Adriano - racconti e altro

Una persona normale

Giulio Tolli era un uomo di merda. Glielo avevano fatto presente più volte nel corso degli anni, per cui una base di verità ci doveva pure essere. E poi, siamo seri: in quale altro modo descrivereste uno che fa finta di niente mentre un uomo picchia una donna? Uno che tira dritto e si allontana come se niente fosse quando un vecchio collassa in mezzo alla strada? Perché Giulio Tolli aveva fatto tutto questo e molto di più. Dunque era un uomo di merda. QED e così via.

«Ma ho capito qual è il problema,» disse al suo compagno di bevute. «Ho capto qual è il problema e ho intenzione di risolverlo. Vedrai.»

Il compagno di bevute si chiamava Gabriele Spanza, detto “Bimbo” per ragioni che si sono oramai perse nella notte dei tempi e forse è meglio così. Non c’era una sola caratteristica in lui che potesse far pensare a un bimbo, almeno non oggi. Non la barba folta, non i capelli ricci e grigiastri, neppure la sua notevole pancia, le rughe attorno agli occhi, la voce un poco gracchiante. Pure, il soprannome gli era rimasto, come può capitare coi soprannomi stupidi. Bimbo.

Sollevò per un momento lo sguardo dal prosecco, fissò Giulio Tolli, annuì. «Giusto! Vai e risolvi. È così che si fa, sempre. Sempre detto io.» Annuì di nuovo e tornò al prosecco, prosciugandolo.

Ma Giulio non aveva bisogno di incitamenti. Sapeva che era la mossa giusta da fare. Lo sentiva nei, nelle, da qualche parte. Dove si sentono le cose che si sentono. Ma lo sentiva, ecco. Anzi, ci avrebbe dovuto pensare prima. Lo disse.

«Ci avrei dovuto pensare prima.»

Bimbo annuì. «Giusto! Pensaci prima. Sempre.»

Giulio Tolli non ci aveva pensato prima, ma ci pensava adesso. Pensava anche che Bimbo non era forse la compagnia migliore, non per discussioni di alto livello intellettuale o per momenti in cui ti accorgi davvero di cosa è stata la tua vita fino a quel momento e di cosa dovresti fare per migliorare la tua situazione. Quei momenti che sono un poco crisi esistenziali e un poco digestione pesante, ci siamo capiti. Non era la compagnia migliore soprattutto quando uscivano a bere, tipo adesso, ma si conoscevano da una vita, amici dai tempi delle medie, praticamente il solo che gli fosse rimasto nei paraggi, sia geografici che spirituali. Tutti gli altri, puff! Saluti e baci.

Bimbo, dunque: non il massimo, ma bisognava sapersi accontentare. Era importante, nella vita.

Giulio Tolli lo aveva capito. Non solo: lo avrebbe pure messo in pratica. Là! Alla facciaccia di tutti quelli che lo consideravano incapace di capire qualcosa o cambiare in meglio. Non che fossero poi in molti a pensarla così, per quanto ne sapeva lui, ma il punto era che qualcuno c’era di sicuro e lui gli avrebbe dimostrato che si sbagliava. Là! C’è sempre qualcuno che pensa male di te. Giulio Tolli lo aveva imparato da giovane e adesso che giovane non lo era più, se non in senso relativo, era certo che. Che. Sì. La frase non doveva finire proprio così, ma andava bene lo stesso.

Forse aveva bevuto troppo. Guardò l’orario, poi lo guardò di nuovo, usando tutta la propria forza di volontà per costringere i numeri a mettersi a fuoco. Era ora di rientrare. Domani non lavorava, ma si era ripromesso che avrebbe cominciato a migliorare la propria vita e non era il caso di cominciare a migliorarla dormendo fino al primo pomeriggio e svegliandosi col mal di testa. Tempo di andare.

«Tempo di andare,» comunicò a Bimbo.

Bimbo annuì. «Giusto! Andare al cesso. Mi scappa anche dalle orecchie.» E si alzò, barcollando tra i tavolini verso il bagno, dove forse avrebbe trovato anche il gabinetto o forse no. A volte capitava.

Giulio Tolli sospirò. Non era la vita di adulto che aveva sognato da bambino, ma quando mai lo è? Tu fai quello che puoi e tiri a campare alla meglio, no? È un po’ come andare in bagno quando hai bevuto molto, ecco. Non sempre lo centri e non sempre lo centri tutto. A volte poi ti accorgi che non era neanche il bagno, ma ormai è andata così e pazienza. Ci si arrangia.

