Adriano - racconti e altro

Tutto molto ingiusto

Quando vide che qualche sudicione aveva abbandonato una mascherina sul ceppo dove si sedeva di solito, Paolo Silaffo ci rimase piuttosto male. Era un affronto personale, capite. Chi era stato? Chi si era messo in testa di fare qualcosa di tanto ributtante, e proprio al suo ceppo? Ma non era questo il vero problema, non in quel preciso momento. Era importante, ma poteva aspettare. In quel preciso momento la domanda cruciale era: e adesso lui?

E adesso lui si sarebbe dovuto sedere da un’altra parte. Ma era un fastidio e a Paolo Silaffo i fastidi non piacevano. A nessuno piacciono, d’accordo, ma a lui non piacevano in un modo particolare. O così pensava lui: siccome stiamo seguendo il suo monologo interiore, significa che è anche vero. In un microcosmo molto specifico, beninteso, ma nondimeno vero.

A Paolo Silaffo i fastidi non piacevano, dunque, e una mascherina usata abbandonata sul suo ceppo era di sicuro un fastidio, quindi il pomeriggio cominciava male. Che poi si sarebbe concluso ancora peggio era un dettaglio che ancora non conosceva ed è meglio così. Non avrebbe certo contribuito a migliorare il suo umore, capite anche voi.

Così Paolo fissò imbronciato il ceppo, fissò il lurido straccetto azzurro abbandonato sulla sua nobile e liscia superficie di un colore marrone scuro, alzò gli occhi al cielo e sospirò. E adesso lui? Adesso lui si sarebbe dovuto trovare un altro posto dove sedere, se voleva suonare. Siccome Paolo lo voleva ed era uscito apposta per quello, cominciò a cercare un posto alternativo, maledicendo con un filo di voce tutti i sudicioni del mondo.

Ma non era facile. O meglio, era facile trovare altri posti dove sedersi in quell’angolo di campagna, ma non avevano la stessa valenza mistica, mitica e roba simile. Voglio dire, c’è qualcosa di meglio di un ceppo abbandonato ai bordi di un boschetto per sedersi a suonare un flauto di canna? Secondo il modesto parere di Paolo Silaffo non c’era. Non poteva esserci. D’accordo, il suo flauto di canna era un souravli, detto anche thiaboli a Creta, e non un flauto di Pan, ma aveva comunque una storia e non lo si poteva negare. Sia sul piano personale che su quello, insomma, figurativo. Capite?

Il flauto di Pan sarebbe stato meglio, questo Paolo lo ammetteva senza problemi, ma il flauto di Pan presentava anche alcuni problemi supplementari. Tanto per cominciare, costava di più. In secondo luogo, era più difficile da suonare. Terzo, non lo aveva trovato durante la sua vacanza da avvoltoio in Grecia, quando aveva approfittato della crisi economica per visitare il paese spendendo meno che poteva. Un viaggio a basso budget in un paese in bancarotta: ci sono cose più tristi? Senza dubbio ci sono, ma quella sua vacanza era stata triste a sufficienza. Sul piano ideale, intendo.

Ne aveva però ricavato qualcosa. Il souravli, come si diceva, ossia un piccolo flauto di canna, con il becco come quello che si suonava alle medie. Era uno strumento tipico dei pastori, soprattutto nelle isole dell’Egeo, gli aveva spiegato il negoziante. A Creta lo chiamano thiaboli, aveva aggiunto, per ragioni non chiare a Paolo Silaffo. Aveva un suono affascinante e suggestivo, aveva continuato, nel tentativo di invogliare all’acquisto il cliente. Forse il negoziante c’era riuscito o forse no, ma Paolo lo aveva comprato davvero anche perché costava proprio poco, e se n’era tornato a casa soddisfatto. Il flauto di Pan sarebbe stato meglio, ma il souravli era comunque greco, era fatto di canna ed era un flauto agreste. Sì, poteva bastare. E poi costava poco, come dicevamo.

Non era stato difficile imparare a suonarlo, perché era davvero come il flauto che aveva usato alle medie. Il suono era più bello, perché la canna ha sempre un suono più bello della plastica, anche se a suonarla è un cialtrone musicale come il nostro Paolo, ma era anche più alto, o almeno i vicini non lo apprezzavano. Si lamentavano spesso, quando lo suonava in appartamento, e così aveva deciso di ripiegare su una soluzione alternativa, almeno finché non fosse diventato bravo: suonarlo fuori.

Siccome era un flauto di canna, agreste e così via, il fuori non poteva che essere in campagna, per la più semplice e chiara delle questioni di stile. Era dove avrebbe suonato il flauto di Pan, se lo avesse comprato. Visto che aveva comprato un souravli, avrebbe suonato quello. Ma in campagna, ovvio.

