ed era venuto a piovere di brutto. Tutto qui. E stavolta la pioggia non sarebbe stata un problema: aveva controllato le previsioni e aveva sia un impermeabile che un poncho di plastica. Era praticamente a posto.

Ma non lo era stato.

Aveva deciso di fermarsi lì e affrontare quella particolare montagna, perché gli era sembrava molto pittoresca dall’auto e in paese gli avevano spiegato che il sentiero era buono, non troppo lungo, non troppo impegnativo, magari due o tre passaggi un po’ duretti ma niente di che, davvero. Dario aveva fatto domande e ricevuto risposte, aveva comprato panini, chiacchierato un poco con la gente, tanto per sentirsi superiore e acculturato, sfoderando congiuntivi e un italiano impeccabile. Solita storia, il copione di ogni sua gita fuori porta. Non erano frequenti, ma erano tutte uguali.

Dario adorava una sana, monotona e costante piattezza. Regolare è naturale, almeno nel mondo che teneva dentro il cranio, e regolare era stato il suo passo, all’inizio. Aveva parcheggiato dove gli era consentito parcheggiare, si era sistemato lo zaino in spalla, aveva controllato che la bussola smart e le mappe smart fossero attive e funzionanti, aveva annuito compiaciuto ed era partito, attraverso un bosco che di lì a poco sarebbe diventato foresta.

Il sentiero non era il massimo, ma era facile da seguire, non tirava ancora troppo, poco fango, poche trappole, poco fastidio. Poteva essere una buona escursione e lo era stata, per un po’. Fino a che non lo era stata più.

Dopo tre ore di cammino, quasi tutte in salita, ancora non era arrivato alla vetta. Neanche era uscito dal bosco, foresta o quello che era. Questo era male. Che avesse sbagliato strada? Ma non sembrava possibile. C’erano stati due o tre bivi, d’accordo, ma lui aveva sempre seguito quello giusto. Glielo aveva confermato anche la bussola smart. Non c’erano segni a indicargli la pista, ed era male, ma il CAI non poteva avere mappato ogni stradina di montagna, no? Lo avrebbe dovuto fare, certo, ma il mondo non era giusto e regolare come sarebbe dovuto essere. Era un posto pieno di errori.

Così Dario aveva estratto lo smartphone e controllato la bussola. Scoprendo che non funzionava. Lo schermo rimaneva nero, con un messaggio bianco su fondo rosso che lo avvisava della connessione assente. Orrore! Come potevano esistere ancora angoli di mondo senza connessione? Pure, ce n’era uno e lui ci era andato a finire in mezzo. Davvero un posto pieno di errori, il mondo, e nessuno che si prendesse la briga di correggerli. Ah, che brutta epoca che era la sua.

Aveva provato con altre app, ma tute richiedevano una connessione per funzionare. Perfino funzioni inutili come la chiamata richiedevano rete, e lì la rete non c’era. Il suo brillante smartphone era solo un piccolo parallelepipedo di plastica luccicante. Fastidio supremo!

Dario aveva continuato lungo il sentiero, che saliva e dunque andava nella direzione giusta. Prima o poi sarebbe arrivato in vetta e lì avrebbe trovato campo di sicuro. Campo, rete, tutto quanto. E non era tardi, anzi; di tempo ne aveva. Ma si sarebbe lamentato, oh sì! Col provider, che pubblicizzava di garantire rete ovunque, e con quello schifo di paese, che non sapeva neanche connettere il piccolo pezzo di monte dietro casa. Era indecente, davvero.

Ma la meta non si avvicinava. C’erano stati altri due bivi e Dario aveva scelto sempre quello che gli sembrava salire di più. Era una montagna, dopotutto: se sali, arrivi in cima. Funziona così, no?

Quella montagna specifica non sembrava essere d’accordo. Forse non aveva ricevuto il memo.

Dario si era seduto e aveva mangiato. Alberi, alberi e ancora alberi. Alcuni li riconosceva come pini ed era moderatamente sicuro di averne già visti anche altri, ma non era sicuro dei nomi e così non li usava. Il mondo contiene già abbastanza errori: non c’è bisogno di aggiungerne altri. C’erano sassi o rocce, o come si chiamavano, e alcune erano quasi coperte di muschio. Anche il ceppo su cui lui si era seduto aveva muschio, ma solo ai lati, e andava bene così: almeno non si sarebbe sporcato. Non lo aiutava ad arrivare in cima, ma una cosa alla volta.