Che cosa triste la vita!

È ancora più triste quando ti svegli alle due del pomeriggio, ti fa male la testa, hai un livido che non ti ricordi di esserti mai fatto e il sogno da cui ti sei appena svegliato, beh, meglio lasciarlo perdere e pensare ad altro. Tipo che quello doveva essere il primo giorno della sua nuova vita, quella in cui si sarebbe deciso a correggere tutti gli errori commessi, per raddrizzare la barca e... quello che è, non gli venivano in mente metafore giuste, o anche solo decenti. Lasciamo perdere.

Il sogno però era stato brutto sul serio. Non spaventoso, solo... brutto. Aveva sognato che era uscito a camminare in collina, come faceva da bambino, solo che non erano proprio le colline dove andava da bambino. Ci assomigliavano, ma erano soprattutto un sogno, per cui piene di cose che non hanno senso nella realtà e prive di tutti quei dettagli che compongono il mondo reale. Erano un mix.

A ogni modo lui era un bambino, o magari un adolescente, qualcosa del genere, e ci camminava, ma qualcosa doveva essere andato storto, perché continuava a fare lo stesso giro, passare e ripassare gli stessi punti, tipo un circuito, no? E a ogni giro diventava più difficile. La salita più ripida, il sentiero più stretto, il terreno più dissestato, e a un certo punto non riusciva più neppure a camminare, si era messo ad arrancare a quattro zampe, per aiutarsi con le mani, perché la collina era ripida sul serio, era quasi verticale, e perché non tornava indietro? Perché continuava a fare la stessa strada? Non si era accorto che diventava sempre peggio? Voleva proprio cadere?

Poi si era svegliato col mal di testa e la vescica piena, ed era primo pomeriggio, e non era mica un bel modo per cominciare la tua nuova vita, no? Quindi l’avrebbe cominciata domani. Non che l’idea gli piacesse, ma era l’unica cosa da fare, se ci pensava bene. E adesso ci stava pensando bene, più o meno, per cui il discorso non faceva una piega. Già.

Domani. Oggi magari sarebbe uscito a fare due passi, più tardi, quando si sentiva meglio. Un poco di aria fresca gli avrebbe fatto bene. O tiepida, perché di fresco non se n’era sentito molto di recente e neanche di meno recente, adesso che si pensava. Non c’erano più le mezze stagioni o qualcosa di simile, ovvio, e comunque era colpa di qualcun altro. Beviamoci sopra un bicchiere d’acqua con un paio di aspirine. Questa era una buona idea. Lo fece.

Ciondolò per qualche tempo nel suo appartamentino, spostando oggetti e rimettendoli dove li aveva presi. A volte scostava una tenda, più spesso le lasciava come erano. Non c’era granché da vedere, lì fuori. Non di interessante, almeno. Non interessante per lui. Non mentre aspetti che ti passi il mal di testa. Controllò lo smartphone e trovò l’ennesimo messaggio pubblicitario dell’operatore telefonico. Lo cancellò. Il messaggio, non l’operatore: quello non lo poteva cancellare, purtroppo. Lo poteva sì cambiare, ma erano tutti ladri uguale, per cui non faceva differenza. Sospirò.

Non erano i pensieri giusti con cui cominciare la nuova vita, ma in fondo quello era l’ultimo giorno della vecchia vita, lo era diventato per cause esterne, per cui poteva ancora concedersi i pensieri soliti. Non doveva però farne un’abitudine. Vita nuova, pensieri nuovi. Da domani si cambia.

Perché, e questo è importante e merita di essere ripetuto, Giulio Tolli aveva capito il problema. E se capisci il problema, poi ti resta solo da risolverlo. E lo avrebbe risolto.

Il mal di testa stava passando, quindi era tempo di uscire. Aria fresca tiepida e così via, come diceva prima. Perché stare in casa ad aspettare era parte del problema. Le occasioni non si aspettano, le vai a cercare. Giulio Tolli le aveva sempre aspettate e infatti la sua vita era una merda. Un po’ come lo era anche lui, almeno secondo gli altri. O alcuni altri. Non glielo dicevano tutti. Forse lo pensavano, ma glielo avevano detto in faccia solo alcune persone che, adesso, non è che fossero poi tutta questa gran meraviglia neppure loro. Era un po’ un caso di maiale che dà del porco all’asino, no? Se solo ci pensavi bene. Ma il punto non era questo. Il punto era che una scheggia di verità c’era e lui sarebbe cambiato in meglio. Si sarebbe riciclato. A cominciare da oggi. Cioè, domani.

