La leggenda della Morte
Capitolo XVI
Non bisogna piangere troppo l’Anaon
LXXXVI – La ragazza di Coray.
A quei tempi, c’era a Coray una ragazza la cui madre era morta da poco e che non si riusciva a consolare per quella perdita. Non faceva altro che piangere, giorno e notte. Tutto ciò che i vicini impietositi le dicevano, per cercare di calmare il suo dolore, non serviva che a ravvivarlo ancora di più.
Spesso si dimenava come una pazza, gridando: «Vorrei rivedere mia madre! Vorrei rivedere mia madre!»
Non trovando altri mezzi, i vicini fecero ricorso al parroco, che era un sant’uomo. Questi si recò dalla ragazza e, invece di rimproverarla per il suo lamentarsi, si mise a compiangerla dolcemente. Poi, dopo averla calmata un poco in questo modo, le disse: «Voi sareste molto contenta di rivedere vostra madre, non è così, ragazza mia?»
«Oh! Signor parroco, non c’è un istante nel corso del giorno che non supplichi Dio di concedermi questo favore.»
«Ebbene, bambina mia, sarà fatto come voi desiderate. Venitemi a trovare stasera al confessionale.»
Lei fu puntuale all’incontro. Il parroco la confessò e le diede l’assoluzione.
«Adesso,» aggiunse, «rimanete inginocchiata qui e pregate, fino a che non sentirete suonare la mezzanotte all’orologio della chiesa. Non avrete che da scostare leggermente la tendina del confessionale e vedrete passare vostra madre.»
Detto questo, il parroco se ne andò. La ragazza rimase in preghiera per il tempo indicato. Suonò la mezzanotte. Scostò il panno della tendina ed ecco che la vide.
Una processione di anime defunte avanzava verso il coro, attraverso il centro della navata. Tutti camminavano con un passo misterioso e non facevano più rumore di quanto ne facciano le nubi d’estate, in un giorno calmo, attraversando il cielo.
Una di queste, tuttavia, l’ultima, sembrava trascinarsi pietosamente e il suo corpo era storto, perché portava un secchio pieno di un’acqua nera che tracimava. La ragazza riconobbe in lei sua madre e fu colpita dall’espressione di corruccio che si dipingeva sul suo volto.
Così, rientrata al proprio alloggio, pianse ancora più abbondantemente, persuasa che sua madre non fosse affatto felice all’altro mondo. In più, quel secchio e quell’acqua nera la incuriosivano. All’alba, corse ad aprirsi al suo vecchio parroco.
«Ritornate ancora stasera al vostro posto,» le rispose il prete. «Forse vi sarà spiegate ciò che desiderate sapere.»
A mezzanotte, le anime defunte sfilarono in silenzio, come la precedente. La ragazza guardava dallo spiraglio della tendina. Sua madre non venne che per ultima anche stavolta; stavolta, però, era incurvata perché, al posto di un secchio, ne doveva portare due; era piegata sotto il carico e il suo volto era quasi nero di rabbia. Per il colpo, la ragazza non si poté trattenere dall’interpellare la morta.
«Mamm! Mamm! Che cos’avete, che sembrate così cupa?»
Non aveva finito di parlare che sua madre si precipitò addosso a lei, furiosa, e le gridò, scuotendo il suo grembiule fino a strapparlo: «Che cos’ho? Disgraziata! La smetterai una buona volta di compiangermi? Non lo vedi che mi costringi, alla mia età, a fare il lavoro di una portatrice d’acqua? Questi due secchi sono pieni delle tue lacrime e se non ti consolerai subito, li dovrò trasportare fino al giorno del Giudizio. Ricordati che non bisogna affatto piangere l’Anaon1. Se le anime sono felici, si disturba la loro beatitudine; se attendono di essere salvate, si ritarda la loro salvezza; se sono dannate, l’acqua degli occhi che le piangono ricade su di loro in una pioggia di fuoco che raddoppia le loro torture rinnovando i loro rimpianti.»
Così parlò la morta.
Quando l’indomani la ragazza riferì queste parole al parroco, questi le domandò: «Avete pianto in seguito, bambina mia?»
«Certo che no e d’ora in avanti non lo farò più.»
«Ritornate dunque ancora questa sera alla chiesa. Penso che avrete motivo di gioirne.»
La ragazza ne gioì, in effetti, perché sua madre camminava in testa alla processione delle anime defunte, la figura tutta chiara, tutta raggiante di una felicità celeste2.
(Raccontato da Marie Hostiou. - Quimper, 1889.)