C’erano rumori, come ce ne sono sempre nei boschi. Cose che svolazzano, che strisciano in mezzo a cespugli o altro, e versi di uccelli, di insetti, di tutto. Niente di grande, ma era logico: il peggio che ti poteva capitare, in posti come quello, era una vipera col mal di denti. Non era preoccupato, Dario. A tratti infastidito, sì, con un retrogusto di seccatura, ma preoccupato? Hah, figuriamoci!

Alle tre del pomeriggio non era ancora arrivato. Ok, si era perso, adesso era ufficiale. Continuava a non avere senso, ma non poteva più negare il problema e lo doveva risolvere. Devi sempre risolvere i tuoi problemi: dare la colpa a un altro non basta, specie quando ci sei solo tu.

Ma come? Lo smartphone rimaneva sordo e muto, le app inutilizzabili e perché non aveva pensato a portarsi anche una mappa di carta? O una bussola fisica, ecco: anche quella sarebbe andata bene. Le bussole non le sapeva usare, d’accordo, ma cosa ci vuole? La punti e lei ti indica il nord, no? Il resto non serve. Ci sarebbe riuscito anche un idiota. Anche un manager, forse.

Ma Dario non aveva mappe, bussole e rete, così si era dovuto arrangiare da solo. Non sarebbe stato così difficile, dopotutto: bastava invertire la rotta. Se prima era salito, adesso sarebbe sceso. Niente altro che una passeggiata. La strada la sapeva già e magari aveva anche lasciato tracce.

Dario aveva cominciato a scendere, scoprendo quasi subito che di trace non ne aveva lasciate, quei sentieri sembravano tutti uguali, il paesaggio attorno era tutto uguale e insomma non avrebbe saputo dire se fosse la strada giusta, neanche con una pistola alla tempia. Ma scendeva e tanto bastava, per adesso. Prima o poi la montagna sarebbe finita, giusto?

Ma il giorno era finito molto prima della strada. Era buio. Era disperso.

Su un sentiero e a pochi chilometri dalla sua auto, d’accordo, ma restava comunque buio e lui non si sentiva più così sicuro su dove fosse parcheggiata la sua auto. Da qualche parte in fondo al sentiero, che però non voleva proprio finire. E aveva pure fame. E cominciava a fare freddo.

Dario aveva continuato a camminare ancora per un po’, seguendo quella che era la sola strada a sua disposizione. Scendeva, certo, e forse era quella giusta, ma ormai ci credeva poco. Il battito di ali lo aveva sentito per la prima volta pochi minuti dopo.

Niente di spaventoso, solo un qualche volatile che si avvicinava e forse si posava a terra. Qualcosa di abbastanza grosso, o almeno rumoroso. Ma non faceva paura. Poteva essere un piccione grasso, o un fagiano, o roba simile. Niente di pericoloso. Infatti non si era spaventato, Dario.

Col cazzo. Si era spaventato parecchio, ma solo per un momento. C’era stata una esplosione di ali e piume, frenetica, e Dario si era quasi ingoiato la lingua. Stava trafficando con lo smartphone, con la speranza di trovare rete, e ci era voluta tutta la sua scarsa manualità per non lasciarlo cadere. Per un momento aveva anche smesso di respirare. Aveva altri problemi e i polmoni non erano urgenti.

Poi il cervello si era fatto vivo. Come stai, Dario? Tutto bene lì sotto? Non proprio, ma si tira avanti. E il cervello lo aveva preso da parte e gli aveva spiegato tutto. Un fagiano, tutto qui. Lo sai anche tu come fanno, quei maledetti. Se ne stanno nascosti in mezzo alla vegetazione, in agguato, e proprio quando tu stai passando accanto a loro, senza sapere nemmeno che sono lì, ecco che balzano fuori e sbattono le loro ali del cavolo, con un rumore infernale. Ti fanno venire un colpo, lo sai. Giusto? La stessa cosa. Ne avrai spaventato uno che dormiva e... stessa cosa. Ovviamente. È logico, no?

Dario gli aveva creduto. Era sembrato più grosso di un fagiano, d’accordo, ma era buio, e il silenzio della foresta, o bosco, e il fattore sorpresa, e l’eco, questo e quello. Un fagiano normale, a cui la sua fantasia aveva aggiunto gli effetti speciali. Era un creativo, no? Appunto. QED.

Poi era cominciato il verso. Sembrava un chiocciare che sfumava in un ringhio. Un coccogrrrr, o un suono del genere. Un suono degenere, soprattutto. Veniva dallo stesso punto in cui due minuti prima si era spento il rumore di ali. Cosa poteva essere?

Non un fagiano. Dario conosceva il verso del fagiano ed era più una specie di pollo strozzato con un brutto caso di emorroidi, almeno nel suo immaginario. Non aveva niente di simile a quel ringhio chiocciante che sentiva adesso. Quindi...