Giulio Tolli si spogliò, si lavicchiò, infilò i primi abiti che gli capitarono sotto mano, verificò che si potessero combinare senza dare un risultato troppo offensivo agli occhi e all’olfatto, infine uscì.

Lo accolse una domenica pomeriggio così tipica delle sue latitudini che poteva avere il marchio del copyright in un qualche angolo, e probabilmente lo aveva. Un sole sfocato batteva da un cielo color candeggina sporca, irrorando strade ed edifici con temperature di almeno dieci gradi oltre le medie del periodo. Zombie pistolavano avanti e indietro sui marciapiedi, incerti se essere morti viventi o vivi morenti, in mano uno smartphone e in faccia tanta voglia di essere altrove, anche se altrove era solo il quartiere accanto. L’aria pareva uscita dall’altoforno di un’acciaieria di Taranto, odorante di polvere e di bruciato. Un cagnetto odioso abbaiava da qualche parte, uno squittio acuto che invoglia a riempire pagine e pagine con la scritta “il mattino ha l’oro in bocca”. Auto. Clacson. Zaffate rap.

Sì, era proprio la sua città. Non il posto migliore per prepararsi a cominciare una nuova vita, ma era quanto passava il convento e se lo doveva far bastare. Respirò a pieni polmoni, tossì, respirò a metà polmoni. Già meglio. Sarebbe stato anche meglio cambiare settore, invece di restare lungo la strada. Non che l’aria sarebbe migliorata, ma almeno gli avrebbe regalato l’illusione di aver fatto qualcosa di positivo per il proprio organismo. O quello che è, ci siamo capiti.

Giulio Tolli camminava piano, sguardo basso e pensieri altrove. Le sue abitudini asociali da eremita non appartenevano alla nuova vita che avrebbe dovuto cominciare, erano anzi parte del problema, il famoso problema che aveva capito e che adesso avrebbe risolto. O magari non adesso, ma domani. Il punto era che lo avrebbe risolto, si era deciso, voleva risolverlo e tutto sarebbe andato bene. Più o meno bene. Meglio, in ogni caso. Da domani avrebbe ricominciato a guardare in faccia il mondo, la realtà, la vita, quello che era. Avrebbe alzato la testa e guardato tutto quanto negli oggi.

Solo, non adesso. Doveva prepararsi, prima. C’erano pensieri da cui si doveva liberare, cose così. E alzare lo sguardo, beh, c’era il rischio di vedere qualcosa che non avrebbe voluto vedere. Cose che, sì, insomma. Cose. Ci siamo capiti.

Giulio non era del tutto sicuro di essersi capito, perché non lo capiva bene neppure lui, ma sapeva di quali cose stesse parlando e tanto bastava. Sapeva anche che avrebbe dovuto risolvere il problema, prima o poi. Magari meglio prima che poi. Perché, diciamolo pure, era a modo suo la causa di tutto. Forse non proprio la causa prima, forse c’era già stato altro, ma era l’immagine attorno a cui tutto il resto si era cristallizzato. Era la chiave di volta. O qualcosa del genere. La pietra triangolare in cima a un arco, tipo quello di certe finestre, si chiamava chiave di volta, giusto? Certi ricordi scolastici gli suggerivano che era il nome giusto, ma i ricordi scolastici di Giulio non erano sempre affidabili.

Irrilevante. Tra un pensiero e l’altro aveva raggiunto lo spazio pubblico che si spacciava per il parco cittadino, in mancanza di meglio. Alcuni dicevano che da quelle parti si spacciava pure, ma solo di notte e comunque non aveva importanza. L’importante era che in mezzo ad alberi rachitici, cespugli smunti ed erba rinsecchita, in un intrico di sentieri sassosi e polverosi, Giulio Tolli avrebbe riflettuto in pace, affrontato certi ostacoli e ne sarebbe uscito rinato, pronto ad azzannare la sua nuova vita.