Così nei fine settimana sereni il nostro Paolo Silaffo raggiungeva il più vicino angolo di campagna, o almeno di campo abbandonato che ne poteva fare le veci, e si esercitava col suo souravli. Ormai la diteggiatura l’aveva imparata, riusciva a produrre le note della seconda ottava senza emettere stridii troppo orrendi e insomma le cose sembravano volgere per il meglio. Forse non sarebbe diventato un bravo suonatore, ma uno decente? Probabile. E allora sì che avrebbe sfidato i vicini, hah!

Non perché ci fosse davvero un qualche tipo di sfida, ma perché sì. Capite.

Solo che, come dicevamo, quel pomeriggio un sudicione aveva abbandonato una mascherina lercia sul ceppo dove si sedeva di solito, così Paolo Silaffo mise un muso lungo come una galleria e cercò un posto alternativo dove sedersi. Doveva possedere il giusto valore mitico, nonché la classe dovuta allo strumento e al suonatore. Non puoi suonare un flauto di canna su una panchina di cemento, mi pare ovvio. Non che ci fossero panchine di cemento, ma un paio di blocchi sì e Paolo li scartò senza alcuna esitazione. Solo che adesso non gli restava molto dove sedersi. A parte il prato, ovvio, ma era poco elegante, giusto?

Paolo Silaffo ci pensò meglio. Era davvero così poco elegante? Forse no. In fondo il souravli era un flauto tipico dei pastori, secondo il negoziante che glielo aveva venduto (le ricerche fatte poi in rete gli avevano più o meno confermato questa versione), e i pastori ogni tanto si dovevano pur sedere in terra, no? Non c’erano sempre ceppi a disposizione, non nei pascoli che immaginava lui. Quindi una sessione musicale seduto sul prato non era poi così fuori questione. Poteva accontentarsi, giusto?

Ci fosse stato l’albero giusto, non avrebbe avuto esitazione a sistemarsi recubans sub tegmine fagi, come un Titiro qualunque. L’albero giusto non c’era, purtroppo, così si doveva arrangiare con quel che passava il convento. Raramente la vita rispecchia l’arte, almeno in positivo. Era molto ingiusto, secondo il modesto punto di vista del nostro eroe.

Giusto o sbagliato, Paolo non aveva voglia di continuare a perdere tempo, così si accontentò. Scelse un punto che sembrava pulito a sufficienza, o almeno non concimato da animali di passaggio, e con un gesto fluido ed elegante (almeno a suo parere) sedette a gambe incrociate. Là! E adesso si suona.

Per un poco suonò, seguendo il suo schema che era ormai diventato quasi un rito. Prima una serie di esercizi di riscaldamento, come li chiamava lui, poi un poco di scale, quindi intervalli di vario tipo, nei limiti molto ristretti che lo strumento gli consentiva. Quando era ormai tempo di passare ai brani veri e propri, però, quel pomeriggio Paolo Silaffo si fermò.

Non andava bene. Non era mai stato un granché, d’accordo, e forse non lo sarebbe mai diventato, lo poteva ammettere almeno a se stesso, ma così scarso? No! Era come se avesse le dita legate e quasi non riusciva a soffiare bene: a volte troppo forte, a volte troppo piano. Cosa gli stava succedendo?

Era distratto, ecco cosa succedeva. Aveva cambiato posto, aveva cambiato posizione e adesso non si ritrovava più. Perché c’è differenza tra sedersi sul ceppo di un albero abbattuto, che era un po’ quasi come una sedia vera e propria, e sedersi per terra, a gambe incrociate. La schiena gli si ingobbiva da sola, tanto per cominciare. Come fai a suonare bene, se hai la schiena ingobbita? Non suoni bene, è ovvio, ed era proprio quello che gli stava capitando. Era terribile, capite?

Scuotendo la testa, Paolo provò a sistemarsi meglio, sforzandosi di tenere dritta la schiena. Spingi il bacino più indietro, spingilo più avanti, solleva le spalle, stringi le scapole, inverti tutto, spostati una spanna più a destra, nel caso il prato non sia piatto a sufficienza, ritenta sarai più fortunato. Niente da fare. Qualunque cosa tentasse, suonava male il suo souravli. Che nervoso! Un pomeriggio perso, e tutto per colpa di un cretino che aveva lasciato una lurida mascherina sul suo ceppo! Perché no, la concentrazione ormai era persa e non l’avrebbe recuperata di sicuro.

Provò ugualmente un paio di brani, che non erano né greci né agresti, ma erano almeno malinconici e ci si poteva accontentare, anche perché lui non conosceva brani che fossero sia greci che agresti. Il risultato non sarebbe cambiato molto, anche se li avesse conosciuti. Non quel giorno. Il flauti quasi gli scivolò tra le dita e l’ultima nota fu lo stridio di un gatto in calore torturato a morte, qualcosa che sembrava impossibile da produrre su uno strumento come quello. Neppure la parodia di un pessimo violinista ci sarebbe riuscita. Ah, che nervi!