Si era girato nella direzione da cui veniva il suono. Non voleva vedere, non davvero, ma lo doveva fare lo stesso: un riassunto della vita umana. Ma Dario non lo aveva visto, non proprio. Faceva buio e tutto ciò che poteva vedere erano ombre di varia forma, alcune immobili e altre no. Sembrava che una si stesse avvicinando. Un cespuglio mosso dal vento? Possibile, peccato che non ci fosse vento.

Dario aveva alzato lo smartphone, pronto ad attivare la torcia, ma aveva esitato. Lo voleva davvero vedere? Metti che fosse qualcosa che davvero non avrebbe voluto vedere? Era un rischio.

Ma il verso si avvicinava. Coccogrrrr, coccogrrrr, coccogrrrr.

Dario aveva acceso la torcia dello smartphone, aveva visto per un attimo una sagoma grande più o meno come un cane da caccia, ma che non aveva la forma del cane da caccia, aveva le ali, e aveva il collo della forma sbagliata, e una specie di cresta…

Chicchiriuuuuuu!

La cosa gli era balzata addosso, anzi svolazzata addosso, e Dario aveva cercato di colpirla in volo e batterla lontano, usando lo smartphone come mazza. L’aveva mancata, ma anche quella cosa aveva mancato lui, per cui erano pari. Poi era balzata di nuovo e stavolta non lo aveva mancato. Gli aveva azzannato il bicipite sinistro.

Quello sì che sembrava il morso di un cane. Non un grosso cane, ma la sua dimensione è secondaria se ce l’hai attaccato a un braccio, coi denti infilati nella tua carne. Fa male lo stesso. Fa malissimo.

Dario si era contorto e agitato, aveva mulinato le braccia a casaccio, era corso in avanti di quattro o cinque passi, poi aveva sbattuto contro qualcosa, qualcosa aveva sbattuto contro qualcosa, un frullio di ali e il braccio sinistro era libero. Sanguinava e faceva malissimo, ma il peso si era staccato.

Dario poteva solo sperare che non si fosse staccato anche il braccio. O qualche pezzo.

Ma era fuggito, ignorando ali, ululati chioccianti e tutto il resto del circo. Era fuggito a casaccio, un poco in avanti e poi nella prima direzione che gli capitava. Scendeva, perché scendere era più facile che salire, ma il panico era totale e non capiva niente altro. Aveva corso fino a che non aveva sentito solo il silenzio attorno a sé. Silenzio e un profondo ansimare. Il suo profondo ansimare.

Si era fermato il tempo necessario a controllare la ferita (brutta) e a pulirla come poteva con l’acqua che gli avanzava. Si era fasciato il braccio, cercando di stringere il più possibile, e aveva cominciato a sanguinare meno. Continuava, d’accordo, ma gli dava almeno la sensazione di andare meglio. Un poco meglio. Se non ci pensava troppo. Ma faceva malissimo e quello non lo poteva cambiare.

Aveva ripreso a muoversi, camminando in ogni direzione che lo portasse verso il basso. Ancora non si vedeva la fine della foresta, bosco o quel che era. Ancora non si vedeva e basta, senza luna o uno straccio di luce artificiale. Aveva acceso di tanto in tanto la torcia dello smartphone, ma la usava di rado. Non poteva scaricare la batteria. Era l’unica speranza che gli restasse. Arriva in un posto dove c’è campo e sarai salvo, l’incubo finito. Ma ancora non finiva. Non c’era campo. C’era solo bosco.

Cosa lo aveva aggredito? Dario non lo voleva sapere. Gli era sembrato di vedere una certa figura, lo doveva riconoscere, ma era troppo folle per essere vera. I nomi sono nomi e alcuni sono stupidi. Lo sono soprattutto i nomi dei posti. Tipo il monte su cui si trovava. Ma non poteva essere realtà. Era... un nome, appunto. Un nome stupido. Perché il mondo era un posto pieno di errori, come si diceva.

Eppure.

Le ali. Le dimensioni. La forma generale. Il verso. Le zanne che gli avevano dilaniato un bicipite.

Dario Sforti scosse la testa. Aveva visto male. Era spaventato, al buio, confuso. Aveva visto male. A morderlo era stato un qualche animale selvatico, magari uno con la rabbia, che era pessimo, ma era meglio di quello che credeva di avere visto lui. Quindi non ci avrebbe pensato più.

Non riusciva a smettere di pensarci.