O qualcosa del genere. Il pensiero positivo non faceva mai male, giusto? In base alla sua esperienza, non sembrava fare neppure bene: non faceva proprio alcunché. «Ma sei soltanto il solito disfattista, lo sai,» si disse in silenzio. «Non fare la merda come al solito e vedrai che andrà meglio.»

Ottime parole, ma restava da vedere se i fatti sarebbero stati altrettanto buoni. L’esordio non fu uno dei migliori: neppure il tempo di entrare nel parco e già aveva visto un bambino mosca, impegnato a cibarsi. Per un dato valore di cibo. Era una scena orribile e Giulio avrebbe dato forse non qualunque cosa, ma di certo parecchio per non averla dovuta vedere. Era legale, d’accordo, e secondo alcuni il lavoro aveva anche un certo valore ecologico, ma era soprattutto orrendo e nessuna legge lo avrebbe mai reso giusto e accettabile, almeno secondo il suo modesto parere. Meglio non pensarci.

Ma ecco che, ancora prima di cominciare, il suo progetto di autoanalisi spirituale era già fallito. Chi poteva stare seduto a meditare sui propri errori passati, mentre a pochi metri di distanza un bambino era costretto a mangiare merda? Non certo Giulio Tolli. O così pensava. Poi sedette sulla panchina più lontana, chiuse gli occhi, borbottò un poco e il ricordo della scena sgradevole si disperdeva già nelle nebbie del passato. Grande cosa, la mente umana.

Tempo di meditare sugli errori passati, affrontarli, superarli e da domani cominciare una nuova vita, la vita corretta, quella che avrebbe dovuto vivere fin dall’inizio, se solo fosse stato più intelligente o meno stupido, o quello che era. Aveva individuato il problema, Giulio, ma i dettagli erano ancora un poco sfumati e non gli era ben chiaro come si sarebbe dovuto comportare in passato. Di sicuro non come si era comportato, visti i risultati, e comunque il passato era passato, per definizione, per cui non aveva senso perderci troppo tempo. Quindi, due minuti di analisi di coscienza e poi via.

Valutò per un istante se non sarebbe stato meglio discuterne con qualcuno, tanto per avere un parere esterno e oggettivo, ma con chi? Bimbo? Era un amico, d’accordo, ma era il genere di amico che va bene per una bevuta in compagnia, dire qualche scemenza, ricordare i giorni di gloria, eccetera. Per un discorso serio su avvenimenti seri, beh, siamo seri: tanto valeva parlarne al muro. Se non altro, il muro non rischiava di blaterarne in giro dopo aver bevuto troppo, che era quasi sempre.

Ma basta cazzeggio. Giulio Tolli respirò a fondo, tossì, strinse i denti, ricordò.

L’autobus, per cominciare. Al ritorno dal centro commerciale, primo pomeriggio, pochi passeggeri. Lui era uno dei pochi. Fresco di maturità, il futuro davanti, non un reale problema, seghe mentali e fantasie a non finire. Aveva comprato qualcosa, ma non ricordava cosa: forse una camicia, o un paio di pantaloni. Roba da indossare all’università, che sarebbe cominciata a breve. Ci teneva a fare bella figura, dopo il fiasco parziale delle superiori.

Periferia torpida e desolata. L’autobus si ferma, una persona scende, una vecchia sale. Tutto bene. Poi sale la donna bionda e tutto smette di essere bene. Ha i capelli lunghi. Giulio la vede passare di schiena, le guarda il culo. Corre. Attraversa l’autobus correndo verso il conducente. Non oblitera il biglietto, male. Poi sale l’uomo. Anche lui corre. Anzi, insegue. Insegue la donna. La raggiunge che sono davanti al vetro del conducente, che però non è vetro, è plastica, o roba simile.

Giulio capisce che qualcosa non va bene, ma aspetta e guarda. Per adesso. Cos’altro dovrebbe fare, scusate? Lo stesso che fanno gli altri passeggeri. Aspetta. Guarda. Sta seduto.

L’autobus non è ancora ripartito. La donna si accascia, dice qualcosa. L’uomo la afferra per i capelli e la trascina verso l’uscita. La donna si aggrappa a uno di quei pali a cui ci si aggrappa in autobus. L’uomo continua a tirare. Sembra una scenetta da età della pietra, ma è reale e sta accadendo lì, ora, davanti a Giulio e agli altri passeggeri. La donna grida, l’uomo tira e trascina. Nessuno si muove.