***
LXXXVII – La ramanzina dell’annegato.
Circa una sessantina di anni fa quattordici uomini, tra cui mio zio Ewan L’Ollivier, soprannominato Ciloyen, annegarono al largo di Trévou-Tréguignec, un giorno in cui si tagliavano le alghe, riportando a riva un cargo che non era stato legato molto solidamente. I loro cadaveri furono ritrovati pressoché in un cumulo e depositati in una carretta, per essere trasportati al piccolo cimitero di Saint-Gwénolé, dove furono tutti sepolti in una medesima fossa.
La moglie di Ewan L’Ollivier, mia zia, fu a tal punto colpita da questa sciagura che ne divenne folle. Non mangiava, non beveva e non dormiva più. Impossibile trattenerla in casa. A ogni ora del giorno e della notte, sotto la pioggia e sotto il sole, leo correva lungo le coste, dalle rocce di Buguélès alle dune di Treztê, gridando a ogni eco: «Ewan! Pe-lec’h out? (Yves, dove sei tu?) Ewan! Pe-lec’h out?»
Bisognava correrle dietro e usare la forza, per convincerla a rientrare. Un mattino che era riuscita di nuovo a scappare, alle primissime ore del giorno, quando aveva appena oltrepassato l’aia e ricominciava a mandare il suo grido eterno: «Ewan! Pe-lec’h out?», sentì a un tratto la voce ben riconoscibile del marito morto, che le rispondeva con tono rude: «Aman! (Qui)».
In un attimo, la ragione le ritornò. Voltandosi nella direzione da cui proveniva la voce, vide l’annegato in piedi davanti a lei, nei vestiti che indossava il giorno della disgrazia, e identico a come era stato ripescato dalle acque, tranne che per suoi capelli e i suoi stracci, che non gocciolavano più. Si sarebbe voluta gettare su di lui, ma lui la fermò con un gesto.
«Guardate,» le disse. «I miei abiti hanno avuto il tempo di asciugarsi. Quando ti deciderai a tua volta ad asciugare le tue lacrime?»
E siccome lei rimaneva in silenzio, non trovando una sola parola, «Marie,» riprese lui. «Prendetevi cura di quello che c’è dentro casa e non occupatevi di ciò che si trova di fuori (Mary, soignet ar pez zo en tî, ha lest ar pez zo é-mès).
Mia zia lo prese in parola. Ridusse da quel momento il suo dolore e si sforzò di vivere in pace.
(Raccontato da Claude L’Ollivier, casalinga. - Port-Blanc.)
***
LXXXVIII – La madre che piangeva troppo il proprio figlio.
Grida Lenn aveva un figlio unico che adorava. Il suo sogno era di farne un prete. Per questo obiettivo, lo aveva mandato a studiare al piccolo seminario di Pont-Croix. Tutte le domeniche, per andarlo a vedere, lei faceva un viaggio da Dinéault a Pont-Croix, che è di una decina di miglia buone. Un giorno, quando era scesa dalla vettura all’ingresso del collegio, le dissero che Noëlik (era il nome del figlio tanto amato) si era ammalato gravemente e che i medici disperavano di poterlo salvare. Grida divenne bianca come un foglio di carta. Tre giorni e tre notti vegliò al capezzale di suo figlio, senza voler mangiare alcunché. Il ragazzo morì. Grida riportò il cadavere a Dinéault, nella propria vettura, che guidava lei stessa. Nel cimitero, gli fece fare una bella tomba di pietra lucida, ricoperta da molte scritte. A partire da quel momento, poi, trascorse quasi tutto il proprio tempo inginocchiata su questa tomba, a piangere, a singhiozzare, a supplicare Dio di restituirle suo figlio, il suo povero, caro figlio.
I preti della parrocchia cercarono di calmare il suo dolore, ma i loro sforzi riuniti si dimostrarono impotenti. C’era bene da tenerle sermoni, da rimproverarle che era blasfemo nei confronti dei morti non rassegnarsi alla loro perdita: non serviva a nulla.
In paese, si credette che fosse diventata “innocente”.
Talvolta, in effetti, nel mezzo dei suoi singhiozzi, cominciava a cantare, a canticchiare le ninne-nanne con cui un tempo aveva fatto addormentare Noëlik, quando era solo un bambino piccolo.
Alla fine, il parroco la prese da parte e le disse: «Ascoltate, Grida: non si può andare avanti così. Voi reclamate vostro figlio con trombe e tamburi. Ebbene, rispondetemi: avreste il coraggio di sopportare la sua vista, se doveste ritrovare a faccia a faccia con lui?»