La foresta era silenziosa. Attorno a Dario solo sagome nere di alberi, su uno sfondo poco meno nero e molto meno stabile. Perché gli alberi almeno erano fermi. Il buio attorno... a volte non ti sembrava fermo. A volte avevi l’impressione che si muovesse. Che qualcosa si muovesse. In silenzio.

Ma era stanco, ferito, affamato, assonnato. La mente faceva scherzi, faceva brutti scherzi. Dario non ne era contento, ma era meglio uno scherzo della mente che uno della natura. Perché... no. Basta. La situazione è brutta a sufficienza così com’è: non farti strani film dell’orrore in testa.

Dario cercava di non farseli. Dario non riusciva a smettere di farseli.

Inciampò, cadde. Era a pezzi. Non poteva andare avanti così. Aveva perso lo zaino da qualche parte, forse mentre scappava, e gli restavano solo lo smartphone, una borraccia vuota, fazzoletti, un pezzo di poncho e quello che aveva in tasca. Monetine, cianfrusaglie inutili. Aveva anche tanto sonno.

Dormire? Forse lo doveva fare. Era pericoloso, d’accordo, ma era davvero peggio che continuare a marciare al buio in una foresta sconosciuta? Dario ne dubitava. Poteva dormire da qualche parte, su un albero o rintanato nella vegetazione, e recuperare un poco di forze. Alla luce del sole tutto poi gli sarebbe apparso diverso. Migliore. Più sano. E avrebbe trovato la strada giusta. Corretto gli errori.

Sì, era la sola cosa da fare. La sola cosa sensata.

Dario controllò di nuovo lo smartphone. Niente rete. Sospirò, si guardò attorno, vide nulla, prese di nuovo lo smartphone, accese la torcia, si guardò attorno con un poco di luce. Individuò un posto che non offriva alcuna reale protezione, ma almeno ti poteva far sentire riparato e protetto, che era forse meglio di niente. E comunque non vedeva alternative. Letteralmente.

Dario spense il cellulare, aspettò che gli occhi si riabituassero al buio e raggiunse il posto che aveva scelto come non rifugio. O come rifugio psicologico ma non fisico, se preferite. Si afflosciò a terra come un sacco di letame, posò la schiena contro il tronco di qualcosa, sospirò, si accarezzò piano il bicipite ferito, sospirò di nuovo. Che brutta storia. Brutta, brutta storia.

Ma il sole avrebbe migliorato tutto. Ne era praticamente sicuro.

Dario si lasciò scivolare a terra e si acciambellò alla meglio, ignorando la robaccia che gli si infilava sotto i vestiti. Sperava di non essersi coricato sulle feci di qualche animale, ma non era importante, non adesso e forse mai. Voleva solo... dormire, sì. Dormire e fuggire dalla realtà. Una pausa. Aveva bisogno di una pausa. Il mondo lo aveva trattato molto male. Neppure un graphic designer come lui se lo meritava. In media. Da un certo punto di vista.

Era tutto davvero ingiusto. Davvero. E molto sbagliato.

Dario chiuse gli occhi e forse dormì. A riportarlo al mondo reale, se lo aveva lasciato davvero e se il posto in cui si trovava adesso era sul serio la realtà, fu un rumore. Un battito d’ali. Una esplosione di ali, che gli passò poco sopra la testa e si fermò lì vicino. Quanto vicino? Dario non lo sapeva.

Aprì un occhio. Buio. Aspettò un poco. Ancora buio, ma non uniforme. C’erano sagome, gradazioni di buio. Punti più scuri, punti meno scuri. Sagome immobili, sagome... mobili. Una sagoma mobile.

Era davanti a lui. Si stava avvicinando.

Chicchiriuuuuu!

Ali che si aprivano, artigli che grattavano il terreno. Qualcosa che balzava su due zampe, sbatteva le ali e diventava sempre più grossa, più vicina, più...

Dario vide un collo flettersi all’indietro, poi scattare in avanti. Aveva un muso da cane, ma non così grande e non così largo. Grande a sufficienza, però. E pieno di zanne.

Ma era impossibile. Non aveva senso. Ed era molto, molto antiestetico. Le proporzioni erano tutte sballate, una cosa simile non poteva neppure superare gli standard per essere considerata brutta. Era il genere di lavoro che nessun graphic designer si sarebbe mai degnato di proporre a un cliente, non se ci teneva a rimanere in attività. Lui ci teneva.

Ci teneva ancora di più a vivere. Forse non era il momento di...

Poi il muso si chiuse sulla sua gola con uno scatto secco, che si fece umido e molliccio, e Dario non vide più. Forse non era stato il momento, già. Adesso non lo era più di sicuro.

Ma era un posto pieno di errori e lui forse aveva appena commesso l’ultimo.

di Adriano Marchetti