Forse l’autista dice qualcosa, perché l’uomo tira un calcio al plexiglas (sì, plexiglas, è così che si chiama il materiale trasparente con cui è fatta la paratia che separa autista e passeggeri, forse) e urla una minaccia. Il tipico «Ti ammazzo», poco originale. I passeggeri guardano e tacciono. La donna piange, l’uomo tira. Dura poco, forse: un minuto, due. L’uomo vince. La donna è a terra, strappata dal palo a cui era aggrappata. L’uomo la trascina giù dall’autobus, sempre per i capelli. Sono usciti. Un altro momento di pausa, poi le porte si chiudono e l’autobus riparte.

Era stata una brutta scena, senza dubbio. Giulio Tolli lo poteva ammettere anche adesso, dopo quasi tre decenni. Una scena a cui avrebbe preferito non assistere. Ma era stata davvero così terribile? Era stata davvero così sconvolgente? Per la donna forse sì, d’accordo, ma per gli spettatori? In quanti la ricordavano ancora? Lui. Ancora non se la riusciva a dimenticare, ancora lo tormentava come carie in un molare. Ma perché non se la riusciva a dimenticare?

Perché fino a quel momento il giovane Giulio si era considerato un eroe, come quelli dei fumetti: un paladino della giustizia e palle varie. La breve scena in autobus gli aveva dimostrato che non lo era. Un eroe si sarebbe mosso; Giulio era rimasto fermo a guardare. Ergo, Giulio non era un eroe. QED.

Lo sgradevole incidente in autobus lo aveva un poco scioccato, all’inizio, ma poi gli era passata. Le conseguenze interne gli avevano sbattuto in faccia la profonda differenza tra pensiero e realtà, il che lo aveva scioccato di più e più a lungo. Poi gli era passata.

A pensarci bene, tutti erano rimasti seduti a guardare, non solo lui. Si erano comportati allo stesso modo. Giulio non aveva fatto alcunché di particolare: si era uniformato, adeguato. Spiacevole, vero, ma non sconvolgente. Una normalissima reazione umana. Ok, gli altri passeggeri avevano sessanta o più anni, facciamo pure settanta, ma era un dettaglio secondario e non cambiava la realtà. Anzi, un vecchio ha meno da rischiare rispetto a un giovane. Ormai la sua vita l’ha vissuta ed è arrivato alle battute finali: può anche concedersi il lusso di, come dire. Il lusso. No? Se lo può permettere.

Sulla panchina di un parco agonizzante, Giulio Tolli annuì. Era stato proprio stupido a continuare a pensarci e ripensarci in tutti quegli anni. Quel giorno della sua gioventù si era forse fatto scappare la sua occasione per diventare un eroe, ma aveva anche evitato rischi superflui. Aveva agito da persona matura, non da testa calda. Non si era cagato addosso: aveva riflettuto e ponderato. Già.

E poi probabilmente tutto si era risolto per il meglio. Se si fosse verificata una qualche tragedia, la notizia gli sarebbe arrivata, no? Ma non gli era arrivata, quindi niente di cui preoccuparsi. Non c’era più bisogno di pensarci o sentirsi in colpa. Poteva passare oltre.

E oltre c’era il secondo incidente chiave. Era successo verso la fine dell’università, forse poco dopo la laurea, forse poco prima. Giù di lì, in ogni caso. Era in giro e stava scendendo una scalinata, una di quelle robacce decorative che ogni tanto si trovano nelle città, quando nessuno ha fatto in tempo a fermare l’architetto o l’urbanista che le ha pensate. C’era anche altra gente: non molta, ma un po’ sì, per cui probabilmente non era un giorno festivo. Irrilevante. Rilevante era il vecchio, con bastone e cappello. Vecchiaccio stereotipato che più stereotipato non si poteva. E cosa si va a inventare quel catorcio? Di cadere sulla scalinata, proprio mentre era vicino a Giulio. Di tutti i momenti...

Inciampato, scivolato, o magari una gamba gli aveva ceduto. Fosse come fosse, trac che il vecchio ti cade e rotola per un paio di gradini. Si ferma, geme, agita una mano. Il cappello è caduto, il bastone anche. Giulio Tolli è il più vicino alla scena del delitto, o almeno del derelitto. Ce l’ha praticamente sotto il naso. Potrebbe fare due passi e aiutarlo, chiedergli come si sente, palle varie.