«Oh, signor parroco!» gridò Grida, con gli occhi che le brillavano. «Se solo voi poteste permettermi di rivederlo, anche se fosse per un solo istante!»
«Ve lo permetterò. A vostra volta, però, promettetemi che poi vi comporterete come una vera cristiana, come una cristiana rassegnata alla volontà di Dio.»
«Vi prometto tutto quello che volete.»
Voi pensate bene che il parroco di Dinéault sapeva quello che stava facendo. Diede appuntamento alla sua parrocchiana nel cimitero, sulla tomba del giovane chierichetto, al primo scoccare della mezzanotte.
«Ancora una parola,» aggiunse. «Non solo vedrete vostro figlio, ma gli potrete anche parlare e lui vi parlerà. Giuratemi fin da adesso che qualunque cosa esigerà da voi, voi obbedirete punto per punto.»
«Ve lo giuro per i sette dolori della Vergine Madre!»
Prima del primo rintocco della mezzanotte, Grida era all’appuntamento. Vi trovò il parroco che leggeva dal suo libro nero, al chiaro di luna. L’ora scoccò. Il prete chiuse il suo libro, si fece il segno della croce e chiamò per tre volte Noëlik Lenn. Alla terza chiamata, la tomba si dischiuse: Noëlik apparve, in piedi. Era tale e quale era stato da vivo, se non che la sua figura era tutta triste e la sua pelle aveva il colore della terra.
«Ecco vostro figlio, Grida,» disse il parroco.
Grida si era accucciata, in attesa, dietro a una ginestra che aveva fatto piantare ai piedi della tomba. Alla voce del prete, si alzò è andò verso il figlio, tendendogli le braccia. Lui però evitò il gesto.
«Madre mia,» disse, «non ci dobbiamo più abbracciare3, prima del giorno del Giudizio finale.»
Si protese per cogliere un ramo dal ciuffo della ginestra.
«Qualunque cosa io esiga da voi, avete giurato di obbedire.»
«È vero, ho giurato,» rispose Grida.
«Prendete dunque questo ramo di ginestra e frustatemi con tutta la vostra forza.»
La povera donna indietreggiò, soffocata dallo stupore e anche dall’indignazione. «Frustarti, mio...! Frustare mio figlio, il mio Noëlik tanto amato! Ah, no! Questo proprio mai!»
Il morto riprese: «È perché mi avete amato troppo in precedenza, è perché non mi avete mai frustato, che è necessario che voi lo facciate adesso. Non sarò salvato se non a questo prezzo.»
«Se è per la tua salvezza, così sia!» disse Grida Lenn. Cominciò a frustarlo, ma così dolcemente che a malapena sfiorava il cadavere.
«Più forte! Più forte!» gridò lui.
Lo colpì con più violenza.
«Più forte! Più forte ancora! O sarò perduto, perduto per sempre!» continuava a gridare Noëlik. Lei frustava con trasporto, con furore. Il sangue zampillava dal corpo di suo figlio, ma sempre Noëlik gridava: «Con forza, madre mia! Ancora, dunque! Ancora!»
Su questa scena, i dodici rintocchi della mezzanotte cessarono di suonare all’orologio della torre.
«Per questa sera è finita,» disse il morto a Grida. «Se tenete a me, però, tornerete domani alla stessa ora.» E sparì così nella tomba, che si richiuse dietro di lui.
Grida se ne tornò a casa, in compagnia del parroco. Lungo la strada, questi le domandò: «Non avete notato alcunché di particolare?»
«Sì,» disse lei. «Mi è sembrato che il corpo di Noëlik diventasse più bianco a mano a mano che lo picchiavo di più.»
«È proprio così,» disse il parroco. Aggiunse: «Adesso che vi ho messa in rapporto con vostro figlio, potete anche fare a meno della mia presenza. Cercate solo di avere la forza di andare fino in fondo.»
L’indomani, dunque, Grida Lenn si recò da sola alla tomba del chierichetto. Le cose si ripeterono esattamente come il giorno prima, solo che la madre non si fece più pregare per frustare il figlio e che adesso frustava, frustava fino a non poterne più.
«Non è ancora abbastanza,» le disse Noëlik, quando il dodicesimo rintocco ebbe suonato. «Bisognerà che ritorni una terza volta.»
Lei ritornò.
«Soprattutto, madre mia,» supplicò il giovane, «stavolta metteteci tutto il vostro cuore e tutte le vostre forze!»