Ma il peggio non era ancora arrivato. Il peggio lo aveva però sentito e galoppava verso di lui, ignaro degli ordini del suo padrone.

Il cane del destino lo colpì come un attacco di diarrea quando sei fermo sul binario ad attendere un treno. Paolo Silaffo non lo vide, non subito. Sentì tonfi pesanti sul terreno, sentì un ansimare, sentì il soffio di un fiato caldo e umido contro la nuca, poi fu solo una massa meteorica e pelosa, caduta sulla sua schiena con tutta la grazia di un sacco di letame da mezzo quintale. O forse il doppio.

Prima era seduto, poi si ritrovò accartocciato a terra con qualcosa di grosso, peloso e pesante che gli premeva sopra, che si agitava, che emetteva mugolii molto preoccupanti e sbavava. Sbavava come se sopra di lui avessero aperto la doccia. Paolo Silaffo trasecolò per la prima volta nella sua vita, pur non sapendo di preciso come si facesse a trasecolare e quale fosse il significato esatto del verbo. Lo fece lo stesso, perché in certi momenti puoi fare anche l’impossibile. O quasi. Ci siamo capiti.

«Cosa,» riuscì a mugolare, poi la massa calda, pelosa, soffocante e sbavante gli avvolse la faccia e il nostro Paolo non parlò più. Non osava aprire la bocca. Aveva il terrore di cosa ci sarebbe mai potuto finire dentro. Immagini orribili gli attraversavano la mente, ma nessuna era più orribile della massa ignota che lo schiacciava al suolo, gli toglieva l’aria e lo copriva di bava.

Cosa gli stavano facendo? E perché? Sarebbe mai finito quel giorno orribile? Perché tanto dolore?

Non che ci fosse proprio dolore, non ancora, ma poteva cominciare a ogni momento, no? Quando il tuo corpo è schiacciato al suolo da qualcosa che neppure riesci a vedere, qualcosa più grande e più forte di te, le cose possono solo peggiorare. Questione di logica. Siccome Paolo Silaffo si riteneva a ragione o a torto una persona logica, non riusciva a vedere che nero nel suo futuro prossimo. Risultò che aveva ragione, anche se non nel modo che avrebbe immaginato lui.

Qualcosa di duro, caldo e peloso gli premette contro la guancia. Paolo chiuse gli occhi. C’era bava e c’era un fiato umido e fetido che gli avvolgeva parte della faccia. Mio dio, e questo cos’è? Poteva solo essere il culmine del peggio, e infatti lo fu. Qualcosa gli afferrò il souravli e glielo strappò dalle mani, poi la pressione sulla sua schiena si allentò un poco, la cosa dura, calda e pelosa si allontanò e Paolo riuscì di nuovo a respirare. A mani vuote, ma respirava aria vera, non troppo usata e fetida. Il tempo di socchiudere un occhio e il suo aggressore si era alzato e si stava allontanando. Solo allora Paolo Silaffo lo vide.

Era un cane. Di razza indefinita ma grossa, conteneva forse una percentuale di pastore tedesco, una spolverata di maremmano, forse anche una dose di boxer, il tutto mischiato con poca cura e diluito con pasti abbondanti. Era una specie di massa pelosa che forse sfiorava il quintale e si muoveva con tutta la scioltezza di un blocco di metallo impellicciato. Si allontanava trottando e sculettando. Era il più grottesco spettacolo che Paolo avesse mai visto da vicino.

Aveva il suo amato souravli in bocca, come il fido cane che riporta il bastone.

Perché? Mani a terra, in una posizione che possiamo descrivere come proskynesis deforme, Paolo si raddrizzò a fatica, cercando di recuperare una parvenza di dignità. Fu allora che sentì il crack. Erano le zanne del mostro, che affondavano nella canna del souravli, spezzandola. Perché tanto dolore?

Paolo Silaffo non lo sapeva. Poteva solo guardare inerme, mentre il suo flauto finiva a pezzi sotto le fauci di un cagnaccio schifoso e bavoso. Perché? Padre mio, perché mi hai abbandonato?

«Ah, hai trovato un bastoncino. Adesso buttalo via, che fa schifo.»

Era la voce di qualcuno, probabilmente il padrone dell’orrore canino, ma per Paolo era la voce della moira, del fato, del tristo mietitore. E adesso lui? Che senso aveva? Cosa aveva fatto per meritarlo?

E mentre il cane si allontanava scodinzolando assieme al suo padrone, Paolo Silaffo si strofinò una guancia ricoperta di bava e pensò a cose tristi. Mai tristi come la realtà, purtroppo. Perché certe cose non capitano mai negli idilli agresti? Paolo non lo sapeva, ma lo trovava molto ingiusto.

Dovrebbe esserci una legge, capite.

di Adriano Marchetti