Non li fa. Immobile sul suo gradino, fissa il vecchio e si morde le labbra. Minuti o secondi scorrono via, difficile dire quanti, se sia stata una pausa lunga o breve. È lunga per l’osservatore, che guarda e non si muove. Con tutta probabilità è lunga anche per il vecchio che geme disteso a terra. E oddio, orrore! Ha cominciato a piangere. Sta piagnucolando. Sta frignando!

Giulio Tolli osserva il tutto e continua a giocare alla bella statuina. Poi una signora di mezza età gli passa accanto e raggiunge il vecchio. Poi un giovane, che sarà più o meno suo coetaneo e magari si conoscono pure di vista. Un’altra persona, una quarta. Il vecchio è circondato, coperto, nascosto.

Giulio Tolli si sblocca. Scrolla le spalle, abbassa la testa e ricomincia a scendere le scale, aggirando il blocco. Qualche minuto e la scalinata è lontana, la piazza lontana, tutto è lontano. Nel passato, da qualche parte. Solo che non lo è del tutto. Da allora Giulio Tolli non ha più rialzato la testa.

Poi tornò al presente, nel parco, sulla panchina. Non era stato un momento edificante, questo poteva anche ammetterlo. Una brava persona sarebbe subito andata ad aiutare il vecchio, e infatti gli altri si erano comportati proprio così, bravi o meno che fossero. Non lui. Significava forse che non era una brava persona? Per un poco lo aveva creduto, poi lo aveva ipotizzato, infine era passato oltre.

Pensandoci adesso, a mente fredda, con tutta l’oggettività che soltanto la distanza temporale ti può garantire, Giulio Tolli doveva riconoscere di essere stato troppo duro con se stesso per tanti anni. La storia era completamente diversa dall’autobus, tanto per cominciare. Sull’autobus tutti erano rimasti fermi; sulla scalinata altri si erano mossi. Il soccorso era arrivato. Il vecchio era stato aiutato. Vero, il più vicino non si era mosso, ma altri sì, e non erano poi così lontani, solo qualche metro extra.

Nulla di grave era successo. Anzi, proprio nulla, né grave né non grave. Una classica tempesta in un bicchiere d’acqua. Si era fatto tanti problemi per niente. Il suo intervento non avrebbe fatto alcuna differenza, quindi non intervenire era stata la scelta giusta. Se ci pensavi bene. Giulio Tolli ci stava pensando bene, adesso. Non ne sapeva niente di pronto soccorso, non aveva nemmeno un cellulare in tasca, quel giorno lontano. Che aiuto avrebbe potuto dare? Nessuno. Anzi, c’era il rischio che un incompetente come lui potesse ritardare un aiuto reale, e comunque avrebbe causato solo perdite di tempo per gli altri. Ignorandolo e andandosene aveva aiutato il vecchio nel migliore dei modi.

Giulio Tolli sorrise al parco deserto. Che bella cosa erano gli esami di coscienza! Ottenevi risultati che neppure ti saresti immaginato. Se soltanto ci avesse pensato prima, quanti inutili problemi che si sarebbe risparmiato, quanti scrupoli. Doveva ricordarsi di consigliarlo anche a Bimbo, alla loro prossima bevuta. Probabilmente lo avrebbe aiutato a non sentirsi in colpa per essere stato licenziato.

Quanto al resto della sua zavorra psicologica, non c’era molto da dire o da riflettere. I due ostacoli più grandi li aveva superati, aveva passato i calcoli renali più grossi e il resto era una pisciata calma e tranquilla. Aveva ignorato altre persone che avevano bisogno di aiuto, d’accordo, ma in fondo era stato solo perché il suo aiuto non era davvero necessario. Non ignorava gli altri perché se ne fregava di loro, ma solo perché era consapevole di non essere una persona capace di offrire aiuto. Era giusto lasciar fare ai professionisti dell’aiuto. Lui non lo era. Triste, ma vero.

Il problema che gli aveva rovinato la vita era molto semplice, visto da questa prospettiva. Lui si era sempre comportato nel modo migliore, ma aveva pensato nel modo sbagliato. Si era fatto problemi perché, per qualche ragione, aveva immaginato di essere diverso da quello che in realtà lui era. Una volta raddrizzato il mondo, tutto diventava giusto e perfetto. La sua nuova vita era una vita in cui la realtà era nella giusta posizione e lui agiva di conseguenza. Molto semplice.