Cominciò a picchiarlo con tanto accanimento che il sudore cadeva da lei come la pioggia di una tempesta e che il sangue zampillava dal corpo di Noëlik come l’acqua zampilla dalla testa di un innaffiatoio.
Alla fine, sentendo il braccio irrigidirsi e il vigore mancarle, gridò: «Non ne posso più, mio povero bambino! Non ne posso più!»
«Sì! Sì! Ancora! Madre, vi scongiuro!» diceva la voce di suo figlio, e con un tale accento di angoscia che Grida trovò una seconda fonte di energia.
Malgrado le tempie che le pulsavano, malgrado le gambe che cedevano sotto di lei, fece uno sforzo supremo. Cadde subito riversa; grazie a Dio, però, il suo ultimo sforzo era bastato. Distesa sulla schiena, tra l’erba del cimitero, vide il corpo di suo figlio, divenuto bianco come neve, alzarsi dolcemente in cielo, come una colomba che spicca il volo.
Quando fu a una certa altezza sopra di lei, le disse: «Madre mia, amandomi troppo durante la vita, piangendomi troppo dopo la morte, avete ritardato la mia beatitudine eterna. Perché io fossi salvato, era necessario che voi faceste uscire da me tante gocce di sangue, quante lacrime avete versato sopra di men. Adesso noi siamo in pari. Grazie!»
Con queste parole, svanì nell’aria.
A partire da quella notte, Grida Lenn non pianse più. Aveva capito che suo figlio stava meglio là dove di quanto non fosse mai stato sulla terra.
(Raccontato da un vecchio suonatore di biniou (Ar zoner coz) – Dinéault, 1887.)
NOTE
1 - Cfr. per questa idea che il nostro dolore aumenta nell’altra vita la sofferenza di quelli che abbiamo perduto, Luzel, Veillées brétonnes, pag. 34 e seguenti; Revue de Bretagne, de Vendée et d’Anjou, t. IV, 1890, pag. 300. In una leggenda irlandese, riferita da Kennedy, Legendary fictions, pag. 164, una signora conosciuta per la sua carità appare dopo la propria morte alla sua serva e si lamenta che i suoi amici la piangano e parlino della sua bontà, perché questi rimpianti la tormentano nell’altro mondo.
La stessa credenza si trova nei racconti scozzesi raccolti da Mac Innes (Folk and hero tales, pagg. 69, 452). Si dice in Scozia che le lacrime feriscano i morti (J. Frazer, Death and burial customs, The Folklore Journal, t. III, pag. 281).
2 - Ho trovato questa leggenda nella maggior parte delle regioni bretoni che ho esplorate. È certamente una delle più diffuse. Lo sfondo e i dettagli sono quasi dappertutto gli stessi. Una variante raccolta a Port-Blanc merita tuttavia una menzione speciale. Mi è stata raccontata da Jeanne-Marie Bénard:
“Mentre la ragazza assisteva, dal fondo del confessionale, alla sfilata delle anime che passavano silenziosamente l’una dietro l’altra, sentì tutto a un tratto un rumore di campanelle, di campanelle gracili, da suono triste.
Vide allora arrivare la propria madre. Era lei, era la madre che faceva suonare, camminando, quel tintinnio malinconico. Tutto attorno alla sua gonna sono sovrapposte svariate file di campanelle. La prima notte, non ne aveva che fino alle ginocchia; la terza notte ne ha fino alla cintura. L’intera gonna ne è ricoperta.
«Cosa significano quelle campane, madre mia?»
«Disgraziata! Proprio voi osate chiedermelo! Ogni lacrima che versi su di me si trasforma in una campanella, pesante come piombo. Senza di voi, sarei da un pezzo in paradiso. Ma come ci potrei salire, avendo un simile peso da portare? Vedete, è già tanto se riesco a mettere un piede davanti all’altro. Quando smetterete dunque di ritardare la mia beatitudine eterna? Non è senza motivo che queste campanelle suonano così tristemente il mio dolore!»”
Non è un’immaginazione strana e poetica che queste lacrime, trasformate in in campanelle, suonino un doloroso concerto di angoscia?
Ho detto che questa leggenda era molto diffusa. Ha anche fornito il materiale per un lamento che si può leggere nei Gwerziou Breiz-Izel, t. I, pag. 61.
3 - Nelle storie irlandesi (Contes et légendes d’Irlande, pag. 105; Kennedy, Fireside stories of Ireland, pagg. 61-62), un uomo che ritorna da un castello incantato e rientra dai suoi genitori non deve né dare, né ricevere baci.