Qualcuno avrebbe potuto obiettare che la sua vita non sarebbe cambiata affatto, ma quel qualcuno si sbagliava, perché cambiando la prospettiva, tu cambi anche la cosa che osservi e... ci siamo capiti, è inutile continuare a spiegarlo. La vecchia vita di Gianni Tolli diventava la sua nuova vita, perché lo diventava ed era chiaro a chiunque, specialmente a Bimbo. Bimbo gli avrebbe dato ragione subito, specie se aveva appena fatto il pieno al bar. E comunque non ha importanza. Aveva cambiato tutto: fidatevi.

Mentre camminava verso casa, lo colse una idea supplementare, di cui non si era accorto prima. Se il suo ragionamento era giusto, e poiché il suo ragionamento era giusto, significava che lui non era un uomo di merda, come alcuni lo avevano definito. Era invece un uomo scrupoloso, coscienzioso, consapevole del proprio posto nella società e di cosa la società si aspettasse da lui. Ci sono cose che puoi fare tu e cose che è meglio lasciar fare a chi se ne intende. Lui lo capiva e si adeguava. Quanti guai potevi combinare, se ti mettevi in testa di riparare da solo l’impianto elettrico della casa? O di sostituire una tubatura difettosa? Erano lavori per professionisti e bisognava lasciarli a loro.

Giulio Tolli sorrise soddisfatto. Adesso si che aveva chiuso tutti i conti con la vecchia vita. Domani lo attendeva la nuova vita, in cui si sarebbe immerso con entusiasmo, sapendosi persona migliore di quanto avesse creduto fino a quel momento. Una vita in cui Giulio Tolli sarebbe stato Giulio Tolli e non una fantasticheria che esisteva solo in una mente distorta. Che bel pensiero!

Chissà cosa voleva dire il sogno che aveva fatto quella notte? Giulio scrollò le spalle. I sogni erano soltanto peti cerebrali. Non aveva senso preoccuparsene, proprio come non aveva senso pensare alle cose che sai di non saper fare. Accetta il tuo posto e vivi felice, ecco una buona massima. E se fino a quel giorno non aveva vissuto felice, era stato solo perché non lo aveva capito. Adesso invece sì.

A qualche centinaio di metri da casa vide una vecchia in bicicletta, con una borsa della spesa infilata nel cestino. Affrontò una curva un poco allegra, su un asfalto che aveva vissuto giorni migliori più o meno quando Annibale aveva passato le Alpi. Una gomma slittò, la bici traballò e scappò via, con la vecchia che piombava a terra su un fianco e la borsa della spesa che si spandeva sulla strada.

Tombola, come dicevano da bambini. Giulio Tolli la guardò per un momento, poi si guardò attorno, verificò che non ci fossero spettatori, scrollò le spalle e tirò dritto, fischiettando un motivetto di cui non ricordava il titolo, ma che doveva essere stata forse la sigla di un qualche programma, oppure di una pubblicità. La vecchia gemette qualcosa, che poteva essere «Aiuto» o un suono senza senso, la mera espressione di un dolore, un disagio o altro.

Qualcuno le avrebbe risposto di sicuro. Era una zona residenziale e c’era sempre gente in giro, che non aveva altro da fare nella vita. Ci avrebbero pensato loro e in questo modo avrebbero dato anche un senso alla loro esistenza, sentendosi migliori e palle varie. A metterla così, non aiutare la vecchia significava fare un favore a tutti quei buoni samaritani che non aspettavano altro. Praticamente era il vertice di tutte le buone azioni, no?

A ogni modo, non era un suo problema e non ci avrebbe pensato. Con un mezzo sorriso, Giulio Tolli proseguì verso casa, fiero e soddisfatto di sé. Che grande persona che era! Adesso che aveva capito e accettato il proprio posto nel mondo, chi lo avrebbe potuto fermare? Un futuro luminoso si apriva davanti a lui e lui vi sarebbe corso incontro, entusiasta.

Erano probabilmente i fanali di un tir in arrivo, ma è un dettaglio secondario e comunque una luce è sempre una luce. Giusto?

di Adriano Marchetti